Opinione scritta da FrancoAntonio

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    27 Gennaio, 2025
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Lyra e Will alla resa dei conti (finalmente!)

Lyra è stata rapita da sua madre, la signora Coulter, e viene tenuta nascosta e sedata in una grotta di uno dei tanti mondi paralleli a cui si può accedere dalle finestre aperte grazie alla “lama sottile”, il coltello super-affilato che squarcia i diaframmi di separazione. Will, il portatore della “lama”, accompagnato da due angeli di grado inferiore, la sta cercando tra i vari mondi anche se è atteso da lord Asriel che vorrebbe entrare in possesso del coltello.
La ricercatrice Mary Malone, l’unica che aveva compreso l’importanza di ciò che sapeva e poteva fare Lyra, è fuggita dal nostro mondo e si trova in un altro universo popolato da esseri alieni dall’aspetto bizzarro, che corrono su ruote e manipolano la natura con una proboscide multiuso. Tra questi miti esseri lei riesce a costruirsi uno strumento che le permette di vedere la Polvere, la misteriosa sostanza che sembra circondare tutti gli esseri senzienti, e che ormai pare catturata da un flusso inarrestabile che la trascina via da tutti gli universi.
Nel frattempo Lord Asriel si sta predisponendo alla battaglia finale che lo contrapporrà all’Autorità, quest’ultima arroccata nella misteriosa Montagna Annuvolata. La Corte Concistoriale, da un lato, fornisce truppe da contrapporgli nello scontro finale e, dall’altro, sta sguinzagliando i suoi sacerdoti e militari per rintracciare e sopprimere Lyra, prima che la ragazzina “cada in tentazione” come una novella Eva e, con il suo peccato, come raccontano le profezie su di lei, influisca negativamente sulle sorti finali dello scontro.
Una serie di eventi imprevedibili e una pericolosa e arrischiata iniziativa di Lyra e Will, alla fine, porteranno all’instaurazione di un nuovo ordine universale.

