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Lonely Opinione inserita da Lonely    05 Febbraio, 2025
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Furio il mostro

“Si dice che molti uomini abbiano una seconda vita.
Io sono uno di loro.
Di sicuro sono pochi gli uomini che possono raccontarla.
Io sono uno di loro.
Il mio nome è Furio Guerri.”

Furio Guerri è un arrampicatore sociale, sa quel che vuole e fa di tutto per averlo, donne, soldi, carriera.
Ha sposato la più bella della classe, Elisa, la donna che tutti gli invidiano.
Lavora come rappresentante per un’azienda tipografica, e con il suo Duetto d’epoca, al quale non rinuncerebbe per niente al mondo, attraversa in lungo e largo tutta la Toscana per arrivare dai suoi clienti e raggiungere gli obiettivi che la sua azienda gli impone.
E’ il padre amorevole di Caterina, per la quale è sempre presente e disponibile.
Ma Furio Guerri è un mostro, due volte a settimana è seduto su una panchina a spiare le ragazzine adolescenti di una scuola superiore e tra tante si concentra su una in particolare. Per arrivare fino a lei seduce prima la sua insegnante di sostegno, e poi si iscrive a un sito porno, dove le ragazzine vendono foto del proprio corpo nudo per pochi euro o una ricarica al cellulare.
Per tutta la prima parte del libro il lettore si domanda se Furio Guerri sia uno stupratore o un serial killer, fino a quando , a un determinato punto del romanzo, passato e presente s’intrecciano e la storia si svela, con un climax che lascia senza respiro.
Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, ed è il punto di vista tutto maschile di un femminicidio: i pensieri di un uomo, malato, ovviamente, che non potrebbe essere altrimenti, che crede che la donna sia un suo possesso e che compie azioni violente crudeli e indicibili contro di lei, delle quali sembra non rendersi conto, questa almeno è l’interpretazione di Simi.
Un romanzo a tinte gialle intenso e avvincente sia per il contenuto, quanto mai attuale, una delle innumerevoli tragedie familiari, sia per lo stile che ti cattura e non ti lascia più, fino all’ultima pagina, dove tutto torna alla perfezione, nonostante il voluto disorientamento iniziale, quando ancora il lettore non distingue la storia passata da quella presente e il nodo che le lega.
Anche questa storia conferma la bella e coinvolgente scrittura di Giampaolo Simi, sceneggiatore e soggettista toscano, che sapientemente rapisce il lettore e lo conduce esattamente dove vuole.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    09 Gennaio, 2025
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Ma quante storie!

Alessandro Robecchi è autore per Sellerio dei romanzi che hanno come protagonista Monterossi.
La sua peculiarità, oltre al saper scrivere bene, è saper mettere il lettore su tante strade, o diversi punti di vista, che conducono e convergono in un solo punto , quello risolutivo della storia. Una trama sempre articolata, ma comunque lineare e precisa, dove non si perde un dettaglio e dove tutto torna.
In questo romanzo Robecchi si stacca dal suo, e nostro, amato Monterossi, e ci racconta una storia, anzi due, e forse tre.
Il famoso regista Manlio Parrini, dopo il suo ultimo film, che gli aveva dato la fama, abbandona improvvisamente il cinema, come se non avesse più niente da dire. Ma sull’orlo ormai dei settant’anni suonati gli viene l’idea di fare un film su uno scrittore di libri gialli, realmente esistito, al tempo del fascismo in Italia, Augusto De Angelis, la cui morte violenta è una sorta di cold case che sa di ingiustizia e censura di regime.
I suoi produttori sono ben felici di realizzare il film, ma mettono delle condizioni, vogliono scegliere il cast e rivedere la sceneggiatura e sottoposto a queste pressioni, Parrini perde la passione perchè non si sente libero di esprimersi come vorrebbe.
Questo è l’unico anello che unisce le due storie, quella del regista nel presente e quella di De Angelis nel passato, la libertà di espressione dell’artista, l’uno oppresso dal regime del ventennio l’altro dalle leggi del mercato moderno.
Come se non bastasse si aggiunge una terza storia che dovrebbe dare al libro la caratteristica del giallo: nella villa accanto accanto a quella di Parrini avviene uno strano omicidio, l’anziana vedova e proprietaria viene misteriosamente uccisa. Un delitto d’altri tempi che a Parrini ricorda proprio un romanzo di De Angelis.
E questo è lo spunto (un po' posticcio), che dovrebbe dare suspence e significato, ma che sorprendentemente (e ripeto non è da Robecchi), risulta solo del tutto scollegato dal resto.
In sostanza queste tre storie sono precariamente tenute insieme dall'unico messaggio del libro, ossia la censura dell'artista, un messaggio che oltretutto non è urlato e non arriva forte e chiaro, ma occorre leggerlo attentamente tra le righe.
Sono rimasta sinceramente delusa, Il tutto mi è sembrato un po’ pretestuoso, come a voler cavalcare l’onda, ma controcorrente, in modo da arrivare ad una certa élite culturale e fare un po’ di clamore.
Peccato, avevo altre aspettative.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Dicembre, 2024
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"Che decadenza..."

Lorenzo Marone torna con il suo Cesare Annunziata, nove anni dopo La Tentazione di Essere Felici.
Cesare Annunziata è anziano, schivo, apparentemente cinico e asociale. E’ vedovo con due figli adulti e un nipote adolescente che soffre la separazione dei genitori.
Questo pezzo della sua vita è ambientato a Napoli, al Vomero, nel periodo caldo e afoso del sole di pieno agosto.
La città si spopola e spesso accade che gli anziani rimangano soli, come Cesare , il suo amico Marino, vedovo come lui e con cui gioca interminabili partite a scacchi e la sua dirimpettaia Eleonora, la “gattara”.
Sua figlia deve partire col suo nuovo compagno e gli lascia il suo cane Batman.
Cesare è poco propenso a tenerlo con sé, non è capace di gesti affettuosi e non sa neanche come coccolare un animale, ma poi acconsente.
Con la città che si svuota e l’inevitabile solitudine, che si fa sentire ancor di più in questo periodo, Cesare ha modo di riflettere sul suo passato, sui suoi errori e i suoi amori, la sua vita con Caterina, sua moglie, morta da un anno, e sull’amore per i suoi figli probabilmente mai esternato abbastanza. Solo ora ormai ottantenne trova spazio per i sensi di colpa e i rimorsi, d’altronde arriva sempre il momento di fare i conti con la vita.
“Nessun peggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Ma poi, ero felice allora? Posso dire di esserlo stato mai? Sì, certo, a pensarci oggi lo ero, ma la felicità è una filibustiera, nel presente si degrada in nostalgia, che tra le tante forme di tristezza è la più sleale.”
Ma l’incontro fortuito con Iris, la ragazza dai capelli viola, gli darà una nuova speranza, e riempirà quel vuoto che si crea quando ci si sente ormai inutili.
Quel senso di inutilità tipico della vecchiaia, quando nessuno ha più bisogno di te, e quando si percepisce invece di essere spesso un peso per i propri cari, a causa delle proprie fragilità, e degli acciacchi dell’età.
“..non riesco a convivere con l'idea del niente, la mancanza di obiettivi mi sembra la maggior pena da sopportare”
Per la prima volta dopo anni, con Iris, Cesare riscopre il piacere di prendersi cura degli altri, e sente che la vita lo può ancora sorprendere.
Un libro ironico e commovente, pieno di riflessioni sulla vita , sulla società moderna, sull’amore, sulla morte, sul senso di genitorialità e immancabilmente sulla nostalgia della gioventù, su tutto quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto,
“E poi a volte giunge improvvisa come adesso la malinconia e mi sembra di essere travolto da un’onda, impazza in me la voglia di ritornare indietro, per provare ad aggiustare le cose, per essere diverso da quel che sono stato.”
Un romanzo che è un inno alla vita, colmo di pensieri profondi che fanno riflettere sul senso del nostro passaggio in questo mondo, di quanto sia precario tutto questo, perchè la fine è proprio dietro l’angolo, e vale la pena allora cogliere ogni più piccola opportunità quando si presenta, anzichè annegare nei rimpianti quando ormai si può fare ben poco per cambiare.
“A volte il significato profondo dell’aver vissuto sfugge, altre volte sembra così facile: te lo trovi davanti e ti chiedi come facevi a non vederlo. A volte basta un’altalena arrugginita, basta avere il coraggio di coltivare la memoria e di non arrendersi, Di continuare a credere nei miracoli, intestardirsi a cercare qualcosa di nuovo, aver voglia di imparare ancora. La vita è un’ubriacatura, una lunga trasformazione. La vita semplicemente a volte capita e non bisogna farsela scappare”.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    17 Ottobre, 2024
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In nome del figlio

Dario Corbo è un giornalista d’inchiesta che ha impiegato gran parte della sua carriera a puntare il dito contro Nora Beckford, (La Ragazza Sbagliata) accusata dell’omicidio di una sua coetanea con la pena di quindici anni di carcere. Dopo accurate indagini Dario scopre la verità , e cerca di riscattare l’ immagine di Nora scrivendo un libro in cui la scagiona e ora lavora per lei , alla fondazione che cura il lavoro del padre, artista, Thomas Beckford.
La vita di Dario viene stravolta improvvisamente da un grave problema familiare, suo figlio Luca, quasi maggiorenne, viene accusato di atti di stupro e violenza ai danni di una ragazza conosciuta ad una festa.
Luca è difensore di una squadra della Lega Pro, è una promessa del calcio, attentamente osservato dai procuratori a caccia di talenti.
Il libro inizia proprio con il racconto di una partita di pallone, giocata insieme ai suoi fedeli compagni, nella quale Luca ha la grande responsabilità di calciare un rigore decisivo, che va a segno. La festa che seguirà questo successo, sarà invece quella incriminata, e in qualche modo segnerà la fine della sua carriera, paradossalmente non ancora iniziata.

Il romanzo si presenta come una lunga lettera di Dario al figlio, in cui trapela non solo l’immenso amore di un padre, ma anche e soprattutto il senso di responsabilità di un uomo che dubita del suo ruolo di genitore, e che si domanda fino a che punto deve continuare a difendere suo figlio. Anche contro l’evidenza?
Da qui inizia la ricerca della verità
Perchè lo scopo di Dario è la Verità, tutta la sua vita e il suo lavoro si fondano su questa parola.
Un padre che vuole credere a tutti i costi alla sincerità del figlio e che invece guardandolo solo negli occhi scopre un mondo di menzogne, silenzi ed omertà.
Come può proteggerlo? Nascondendo la verità o portandola alla luce?

Oltre alla narrazione sentimentale, il romanzo scava nel mondo torbido del calcio, in cui gli interessi economici delle società e dei manager decidono il destino e la vita stessa di giovani ragazzi, calciatori in erba, promettendo loro un futuro agiato ma calpestando i valori morali dello sport.
Simi da giornalista quale è evidenzia anche la questione etica del ruolo dell’informazione, una stampa che punta allo scandalo, al sensazionalismo, che pur di fare audience, titola notizie senza regole deontologiche.
Inoltre l’autore accusa tutto il mondo dei social, dove gli adolescenti mettono in mostra la loro vita senza filtri o inibizioni, anche azioni di dubbia moralità, per qualche visualizzazione in più, perchè tutto si esibisce pur di stare al centro dell’attenzione.
Una generazione che non si guarda più dentro e che guarda solo fuori e soprattutto guarda gli altri, e che non comunica se non attraverso uno schermo.
Questo romanzo invece ci costringe a guardarci dentro, a riflettere sulla società contemporanea, a mettere in discussione i legami familiari, che troppo spesso sono costruiti sulle bugie, e sulle incomprensioni, solo perchè non si ha il tempo nè la volontà di confrontarsi, di mettersi a nudo, di instaurare un rapporto confidenziale, dove i segreti andrebbero svelati, e i rancori messi da parte, in nome di un amore unico e infinito che è quello che lega un padre e un figlio.
Un romanzo che si legge d’un fiato, con uno stile semplice e profondo, che arriva al cuore e a tratti commuove. Un romanzo per adulti che consiglio soprattutto ai giovani.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    11 Ottobre, 2024
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Cambiare il passato si può?

Andrea Acardi ha una bella famiglia e un bel lavoro e vive una vita apparentemente tranquilla, finché un giorno si ritrova incriminato per aver stuprato una compagna di classe del liceo, e aver legato e drogato moglie e figlio.
Andrea soffre fin da bambino di una patologia, allotriofagia, un disturbo del comportamento alimentare, che lo porta a ingerire sostanze come cotone, terra, gesso, legno…
Inoltre possiede la memoria del gusto
“L’impatto con un nuovo sapore non era solo un’esperienza delle papille: una scossa a mille volt. Il tale alimento inviolato sfiorava la lingua e arrivava la folgorazione; per un nanosecondo diventava tutto bianco.”
"Reviviscenza Significa ricevere il potere e le conoscenze che un altro immortale ha acquisito nel corso della sua vita…Equivale a una tempesta magnetica…Con i sapori mi succede lo stesso”
Ed ogni cibo lo riporta al momento in cui lo ha assaggiato la prima volta, e non è solo un ricordo (come le famose madeleines proustiane) ma diventa realtà del presente.
“Se ne mangio un morso piombo di nuovo là…Intendo letteralmente”
Per lui il cibo è un viaggio emotivo nel tempo, o meglio nel passato, con tutto quello che ne consegue.
A un certo punto della sua analisi con vari psichiatri che si succedono nel corso degli anni, scopre che questo disturbo in realtà può essere anche un dono, perchè rivivere in modo totale momenti del suo passato, può cambiare anche il futuro. Ed è così che Naspini sperimenta il multiverso: attraverso il cibo Acardi torna nel passato e crea ogni volta una sorta di sliding door, e una serie di mondi paralleli, e sperimenta una strada diversa della sua stessa vita, con l’intento di trovare quella migliore per sé e per la sua famiglia. Tutto ciò che lo muove è l'amore per la moglie e per il figlio, che vuole a tutti i costi salvaguardarsi dai momenti di dolore, senza capire che ciò è praticamente impossibile.
Il dubbio sta tutto nel capire se Acardi è solo uno psicopatico o un romantico sognatore che entra in un loop creato da lui stesso, per darsi un futuro migliore.
Il libro ovviamente è tutto un flashback, con diverse linee temporali, e in ognuna di esse si sviluppa uno scenario diverso. Stilisticamente discutibile perché difficile da seguire, e molto impegnativo, ma sicuramente quando si entra nel loop non si riesce ad uscirne, proprio come il protagonista, d’altronde chi non vorrebbe sapere cosa sarebbe stata la sua vita se a quel bivio avesse preso l’altra strada? Chi, se fosse possibile, non vorrebbe poter cambiare il futuro preservando se stesso e i propri cari dal dolore e dalle sofferenze della vita?

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Lonely Opinione inserita da Lonely    11 Ottobre, 2024
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Viola

Viola vive sola, non ha legami nè relazioni, ha perso da un anno sua mamma, suo padre non l’ha mai conosciuto. Il forte legame con la madre, venendo meno, l’ha completamente destabilizzata, è incapace di qualsiasi decisione, di intraprendere una strada e un percorso di vita soddisfacente.
“Faccio quello che devo, ma non so più quello che voglio”
Ha un laboratorio di essenze, ma fa consulenze olfattive, ossia una sorta di psicoterapia attraverso i profumi, che lei stessa insieme al suo amico Marcello compongono.
Profumi su richiesta che risvegliano ricordi e sensazioni sopite e curano l’anima.
Ma dagli incontri con i suoi clienti, si rende conto di non poter aiutare gli altri se prima non aiuta se stessa.
L’unico suo sfogo è nuotare, e nella sua routine quotidiana riesce sempre a ritagliarsi del tempo per mettere su una cuffia, e un costume e tuffarsi in acqua, dove la sua mente stacca dalla realtà e lei si perde solo nel conto delle bracciate ed è come rientrare nel grembo materno.
Quando sua madre la lascia ha quasi quarant’anni, ed entra in un periodo di profonda tristezza e immenso dolore, un vuoto che non riesce a colmare e a cui non sa dare un senso.
“Guardo la camera vuota. Penso al dolore che la riempie in certi giorni, al desiderio di sentire la sua voce, poterle parlare, che non si estingue. Rivedo il suo viso, lo spirito fragile e impavido, e vedo me stessa, mentre la guardo spegnersi senza potere nulla”.
“Poi la sofferenza si è trasformata in un sentimento incolore, un ronzio dell’anima. E infine il silenzio, questo silenzio, dentro di me.”
Gradualmente Viola si accorge di vivere la sua vita all’ombra di quella presenza/assenza, e piano piano riemerge, per istinto di sopravvivenza, cercando un’altra verità, nel passato, tra le cose non dette, o mai dette, e tra lettere e fotografie, recentemente scoperte, di cui ignorava l’esistenza.
Attraverso questa ricerca Viola scopre, in sua madre, un’altra donna, una donna di cui non sapeva nulla, e soprattutto scopre come anche lei è venuta al mondo.
E poco a poco la cortina si dirada e Viola riaffiora da quel dolore che la teneva legata a una vita che non era la sua, e che non voleva più vivere.
Un romanzo intimista, che ci regala profonde emozioni, avvolto da un filo di mistero che lo rende al contempo magico ma banalmente reale. Perchè poi la vita è anche banale a volte, e certe scelte sono legate al caso, ed è solo il nostro amore a renderla speciale.
Un romanzo che tocca le corde dell’anima, che insegna che il dolore si può superare, e che non c’è gioia senza sofferenza, semplicemente perchè non sapremmo riconoscerla.
Un romanzo scritto da una penna superba, che è quella di Carofiglio, Francesco, che non si smentisce mai, e non ci delude mai, un romanzo scritto da un uomo di quasi sessant’anni che narra l’elaborazione di un lutto di una donna di quaranta, e che ci sorprende soprattutto perchè noi lettori non ci accorgiamo della differenza. Lui stesso , in un’intervista, descrive così questa sua esperienza “ Sono entrato nella loro vita silenziosamente, provando a nascondermi, a non esserci mai, facendo sforzi di misura e silenzio, esercizi di equilibrio nelle stanze vuote. È durata mesi, anni, e adesso non riesco a dire nulla, di quelle giornate di vita in bilico, così dense, dolorose, inevitabili.” “Io so che scrivendo questo romanzo ho preso una decisione, ho corso un rischio, mi sono immerso in acque profonde, lasciando che l’energia fluisse senza filtri, nel buio, e alla fine, forse sì, oggi mi sento una persona migliore.”
E chissà forse anche noi…

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Lonely Opinione inserita da Lonely    29 Settembre, 2024
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Bagno Antaura

Edo è il bagnino tuttofare del Bagno Antaura, un lido di Viareggio. Guia è sua moglie e l’amore della sua vita.
Si sono conosciuti proprio al Bagno Antaura, a un evento letterario organizzato proprio da Edo, per la padrona del Lido, la signora Bardi, che scoprirà poi essere la mamma di Guia.
Guia è una aspirante scrittrice, o meglio è in cerca di un editore che la aiuti a pubblicare i suoi libri. Ma il mare, la notte, la noia, gli sguardi complici e Edo e Guia finiscono a fare l’amore nella cabina n. 7.
“Cos’è rimasto dei due sensazionali sconosciuti che eravamo quella sera?”
Su questa riflessione si centra tutto il romanzo.
Così inizia la loro storia che oggi, a distanza di anni da quell’incontro passionale, vive una profonda crisi dovuta a un figlio che non arriva. E negli svariati tentativi per ottenerlo, pian piano l’amore che li univa si spegne.
In questa crepa si insinua Anna.
Anna lavora per una ditta edile che Edo ha contattato per i lavori di ristrutturazione al Lido.
Tra loro nasce una profonda confidenza, sincera e complice allo stesso tempo, che alla fine culmina con un’inevitabile incontro passionale di un solo pomeriggio, dopodichè Anna scompare e di lei si perdono le tracce.
E’ inutile dilungarsi sulla trama, che comunque venga narrata, sembrerebbe molto banale, l’amore vero, il tradimento, i sensi di colpa, la negazione.
Ma questo non è il libro di Simi, quello che lui riesce, sorprendentemente, a fare è legarci ai personaggi, e ai luoghi, oltre che a appassionarci alla storia.
Leggendo vediamo il mare, ne sentiamo l’odore, gli ombrelloni che si aprono in estate e che si chiudono alle prime mareggiate che annunciano l’inverno, sentiamo la sabbia sotto ai piedi, e la malinconia della bella stagione che se ne va, le risa che si dissolvono ai primi temporali estivi, il sole che tramonta sempre prima e che segna i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni.
“L’estate ci mette tre mesi per diventare perfetta e lo fa a Settembre. E a quel punto, raggiunta la perfezione può, solo finire.”
Percepiamo, come se fosse nostra la malinconia del protagonista, il suo dolore per l’amore che sta perdendo, il freddo vuoto che gli lascia dentro.
“Mentre inizia a piovere rimango a guardare fuori. In ogni goccia si riflette un minuscolo mondo chiuso sotto una volta trasparente e uguale a tutti gli altri. Sembrava non finisse mai quest’estate, invece stava solo morendo di nascosto. Che la pioggia se la porti via prima che inizi a marcire.”
La trama ci cattura sin dalle prime pagine, un intricato mistero che ci tiene incollati fino alla fine, e che nonostante sia narrata con un pizzico d’ironia, ci lascia tanta amarezza.
Simi ha uno stile inconfondibile, unico, che pur trattando di contenuti, se possiamo dire, banali, ci regala spunti di profonda riflessione, che ci portano anche a rileggere alcuni passaggi.
“Mi sembrò odioso e insopportabile come un’erba infestante. Sono quelli così che vanno avanti, mi dicevo. Gli indifferenti, i voraci, quelli che chi se ne frega…Non sono i migliori…sono semplicemente i più insensibili. Quelli che attecchiscono dove non si dovrebbe, nel freddo e nel marcio, nella sabbia e nelle crepe dell’asfalto. Sono i predatori indomiti…Loro lasceranno la traccia sul Pianeta…dall’alto della loro rapace, intransigente mediocrità.”
Un libro che si divora, un noir, psicologico, ma anche sarcastico, scritto con la giusta leggerezza, senza abbassare mai il ritmo e la tensione narrativa.
Il romanzo è anche un tuffo nel passato, in un tempo nostalgico, fatto di ricordi che ti allontanano dal presente e dalla realtà.
“Il tempo non è sempre lo stesso. Il tempo non è oggettivo, cambia densità, si fa vischioso. Non si ferma mai, è vero, ma altre volte gira su stesso e ha il potere di risucchiarti in un gorgo.”
Una lettura imperdibile per gli amanti del genere.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    16 Settembre, 2024
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Bucolico

Tre studenti torinesi scoprono insieme le notti cittadine: passano le serate a bere, a parlare e rientrando all’alba. L’io narrante, di cui non sappiamo il nome, è uno dei tre , insieme a Pieretto e a Oreste; l’ultimo studia per diventare medico, gli altri due Legge.
In una delle loro notti goliardiche, incontrano Poli, un ragazzo più grande, ricco viziato e vizioso e ne rimangono sensibilmente affascinati. La sua vita oltre gli schemi, il suo pensiero profondo e filosofico che s’interroga spesso sul senso della vita, li seduce al punto di unirsi a lui nelle sue scorribande in città.
Poli ha una specie di fidanzata, Rosalba, anche lei sopra le righe, che nel corso di una lite violenta, spara a Poli e lo ferisce, mandandolo all’ospedale.
Con la scomparsa di Poli dalla scena cittadina il romanzo si sposta su un altro piano, le vacanze estive, che i tre decidono di passare insieme nella casa in campagna della famiglia di Oreste. Qui proseguono le loro avventure adolescenziali, fin quando scoprono che Poli sta trascorrendo la convalescenza nella sua proprietà sulla collina del Greppio, poco distante dalla casa di Oreste. Decidono così di fargli visita. Lì scoprono che Poli vive in una grande proprietà, ha una moglie, Gabriella e che Rosalba si è suicidata.
Poli vive un forte malessere psichico e fa uso di alcool e droghe, Gabriella gli sta accanto come può, e pensa che la compagnia degli amici non possa fargli che bene, così invita i tre studenti a passare un periodo con loro. In questo luogo vivranno tutti una serie di eventi che darà uno scossone alla vita di ognuno di loro, e che li farà crescere irrimediabilmente, perdendo quell’ingenuità, così pura, tipica della gioventù.
Il romanzo è un inno alla natura, tanto forti e dettagliate sono le descrizioni dei paesaggi, delle campagne, dei boschi, della terra coltivata dai contadini. Scorrendo le pagine si percepisce la fatica e il sudore di chi lavora la terra e la felicità per la raccolta del frutto del suo lavoro. “Allora parlammo di Davide e Cinto, dei vini, dell’uva nel secchio, di com’è bella la vita genuina”
In netto contrasto c’è la classe borghese, ricca, annoiata e immobile, arroccata nelle sue dimore sfarzose.
L’altro forte conflitto è quello tra i due mondi, maschile e femminile, l’uno dedito al lavoro,al pensiero e al cameratismo virile, l’altro destinato alla cura della casa e della famiglia.
E poi c’è l’io narrante, che osserva, riflette e critica, probabilmente Pavese stesso, che torna nei luoghi dell’infanzia illudendosi di ritrovare tutto al proprio posto per accorgersi invece che tutto è cambiato, e perciò diventa prepotente il suo senso di estraneità, il volersi ritrovare spesso solo e lontano da tutti, come se la solitudine fosse la sua vera dimensione.
D’altronde “vivere è facile quando si sa liberarsi dalle illusioni”.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    11 Settembre, 2024
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Ghiaccio e Fuoco

J. Ellroy nasce a Los Angeles il 4 marzo del 1948, nel 1958 perde la madre, un omicidio mai risolto, morta strangolata e gettata in un fosso, a El Monte, una contea di L.A.
Questo è l’episodio traumatico, che segna significativamente la sua vita, e che racconterà poi in un suo libro, Clandestino.
Prima di arrivare al successo come scrittore, passa un’adolescenza travagliata, tra alcool, droga e piccole rapine.
Nel 1975 riesce ad uscire da questo vortice criminale e inizia a scrivere. Negli anni 80 pubblica la tetralogia di L.A. di cui Dalia Nera è il primo romanzo.
Dalia Nera è una donna realmente vissuta, il cui delitto, irrisolto, ha ispirato appunto il libro di Ellroy.
Una ragazza, Elizabeth Short, viene trovata smembrata, mutilata e tagliata a metà in un’area abbandonata di Los Angeles. A seguire il caso vengono incaricati due agenti del dipartimento di polizia, ex pugili, Blanchard e Bleichert, “Ghiaccio” e “Fuoco”, due “amici” rivali in amore e nel lavoro. Entrambi amano la stessa donna Kay, con un passato di abusi per mano di un criminale, Bobby De Witt.
La Short è una ragazzetta facile che cerca successo nel cinema, ma che non sa recitare e spesso capita in situazioni poco piacevoli, fino appunto ad incontrare il suo assassino.
La ricerca spasmodica e senza respiro dell’autore di questo massacro, diventa un chiodo fisso per i due detective. Uno dei quali, Blanchard, a un certo punto dell’indagine sparisce, senza apparenti motivi e senza spiegazioni. E per Bleichert rimangono a questo punto oneri e onori, sposa l’oggetto del suo desiderio, Kay e si butta a capofitto nell’indagine.
Una ricerca che diventa un’ossessione perversa, dura e cruda, nella quale nessun personaggio è quello che sembra, e in cui tutti hanno un lato oscuro, apparentemente nascosto, ma che è bene evidenziato dallo scrittore che non ha pietà nel mettere a nudo i suoi personaggi; tutti indistintamente, tranne il protagonista, Bleichert che è anche colui che narra la storia, che sfiora per un momento anche lui la follia, ma che poi, a sorpresa direi, riesce a tornare sulla “retta via”. E dico a sorpresa perché questa è una storia che non lascia scampo, non c’è via di fuga, perché il male fa parte dell’essere umano per Ellroy, non esiste bontà, generosità o lealtà, sia nei bassifondi, così sapientemente descritti (perchè, ricordo, vissuti in prima persona), che negli ambienti “bene” di L.A., dove il malaffare e la corruzione dilaga per interessi personali.
Un lungo viaggio questo libro, che scorre senza tregua, ma che sembra non arrivare mai alla fine. Il finale inanella una serie di colpi di scena, uno dietro l’altro, fino all’epilogo, da giallo classico, dove l’assassino è al di sopra di ogni sospetto.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    05 Settembre, 2024
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L.A. Marylin

In una Los Angeles, inizio anni 60, scura e ambigua come i personaggi che la frequentano, si dipana una specie di crime intorno alla figura iconica di Marylin Monroe.
Freddy Otash, ex poliziotto corrotto (realmente esistito) e poi “fixer”, cioè uno che rimesta nel torbido della vita dei vip e rimette a posto, per quel che è possibile, i loro guai, è il protagonista di questo ultimo romanzo di J. Ellroy.
Il tema è affascinante, tutto ruota intorno alla morte di Marylin, ma in realtà il romanzo non dà risposte in merito. Essenzialmente attraverso la vicenda principale Ellroy delinea il quadro storico e sociale di quel periodo e non si risparmia, e si muove agilmente tra polizia corrotta, politica ambigua, (in particolar modo la famiglia Kennedy), e la stessa Marylin, dipinta come un alcoolista, drogata, con un imbarazzante passato di prostituzione che conduce affari loschi, e che con il sesso irretisce personaggi di potere, come i due fratelli Kennedy.
Il romanzo poi cerca di addentrarsi in particolare in questo legame tra la Monroe e i fratelli Kennedy, ma non arriva a nulla di sorprendente, narra solo i fatti.
O meglio quelli che per J.Ellroy sono i fatti, perché ciò che risulta da questa storia, è che il mito non esiste più, e forse non è mai esistito, Marylin è una donna in declino, che non vuole più fare l’attrice e pianta solo grane, quasi sempre ubriaca, che si lega a uomini di potere e che è disposta a tutto per mantenere il suo tenore di vita.
E questa narrazione ovviamente se non altro ci fa riflettere.
Per dare ancora più incisività a questo contenuto, l’autore adotta uno stile, direi pragmatico, frasi brevi, sferzanti, ogni tre parole un punto, dove ogni singola parola è misurata, calibrata.
Un ritmo incalzante che non dà respiro, che ci immerge in una realtà che lentamente ci soffoca. Il tutto condotto in un dedalo di figure (o meglio figuri) e di luoghi, tra i quali è difficile a volte ritrovare un nesso, ed è molto facile perdersi.
La sensazione è che J.Ellroy si sia tolto un po’ di sassi dalle scarpe e si sia preso la libertà di raccontare il lato oscuro di figure quasi mitiche, quali i Kennedy, che usano la lunga mano del potere, per mettere a tacere situazioni a loro scomode. E Marylin era diventato un personaggio scomodo. A voi l’ardua sentenza.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Settembre, 2024
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Libera, Iole e Vittoria

Tre donne, tre generazioni, una, Iole, la nonna, un po’ hippie, alle soglie della terza età, che però non si sente affatto vecchia; la figlia, Libera, di nome e di fatto, una bella donna dai lunghi capelli rossi che nonostante molti pretendenti non riesce a legarsi a nessuno dopo la morte misteriosa del marito Saverio; la terza, Vittoria, la nipote, poliziotta come il padre, scontrosa e lunatica.
Il luogo è Milano, per la precisione quartiere Giambellino, dove Libera ha trasformato il vecchio casello ferroviario di suo nonno nel suo laboratorio dove crea bouquet di nozze personalizzati.
Il giallo parte dalla richiesta accorata della mamma di una ragazza scomparsa, ventisette anni prima, che ha bisogno di sapere quello che è davvero successo a sua figlia Carmen, e per questo chiede aiuto a Libera, facendo leva sull’amore materno, per far riaprire il caso, da Vittoria, che è stato archiviato, senza alcun esito.
E’ convinta che la polizia all’epoca abbia tralasciato alcune piste secondo lei evidenti.
Libera insieme a sua mamma Iole, nonostante la ritrosia di Vittoria, si buttano a capofitto in questa indagine, e senza metodo ed esperienza, scoprono alla fine una verità impietosa e crudele.
Il libro, di Rosa Teruzzi, scrittrice e giornalista, è un giallo sentimentale, scritto in modo semplice e fluido, ha una buona descrizione dei personaggi e una trama articolata con un bel finale a sorpresa.
Decisamente poco impegnativo, ma piacevole lettura di evasione.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Settembre, 2024
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L'Amish

“...alto e attraente, sui quarantacinque, e in perfetta forma fisica. Innegabilmente bello. Una testa piena di riccioli castani, un trench alla Maigret, una collezione di camicie di sartoria sempre portate con le maniche arrotolate sopra ai gomiti e impeccabili pantaloni gessati sorretti da bretelle di vari colori. Ai piedi le immancabili Church’s modello Oxford a punta rotonda che userebbe anche per correre la Stramilano! “
Il commissario Luca Botero è un bel tipo, sui generis, non ama la tecnologia. Ha subito, nel passato, un grosso trauma,mentre indagava su un killer spietato e senza scrupoli, è entrato in coma, e quando si è risvegliato è completamente diventato un’altra persona,che si ostina a vivere nel passato e odia, al punto di essere fobico, tutto ciò che il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione al giorno d'oggi, cellulari, computer…
per questo e per i suoi modi è soprannominato l’Amish.
Quindi anche tutta la sua squadra è catapultata nel passato, più precisamente negli anni 70, sia nel modo di vestire, che per gli strumenti usati per le indagini, vecchi telefoni in bachelite, fax e archivi cartacei.
Durante un grosso evento, per la fine dell’EXPO, in uno degli alberghi di lusso di Milano, salta la corrente, ma quando le luci si riaccendono l’onorevole Vincenzo Greco giace riverso senza vita nella piscina dell’hotel. L’assassino è tra gli invitati, ovviamente, ed è proprio su ognuno di loro che si concentrerà il lavoro dell’equipe del commissario.
Un giallo classico, lineare, con movente, indizi e diversi sospetti, basato tutto sul ragionamento deduttivo dell’investigatore.
Fin troppo semplice nello schema, se non fosse per il tocco di originalità dato al personaggio principale, che lo distingue da altri commissari.
C’è chi ha avuto, leggendolo, risonanze di A.C. Doyle o Agatha Christie, io sinceramente non le ho percepite, tantomeno ravvedo Poirot o Sherlock Holmes in Luca Botero.
Una lettura semplice, non molto intrigante e pur forzandone, lo scrittore, tutte le caratteristiche, non ho trovato affascinante neanche il protagonista.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    30 Agosto, 2024
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Arcadipane non sei solo

Il commissario Arcadipane è solo e malinconico, la moglie lo ha lasciato, non ha un gran rapporto con i suoi figli, Corso Bramard si è eclissato e Isa Mancini è finita, per il suo carattere irascibile, alla stradale.
Il commissario dunque è solo ad indagare sull’omicidio di una donna all’uscita della metro, pestata a morte. Sorprendentemente però l’assassino viene subito identificato ed arrestato.
Ma Arcadipane non è convinto, il suo intuito, che credeva di aver perso, gli dice che qualcosa non torna.
Così con l’aiuto di un ex poliziotto semi psicotico, si inoltra in questa indagine alquanto oscura , che lo porta nel dark web, in giochi a premi pericolosi e letali, in un mondo “nascosto” che offre di tutto a chi sa come muoversi.
Ma il commissario è in crisi, e nonostante lo pseudo aiuto di una psicoterapeuta disabile, più pazza dei suoi pazienti, non riesce a sbrogliare la matassa.
Quindi si rivolge ai suoi vecchi amici, Bramard e Mancini, che nonostante anche loro siano profondamente cambiati dagli eventi della vita, forniranno un sostegno fondamentale per la risoluzione di un caso a dir poco complesso.
Questo romanzo è l’ultimo di una trilogia di Davide Longo, dopo Il Caso Bramard e Le Bestie Giovani.
Longo è innegabile, ha uno stile particolare, divisivo, scrive gialli non canonici, senza suspense o colpi di scena, pochi indizi e pochi fatti, tutto gioca sulle intuizioni e le deduzioni di chi indaga. I dialoghi tra i personaggi sono spesso riflessioni mai niente che ti riporti alla trama o che segua un filo logico,e il lettore spesso si perde, e se cerca di svelare il mistero, qui gli è praticamente impossibile. Se cercate un giallo semplice e lineare rivolgetevi altrove, non è questo il caso. Qui si va oltre, se si riesce a starci dentro, si toccano le corde della natura umana, nel bene e nel male. Un romanzo con una struttura complicata, una scrittura a tratti ostica e un messaggio profondo.
Non mi ha convinto fino in fondo, ho trovato certi personaggi, come la psicoterapeuta sui generis o l’ex poliziotto, che parla in versi biblici, un po’ troppo sopra le righe, tanto da non essere credibili. Se l’intento era quello di alleggerire, personalmente il risultato è stato l’opposto. Ma la trilogia nella sua interezza vale la pena di essere letta.