Confesso che sono partito molto prevenuto contro questo terzo e conclusivo libro della saga “Queste oscure materie”; al punto che è restato intoccato per mesi. Infatti mentre il primo volume, pur con tutti i dubbi suscitatimi, mi era apparso abbastanza interessante, già il secondo romanzo aveva abbondantemente evidenziato i difetti della storia così com’era stata concepita. Quindi dubitavo che un colpo d’ali potesse risollevare la sorte di questa trilogia. Però, onestamente, pur nel mio pessimismo, non mi sarei aspettato di trovarmi a leggere qualcosa di così brutto, insulso e barboso. Tra l’altro insopportabilmente lungo e arzigogolato e affastellato di vicende a fatica legate o logicamente collegabili tra loro.
Pulmann ha infarcito questo nuovo romanzo di nuovi mondi, nuovi personaggi, nuove creature, alcune davvero strambe, nuove intricate vicende e balzane invenzioni nella speranza di ravvivare l’intreccio, senza rendersi conto che una minestra, se è poco sostanziosa di partenza, non migliora le sue qualità solo aggiungendovi spezie a profusione.
Vorrei precisare che la cosa che mi ha dato più fastidio non è stato l’ateismo militante e predicante che permea tutta la storia: riconosco a ognuno il diritto di pensarla a modo suo e di esprimere le proprie idee in assoluta libertà. Magari, solo, in un libro, sarebbe buona creanza preavvertire i lettori (soprattutto se giovani) delle proprie intenzioni e non tendergli un agguato sorprendendoli a metà lettura. Ma questo è solo un dettaglio marginale.
Preso atto, però, che il ciclo “Queste oscure materie” non dovesse essere solo una immaginosa storia fantasy con avventure in luoghi mirabolanti ed eroi dotati di strumenti magici portentosi, ma, al contrario, si prefiggeva di diventare un manifesto anti-religioso e, più precisamente, anti-cattolico, almeno sarebbe stato gradito che la costruzione fosse solida, ben costruita, con argomentazioni logiche e uno sviluppo strutturato in modo da creare un legame empatico con i personaggi e da attrarre con le peripezie da essi vissute. Non ho trovato nulla di tutto ciò. Non è sufficiente, infatti, assemblare disordinatamente vicende, eventi, trovate strane per costruire un’avventura letteraria nella pretesa che quell’unione determini un qualcosa di organico e, soprattutto, visto che si vuole proporre e difendere una tesi di cotanto valore simbolico, efficace e persuasivo.
Nell’insieme, questo terzo romanzo risulta poco interessante, non emozionante, né avvincente.
Mi spiego. È poco interessante perché, in fondo, non è chiara la meta che si vuole raggiungere con questa storia o il messaggio che si vuole lanciare, ammesso che ce ne sia uno, al di fuori dell’affermazione, ripetuta sino allo sfinimento, che la Chiesa sarebbe brutta, sporca e cattiva.
Anche il finale appare totalmente arbitrario e assurdo perché si basa sull’assunto, vecchio come il mondo e altrettanto vacuo, che “omnia vincit amor”. Ma cos’ha di speciale quell’unico, particolare amore adolescenziale dei protagonisti che mancava ai milioni di milioni che lo hanno preceduto? Perché è così singolare da stravolgere l’ordine universale delle cose? Non ci viene spiegato in alcun modo. Da qui l’assoluta supponenza e apoditticità dell’intero costrutto narrativo che oltre a rasentare il ridicolo risulta totalmente acritico. E, poi, a prescindere dalla love story infranta tra Lyra e Will, che ne è del resto dello scontro epocale tra Ordine religioso costituito e Schiere di angeli ribelli? Se, come pare di capire, l’Autorità è una entità fungibile con altre ad essa simili, perché la sua scomparsa dovrebbe mutare l’assetto dei mondi? Come dice il proverbio: “morto un papa se ne fa un altro, e quindi?
Non è emozionante perché le disavventure dei protagonisti vengono raccontate con uno stile piatto e non coinvolgente e, anche quando si cerca di tirar fuori dal cappello qualche vicenda particolarmente movimentata, alla fine le parole non riescono a rendere il senso dell’azione e più che trepidazione ed empatia suscitano sbadigli.
Di conseguenza l’insieme non risulta neppure avvincente, ma anzi, in molti passaggi, si rivela tedioso e irritante con troppe parole spese per descrivere qualcosa che, forse, con meno inchiostro versato, sarebbe stato possibile rendere con più efficacia. Oserei affermare che ci sono interi capitoli più noiosi e deprimenti dello stesso Mondo della morte che l’A. s’è inventato per infilare Lyra e Will in un’improbabile impresa salvifica per tutti i defunti. Ho dovuto far violenza a me stesso per limitarmi a saltare la lettura di qualche periodo, di pochi paragrafi e non di interi capitoli e per giungere all’epilogo della storia.
La cosa che più mi ha irritato è il tono presupponente, presuntuoso e supponente con il quale vengono narrati i fatti come se l’A. avesse scoperto una sconvolgente nuova “buona novella” e volesse farne partecipe l’intera umanità, ma senza condividere con essa i meccanismi che la azionano e motivano. Nella storia avventurosa troviamo miscelati considerazioni filosofiche, teorie scientifiche, (ahimè, mal comprese e peggio esposte), estrapolazioni metafisiche e dogmi religiosi o confutazione degli stessi, tutti grossolanamente miscelati in un unico calderone, ma non amalgamati in esso, con il risultato di ottenere una broda difficilmente digeribile.
Anche l’intreccio in sé fatica a dipanarsi tra i paragrafi. Con una assiduità degna di miglior causa, spesso situazioni aggrovigliate, confuse e, apparentemente, irrisolvibili in cui è stato infilato questo o quel protagonista, vengono sbrogliate dall’apparizione di improbabili deus ex machina tirati fuori a casaccio, all’ultimo momento, senza una minima giustificazione, senza una vera logica narrativa. Altrettanto ingiustificati sono i subitanei mutamenti di carattere e inclinazione di questo o quel personaggio che, come novello S. Paolo sulla via di Damasco, si redime con eclatanti sacrifici personali per la salvezza complessiva, ma nell’assoluta incomprensibilità del gesto.
Non parliamo poi della coerenza e logicità non solo di certi ragionamenti, ma pure di certi passaggi. Un paio fra tanti: com’è possibile che esseri definiti, espressamente e ripetutamente, immateriali, come, ad esempio, gli angeli – inconsistenti e privi di massa corporea al punto che gli umani li trapassano e attraversano come fossero fatti di nebbia – a un certo punto, quando la narrazione lo rende conveniente, diventano corporei e possono essere abbrancati e stretti in una presa in stile wrestling o, al contrario, riescono a spingere col loro solo peso qualcuno sott’acqua fino a farlo affogare? Evidentemente l’A., preso nella foga della propria narrazione, s’è completamente dimenticato di cosa aveva scritto solo poche pagine prima.
Ugualmente, ci è stato detto sin dalle prime pagine del romanzo d’esordio, che gli esseri umani dotati di daimon non possono essere allontanati dal proprio compagno in forma d’animale pena una morte straziante con parallela gran liberazione d’energia, come, per l’appunto, accaduto a Roger nel primo volume. Ora, però, Lyra si permette di passare da un mondo all’altro abbandonando il suo Pantalaimon disperato sulla riva di un fiume infernale, senza danni materiali superiori a una afflizione esistenziale intima. La spiegazione abborracciata, che viene data solo molto dopo è più una mesta pezza per una chiara contraddizione che una seria motivazione.
Per non spoilerare troppo la trama non mi dilungherò a criticare certi personaggi, al limite della comicità involontaria, o certe rappresentazioni che appaiono blasfeme pure a chi religioso non è. L’A. nei ringraziamenti, ci confida di aver preso ispirazione per la sua storia dal “Paradiso perduto”. Beh, il povero Milton si dev’essere ben agitato nella sua tomba per questa sua responsabilità postuma.