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Consigliato a chi ha letto...
a chi ha letto i primi due della trilogia
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Lonely Opinione inserita da Lonely    29 Agosto, 2024
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Autunnale

Nella città di Torino nel corso di venti anni sono stati commessi una serie di delitti, tutti simili, con target donne, alte, magre e con lunghi capelli neri; stesso modus operandi, ritrovate legate con tagli particolari sulla schiena a formare un disegno preciso. Un serial killer dunque. Tutti delitti irrisolti, ma dopo venti anni il caso si riapre, anche se per Corso Bramard non si era mai chiuso.
Dare la caccia ad Autunnale, cosi ha chiamato il serial killer, gli è costato la morte della moglie e la scomparsa della figlia piccola. Ma Bramard, nonostante abbia lasciato la polizia dopo quel trauma, non ha mai smesso di cercarlo, ma mai nessuna traccia, nessun indizio, solo delle lettere, che lo stesso killer gli invia personalmente, come se il tutto fosse una sfida, come a dirgli “vienimi a prendere se ci riesci”. Fino alla svolta, nell’ultima lettera, c’è finalmente un indizio, un capello…un errore?
Corso Bramard è silenzioso, buon ascoltatore, intelligente e investigatore di talento, ma dopo la morte della moglie e la sparizione della sua unica figlia, cambia completamente, lascia il lavoro, vive in totale solitudine e il suo unico conforto diventa l’alcool.
Dopo più di venti anni, riesce a mettere insieme i cocci della sua vita, con la sua laurea, trova un lavoro come insegnante in un liceo, nella speranza di lasciarsi alle spalle il passato, Ma ciò gli risulta praticamente impossibile, perchè oltre al perenne dolore per le due perdite così grandi, Autunnale alimenta quel dolore continuando a spedirgli delle lettere a intervalli regolari con i versi di una canzone di Cohen.
Ma proprio nell’ultima lettera ricevuta, Corso trova un capello, l’unico indizio sul killer in tutto questo tempo.
Con l’aiuto del suo amico e commissario Arcadipane e la collega Isa Mancini, Corso Bramard intraprende questa ennesima indagine, sperando che sia davvero l’ultima.
Il thriller è psicologico quindi lento e laborioso. niente suspense, né tensione. I personaggi non sono descritti ma vengono definiti dai dialoghi e dalle loro azioni. La trama è un po’ confusa e anche i dialoghi, a volte, tanto da non capire, chi dice cosa.
Anche il finale l’ho trovato frettoloso e inaspettato ed anche lì un dubbio per ricollegare chi fosse il colpevole l’ho avuto.
Personalmente l’ho trovato un po’ pesante ma soprattutto poco fluido.
Peccato perchè La vita paga il Sabato mi era piaciuto molto

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    30 Luglio, 2024
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Il thriller che non c'è

Il gioco di Ripper è un gioco di ruolo basato sull’indagine e la risoluzione di delitti misteriosi.
Master del gioco e protagonista del libro è Amanda una ragazza di sedici anni figlia di genitori divisi, la mamma , Indiana Jackson, medico olistico, e il padre, Bob Martin, ispettore della squadra di polizia di San Francisco
La ragazza ha un forte legame con il nonno materno, Blake, anche lui facente parte del gioco di ruolo, insieme ad altri quattro ragazzi sparsi in tutto il mondo.
Amanda è una ragazza curiosa, intelligente, sopra la media, e tenace, affascinata dal mondo della criminalità e profonda conoscitrice, strano per la sua età, degli animi umani, dote che ha ereditato da sua madre.
Quando in città si verificano una serie di inspiegabili omicidi, apparentemente diversi tra loro, anche nel modus operandi, Amanda con il suo intuito riesce invece a trovare un nesso logico e indaga, con l’aiuto del nonno e del papà su un presunto serial killer.
Questo romanzo è considerato l’esordio del thriller per la scrittrice.
Spiace dire che del thriller e di suspence ha poco e niente, la gran parte del libro, almeno tre quarti, è fatta di altro, soprattutto di descrizioni dettagliatissime di infiniti personaggi, davvero troppi, per cui si fa fatica a tenere aperti gli occhi.
L’ultima parte poi subisce un’accelerazione, che trovo forzata, tanto per chiudere la storia e il romanzo.
La struttura quindi risulta sbilanciata, e il “thriller” sembra quasi una scusa per narrare invece vita, morte e miracoli di tutti i personaggi nominati nel libro, anche di quelli più insignificanti e non influenti ai fini della storia.
Ovviamente nulla da dire allo stile della Allende, a tutti ormai ben noto, che ha una particolare cura nel delineare le complessità dei caratteri umani, ma che ho trovato, in questo caso, un po’ avulso dal contesto, come a dare più attenzione ai protagonisti che alla storia, che risulta invece fragile e a margine.
In sintesi dispersivo e soporifero.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    11 Luglio, 2024
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Sulla pietra di un Dolmen

Fred Vargas torna , dopo 7 anni, con un giallo della serie del commissario Adamsberg.
Il commissario,un po’ svagato, dotato di un forte intuito, generoso, animalista (nel precedente Il Morso della Reclusa salva un piccione, qui un riccio) e difensore dei poveri, viene incaricato di seguire un caso, lontano dal suo distretto parigino, nelle ombre della Bretagna. Così, lasciando a capo del suo commissariato il fido Danglard, Adamsberg si sposta con tutta la sua squadra a Louviec, dove avvengono inaspettatamente una serie di omicidi, tutti annunciati dal Fantasma dello Zoppo che si aggira per il paese, con la sua camminata claudicante, poco prima che avvengano i delitti.
Questa volta ad Adamsberg toccherà dipanare una matassa intricata, e si affiderà come al solito alla sua perspicacia, e alle sue “bolle”, che come arrivano devono subito essere prese in considerazione altrimenti velocemente spariscono.
“Sono le bolle, le idee vaghe. Stanno risalendo dal fondo melmoso. Si muovono, si incrociano, si scontrano. Non posso permettermi di trascurarle troppo a lungo, altrimenti torneranno a rintanarsi in fondo al lago.”
E in questo caso così difficile anch’esse “erano numerose, scisse, a tratti quasi ostili tra loro o, al contrario, troppo unite per vederci chiaro, gli davano del filo da torcere.”
E Adamsberg, riflettendo disteso al sole “sulla pietra” di un dolmen che sorge nei pressi di Louviec, spende buona parte del suo tempo ad analizzarle e rimetterle in ordine, perchè abbiano un senso logico.
E di filo da torcere non gli manca, tanto che, durante l’indagine, viene messa in pericolo la sua vita e soprattutto quella dell’unica donna della sua squadra, il tenente Retancourt, un colosso di femmina difficile da sopraffare.
Tra i soliti personaggi che i lettori di Vargas conoscono bene, qui se ne aggiungono anche altri molto caratteristici, Mael “il gobbo” , Josselin de Chautebriand, sosia e forse pronipote del nobile visconte e famoso scrittore, e Jonas, il proprietario di una locanda sempre disponibile a cucinare per tutti gli avventori e soprattutto per la squadra di Adamsberg.
Nonostante il thriller e i colpi di scena, il romanzo procede lentamente, e i dettagli sono così tanti, forse troppi, che spesso sfuggono al lettore. L’assassino, nonostante la fitta trama, è facilmente intuibile e il movente, il rancore, verosimile, ma fragile.
Mescolando leggenda e realtà, l’atmosfera misteriosa ci cattura fino alla fine, in una lettura tutto sommato piacevole, anche se, personalmente, trovo che manchi quel tocco di originalità che ha sempre distinto i romanzi di Vargas.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    08 Luglio, 2024
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La Boscaiola

Vanina Guarrasi ha un passato che ha segnato il corso della sua vita: Il padre, l'ispettore Giovanni Guarrasi, viene ucciso da un commando mafioso, davanti ai suoi occhi, quando lei aveva solo quattordici anni.
Per questo motivo lei entra in polizia e fa carriera nell’ antimafia di Palermo. Alla procura di Palermo conosce e s’ innamora del magistrato Paolo Malfitano, ma quando anch’egli subisce un attentato, nel quale Vanina gli salva la vita, lei decide di cambiare vita. Si allontana da Palermo, dall’antimafia e da Paolo e si trasferisce a Catania come vice questore nell’ anticrimine.
In realtà Vanina si illude di chiudere col suo passato e non rinuncia però a vendicare suo padre, cercando di catturare fino all’ultimo i responsabili, e non rinuncia a Paolo per il quale nutre un forte sentimento che non vuole ammettere neanche a se stessa.
Vanina è una donna forte, coraggiosa, intelligente e intuitiva. Per risolvere gli omicidi ha una squadra che la stima e la rispetta, dal commissario Spanò, l’ispettore Marta, Nunnari allo stesso Lo Faro, un agente un po’ sui generis, che solo la Guarrasi riesce a mettere in riga. Insieme a loro, il vice questore si avvale anche dell’aiuto prezioso dell’ex commissario, ormai in pensione, Vincenzo Patanè.
Alle pendici dell’Etna, sotto l’ombra di un Castagno secolare, viene ritrovato il corpo di una donna mutilato e ricomposto. Un delitto orribile e all’apparenza insensato, per cui Vanina avrà bisogno di tutti i suoi soliti collaboratori per venirne a capo, in un momento poi, in cui la sua vita privata la richiama sempre a Palermo e il motivo per cui è fuggita da quella città le diventa sempre più sfocato.
Un caso difficile e complicato da svelare, così come un po’ tutta la vita della Guarrasi, una donna avvolta da un’apparente impenetrabile corazza, così facile invece da penetrare, la cui chiave per entrare sono solo i sentimenti. I sentimenti che la legano ai luoghi, e alle persone amate, le radici profonde con la sua terra.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    02 Luglio, 2024
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Un calabrone all'Opera

Il Pm Manrico Spinori, melomane, nobile decaduto, amante indomito, sempre alla ricerca di stimoli nuovi, questa volta nel laboratorio dei costumi del Teatro Costanzi di Roma, assiste in prima persona alla morte, sospetta, di Tito Cannelli , proprietario di una famosa casa di alta moda.
Si scoprirà in seguito che la morte sospetta è invece un omicidio davvero singolare, perchè Cannelli muore per shock anafilattico, per la puntura di un calabrone, e un calabrone in un teatro è assai raro da trovare, a meno che non venga introdotto furtivamente. Quando diventa chiaro che si trovano davanti a un omicidio premeditato, Manrico e la sua squadra di tutte donne, Cianchetti Orru e Vitale, avviano l’indagine che si indirizzerà tra familiari e affini di Cannelli, ma soprattutto nel campo della moda, sconosciuto a Spinori, ma che ben presto comprenderà che quel mondo fatto di orpelli e ornamenti, nasconde sporchi giochi di potere.
Manrico Spinori è bello e affascinante, non a caso il suo informatore, Lediosca, lo ha rinominato Marcello, per la sua somiglianza con Marcello Mastroianni e non a caso De Cataldo è un amante de La Dolce Vita e un assoluto felliniano.
Spinori è colto, sa di arte e di musica classica, e per lui ogni delitto è riconducibile a un’opera lirica, e in questo caso va in crisi proprio perchè non riesce a trovare attinenze con nessuna delle opere a lui conosciute.
Spinori è nobile, ma soprattutto nei modi e nell’animo. Vive insieme alla madre e a un fedele maggiordomo nell’unica casa che gli rimane di famiglia,dato che la madre, la contessa Spinori, ha dilapidato tutto perchè affetta da ludopatia.
Si innamora facilmente e allo stesso modo si disamora, perchè facilmente delude o rimane deluso.
Il tutto ovviamente è ambientato nelle strade di Roma, che De Cataldo conosce bene, pur essendo un adottivo, nato a Taranto.
Il giallo è intricato quanto basta e di piacevole lettura, perchè De Cataldo scrive bene, e questo è innegabile.
Consigliato sotto l’ombrellone.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    28 Giugno, 2024
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Cold case de' noantri

Un giallo ambientato a Roma con due protagonisti, un giornalista e un colpevole, tutto narrato in prima persona, ma da due punti di vista diversi.
Carlo Cappai lavora nell’archivio di un tribunale, un lavoro metodico, in solitudine, sommerso da una moltitudine di faldoni di casi risolti e non.
Cappai, nel periodo della sua adolescenza, è stato testimone del delitto di una sua amica, ma malgrado la sua testimonianza, il colpevole, con un buon avvocato, viene scagionato ed evita la prigione. Questo episodio segna per sempre la sua esistenza e da quel momento il suo senso di giustizia, quello che segue la legge e che segue suo padre, un giudice anche lui, viene meno, per dare vita a una sorta di giustizia personale.
Quei casi irrisolti gli “parlano”, “sussurrano” e chiedono vendetta, e lui non li vuole deludere.
Walter Andretti lavora in un piccolo giornale e si approccia per la prima volta alla cronaca nera, finora si era sempre dedicato alla pagina sportiva. Viene incaricato di indagare e fare notizia su due recenti omicidi. All’inizio si muove male in quell’ambito, non conoscendo nessuno e non avendo agganci in polizia, ma, non demorde e la sua tenacia e le sue intuizioni lo portano a credere che tra quei due delitti ci sia un legame, forse addirittura lo stesso omicida.
Andretti ricorda vagamente il giornalista Carlo Alberto Marchi dei romanzi di Gigi Paoli, ma il confronto è improponibile; quello è un personaggio definito a 360 gradi ed ha una sua solidità; questo è appena accennato, vago, senza carattere, che si muove quasi inconsapevolmente e che indovina ma non conclude. Ovviamente con questa struttura,nel romanzo non c’è mistero, il lettore fin dall’inizio sa chi è il colpevole e ne conosce il movente, tranne che per un inutile, ai fini della trama, colpo di scena finale.
Tutto si gioca sul filo sottile che divide la giustizia dalla vendetta. Quando non esiste quel ragionevole dubbio di innocenza, quando il verdetto di colpevolezza non arriva nonostante le prove evidenti, perché non portare Giustizia, con le nostre mani, laddove la legge non è riuscita ad arrivare?

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Lonely Opinione inserita da Lonely    26 Giugno, 2024
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Il passato siamo noi

Nulla si distrugge, specie nel passato. Il passato è scritto, ma non sepolto, anzi riemerge inesorabile dai racconti dei personaggi di Marco Vichi. Ognuno di loro è segnato, con ferite ancora fresche, dall’ultima guerra, con tutto il cambiamento che ha prodotto nelle loro vite e nella loro personalità. (va ricordato che l’ambientazione di questi romanzi è tra gli anni sessanta e settanta dello scorso secolo). Più che un giallo (che è proprio a margine, e che per questo neanche menziono) è un racconto corale, questo, sfaccettato da varie angolature, a seconda del narratore di turno, che riesce a dare l’insieme di uno spaccato di un’epoca vissuta. Una memoria che non si perde, e che non deve perdersi, perchè ciò che siamo oggi è frutto del nostro passato, della nostra esperienza e inevitabilmente oggi non siamo più gli stessi di allora. Bordelli, il protagonista, ex commissario in pensione, sente fortemente il peso degli anni che passano, e si aggrappa al passato e a una donna che ha la metà dei suoi anni.
“Fuggiva via con una velocità sconfortante… Com’è bella giovinezza…Si…Com’è bella giovinezza…”
Non è un nostalgico, perchè non si percepisce in lui quel senso, caratteristico, di inadeguatezza al presente, è più un modo di perdonarsi, il suo. Perchè è vero che la narrazione di una storia presuppone un pubblico, e infatti le cene conviviali di Bordelli e i suoi amici ne sono un esempio palese, ma comunque essendo quasi sempre storie intime e personali diventano una specie di confessione agli altri ma soprattutto a se stessi con un implicito desiderio di perdono, per atti commessi, spesso perchè costretti. C‘è inoltre la convinzione che ogni storia meriti di essere raccontata e non persa per sempre, perchè se non c’è più chi racconta non c’è più memoria, non c’è più storia di noi e del nostro paese.
I pensieri di Bordelli ci invitano a riflessioni profonde, anche sul senso di giustizia, che per lui significa soprattutto seguire la sua coscienza, e la sua morale, quella di uomo e non solo di uomo di legge. “Caro povero Franchino non sai cosa ti perdi, non immagini quanto sia bello perdonare, quanta beatitudine entra nel cuore quando si riesce a perdonare…Ed è ancora più bello quando si perdona l’imperdonabile…” Ed è vero Bordelli non sempre perdona.
Inoltre sempre più preponderante in Vichi è la passione per la lettura e per la musica. Nel romanzo intermezza e cita brani interi di libri di altri autori, Alba De Cespedes la sua preferita, Bassani, Malaparte, Flaiano…e attraverso la sua lettura invita il lettore a scoprirli o a rileggerli, tale è l’entusiasmo.
C’è molto di autobiografico nei suoi libri, ma in questo è narrato un episodio molto intimo che riguarda sua mamma, Paola Cannas, che alla veneranda età di 84 anni, per avere una sua opinione, fa leggere a suo figlio, un po’ prevenuto, alcune sue poesie; Lui invece le trova molto belle, tanto da mandarle ad un editore che poi le pubblicherà.
Questa è una delle poesie di sua mamma riportata fedelmente nel suo libro.

I vivi ormai
più non ti stanno accanto
e non ti fanno compagnia;
invano cerchi di fermare
il loro sguardo su di te,
stringere la loro mano nella tua.
I loro occhi volgono altrove,
si chiudono le dita su se stesse,
la fretta allontana i loro passi.
Ma ecco sulla sponda del tuo letto,
siedono, sorridendo, i morti,
che pazienti ascoltano ogni voce del cuore.
Dolce è la compagnia di chi non ha più fretta.

Insomma c’è tanta letteratura in Vichi, e tanta passione; c’è onestà di pensiero, e di sentimenti; c’è tanta etica e profondo rispetto e credo per l’amicizia; c’è la Memoria e la Storia; tanti principi e valori che oggi sono un po’ sbiaditi dal tempo, un tempo che purtroppo li ha persi di vista, ma che sono i fondamenti della nostra natura di esseri umani.
..

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    05 Giugno, 2024
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Un commissario in pensione

Il commissario Bordelli ha varcato la soglia della pensione. Ora ha tanto tempo libero da passare con il suo cane in mezzo ai boschi, con la bella e giovane Eleonora, e con i suoi amici, organizzando quelle belle cene dove tutti raccontano un pezzo di vita e un pezzo di storia.
Ma Bordelli decide di rispolverare un vecchio caso di circa venticinque anni prima , che lui stesso, alle prime armi, non era riuscito a risolvere, praticamente il suo unico caso insoluto.
Con tutta la tranquillità che il tempo, ora, gli regala, si mette a indagare su questo vecchio caso di omicidio.
Ma il tutto è diluito nelle lunghe giornate di riposo forzato, l'ex commissario non ha più nessuna fretta , ha solo curiosità e tanta voglia, o meglio necessità, di riempire la giornata con qualcosa di stimolante da fare. Tutto procede a rilento, tanto che fino alla fine del romanzo non ne verrà a capo, e si impegnerà ad aiutare Piras, a risolvere due casi, che il suo ex vice ha per le mani in questo momento.
Ho trovato questo romanzo di Vichi, un po' scollegato, come se anche lui non sapesse che farne del suo commissario. I pensieri di Bordelli sono praticamente sempre gli stessi e spesso risultano ridondanti e ripetitivi. Anche le indagini sono scollegate e senza un filo logico, insomma è come se il protagonista annaspasse nella sua libertà senza sapere che farsene. E si sofferma più a rifletterci che a godersela. Forse è voluto dall'autore, ma il risultato è dispersivo.
Meritevoli sono i racconti suoi e dei suoi amici, davanti a una bella cena e del buon vino, quelli hanno sempre il prezioso sapore della storia del nostro passato, che non dobbiamo mai dimenticare.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    22 Mag, 2024
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Un delitto omofobo

Mancano solo tre mesi alla pensione del caro commissario Bordelli, che passeggia per i vicoli della sua città, rinata dopo la tragica alluvione, vivendola nelle sue infinite peculiarità. La sua relazione con Eleonora ha ripreso in maniera stabile, il suo valido collega Piras è diventato vice commissario, e i suoi pranzi “da Cesare”, nonostante la sua volontà, sono sempre più luculliani.
Bordelli vorrebbe passare questi tre mesi serenamente, ma invece gli capita per le mani un delitto, tanto atroce quanto inutile, perché fine a se stesso; un nobile conte anziano e omosessuale viene ucciso in modo spietato.
Il caso non è poi così difficile, in sé, perché il Conte usava registrare, tramite un magnetofono nascosto in una intercapedine, tutti i suoi incontri “clandestini”, sempre consenzienti. E dall’ultima registrazione Il commissario e il suo vice, possono, purtroppo e per fortuna, ascoltare tutto quello che è successo in quella maledetta sera.
Un giovane “amichetto” del Conte, si fa invitare a casa sua e sul più bello, evidentemente d’accordo con loro, apre la porta a quattro bastardi sconosciuti e omofobi che torturano e uccidono crudelmente il Conte.
A questo punto basta solo un po’ di fortuna per ritrovare” i Quattro dell’Ave Maria”, così si fanno chiamare, e dar loro quello che si meritano.
Bordelli prima di essere un commissario, è un uomo, che ha un profondo senso di giustizia, che spesso valica la legalità, e diventa vendetta. Il più delle volte riesce a frenare questo suo istinto con l’aiuto della sua vita quotidiana, scandita, dall’amore per la sua donna, e l’affetto per i suoi amici, con i quali è assiduo e sempre presente. Non mancano mai infatti le sue famose cene, in cui li riunisce tutti insieme scaldati dalla fiamma, sempre viva, di un camino, un calice di vino, cibi gourmet e racconti di vita vissuta da ognuno di loro.
Grazie a Vichi spesso dimentichiamo il giallo e riflettiamo sulla vita, sul destino, su ciò che eravamo e su quello che siamo diventati, nel bene e nel male. “ …a volte il destino si divertiva a giocare con la vita degli esseri umani…A volte a lor favore, a volte contro di loro.”
Ogni personaggio descritto dall’autore ha una sua etica ed è coerente con essa. Ed è per questo che il lettore riesce ad accettare e ad amare ogni singolo personaggio descritto, per quello che è, da Ennio, che ruba solo ai ricchi, a Dante inventore, immerso nel suo laboratorio fino a tarda notte, passando per il Colonnello Arcieri, il medico legale Diotivede e il fedele e acuto Piras.
Non manca nei romanzi di Vichi l’amore per la natura e per gli animali, frequenti e necessarie come l’aria sono per Bordelli infatti le sue passeggiate col suo cane Blisk, per le colline fiorentine.
Il tutto è condito sullo sfondo da un profondo amore per la cucina toscana.
Infine, ma non per ultimo, la sua passione, oltre che per il racconto, per la lettura. E’ proprio grazie a Vichi che ho conosciuto Alba De Cespedes, che non manca mai di citare in ogni suo romanzo.
“I romanzi gli facevano l’effetto di uno specchio magico: poteva osservare se stesso e anche il mondo che si rifletteva alle sue spalle. In altre parole leggere era come un viaggio, sia nelle lontananze, sia nella propria intimità. Senza nessuna fatica, scorrendo le pagine era costretto a conoscersi meglio… Si poteva quasi dire che per leggere ci voleva un po’ di coraggio.”

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Lonely Opinione inserita da Lonely    21 Mag, 2024
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Il doblone Brasher

Terzo noir di Raymond Chandler, con Philip Marlowe, pubblicato nel 1942. Il genere hardboiled, è stato creato da Hamlett, con il suo protagonista Sam Spade, e proseguito e portato al successo da Chandler, con il famoso Philip Marlowe.
L’archetipo dell’investigatore privato hardboiled è un uomo duro ma giusto, arrogante con i prepotenti e generoso con i più deboli. Affascinante e seduttivo con le donne, di solito alte belle e bionde, ma che rimane affascinato dalle più timide e poco appariscenti. Sempre senza un soldo perché essenzialmente è un avvocato delle cause perse. Ha una sua deontologia, e non si vende facilmente per denaro. E’ facile alle “scazzottate” ed ha un rapporto sempre ambiguo con la polizia, perché segue una sua linea e non scende a compromessi. Insomma una sorta di eroe romantico.
Questo terzo romanzo ha una trama molto complessa e ricca di personaggi enigmatici. Questa volta Marlowe deve ritrovare, per conto di Mrs Murdock, un’anziana e ricca vedova, un’antica e rarissima moneta d’oro, il doblone Brasher, rubata alla preziosa collezione del defunto marito.
Marlowe segue una buona pista, ma non appena comincia a indagare, si scontra con una serie di, apparentemente, inspiegabili omicidi, che rendono più fitto il mistero. Per svelare l’intrigo scava nei bassifondi di una Pasadena, dall’aria immobile e soffocante, descritta dalla penna di Chandler in modo sublime
“Il mattino aveva un odore pesante d’estate, e tutto quel che cresceva dalla terra era perfettamente immobile nell’aria irrespirabile di quella che, a Pasadena, chiamano una bella giornata fresca.”
Insuperabile nelle sue descrizioni di luoghi e personaggi, Chandler incanta il lettore, che crede di essere di fronte a un giallo, dalla lettura facile e leggera, ma che si ritrova presto a confrontarsi con un vero romanzo, che dimostra che anche un giallo, a questo livello, può essere letteratura “importante”
“La villa era in Dresden Avenue nel quartiere di Oak Knoll, a Pasadena. Era un edificio solido, dall’aspetto tranquillo, coi muri di mattone color borgogna, il tetto di tegole e un motivo ornamentale di pietra bianca. Le finestre della facciata, a pianterreno, avevano i vetri impiombati. Quelle dei piani superiori erano in stile rustico e avevano una cornice di finto granito in stile rococò. Dalla facciata, fiancheggiata da un filare di cespugli in fiore, si estendeva un tappeto verde di circa mezzo acro che scendeva dolcemente verso la strada e a un certo punto pareva stringersi intorno a un enorme cedro come una marea verde intorno a uno scoglio. …Lasciai la macchina in strada, camminai sulle pietre piatte infisse nel verde del prato per segnare il sentiero, e suonai il campanello d’un portico dal tetto appuntito. Un muricciolo di mattoni correva dalla facciata della casa all’inizio del viale. Qui, su una colonnetta di cemento era dipinto un moretto in calzoni da cavallerizzo, con la giacca verde e il berretto rosso. Aveva una frusta in mano e ai suoi piedi, nel cemento, era infisso un anello per legare i cavalli. Aveva una faccia triste, il moretto, come se fosse rimasto lì in attesa per parecchio tempo e ora cominciasse a scoraggiarsi. Mentre aspettavo che qualcuno venisse alla porta, gli andai vicino e gli diedi una pacca amichevole sulla testa.”
E questo è solo l’inizio.
Anche se non all’altezza di “Il Lungo Sonno” e “ Addio mia Amata”, almeno secondo me, è comunque un bel leggere.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    13 Mag, 2024
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Un intrigo gastronomico

Petra Delicado e Firmin Garzon sono alle prese con una nuova indagine nell’ambito dello street food. Cristophe, cuoco e socio di Bob Castillo, muore assassinato, nel loro food truck di gastronomia francese, colpito al cuore con una lama di coltello.
Dopo vari sopralluoghi e alcuni interrogatori agli altri proprietari di camion ristorante che spesso partecipavano insieme agli stessi eventi, la coppia di detective scopre che in realtà Cristophe viveva in Spagna sotto mentite spoglie, fuggito dal suo paese perché ricercato, e aveva un “affaire” di droga e sesso con una donna francese misteriosa che appare e scompare per tutto il tempo del romanzo, la donna che fugge appunto.
Inizialmente le indagini si svolgono quindi intorno al narcotraffico, anche se Petra non è del tutto convinta della pista che stanno seguendo.
E così tra altre vittime, ombre e false verità, i due si impantanano in un intrigo così difficile da dipanare che alla fine il tutto si svela da solo.
Ma la Bartlett non si ferma al giallo, che pure è coinvolgente, ma va ben oltre, come è solita fare, e non manca di dire le sue opinioni, attraverso i suoi personaggi, sulla vita, sul corso del tempo, sulla società.
“Dopo la pandemia la gente si era divisa in due gruppi. Da una parte c’erano le persone che non vedevano l’ora di riprendere la vita di prima, addirittura intensificando le occasioni piacevoli che erano state proibite per ragioni sanitarie: viaggi, mangiate nei ristoranti, feste con amici... un frenetico carpe diem volto a recuperare gli anni perduti. E dall’altra c’erano, non so in quale percentuale, perché erano meno visibili, quelli che sostenevano di avere imparato la lezione. Loro cercavano l’isolamento, la pace della campagna, la meditazione, la vita sana e il contatto con la natura.”
Così il romanzo diventa oltre che svago anche spunto di riflessione per il lettore.
Preziose sono le battute tra Petra e Garzon, durante le pause dal lavoro alla Jarra de Oro: davanti a una birra, i due si confrontano e si sostengono a vicenda in un mondo che sembra andare al contrario, dove il rispetto e i sentimenti vengono meno di fronte al vile denaro, un mondo che sempre più si fonda sull’apparenza, sul dover essere giovani e belli a tutti i costi, un mondo che non comprendono e che non li capisce più, ma al quale si devono comunque adeguare
“Anche a me dava enormemente fastidio che un cameriere di vent’anni ci chiamasse «ragazzi». Non attribuivo quell’appellativo a una mancanza di rispetto, ma alle ridicole tendenze del momento. Tutto si infantilizzava, tutto diventava una commedia. … In fondo, la mia visione era molto più allarmante di quella del viceispettore. Lui si ribellava alla scarsa considerazione nei confronti dell’età, mentre io pensavo che tutto fosse ormai decadenza e regressione. Difficile dire chi fosse il più dinosauro dei due.”
Non manca la consueta visione pessimistica dell’A. sull’amore e sui rapporti di coppia, che non sono mai fedeli e duraturi. Petra è infatti al terzo matrimonio e vive ancora una volta una profonda crisi di coppia, che inizialmente sembra avere causa nella sua totale dedizione al lavoro che le assorbe gran parte del giorno e anche della notte, e non le dà la possibilità di avere una vita privata, ma i malumori del marito non sfuggono alla sensibilità di Petra, che non riesce ad archiviare e giustificare tutto così…E infatti la crisi si rivelerà più profonda del previsto e anche stavolta la nostra protagonista si rifugerà nell’unico legame, vero e profondo, della sua vita, quello col suo fedele collega ma prima di tutto, amico, Garzon.
Il romanzo ha un finale molto amaro, che ci lascia un po’ stupiti, ma che conferma il pensiero cardine della Bartlett che è un po’ il leit motiv anche di questo romanzo, e cioè l’imprevidibilità della vita e l’ineluttabilità della morte.
“In fondo siamo tutti perdenti, Fermín. Perdiamo le cose a poco a poco finché con la morte perdiamo tutto.”

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Lonely Opinione inserita da Lonely    06 Mag, 2024
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La Femme Fatale

Charles Antoine Frédéric Dard nasce nel 1921 in Francia e muore in Svizzera nel 2000. E stato uno tra i più famosi e prolifici romanzieri francesi del genere noir della seconda metà del XX secolo. Ha scritto più di 300 romanzi in tutta la sua carriera e ha venduto più di 290 milioni di libri e nel 1957 è stato insignito del Grand prix de littérature policière, il più importante riconoscimento francese per il genere del giallo. Diventa famoso con la serie di polizieschi che ha per protagonista il commissario Sanantonio, serie che prosegue anche dopo la sua morte con il figlio Patrice Dard come autore.
Per chi volesse seguire la sua produzione in ordine cronologico si addentra in un bel ginepraio, perché oltre alla mole di opere da lui scritte, quelle tradotte in italiano non sono purtroppo tantissime.
Io ho scovato in libreria due riedizioni, e Prato all’inglese è una delle due.
In una ridente ed estiva Juan le Pins in Costa Azzurra, Jean Marie Valaise conosce fortuitamente Marjorie Faulks, la donna sale per errore sulla sua macchina, accampando la scusa che anche lei ha un'automobile uguale posteggiata proprio lì accanto e che si è confusa. La donna sparisce ma inavvertitamente lascia la sua borsa nella macchina del nostro protagonista. I due si incontrano di nuovo per caso la sera al casinò e poi ancora il giorno dopo quando lei si presenta in albergo da lui per riprendersi la borsa. Marjorie è infelicemente sposata e Jean Marie è temporaneamente in pausa da un fidanzamento in crisi. Lei deve tornare in Inghilterra la sera stessa e gli lascia un indirizzo dove lui può scriverle. Ma in realtà, tempo poche ore e per Jean Marie, la bella Marjorie è già quasi dimenticata, almeno fino a quando non riceve una lunga lettera di lei, la quale lo invita a passare con lei una settimana a Edimburgo, perché sarà sola, dato che il marito sarà in viaggio per lavoro.
Jean Marie non ci pensa due volte, coglie l’occasione al volo e parte per Edimburgo, ma arrivato in hotel non trova Marjorie, e la cerca disperatamente per tutta Edimburgo finchè non la trova in un alberghetto di periferia, dove trova però anche una bella sorpresa, il marito.
Da questo triangolo indesiderato nasce il delitto, quasi rocambolesco e inverosimile, nel quale Jean Marie rimarrà coinvolto in prima persona in quanto accusato di omicidio premeditato.
Devo dire un libro di una inaspettata piacevolezza. Oltre a una vera suspence che ti tiene incollato alle pagine, il tutto è condito da una sottilissima vena ironica e da un’arguta dovizia di dettagli che fanno riflettere e stupire al tempo stesso.
E’ un classico noir, edito in lingua originale nel 1962, e c’è la classica femme fatale, da cui il nostro “eroe” viene inevitabilmente irretito, in un gioco di passione e morte apparente e non.
Il ritmo di lettura è quello francese, cadenzato da un susseguirsi di eventi, uno dopo l’altro che catturano l’attenzione del lettore fino alla fine.
Un libro che consiglio a chi cerca qualche ora di svago.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Mag, 2024
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La pantera addomesticata

Due coppie sposate incrociano le loro vite con un’apparente amicizia, fatta in realtà di invidie e gelosie. Tutto ruota attorno al denaro, e all’ostentazione di una ricchezza fittizia, subdola, ottenuta con gli inganni e l’illegalità.
Tutto il plot del romanzo gira intorno al progetto di una rapina a una gioielleria compiuta da due personaggi insospettabili.
In realtà di insospettabile hanno ben poco, non c’è alcun mistero, e tutto si svela velocemente perché la trama è banale e scontata.
Gli stessi personaggi sono inconsistenti, e non hanno alcun riscontro nella realtà. Una Sophie bellissima e ricchissima che però compie rapine insieme a un tizio poco raccomandabile solo per provare una scossa adrenalica. Il marito, Arpad, un vile che vive in funzione di questa donna e fa di tutto pur di non deludere il loro tenore di vita. Fauve , il cosiddetto delinquente, che spunta dal nulla, anch’egli innamorato di Sophie, che ha capito la sua vera natura e compie qualsiasi azione pur di soddisfarla. Greg e Karine che forse potrebbero essere una coppia verosimile, sprecano gran parte del loro tempo tirando fuori i loro lati peggiori, ossessionati entrambi da quella coppia perfetta e soprattutto da questa donna, Sophie, ai loro occhi seducente e affascinante.
Il tutto condito, poco, da un passato che torna a galla, tramite una serie di feedback a ritroso nel tempo.
Personalmente rispetto agli altri romanzi di Dicker, complessi e misteriosi, questo è stato davvero una delusione, ed è stata una vera fatica portarlo a termine, decisamente lento e senza un minimo di suspence.
Mi aspettavo molto di più.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    25 Aprile, 2024
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Un ragionevole dubbio

All’Osteria del Caffelatte, una libreria per insonni, aperta solo di notte, fino all’alba, Guido Guerrieri, avvocato, e pugile all’occorrenza, ci passa certe notti in cui il sonno non arriva, in compagnia del suo amico Ottavio, il padrone della libreria, di un buon libro e di un buon caffè.
Ma questa volta è Ottavio a cercare lui, lo chiama al telefono una mattina, perché ha bisogno del suo aiuto per un’amica, Elvira Castell: le occorre un avvocato perché ha sparato a un uomo, l’ex compagno della sorella, e l’ha ucciso.
Legittima difesa o omicidio premeditato?
Questo è il ragionevole dubbio che Carofiglio ci insinua nei sei mesi di indagini processuali, fino al verdetto finale, che non svela nulla di più né al lettore né allo stesso Guerrieri che ha assunto la difesa di questa donna, della cui innocenza non è convinto neanche lui.
Il romanzo è catalogato tra i gialli, o meglio tra i gialli giudiziari.
Assai riduttivo a mio parere.
A parte che più che un giallo è un mistero che non si rivela, ma il romanzo va decisamente oltre.
L’analisi prettamente tecnico-giuridica, va di pari passo con la terapia di psicanalisi che Guerrieri segue insieme al Dottor Carnelutti.
I dubbi su questo caso e una lettera, post mortem, di una sua ex, Margherita, mettono in crisi Guerrieri. Una crisi che estrinseca le sue paure, che sono poi le stesse di qualsiasi uomo che ha superato la metà della vita: il passare del tempo, inesorabile, e l’ineluttabilità della morte.
“Ero sgomento, terrorizzato e triste. Perché si deve morire? … – Perché è proprio questo che rende la vita bellissima e preziosa”
I dialoghi tra Guerrieri e Carnelutti sono pieni di spunti di riflessioni sul senso della vita, sul senso di giustizia, sui sogni, sulla nostra memoria e su come a volte la modifichiamo per darle un senso logico, che giustifichi la nostra interpretazione dei nostri stessi ricordi, come se costruissimo una storia, che in qualche modo ci fa comodo.
Ma allora quanto è fallace la nostra memoria?
“Il modo in cui ricordiamo può anche essere influenzato dalla nostra tendenza a costruire narrazioni coerenti. Quando rammentiamo un evento, se abbiamo questa inclinazione, lo riorganizziamo mentalmente, anzi riorganizziamo mentalmente le informazioni per fornire anche solo a noi stessi una storia coerente.”
“Costruiamo storie per dare senso, per cercare di mettere ordine nel caos. E le storie, a ben vedere, sono tutto quello che abbiamo.”
Il romanzo ha decisamente degli spunti autobiografici, Guerrieri ha la stessa età dell’autore, ne condivide l’esperienza giuridica, l’amore per il mare e per la sua città, Bari appunto, e ha i suoi stessi gusti musicali e letterari, espressi dalle frequenti citazioni di Carofiglio.
Il romanzo sembra lasciarci con un finale aperto, in realtà è un cerchio che si chiude: dalla lettera della sua ex, Margherita, morta di cancro, che nutre l’aspettativa di un futuro incerto e doloroso, all’incontro finale con l’ex moglie di un suo vecchio cliente, rinata, invece, dopo la guarigione da una lunga malattia, che ci lascia con un filo di speranza e di luce, all’alba di una notte, così buia, da non distinguere l’orizzonte
“Tutto era ancora buio e nel flusso di pensieri ingovernabili che mi attraversavano la mente per sparire veloci com’erano arrivati, uno fu meno fugace degli altri. Pensai che non si distingueva l’orizzonte. Nulla di strano, a dire il vero. L’orizzonte è la linea apparente che separa la terra dal cielo, che divide le direzioni percettibili in due categorie, quelle che intersecano la superficie terrestre e quelle che non la intersecano. Di notte l’orizzonte non si vede. Quindi non esiste? Perché è una linea apparente, appunto. Esiste solo se lo vediamo.”
Romanzo splendido a mio parere, un Carofiglio, profondo e commovente.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Aprile, 2024
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Rocco e l'ELP

Un marito violento ucciso con un colpo di pistola in fronte e l’omicidio di un imprenditore di una fabbrica di pellami e sullo sfondo lo scenario degli ambientalisti dell’ELP, l’Esercito di Liberazione del Pianeta.
Questi sono i due nuovi casi cui il vicequestore Rocco Schiavone deve far fronte in quest’ultimo libro di Antonio Manzini.
Avevo lasciato un po’ indietro, i gialli di Manzini con Rocco Schiavone, perché devo dire la verità, ma è un mio difetto, quando poi dai libri ne fanno delle serie tv, perdo un po’ l’entusiasmo a leggere, perché non fantastico più, mi ritrovo già tutto fatto, personaggi, luoghi, dialoghi e m’impigrisco un po’.
E’ il motivo per cui non ho più letto De Giovanni o Camilleri, perché ormai per me Montalbano è Zingaretti e Gassmann il commissario Lojacono e non mi diverte più, si perché per me leggere è anche e soprattutto un “divertissement”, e non c’è svago senza l’uso della fantasia.
Ma con Antonio Manzini, non è così. Anche se devo ammettere che Rocco Schiavone è Marco Giallini, e non potrebbe essere nessun altro, tornare a leggere lo Schiavone di Manzini è un po’ come tornare a casa sedersi sul divano e perdersi dentro l’ennesima storia calda e avvolgente, nonostante, o forse proprio per quello, i personaggi e i luoghi siano gli stessi. Ma la trama è ciò che li contraddistingue, che è sempre originale e imprevedibile, e non solo nella risoluzione dei gialli, perché questo sono, più o meno complicati, ma anche e soprattutto nelle relazioni tra i protagonisti di questi romanzi che ruotano si intorno a Rocco, ma che hanno però una parte e un posto altrettanto importante quanto lui. Antonio, Deruta, D’intino, Casella, il questore, Baldi, la giornalista, Brizio, Furio, Sebastiano sono pezzi integranti , ma non aggiunti a Schiavone, unica star: tutti brillano di luce propria, e non esisterebbe Schiavone senza di loro.
Un romanzo di Manzini non è solo un giallo, ma una macchina complessa di rapporti e relazioni tra i vari personaggi, che non potrebbe funzionare altrimenti.
E poi le riflessioni sulla vita, sul suo valore, sulla morte, sull’amore e l’amicizia, nel loro senso più profondo, riempiono l’anima di chi legge.
Insomma un giallo di Manzini non è solo un caso da risolvere ma un’esperienza da vivere o meglio da leggere!

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Aprile, 2024
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Il commissario piemontese

Bartolomeo Rebaudengo, dal nome originale e altisonante, è il commissario di Alassio, amena cittadina della riviera Ligure.
Il commissario però è piemontese e non ama il mare e tutto ciò che gli appartiene, lui ama la sua terra, le montagne, i boschi e la cucina dei luoghi natii.
Questa è la prima prova per Rebaudengo di mostrare il suo intuito e il suo metodo di investigazione.
Nella narrazione viene infatti denunciata, dalla moglie, la scomparsa di un professore di filosofia e pochi giorni dopo viene rinvenuto il corpo di una ragazza, nuda in un cerchio di candele scure, palesemente strangolata.
La soluzione del caso ruota tutta intorno al commissario, ed anche se si avvale di validi collaboratori sarà solo grazie alla sua tenacia e ostinazione che si arriverà a svelare l’assassino.
Il giallo non è molto originale, anche se ben scritto, con dettagliate descrizioni dei panorami, degli usi e costumi liguri e piemontesi, con sprazzi qua è la anche dell’uso dei dialetti locali.
Il commissario è una bella figura, imponente, quanto il suo nome, belloccio e piacente senza alcun vanto.
E già da questo romanzo nasce infatti una liason tra lui e il medico legale, la dottoressa Ardelia, anche lei con un nome molto impegnativo! E non si può dire che l’autrice non si sia sforzata nel cercare un po’ di originalità se non altro in questo. Perché il resto risulta un po’ banale.
Il finale è abbastanza scontato, e, secondo me, anche questo, un po’ forzato, proprio per dare un tocco di peculiarità e di modernità, scostandolo volutamente, un po’ dai ruoli classici. Ma mi è sembrato poco convincente e soprattutto poco coinvolgente.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    19 Marzo, 2024
Top 100 Opinionisti  -  

Robin in pericolo

Ultimo romanzo della Rowling/ Galbraith, con la settima indagine del suo protagonista Cormoran Strike.
Per chi non ha mai letto nulla di questa serie, consiglio di iniziare in ordine cronologico, perchè la storia si evolve cosi come i protagonisti.
L'agenzia investigativa Strike & Ellacott questa volta, tra gli altri casi, deve provare a fare uscire da una comunità il figlio di Colin Endsor, Will Endsor, che crede sia trattenuto contro la sua volontà.
Sulla comunità si hanno poche notizie e coloro che ne sono fuori sono reticenti a parlarne e anche coloro che inavvertitamente ne parlano...muoiono inspiegabilmente.
Così Strike pensa che sia necessario un agente sotto copertura che si riesca ad infiltrare cercando di avere più notizie possibili sui membri e sui leader della comunità e Robin si offre volontaria.
Ma dopo pochi giorni Robin si rende conto di essere entrata in una vera e propria setta dove assiste ad atti coercitivi su tutti gli adepti.
La UHC , la setta in questione, tiene volontariamente i membri lontani da parenti e amici, costringe gli stessi a laute donazioni e li influenza psicologicamente, con atti punitivi e digiuni forzati , indebolendoli sensibilmente nel fisico e nella mente.
Per la stessa Robin sarà molto rischioso indagare il lato oscuro della UHC, e il lettore sarà coinvolto in un climax di suspense e tensione, davvero ad alto livello, sperando che per lei tutto vada per il meglio e riesca nella sua missione.
La Rowling, come al solito, non delude mai, il libro, come anche i precedenti è oltre le mille pagine, ma si legge d'un fiato, soprattutto, mi ripeto, per la suspense creata ad arte.
Lo stile è notevole e il contenuto a dir poco affascinante, così ricco di dettagli significativi, anche a livello solo informativo.
La storia tra Robin e Cormoran prosegue tra il detto e non detto e una volta si fa avanti lui e indietro lei e viceversa, e non si incontrano mai, e che sia fatto il volere dell'autrice!
Quello che sempre sorprende è che il lettore rimane incantato a "guardare"

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    14 Marzo, 2024
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La croce che s'illumina

Sarà perchè Robecchi ci ha abituato al suo "modus operandi" che questo romanzo mi ha un po' deluso. In genere nei suoi libri troviamo due o più storie, portate avanti da diverse angolazioni , ma che alla fine si intersecano e vanno a comporre una trama più grande e più fitta dove ognuno dà il suo contributo per venire a capo del mistero.
In Pesci piccoli invece non avviene nessun omicidio e tre "casi" procedono parallelamente fino alla fine.
Da un lato Crazy Love, il programma ideato da Monterossi, che ad oggi lui stesso disprezza per quello che è diventato nelle mani di Flora De Pisis, "la fabbrica della merda"; il programma infatti porta in tv l'ennesimo scoop in nome dell'audience, un prete di un paesino, dove una Croce si illumina per vie oscure, o forse celestiali.
Da un altro la Sistemi integrati indaga su uno strano furto in una grossa azienda di infrastrutture : i soldi, la chiavetta e il piano di costruzione di una nuova diga in Ghana sono spariti all’improvviso; un intrigo complesso che si dipana tra droghe , ricatti e pedofilia.
Infine troviamo il buon Ghezzi accompagnato sempre dall'irascibile Carella che invece inseguono i pesci piccoli appunto, «Così prendiamo gli sfigati e non arriviamo ai pesci grossi, capo, la solita storia».
Da sottofondo a tutto questo impera il disincantato Monterossi, che anche in questa avventura rimesta nel fango per restituire un po’ di giustizia sociale ma soprattutto per sentirsi meno in colpa per non avere il coraggio di mollare un lavoro, che lui stesso ha creato, che snobba ma che gli dà la possibilità di vivere agiatamente, e di risolvere le questioni spesso col denaro, agendo un po' come un moderno e compassionevole Robin Hood, solo che lui ruba solo a se stesso. Monterossi che ha una sedicente relazione d'amore, che amore non è, dove non ci sono né impegni né responsabilità, ma che gli permette di fare un po' come vuole, di sentirsi apparentemente libero, da legami e convenzioni ma che gli genera però una profonda solitudine . Monterossi, un uomo, una contraddizione in essere.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    18 Gennaio, 2024
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Il fou de Bergerac

Il pazzo di Bergerac, del 1932, è uno dei più famosi polizieschi di Simenon con il suo personaggio preferito, Maigret.
Mentre è in viaggio in treno per la Dordogna, ospite a casa di Leduc, poliziotto in pensione,
Maigret viene ferito inseguendo un uomo misterioso, che si è gettato dal treno in corsa, prima di arrivare alla stazione di Villefranche.
Maigret, ferito ad una spalla, viene ricoverato all’ospedale di Bergerac, ma senza i suoi documenti rimasti sul treno, viene accusato inizialmente di essere il “fou de Bergerac”, un assassino ricercato dalla polizia locale per aver ucciso due donne.
Leduc, venuto a conoscenza dell'accaduto si precipita a Bergerac e risolve l'equivoco.
Maigret nonostante sia costretto a letto per una lunga convalescenza, si interessa subito al caso e lo risolve senza muoversi dalla sua camera dell'ospedale, con l'aiuto di Leduc, appunto, e della sua fedele e paziente moglie Louise.
Sicuramente non è uno dei migliori romanzi di Simenon, ma io l'ho trovato una lettura piacevole e divertente.
Il detective che risolve i casi, senza uscire di casa, ci ricorda il personaggio di Nero Wolfe, di Rex Stout.
E il romanzo ricalca un po' la commedia degli equivoci, con i classici scambi di identità che creano situazioni che spesso confondono anche il lettore. Ma la descrizione dei personaggi è superba, come al solito, interessanti e intriganti, tutti innocenti e tutti colpevoli.
Non eccellente ma solo per la straordinaria umanità di Maigret, la caratterizzazione dei personaggi, e la descrizione degli accadimenti, vale la pena di leggerlo.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Gennaio, 2024
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Una vita spezzata

Stefano Sartor vive a Parigi, insegna filosofia alla Sorbona. Nel suo ultimo saggio, bestseller internazionale, racconta il suo passato, una vita spezzata a metà da un incidente, dove Stefano perde tutta la memoria della prima parte della sua vita: infanzia, adolescenza, tutto perso nel buio della mente.
Con una storia nella storia, il romanzo porta avanti l'incontro di due adolescenti, Nina e Lupo, quegli amori che nascono sulle onde di un 'estate e che rimangono nei cuori di chi li ha vissuti.
Ma il destino gioca sempre un ruolo importante nelle nostre vite, e proprio quando non ce lo aspettiamo il passato torna a presentarci il conto e rimette tutto a posto come per magia.
E' proprio questa la parola chiave dei romanzi di Francesco Carofiglio, la magia ,e non quella occulta, ma quella che lui crea con le sue parole e con le su atmosfere, sempre misteriose, ma comunque romantiche e nostalgiche. Nelle sue pagine assaporiamo la nostalgia di un tempo che non c'è più, quello dell'innocenza perduta; quel momento preciso in cui di colpo, qualcosa accade che cambia il corso degli eventi e delle vite dei protagonisti di questo bellissimo romanzo. Tutto funziona perfettamente nei libri di F. Carofiglio, la storia, i personaggi e soprattutto le atmosfere, che coinvolgono il lettore e lo assorbono nel suo mondo , allontanandolo piacevolmente dalla realtà.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Gennaio, 2024
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Una vita in incognito

Marias è uno dei miei primi amori. Ogni tanto ci ritorno e riscopro il piacere di leggere per pensare, per riflettere.

Le sue storie sono tutte belle, ma io le trovo pretestuose, perchè attraverso di esse, Marias, ci mostra sempre un po' di sé stesso, del suo modo di vedere la vita, la sua opinione sulla natura umana, sull'amore, sul senso della vita. Il caso e il destino giocano sempre un ruolo importante nei suoi romanzi, ed anche qui Thomas Nevinson, si ritrova, per uno scherzo del destino (o per mano dell'uomo?) costretto a vivere una vita che non ha scelto

"La cosa peggiore che si possa immaginare è non poter dire di no, non poter discutere né ragionare né argomentare, dover fare tutto ciò che viene in mente a qualcuno che ricopre un grado gerarchico superiore, anche ciò che si disapprova o di cui si ha ripugnanza, essere costretti a ingoiare il boccone amaro che un altro individuo ci obbliga a ingerire. In maggiore o minor misura questo tocca a quasi tutti noi, qualunque sia il nostro mestiere, dalla culla alla tomba; c’è quasi sempre qualcuno sopra di noi che ci indica quello che dobbiamo fare, e che non possiamo contraddire"

Egli è stato manipolato ed è costretto a vivere nella menzogna e a mentire anche con chi ama

«Di quello che non ci raccontano non sappiamo nulla, di quello che ci raccontano nemmeno, nemmeno di quello. Noi abbiamo la tendenza a credere, a pensare che la gente dica la verità, senza far troppo caso e senza diffidare; la vita non sarebbe vivibile se non facessimo cosí, se mettessimo in dubbio le affermazioni piú insignificanti, perché mai qualcuno dovrebbe mentirci riguardo al suo nome, al suo lavoro, alle sue origini, ai suoi gusti e alle sue abitudini, a quella massa di informazioni che tutti ci scambiamo disinteressatamente, spesso senza che nessuno ci chieda nulla, senza che nessuno mostri il minimo interesse nel sapere chi siamo, che cosa facciamo, come ci va la vita, quasi tutti raccontiamo piú di quanto dovremmo o,peggio, imponiamo agli altri informazioni e storie che a loro non interessano affatto e diamo per scontata una curiosità che non esiste, perché mai qualcuno dovrebbe essere curioso di sapere qualcosa di me, di te, di lui, pochi sentirebbero la nostra mancanza se sparissimo da un giorno all’altro e pochissimi si porrebbero il problema."

Berta Isla è la sua donna, non chiede, non indaga, ma accetta e aspetta, una sorta di Penelope moderna, pervasa da una rassegnazione oltre misura, conscia di questo suo ruolo, assurdo per una donna dei nostri tempi.

"L’accettazione della sua probabile e sempre piú sicura scomparsa non fu immediata. Non lo è mai, neppure quando vediamo morire qualcuno con i nostri occhi e vediamo il suo corpo immobile e silenzioso e lo vegliamo e lo seppelliamo secondo tutte le regole, passo dopo passo, e il dubbio non c’è. Addirittura in quei casi, che sono i piú normali, per un lunghissimo periodo l’assenza è sentita come transitoria, come qualcosa che prima o poi dovrà finire. Si ha la sensazione – ed è duratura, a volte può essere morbosa – che la fine di una persona vicina e amata, che fa parte della nostra vita esattamente come l’aria, sia come una specie di falso allarme o di scherzo o di finzione, una montatura o il frutto delle nostre fantasie piú paurose, e per questo il sonno spesso ci confonde: sogniamo il defunto, lo vediamo muoversi e forse toccarci o penetrarci, lo sentiamo parlare e ridere, e al risveglio ci pare che si sia solo nascosto e debba ricomparire, che non possa essere svanito per sempre, che è la veglia a ingannarci. Crediamo che è solo questione di tempo ma tornerà. "

Nevinson sparisce per mesi e poi per anni senza lasciare traccia di sé, e Berta Isla vive questo tempo infinito, scandito solo dalla routine quotidiana, con la speranza e il timore di affacciarsi alla finestra e di vederlo apparire in lontananza: è lui? O qualcuno che gli somiglia e che non gli somiglia più

"All’inizio il volto che ci sforziamo di ricordare è nitido e onnipresente, ma via via che passa il tempo – forse proprio per quel nostro accanirci, che lo consuma e lo snatura e lo deforma – quel volto comincia a sfumare, e finisce per diventare quasi impossibile per gli occhi della mente rievocarlo e rappresentarselo fedelmente"

Oltre a tutte queste continue riflessioni, sull'accettazione e la rassegnazione per vivere una vita che entrambi non hanno scelto, il romanzo viaggia quasi in parallelo con una serie di continue citazioni letterarie, soprattutto i continui riferimenti a "litlle gidding" da I Four quartets di Eliot, che spesso entrambi i due protagonisti si ritrovano a citare a memoria, compenetrandosi nella poesia. E insieme ad Eliot, ritroviamo Shakespeare e Dickens e Flaubert, in uno sfoggio di letteratura applicata, ma mai pedante.

E’ una spy story di alto livello internazionale, questa di Berta Isla, ma è anche la storia di un matrimonio, una storia di attesa e di assenza, una storia che racconta anche il lato oscuro della politica e dei governi, nello specifico quello inglese.

Una storia che nonostante la sua complessità, anche o solo nel descrivere ogni pensiero dei due protagonisti nel minimo dettaglio, vivisezionandolo quasi, che ha bisogno di un certo tempo per essere assimilata, ma che al contempo ci coinvolge e scorre via nella curiosità di scoprirne un finale che ci spieghi, e ci dia soddisfazione ma

«Vide la polvere nell’aria, la vide con chiarezza meridiana nella piazza sfigurata della sua resa, dal suo sfinimento, e pensò: “si ritorna solo quando non si sa più dove andare, quando non ci sono altri luoghi e la storia è finita.”»

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Gennaio, 2024
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Sam Spade alla ricerca del Falco

Dashiell Hammet è l'inventore della letteratura, cosi chiamata, hardboiled, una sorta di poliziesco più realistico, dove il protagonista assume questo atteggiamento tipico da duro, freddo e arrogante, ma che sotto la scorza, oltre ad essere furbo e intelligente, subisce fortemente il fascino femminile.
Sam Spade è il protagonista dei romanzi di Hammet, ed è il precursore di Philip Marlowe, del più famoso Raymond Chandler, che riprenderà questo filone negli anni trenta e ne farà un successo nel suo genere.
Nello specifico la storia è abbastanza intricata, ricca di colpi di scena e di cambi di fronte.
Personalmente rispetto a i romanzi di Raymond Chandler, direi che c'è un abisso, questo l'ho percepito più come un fumetto raccontato, una descrizione di scene unite insieme dalla storia, che è si, complessa ma non coinvolgente. E anche Sam Spade, è solo una bozza di quello che sarà Philip Marlowe, un personaggio davvero affascinante, integro ma corruttibile, seduttore senza sedurre, scaltro ma difensore dei più deboli...Un plauso però ad Hammett per avere creato questo genere nuovo che rimane una pietra miliare nel panorama dei gialli d'epoca

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Agosto, 2023
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Robin e Strike nel mondo dei social

Sesto volume della serie Cormoran Strike di Robert Galbraith (o J.K. Rowling che dir si voglia)
Che dire?
I romanzi gialli di Galbraith sono lenti a carburare, (come un diesel, che però quando è partito non lo fermi più fino a destinazione) ma poi ti prendono e non li lasci più, e alla fine ti senti anche un po' orfano.
Al di là della trama che tiene uniti tutti i romanzi di questa serie, cioè la storia/non storia tra Cormoran e la sua socia Robin, sempre avvincente comunque, il giallo non fatica a farsi sentire, anzi tra i vari intrecci e i personaggi, prende forma una storia affascinante e misteriosa e attualissima perché affonda le sue radici nei social. L'Autrice riesce a tenere le fila, come una magnifica burattinaia, di infinite e simultanee chat e mail di figure anonime che agiscono e tramano dietro uno schermo. Attraverso questa struttura all'apparenza difficile da seguire, la Rowling descrive uno spaccato della società moderna, fatto spesso di persone che dietro a un comunissimo portatile riescono a fare e dire tutto ciò che pensano senza limiti, pudore, etica e morale, soprattutto perché esenti da qualsiasi censura o controllo.
Lo spunto ha molto del personale, essendo stata lei stessa vittima di haters, che l'hanno addirittura ostracizzata per le sue opinioni espresse sulla comunità LGBTQ+.
La trama risulta articolata e complessa : A Denmark Street si presenta a Robin una giovane donna sciatta, trascurata, e spaventata che è l’ideatrice di “Un cuore nero inchiostro”, una serie animata seguita su Youtube e poi anche su Netflix. La ragazza, Edie Ledwell, vuole assumere lei e Strike perché scoprano chi è Anomia, un utente che la perseguita online e che aziona su di lei una vera e propria "macchina del fango" , tra fake news, insulti e informazioni riservate. Anomia è uno dei creatori di un gioco online che si basa sulla serie animata, che ha un suo discreto seguito grazie ad un fandom molto attivo.
L'agenzia però non può accettare il caso perché sovraccarica di lavoro e a corto di personale. Ma qualche giorno dopo Robin viene a sapere che Edie è stata uccisa e insieme a lei Josh Blay, suo ex e coautore della serie, è stato ferito gravemente. Inaspettatamente Robin e Strike vengono assunti dai parenti delle vittime per scoprire il colpevole dell'omicidio. E così i due protagonisti si addentrano abilmente nel mondo digitale fatto di chat private, di personaggi anonimi che ordiscono trame e delitti garantiti dall’invisibilità di una tastiera.
Un romanzo giallo e di forti connotati sociali, che consiglio vivamente a chi ha tempo e pazienza per entrare nel vivo della storia.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    25 Giugno, 2023
Top 100 Opinionisti  -  

Il linguaggio dei nostri tempi

Descrivere questo romanzo non è semplice.
La storia non è lineare, né logica, perché non è narrata ma si svela, man mano, attraverso lo scambio di innumerevoli mail tra i diversi personaggi del libro.
Il lettore qui è messo davanti a una dura prova di attenzione, perché deve capire ed intuire da solo, personaggi, luoghi, motivazioni e comportamenti, attraverso la lettura di tutte queste mail, e non ha altri riferimenti.
Ovviamente questo non è un giallo classico, è una storia che si dipana col linguaggio dei nostri tempi, perché inutile negarlo per la maggiore oggi si comunica attraverso mail o messaggi istantanei; ma è una storia che non manca di un delitto, di un assassino e di una buona suspence che ti porta comunque, anche se non proprio leggermente, fino alla fine.
Devo dire che a parte l'originalità dello stile, che io ho gradito perché comunque è un cerchio che si chiude in cui ogni tassello torna al suo posto, il libro mi ha coinvolto ; capisco che possa disorientare all'inizio, e che a volte può risultare pesante da seguire, ma i personaggi sono ben caratterizzati, e le motivazioni che li spingono sono quelle del nostro mondo, l'avidità, l'invidia, la gelosia, l'ipocrisia.
Un puro spaccato della nostra società.
Tutto questo anche se non ci tocca, perché vogliamo chiamarci fuori dal coro, comunque ci appartiene, perché appartiene a questo mondo e anche non volendo alla fine dobbiamo farci i conti.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    25 Giugno, 2023
Top 100 Opinionisti  -  

Delitto a Three Pines

Three Pines è un paesino, nella provincia francofona del Quebec, non lontano da Montreal, immerso nel paesaggio boschivo del Canada. In questo paese di pochi abitanti e dove tutti si conoscono avviene l'omicidio di un'anziana signora, amata in apparenza da tutti. La vittima, Jane Neal, è una maestra in pensione che dipinge e coltiva rose, trovata uccisa nella foresta da una freccia scoccata da un arco usato per cacciare cervi.
Ad indagare sulla sua ,morte è chiamato l'ispettore capo della Sûreté du Québec, Armand Gamache.

Natura Morta è l'esordio di Louise Penny, con Gamache come protagonista, il primo di una generosa serie, non tutta tradotta in Italia; ed infatti anche questo, proprio per motivi di traduzione, pur essendo il suo primo romanzo è stato pubblicato in Italia da Einaudi nel 2022.
Devo dire che il giallo è abbastanza carino se si riesce ad arrivare alla fine.
Come ambientazione mi ha ricordato molto i gialli di Fred Vargas. Gamache è un ispettore che sa pensare e lavorare in solitaria, come Admasberg, ma che conta molto anche sulle capacità dei componenti della sua squadra.
La trama è semplice e l'assassino non si intuisce solo perchè il movente del delitto è davvero debole.
Quello che proprio non mi ha convinto è lo stile, non so se sia un problema di traduzione, o della stessa scrittrice, anche se a dire il vero non ho letto altro di lei. Mancava di fluidità e scorrevolezza che per un giallo, al di la della trama, sono fondamentali, altrimenti rischi il colpo di sonno.
Vorrei poter leggere altro della stessa autrice per farmi un'opinione più precisa

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Romanzi storici
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    28 Aprile, 2023
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Dalla parte delle donne

Alba de Cespedes è una scrittrice italiana, di origine cubana, dei primi del Novecento, impegnata attivamente come partigiana nella lotta antifascista nel periodo della seconda guerra mondiale, Clorinda era il suo nome di battaglia. Nel 1944 fonda la rivista Mercurio, che si avvale di altre firme di scrittori importanti dell'epoca, come Moravia, Aleramo, Hemingway, tra gli altri. Quando Mercurio chiude,lei inizia a collaborare col settimanale Epoca, ma nel 1960 la sua rubrica, Dalla parte di lei, viene soppressa perchè secondo Enzo Biagi ha poco seguito.
La sua rubrica presso il settimanale prendeva spunto da un suo precedente romanzo, Dalla parte di lei, appunto, scritto nel 1949.
Il romanzo è narrato in prima persona, dalla protagonista, Alessandra Corteggiani, ed è il racconto della sua vita, nel periodo che va da poco prima della seconda guerra mondiale, passando per la guerra e la resistenza e la ricostruzione poi nel dopoguerra.
La stessa autrice lo definisce "la storia di un grande amore e di un delitto".
La prima parte del romanzo si sviluppa tutta intorno alla figura della madre, e nella descrizione di Alessandra dell'intenso sentimento che le unisce. In questa prima narrazione si denota fortemente la condizione della donna italiana dell'epoca , sottomessa all'uomo, al padre e poi al marito , una donna, il cui solo compito, che le si chiede e che è dovuto, è quello di accudire il marito che lavora, di fare i figli e di prendersi cura della famiglia; una donna che spesso si unisce in un matrimonio combinato e che non è libera di scegliere neanche chi amare.
"Gli uomini non hanno, come noi, tante sottili ragioni per essere infelici. Si adattano, gli uomini: sono fortunati"
Le donnne no, non si adattano.
E nel pieno della sua adolescenza Alessandra subisce una tragedia che le sconvolge la vita, il suicidio di sua madre, il primo atto di ribellione alla condizione femminile, l'unico possibile per lei in quel momento.
L'empatia o meglio la simbiosi con la madre le rende accettabile il gesto, fino a comprenderlo come l'estremo atto di libertà.
Da questo punto chiave si sviluppa la seconda parte del romanzo, dove Alessandra diventa una donna e cerca, a differenza di sua madre, la sua strada e di imporre le sue scelte alla famiglia. S'innamora e sposa un professore antifascista, con tutte le conseguenze del caso, perché il marito, Francesco, per il suo impegno politico viene prima allontanato dall'università e poi imprigionato. Alessandra ha la forza e il coraggio di sopportare tutto per amore ma quello che non può davvero accettare e a cui si ribella con tutte le sue forze è il declino di quell'amore, il fatto che quella passione intensa che aveva conosciuto all'inizio della loro relazione stia lentamente scemando in una tiepida gentilezza, con un bacio su una guancia, o con le paste alla domenica.
"Egli ormai non mi raccontava più ciò che sentiva a causa del suo amore per me: pensava forse che ormai fosse superfluo parlarne: e invece l'amore è proprio nel bisogno di esprimerlo continuamente e nel desiderio di udirlo continuamente espresso."
Alla sua insistente, ossessiva, richiesta di aiuto, il marito è sordo e sottovaluta il suo malessere. La delusione di Alessandra diventa disperazione e porta all'esasperazoine il sentimento che culmina in un raptus di lucida follia.
In questa seconda parte emerge la figura della donna che cerca, perchè è l'unico modo che ha, riscatto nell'amore che è al contempo la sua forza e la sua fragilità. Una donna, e con lei tutte le donne, che vuole essere ascoltata, guardata, stimata e rispettata al pari dell'uomo e che non accetta questa disparità e a cui si ribella con violenza.
In una lettera del 1994, quasi 50 anni dopo l'uscita del romanzo, l'autrice scrive "Posso dire che in una donna anche dalle vicissitudini più deludenti la forza dell'amore emerge sempre come da una fonte inestinguibile. Dalla parte di lei, pur nella sua tragica fine, voleva opporsi a che l'amore fosse una illusione."

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Romanzi
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    27 Febbraio, 2023
Top 100 Opinionisti  -  

la felicità è una predisposizione

Il libro si suddivide in 18 racconti brevi in prima persona, dei veri monologhi tutti rigorosamente scritti in discorso indiretto. Un caleidoscopio di personaggi, ognuno con il suo vissuto personale, facente parte di un'unica storia; persone apparentemente lontane ma che risulteranno poi strettamente vicine e collegate tra loro da legami di parentela, amore, amicizia o altro.
Il tema? Ovviamente la felicità o meglio l'infelicità in amore.
D'altronde con una tale premessa
"Felices los amados y los amantes y los que
pueden prescindir del amor.
Felices los felices."
JORGE LUIS BORGES

L'autrice punta sull'originalità della struttura del romanzo, come ho detto, i monologhi in discorso indiretto, che dovrebbero dare incisività e calcare la mano sulla profondità dei temi che affronta. Il tutto però, personalmente, risulta un po' confuso da seguire, perché pur essendo breve, 18 vite che si raccontano, diventa difficile per il lettore ricordarle tutte, specie nei dettagli, che invece sono essenziali per comprenderne la chiave di lettura. Ricorda un po' la stesura di una pièce teatrale, e non a caso, Yasmina Reza è una drammaturga.
Ernest Blot, è il personaggio chiave del libro, che funge da filo conduttore, perché tutti gli altri ruotano più o meno intorno a lui, anche se questo lo si intuisce solo alla fine del romanzo. Ernest è malato e la sua unica volontà è quella di essere cremato e le ceneri disperse in un corso d'acqua.
“Le cose sono fatte per svanire. Me ne andrò senza storia. Non troveranno né bara né ossa. Tutto continuerà come sempre. Tutto se ne andrà allegramente nella corrente"
Nel monologo di Ernest c'è tutto il senso del romanzo, il senso della vita e della morte, la realtà delle cose, e le "ridotte pretese" come essenza della felicità.
Dopodiché tutto il romanzo è pervaso da un profondo cinismo, non ironico, che avrebbe dato un po' di leggerezza, ma dissacratorio e senza speranza.
"Gli oggetti si accumulano e diventano inutili. E noi uguale."

L'amore non esiste e
"essere felici è un talento. Non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità".

La felicità è un'attitudine, una predisposizione, ed è felice, appunto, solo chi è felice di suo, perché fa parte del suo carattere.
Nonostante tutti i personaggi, descritti nei singoli capitoli, alla fine si riuniscono a causa di un evento drammatico, e si chiude il cerchio, anche nel finale ho avuto comunque la sensazione di un romanzo scollegato, freddo e distaccato, come se l'autrice si limitasse a raccontare, guardando dall'alto, senza passione. Di sicuro è un espediente tecnico, ma il risultato è che non riesce a coinvolgere neanche il lettore, che anche lui resta a guardare, un po' deluso e un po' disilluso.
Anche l'uso del discorso indiretto nei monologhi, anche questa una tecnica voluta per dare maggiore profondità al realismo dissacrante che permea tutto il romanzo, risulta, a lungo, pesante e poco appassionante.
Il libro vale senza dubbio la pena di essere letto, perché i temi toccati sono di una natura profonda, ma soggettivamente, il modo di trattarli, mi ha tenuta "lontana" dal romanzo, ho letto solo, anch'io senza passione.
"Non molto tempo fa, nella sala d’attesa del mio medico, una paziente ha detto questa frase: perfino la vita, a lungo andare, è un valore insulso. È vero che a fine corsa si oscilla fra la tentazione di opporre alla morte una risposta risoluta (di recente ho comprato una cyclette) e la voglia di lasciarsi scivolare verso un qualche luogo oscuro... "


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Romanzi
 
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Lonely Opinione inserita da Lonely    02 Febbraio, 2023
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Sono solo ragazzi...

Claudia e Valerio sono due amici che vivono, in un piccolo paese di provincia, a Martina Franca in Puglia. La loro turbolenta adolescenza viene ulteriormente sconvolta da una sorta di scandalo familiare, poiché la madre di Valerio diventa l'amante del padre di Claudia.
Claudia che per il padre ha un amore sviscerato, si avvicina a Valerio che, frequenta il suo stesso liceo, soprattutto per conoscere la donna di cui il padre si è innamorato e che le ha tolto quell'attenzione di cui aveva bisogno. Indagando insieme su questo amore, i due ragazzi diventano inseparabili e in particolare Valerio si sente irrimediabilmente attratto da Claudia. Dopo la maturità Claudia capisce che la vita in paese le sta stretta, che la soffoca e decide di spostarsi a Milano per lavorare. Valerio invece apre una piccola attività in paese, un agenzia immobiliare che gli dà soddisfazione a livello economico, fino a quando la criminalità locale non ci mette gli occhi sopra.
I due amici sono sempre in contatto, e Valerio è sempre attratto da Claudia e dal suo modo di vivere fuori dagli schemi, specie quando da Milano, per aver perduto il lavoro, si trasferisce a Berlino. Ed è a questo punto che decide di raggiungerla, e così chiude il suo negozio e parte per Berlino.
Il romanzo, più che di formazione è proprio uno spaccato generazionale (Per buona parte infatti l'ho sentito così distante da pensare di abbandonarlo) e più che una semplice storia di un'amicizia, racconta un dato di fatto: lo spaesamento (se non addirittura sbandamento) dei giovani d'oggi ; narra la mancanza di valori, di ideali, di sogni, e di punti di riferimento. La nostra società non gli permette di realizzarsi e definirsi, perché ancora troppo gretta e provinciale, perché non offre lavoro e quindi stabilità. E i giovani cercano di vivere la loro vita altrove, in qualunque altro luogo, tranne questo; Un posto che gli permetta di essere veramente se stessi, liberi dagli schemi e dalle convenzioni che impediscono quelle esperienze che formano il carattere e fanno crescere e diventare adulti.
Desiati, vincitore del premio Strega, si muove molto bene con una scrittura semplice e fluida, mai banale, cita spesso brani di letteratura e musica dando espressione anche al suo patrimonio culturale. Ma soprattutto sa di cosa parla, perché si intuisce che questo senso di sbandamento lo conosce molto bene
"Spatriato è il participio passato del verbo spatriare, che sta per andar via o, come dice la Treccani, cacciare dalla patria. In alcuni dialetti meridionali, tra cui il martinese, ha altre sfumature, come incerto, disorientato, ramingo, stordito, senza arte né parte, in alcuni casi persino orfano: patria deriva dal latino e significa terra dei padri, dunque lo spatriato può anche essere chi è rimasto senza padre, o chi non l'ha mai avuto."

Il romanzo sembra continuamente preannunciare un risvolto drammatico, fino alla fine, ma proprio il finale ci spiazza e ci regala un filo di speranza inaspettato: entrambi i protagonisti troveranno alla fine il loro posto, qui o altrove non ha importanza, l'importante è conoscere se stessi e capire dove si vuole andare, da li in poi la strada sarà più facile.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    14 Novembre, 2022
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Se il destino ti offre un'occasione

La serie del commissario Bordelli continua con questo settimo romanzo di Marco Vichi. Inserirlo nella categoria dei gialli è un po' riduttivo, senza nulla togliere al genere di cui sono appassionata, ma questo effettivamente è molto più di un giallo. Anche se l'impianto è più o meno lo stesso, a differenza di altri libri, qui Vichi non si ripete, anzi, pur mantenendo gli stessi personaggi, destruttura lo schema. La trama continua dal romanzo precedente, Morte a Firenze, in cui Bordelli scopre i quattro colpevoli di un delitto cruento ed efferato, ma non riesce a condannarli per mancanza di prove, prove che vanno perse con l'alluvione di Firenze, descritta amabilemte dall'autore.
In questo romanzo il commissario Bordelli, donnaiolo e seduttore, avverso all’ipocrisia e all’arroganza, ma soprattutto all'ingiustizia e alla sopraffazione, si dimette da commissario, e per timore che i suoi amici vengano coinvolti, (come lo è stata la sua donna, vigliaccamente stuprata, per dare a lui un avvertimento) si allontana da tutti, vende la sua casa a San Frediano e va a vivere in campagna e soprattutto, quando il destino gli offre l'occasione, decide di perseguire la sua vendetta personale.
Tutto il romanzo ha un'impronta etica, i dialoghi vertono sul Bene e il Male,su ciò che è giusto e ciò che non lo è. E' lecito farsi giustizia da soli? O è giusto il perdono? Ma certi atti possono essere davvero perdonati? E i colpevoli possono davvero pentirsi di aver compiuto tali delitti? Ma soprattutto un uomo ha il diritto di giudicare? e condannare? Non c'è una legge che "è uguale per tutti"? E li dove la legge non arriva, è lecita la nostra legge personale?
Di tutti questi interrogativi è pregno il romanzo, ma ciò che stupisce è che in genere i romanzi sollevano dubbi ma non danno risposte, qui invece Vichi azzarda la sua risposta, Io agisco e mi prendo la responsabilità delle mie azioni.
"Non poteva raccontare a nessuno il suo segreto, non ancora almeno. Ormai sapeva che sarebbe andato fino in fondo, e preferiva vivere quell’avventura da solo."
Il romanzo spazza tutti i principi morali che la fede, la religione ci hanno insegnato e mette in viva luce la vera natura dell'uomo, che senza di essi, libera una giustizia sommaria,del genere "occhio per occhio dente per dente", senza possibilità di appello.
"Aveva ragione Schopenhauer, il fondamento della morale era la compassione, l’immedesimazione con la sofferenza altrui. In mancanza di questo, l’orrore era inevitabile... E nel mondo la compassione era più rara di un cane a cinque zampe..."
Ovviamente non siamo senza coscienza, ma solo a quella Bordelli dovrà rendere conto, è una questione con se stesso e quello che lui chiama destino, anche se il destino non esiste quando fai di tutto per compierlo.
«Ecco... Se una persona per fare giustizia uccidesse degli assassini, e venisse a confessarsi da lei... Cosa risponderebbe?» «L’unica Giustizia è quella di Dio, a cui l’uomo non può sostituirsi.» «Certo... Ma immagini di trovarsi nel ’44, davanti a un nazista che sta per massacrare dei bambini... Lei ha un mitra in mano e può evitarlo... Cosa farebbe?» «Be’, sparerei...»
Il finale ci lascia completamente spiazzati, con una serie di interrogativi, che ci fanno riflettere intimamente sul senso di giustizia, un libro profondo dove nessuna parola o aneddoto narrato è lasciato al caso, e che tocca sensibilmente l'animo umano,
"Si ricordò anche di una storia che aveva sentito raccontare su Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz: una mattina d’inverno Höss vide un bambino ebreo tremare nella neve, e telefonò subito alla moglie... Oggi fa molto freddo, copri bene i bimbi, mi raccomando...!"

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Lonely Opinione inserita da Lonely    04 Novembre, 2022
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Chi non vorrebbe uccidere l'amministratore del con

"Indagare è un processo logico, ma raramente è la ragione a dare il primo impulso, semmai a farlo è più un'intuizione."
Ed è così che si muove Mario Fagioli l'ispettore chiamato in causa per investigare sull'omicidio di un amministratore, Michele Noci, di un condominio di proprietari agiati, ma non troppo.
Michele è nuovo all'amministrazione del palazzo, è anziano ma,nonostante sia sposato da anni, ancora si sente un galletto tra le vegliarde del palazzo, anche grazie alle pilloline blu,di cui fa largo uso.
Una mattina viene trovato morto in fondo alle scale del condominio, perfettamente vestito e composto.
A Mario Fagioli, ispettore ormai prossimo alla pensione, con un passato da poliziotto al quanto discutibile, vista anche la sua quasi totale apatia e indifferenza al lavoro,viene affidato questo caso, perchè sbrighi questa questione in fretta, dato che sembra che la morte sia accidentale.
In realtà interrogando i vari condomini, il portiere e l'ex giardiniere, troppe cose non tornano all'ispettore, che ha molti dubbi sulla morte dell'amministratore, non per ultimo lo stesso esito dell'autopsia da cui si evince che l'uomo ha inalato monossido di carbonio, ha ingerito stricnina, e ha ricevuto una bella botta in testa.
Dubbio amletico dunque, omicidio o incidente?
Il giallo è breve, leggero, abbastanza piacevole da seguire. I personaggi sono ben caratterizzati e lo stile è scorrevole.
L'autrice descrive molto bene il clima condominiale, forse esasperato ma verosimile, dove tutti si conoscono ma si fingono indifferenti, dove il pettegolezzo regna sovrano e la solidarietà è ormai fuori moda.
Il finale ha anche una sorta di morale,secondo la quale la legge non è sempre sinonimo di giustizia e spesso la verità è molto scomoda.
Tutto sommato una storiella ben congegnata da classificare più sotto la categoria di giallo-rosa, visto anche la leggerezza dei contenuti.

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Lonely Opinione inserita da Lonely    01 Novembre, 2022
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Il Persico

Il thriller di Dazieri si snoda su due binari paralleli, il presente e il passato . Una ragazza, Amala, viene rapita davanti al cancello della sua casa in pieno giorno, ma non viene richiesto alcun riscatto.
La polizia naviga in alto mare.
La zia della ragazza scomparsa, l'avvocato Cavalcante, si ritrova coinvolta in un indagine privata guidata da un personaggio alquanto ambiguo, un certo Gerry, forse una spia? un uomo dei servizi segreti? Il fatto è che l'uomo viaggia borderline, al limite della legalità, anzi oltre, e l'avvocato nonostante le sue remore non può che seguirlo se vuole ritrovare Amala viva. Nel frattempo si scopre che con la stessa modalità sono scomparse altre ragazze, e di alcune di loro il fiume ne ha restituito i corpi. Il modus operandi dell'omicida è lo stesso adoperato da un serial killer di trenta anni prima, il Persico. Solo che il presunto colpevole è stato arrestato dalla squadra di polizia di allora,capitanata da Itala Caruso, una donna a dir poco spiacevole, corrotta e omertosa, così come i suoi agenti, Dunque l'uomo arrestato trenta anni prima non era il colpevole? O c'è un emulatore?
La trama di questo libro è fitta e complessa, intrisa di tanti personaggi fortemente, anche se non apparentemente, legati tra loro, ma alla fine è un cerchio che si chiude perfettamente e tutto torna al suo posto.
Lo stile ricorda un po' Faletti o Carrisi, quello dei thriller di ampio respiro, che si possono svolgere in qualunque luogo, adatti anche a una sceneggiatura per un film, non a caso i libri di Dazieri sono tradotti in più di trenta paesi.
Il pregio di Dazieri sta nell'alternare perfettamente queste due storie parallele distanti nel tempo ma saldamente collegate e nel non far capire al lettore , fino all’ultimo, come, e soprattutto perché.
“Il male che gli uomini fanno sopravvive loro, il bene è spesso sepolto con le loro ossa”, questo l'incipit del libro,una citazione di Shakespeare , ed è anche ovviamente il senso della storia

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Lonely Opinione inserita da Lonely    01 Novembre, 2022
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Marcello, come here!

Giancarlo De Cataldo con questo suo ultimo giallo ci riporta negli anni sessanta, ai tempi della Dolce Vita a Roma. Il protagonista, Marcello Montecchi, è un affascinante giornalista e inguaribile seduttore e ricorda il bel Marcello Mastroianni del film di Fellini. Il romanzo, infatti, è pieno di chiari riferimenti al film, tra tutti la famosa frase pronunciata da Marcello a proposito di Roma «A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene.»
Il nostro reporter è un assiduo frequentatore della vita mondana e delle tante aspiranti attricette italiane e non, che passavano per Roma, in quell'epoca, come meteore alla ricerca di un regista che le rendesse famose. Una di queste, Greta, vecchia conoscenza di Marcello, muore, accoltellata,sul pianerettolo di un palazzo nei dintorni di via Veneto. Il direttore del giornale affida a Montecchi la cronaca di questo caso che per qualche tempo suscita un forte scalpore, ma che finirà nel dimenticatoio, nonostante l'interesse strettamente personale del giornalista che farà di tutto per arrivare al colpevole, anche dopo tanti anni.
Ispirandosi a un vecchio caso avvenuto nella capitale, De Cataldo ci narra vizi e virtù di una Roma seducente e misteriosa, di un ambiente, quello cinematografico e politico, ambiguo e abile a nascondere "la cenere sotto al tappeto".
Con la sua prosa semplice ma incisiva il romanzo si legge con piacere e riesce a trasportarti dentro la storia di una Roma passata, abbagliata dai flash delle macchine fotografiche e dalla celebrità a tutti i costi.
Alla fine è facile immaginare di essere in una di quelle notti calde romane a fare un bagno nella Fontana di Trevi al posto di Anita Ekberg e a gridare «Marcello, come here! Hurry up!».

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Lonely Opinione inserita da Lonely    12 Ottobre, 2022
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la mar

Hemingway scrivendo questo racconto breve, il vecchio e il mare, pubblicato nel 1952, prende spunto da una storia vera che gli viene raccontata, dagli abitanti di Cojimar, un villaggio di pescatori vicino a L’Avana.
Santiago è un vecchio pescatore con tanta esperienza e poca fortuna, 84 giorni in mare senza prendere un solo pesce. Manolin il ragazzo che lo aiuta e pesca insieme a lui è costretto a lasciarlo per un'altra barca più fortunata della sua. Così, l’85simo giorno, quello giusto, Santiago esce all'alba in mare da solo anche se “nessuno era mai solo sul mare" e prende il largo per tentare la sorte, e la fortuna finalmente abbocca: aggancia un Marlin così grosso che però , per sfuggire alla cattura, lo tira con sé portandolo in alto mare in mezzo all’oceano, per tre giorni e due notti.
Qui inizia la sua lotta, quella che affronta per non soccombere, quella per dimostrare di essere ancora bravo e utile, nonostante sia vecchio e sfortunato.
Una lotta ad armi pari, espressa dalla forza fisica e dalla volontà.
Santiago è ostinato e nonostante le avversità e la stanchezza vuole a tutti i costi, anche quello di morire, riportare a casa il Marlin più grosso che abbia mai sognato.
Una lotta oltre i suoi limiti, tenace e resiliente, la cui morale è evidente: non arrendersi mai neanche davanti alle avversità, pur sapendo che alla fine il risultato sarà gramo.
L’altro grande protagonista di questo romanzo è il mare, la mar, “come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte chi lo ama ne parla male, ma sempre come se fosse una donna”, “che se si comportava brutale e spietato era perché non poteva farne a meno. Subisce l’influenza della luna come una donna.”
Il mare è il perno del racconto, è il luogo in cui l’uomo incontra la natura e con la quale allo stesso tempo, paradossalmente, si scontra. “Allora il pesce tornò in vita, recando in sé la sua morte, e si librò alto fuori dall’acqua mostrando tutta la sua grande lunghezza e larghezza e tutta la sua forza e la sua bellezza”.
Un altro grande tema della storia è il tempo, il tempo si dilata, sembra interminabile, ma in fondo tutto si svolge in tre giorni e due notti, che però sembrano non finire mai. La battaglia è così sfiancante, che diventa straziante, perché è la vita contro la morte.
Molti sostengono che questa battaglia sia, appunto, una grande metafora della vita, ma Hemingway stesso invece asserisce che il simbolismo non esiste, che è solo “un trucco degli intellettuali" e che invece sono gli uomini semplici con i loro pensieri e le loro azioni ad emozionare. E che questo è solo un racconto di quelli che i pescatori amano fare al rientro in porto la sera con i loro amici davanti a una bottiglia e tanti bicchieri.
Ed ammesso che sia solo questo, Hemingway racconta quello che sa, ma lo fa con maestria e leggerezza in un atmosfera così coinvolgente che anche chi non conosce la materia ne rimane affascinato.
Il libro, edito dieci anni prima della sua morte, è l'ultima opera di Hemingway, che, come scrisse al suo editore, «gli pareva potesse fare da epilogo a tutto quello che aveva imparato o aveva cercato di imparare mentre scriveva e cercava di vivere».

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Lonely Opinione inserita da Lonely    08 Ottobre, 2022
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L'Orient Express

Il treno per Istanbul , di Graham Greene, è stato scritto nel 1932 un anno prima del famoso Orient Express di Agatha Christie . È annoverato nella categoria dei gialli ma non ne ha le caratteristiche; è piuttosto un romanzo sociale e politico a cavallo tra le due grandi guerre. La prima parte del libro è tutta dedicata alla presentazione dei personaggi che ne fanno parte, pochi in verità, ognuno con la propria storia personale. Una prima parte molto caotica, lenta e a tratti anche noiosa, con la rappresentazione di questi viaggiatori, del treno che da Ostenda attraversa l'Europa per arrivare a Costantinopoli. I soggetti di questo viaggio sono stereotipati, e forse anche datati (nonostante molti giudichino il romanzo molto attuale): la ballerina facile di costumi, l'ebreo ricco, il comunista disilluso, la giornalista pronta a tutto per uno scoop, lo scrittore vanesio a caccia di fama e il delinquente che la scampa sempre.
La svolta arriva quasi a metà libro, dove finalmente si percepisce una certa suspence , ma in poche pagine la storia raggiunge il climax e in altrettante svanisce, lasciando una sorta di amaro in bocca difficile da digerire.
Un racconto pervaso da un profondo cinismo, con personaggi opportunisti che badano solo al proprio tornaconto personale; pochi si salvano e sono quelli che si distinguono perché mossi giusto da una minima solidarietà umana ,che, nel confronto, stupisce persino il lettore, che si è già arreso perché capisce di non avere spazio per la speranza, ed infatti il finale non lo delude.
Alcuni dialoghi sul socialismo o le battute sulla razza sono preziosi perché preannunciano in una specie di premonizione quello che poi sarà il futuro reale. E qui sta il merito dello scrittore, aver intuito quell'orribile futuro ed averne sottolineato i segnali. Quasi profetico il momento in cui il soldato nonostante il disgusto e la disapprovazione esegue senza obiettare l'ordine del Maggiore.
Per Greene questo è il suo quarto libro ed anche se lui lo definisce un "divertissement" , vi assicuro che non diverte neanche un po', ma sarà poi quello che gli darà la notorietà .

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Lonely Opinione inserita da Lonely    03 Ottobre, 2022
Top 100 Opinionisti  -  

Grana, una filosofia della vita

Pietro in estate è solito andare in vacanza in montagna con la sua famiglia nel paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa . Sin da piccolo il padre lo porta sempre con sé a scarpinare per sentieri e a raggiungere la cima. Mentre il padre è eccitato e orgoglioso di queste imprese, Pietro si sente annoiato e immotivato, ma fa presto amicizia con Bruno un ragazzo del luogo e con lui esplora un nuovo modo di conoscere la montagna, spericolata e avventurosa, quella con gli occhi di ragazzo. Bruno diventa uno di famiglia e spesso scalano insieme anche al papà di Pietro.
Quando però Pietro raggiunge l'età dell’adolescenza sceglie di non seguire più il padre e visto che Bruno è impegnato a lavorare, lui inizia ad andare in montagna con altri amici e scopre che gli piace arrampicare più che camminare. Da quel momento le loro strade si dividono. Pietro si stanca di andare in montagna col padre e rinuncia completamente alle estati a Grana, e Bruno prenderà il suo posto.
Anni dopo il padre di Pietro muore all’improvviso accasciato nella sua macchina per un infarto. Pietro ha ormai intrapreso la sua strada di documentarista e gira per il mondo, ma deve tornare per l’eredità , il padre infatti gli ha lasciato un terreno in montagna ,”Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino “. Così torna al luogo delle sue vacanze giovanili e riprende l’amicizia con Bruno, e insieme su quel terreno impervio costruiscono una piccola baita in onore del padre che useranno poi entrambi come rifugio d’estate e d’inverno.
Il romanzo di Cognetti è una bella storia d'amore e di amicizia: un grande amore per la montagna con tutte le sue insidie, e la grande amicizia tra Pietro e Bruno.
«Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa.»
Secondo i nepalesi, al centro del mondo ci sarebbe una montagna altissima, il monte Sumeru, e intorno al Sumeru otto montagne e otto mari, disposti come i raggi di una ruota. La domanda che si pongono i nepalesi è: “Chi impara di più? Chi fa il giro delle otto montagne o chi arriva in cima al monte Sumeru?”.
Ed è proprio la risposta a questa domanda che ci fa capire le differenze tra Pietro e Bruno.
La storia è semplice, autobiografica ma intimistica e coinvolgente. Tre uomini differenti con un’unica passione , la montagna. Uno, il padre, che ama sfidarla, un altro, Bruno che la ama perché è l’unico luogo che conosce e dove vuole stare, e Pietro che la ama così tanto “che da lì mi era nato il desiderio di vedere le più belle e lontane del mondo.”
Grana per loro è un altro mondo, lontano dalla routine quotidiana del mondo moderno, e soprattutto lontano da quel turismo consumistico che la sta rovinando:
E’ natura nella quale immergersi, è rispetto per essa è capirne il pericolo e sapere che a volte, pur essendo esperti, è solo fortuna averlo evitato. E’ il gelo della neve d’inverno, è la pioggia incessante o il sole a picco, e nonostante tutto è avere il desiderio, più che di arrivare, di godere della fatica per l’impresa e di sentire che solo così stai bene con te stesso.
E’ avere il piacere di una vita frugale, con pochi elementi, ma essenziali, in cui ti basta un tetto, un bicchiere di vino, un pezzo di formaggio e un amico vero per essere felice.
Ma anche per avere “solo” questo devi avere un contatto col mondo, ed è proprio questo che contamina tutto. Il mondo che ti aspetta là sotto è la vera insidia, il tuo vero fallimento, quello nel quale non ti sei mai integrato, al punto di abbandonarlo o di rifiutarlo;
il mondo per il quale, paradossalmente, sei fuori dal mondo.
Ma è davvero così?
Una riflessione e un interrogativo che nasce spontaneo dopo la lettura di questo libro, così semplice e allo stesso tempo con un messaggio così potente.
“Uno deve fare quello che la vita gli ha insegnato a fare. Forse quando è molto giovane, chissà, può ancora scegliere di cambiare strada. Ma a un certo punto uno dovrebbe fermarsi e dire: bene, questo sono capace di farlo, quest’altro no.”

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Lonely Opinione inserita da Lonely    26 Settembre, 2022
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Il Conte Cimamonte

Il Duca è l'ultimo erede di un casato ormai estinto, I Cimamonte. In realtà il suo titolo nobiliare sarebbe Conte, ma a Vallorgana tutti lo chiamano il Duca, un titolo anch'esso ereditato da suo nonno per il quale «la gente di Vallorgàna ritenne che il titolo di conte non rendesse giustizia a una tanto grande nobiltà. E se marchese era troppo poco e principe era forse troppo, duca, invece, faceva al caso».
I suoi genitori, dopo un luttuoso incidente in Kenia, lo lasciano erede di un patrimonio consistente, tra cui una villa immensa con tanto di ettari di bosco a Vallorgana, appunto, nella Val Fonda, proprio dove lui decide di ritirarsi a vivere.
Nelso, il tagliaboschi che si occupa anche di tagliare gli alberi nella proprietà del Duca, un giorno va a fargli visita per avvertirlo che un confinante, ha sconfinato appunto, e ha raso al suolo alberi per tre ettari e mezzo di terreno appartenenti al Duca.
E' Mario Fastreda colui il quale ha il terreno al limitare con quello del Duca e che ha bisogno di altri ettari di terra disboscata per costruire una strada e una malga, per gli alpeggi del suo bestiame e per scopi turistici, visto che molti avventori ora usano fare passeggiate in montagna e ristorarsi nei rifugi raggiunti. Questo è il motivo apparente per cui Fastreda ha sconfinato nel terreno accanto, adducendo il fatto che dato che quei terreni sono rimasti abbandonati per anni, per uso capione gli appartengono.
Il Duca che fino ad allora era vissuto quasi isolato dal resto del mondo immerso a contemplare la natura ha un moto d'orgoglio e come si risvegliasse da un lungo torpore, risponde alle provocazioni, e così si mette in moto una faida che ha un'escalation anche violenta, che alcuni, come il prete del paese e lo stesso Nelso, tendono a quietare tirando in ballo il buon senso e l'animo nobile del Duca, altri invece alimentano parteggiando per l'uno e ostacolando l'altro.
«Come hai potuto dimenticare, mi dicevo, che la discordia, indossando le sue mille maschere, è qui intorno che volteggia? Non sapevi forse che la discordia non dorme? Che sa aspettare. Che non si distrae. Che ha sempre il fine ben chiaro. E poi, anche di questo avresti dovuto essere bene al corrente, la discordia è sempre pronta a sguinzagliare il caso, che tra le frecce al suo arco è quella più velenosa. E questa freccia, il caso, per conto della discordia, predispone fili e poi li imbroglia, sperimenta le intersezioni piú improbabili, s’inventa trame, sovrappone, accosta, divide, strabilia e da ultimo inchioda.»

Il Duca non si spiega però tutto questo astio e rancore, e vuole approfondire e scoprire il vero motivo di tanto odio, e così, studiando le origini della sua famiglia e le gesta dei suoi antenati casualmente scopre la causa dell'odio di Fastreda.
«Cosa vuoi», mi disse Nelso. «L’odio è così. È un sentimento potente. Anzi: il più potente di tutti. Non ha mica ragioni precise. È una roba che uno ha dentro. Puoi scavare fin che vuoi, andare avanti e andare indietro, ma il motivo non c’è. L’odio sta là, dentro di me, dentro di te, dentro di tutti. Questa è la verità».

Ma il romanzo è ben altro: è sentimenti, è odio e amore, rancore e pregiudizio, invidia e gelosia, orgoglio e coraggio;
è un elogio alla natura, alla sua forza e alla sua bellezza, che incute pace e timore, perché non la si conosce mai abbastanza.
E' lotta di potere e lotta di classe «Disse che io, Cimamonte, sarei comunque un figlio della cultura dei pochi; e che lei, nipote di Fastréda, sarebbe invece figlia della cultura degli ultimi. E ancora: che la cultura dei pochi è quella di chi, per mezzi e tradizioni, vive in un mondo di pensieri dal quale i piú sono esclusi; e che la cultura degli ultimi, la quale, fatalità, sarebbe anche la cultura dei piú, è quella di chi, giorno per giorno, deve subire la vita, indirizzandola con il metro del buonsenso."
Ma la storia è soprattutto una ricerca nel passato, un indagine sulle radici, sulle origini, perché nel passato risiede la verità.
Perché noi siamo oggi ciò che i nostri avi erano allora.
E non mancano le solite irrisolte questioni filosofiche: siamo il frutto della nostra stirpe o dell'ambiente che ci circonda? E il Duca, in perenne conflitto, nell'essere se stesso o essere come i suoi avi si aspettano che sia, si domanda, siamo sangue o aria?
«È l’aria che conta, urlai perciò alla voce del mio pensiero, non il sangue. E non parlo affatto dell’aria chimicamente scomponibile, e misurabile, e valutabile nella sua maggiore o minore salubrità, ma dell’aria che si respira nella vita che si vive, del piú potente tra gli elementi, del soffio senza sonno che opera giorno e notte, che conforma, orienta e decide. Ma come potevo non sapere, disse allora la voce del mio pensiero, che i veri sapienti hanno oggi scientificamente dimostrato che prima di tutto conta il sangue? O per meglio dire gli equivalenti evoluti e progrediti e perfezionati del sangue stesso, e cioè la molecola biologicamente trasmissibile, il gene, il cromosoma.»
E allora siamo davvero liberi nelle nostre scelte? Davvero liberi dal vincolo del sangue? Quanto influisce il nostro passato sulla nostra vita e sui nostri comportamenti? E soprattutto quanto dobbiamo rimanere fedeli ad esso?
Il Duca è un libro che ti affascina sin dalla prima pagina e che divori fino all'ultima, trascinandoti dietro una serie di riflessioni e sensazioni che ti rimangono dentro, la libertà di scelta, la storia che svela la verità, il senso della vita, la grandezza della natura e le piccole meschinità umane.
La prosa di Melchiorre è semplice e colta e con una sottile vena ironica e accattivante ci catapulta in un mondo sconosciuto dal quale risulta difficile staccarsi.

«Eccolo. Questo è il luogo. Vallorgàna. Ed è uno di quei luoghi, e se nel mondo siano tanti o pochi non saprei, che sono cani e sacri al tempo stesso, i quali, una volta che se ne sia vinta l’ostilità naturale, hanno la forza inspiegabile di possedere loro le persone, e non viceversa. Luoghi simili hanno una natura gelosa. Pretendono una fedeltà totale. E cosa danno in cambio? Una libertà maiuscola magari, ma arrivarci sarà forse un calvario. Tu non puoi sapere se chi resta abbia vinto o abbia perso. Sai però che questo luogo ti ha preso: il che significa che gli appartieni e, paradosso, che ti appartiene. Deve essere una specie di fusione, di con-fusione se preferisci. E se alcuni, com’è evidente, non avvertono minimamente questo bisogno di con-fondersi in un luogo, e ciò nonostante, o forse proprio per questo, vivono beati, altri, che il luogo vorrebbero invece trovarlo, girano tutta una vita come dispersi e infelici, cercando sempre senza trovare mai.»

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Lonely Opinione inserita da Lonely    23 Settembre, 2022
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Vedi Napoli e poi muori

Alla morte della madre Peppino e Raffaele vengono separati e Raffaele, il più piccolo dei due fratelli, affidato ai servizi sociali. Da quel momento ognuno segue la propria strada finché un giorno il destino torna ad incrociarle.
Raffaele è diventato parroco della basilica di Santa Maria alla Sanità, lo stesso quartiere dove ha vissuto da piccolo insieme a sua madre a suo fratello e a suo padre, che entrava e usciva di prigione per reati di poco conto.
La Sanità è un «quartiere nato per guarire». La sua posizione , situato alle falde di Capodimonte, e la sua natura incontaminata, una «rigogliosa vegetazione, sorgenti e fonti d’acqua, lo rendeva particolarmente salubre». Era stato anche luogo di miracoli e di guarigioni, e per questo motivo inizialmente accolse importanti famiglie nobiliari e borghesi della città , ma poi col passare del tempo è diventata una delle zone più popolari di Napoli.
La costruzione del lazzaretto e poi della fossa comune per seppellire i morti per la peste, cambiò totalmente le sorti del quartiere. E divenne un quartiere di «morte» e di morti, con le catacombe e il cimitero delle Fontanelle.
«La terra salubre si era trasformata in un immenso cimitero.»
E i poveri presero il posto dei ricchi e s'insediarono nel rione, e con tutte le loro esigenze, aspettarono uno Stato che invece non era presente, dando spazio alla malavita, che almeno dava di che vivere.
Padre Raffaele, ricorda bene quel quartiere, anche se lo ha lasciato da bambino, ma nessuno invece si rammenta di lui, perché Raffaele è stato adottato e ha cambiato cognome.
Tramite anche la sua perpetua, comincia a conoscere tutti i suoi fedeli, e scopre che suo fratello Peppino vive ancora li, che insieme alla moglie aspettano un bambino, e che è diventato il boss del rione. Raffaele e Peppino, due uomini che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro, il bene e il male. Ma il richiamo del sangue è forte, quasi violento e li unisce ancora, nonostante il vissuto e l'educazione siano così profondamente distanti.
Raffaele ha un carattere docile ma allo stesso tempo irruento, e il legame con quel posto e con la sua famiglia rinvigorisce, e diventa sempre più intenso col passare dei giorni.
In questa «sotto» trama, che già da sola vale un bel romanzo, Anna Vera Viva innesta il suo giallo, Renato Capece, poliziotto corrotto e violento che fa il bello e il cattivo tempo nel quartiere, viene ucciso. La curiosità di Padre Raffaele e la paura, che suo fratello possa essere coinvolto in questo omicidio, saranno la sua forza e lo aiuteranno a svelare il colpevole.
Ma come accennato il giallo è solo un pretesto della scrittrice per raccontare la sua Napoli, e la sua maestria sta proprio nel modo di raccontarla. Anna Vera Viva riesce a farcela «sentire» , i suoni, i rumori, i volti, la luce sono così vivi da rapire il lettore. Per non parlare della gente che descrive, intrisa di umanità e solidarietà e di un bisogno, che sono così veri da percepirli reali come in effetti sono, una palese denuncia di una società abbandonata a se stessa, e che si arrangia come può.
L'autrice racconta quello che vede di una Napoli sua solo d'adozione, ma l'orgoglio e il risentimento sono gli stessi di chi a Napoli è nato e cresciuto e la ama nonostante tutto. Un'analisi obiettiva di una città bella con tutte le sue contraddizioni e che per vederla veramente occorre guardarla con altri occhi, e andare oltre i luoghi comuni di pizza sole e mandolino, squarciando quel velo solo apparentemente omertoso, che poi invece si rivela solidale, (sempre pronto a offrire aiuto a chi ne ha più bisogno), e ribelle a un destino invece a volte ineluttabile.

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