Insomma, il giudizio finale, che, a questo punto, va esteso a tutta la trilogia, è il più negativo possibile. L’insieme è risultato al mio palato davvero indigeribile e sgradevole e mi rammarico di aver preso in mano il primo volume animato da ben diverse speranze. La cosa che più mi stupisce è il relativo buon successo di pubblico e critica che ha ottenuto la trilogia e il fatto che, al di là dei comprensibili attacchi di tipo religioso, nessuno abbia evidenziato mai la pochezza letteraria dell’opera.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Gennaio, 2025
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Il defenestrato di Pineta e gli usi civici

Grandi novità a Pineta. Il piccolo paesino della riviera toscana ha cambiato la sua giunta e, in contrasto con quanto era avvenuto nei decenni precedenti, hanno vinto i partiti di destra. Amperio e Pilade sono disperati e si vedono già attorniati dalle camicie nere e dai fasci littori. Gli altri due vecchietti del Bar Lume sono, come al solito, di avversa opinione.
Nel frattempo, però, il vice-questore Alice, compagna del "barrista" Massimo e madre della loro primogenita Matilde, si trova per le mani un caso spinoso. Un giovane studente, che stava preparando la tesi per il dottorato alla Normale di Pisa, è precipitato davanti al municipio del paese, con tutta evidenza facendo un volo, non richiesto, da una delle finestre dell’edificio.
Direttamente o indirettamente coinvolti, oltre ai pochi impiegati presenti nel palazzo durante quella notte, un esimo barone dell’università toscana (relatore del defenestrato) e un nobile ultra-decaduto la cui famiglia, sino a qualche decennio prima, era proprietaria di una tenuta, il Bosco Torto, che ora è oggetto di accese battaglie politiche in vista della sua probabile vendita a una multinazionale.
Così, mentre i vecchietti, una volta tanto, sono più attratti dalla pupattola appena nata che dalle indagini di polizia, e Massimo si arrabatta per cercare di venire a capo di un brutto guaio relativo alla concessione d’uso di suolo pubblico, Alice, nella sua indagine, si imbatte in questioni sugli usi civici e in antichi manoscritti di importanza storica che potrebbero riscrivere pagine della letteratura italiana.

Che dire di nuovo sulle storie che vedono protagonisti i vecchietti del Bar Lume, dopo nove romanzi di successo e una ventina di racconti brevi?
Non possiamo considerarla certo Letteratura con l’iniziale maiuscola, nonostante l’autore scriva in un italiano impeccabile, ahimè cosa assai rara di questi tempi, e le trame siano ben congegnate e strutturate. Però, come, tornando a casa dopo una giornata di duro lavoro, noi si preferisce infilare i piedi nelle comode, confortevoli pantofole imbottite, piuttosto che continuare a soffrire dentro a più formali calzature da ufficio, così, scorrere le righe in cui si narrano le vicende del simpatico quartetto e del loro contorno, è andare incontro a una lettura accogliente, piacevole e, sotto molti punti di vista, tranquillizzante. Una lettura che non ci instilla soverchi dubbi o problemi esistenziali, ma che ci rilassa e diverte, fa fare qualche risata e, perché no, ci spinge pure a riflettere su alcune questioni più serie.
Per parte mia, poi, trovo poi estremamente rasserenante trovare concetti e considerazioni che sento mie nel profondo. Osservazioni, magari pure banali su cose banali, ma dette nella più assoluta serena sincerità, infischiandosene del politicamente corretto o della tendenza a evitare espressioni che possano causare anche la minima asperità, il minimo dissenso, nel lettore. Insomma, è come sedersi in salotto a sorseggiare una birra a fianco di amici fidati, parlando del più e del meno in totale rilassatezza.
Nella storia gialla Malvaldi non perde occasione di farci capire che, in fondo, lui scienziato è, e. anche in questo caso. la soluzione vada ricercata con spirito scientifico. Nella fattispecie, sebbene il titolo ci richiami alla mente il classico gioco della morra cinese, nel concreto dovremo riandare con la memoria a un noto enigma che riguarda la città di Königsberg e i suoi sette ponti. Idea, se non proprio nuova, certamente ben trovata e, comunque, funzionale allo svolgersi della trama che si sviluppa in modo non troppo intricato e cervellotico.
Insomma come al solito Malvaldi ci dona un libro distensivo e piacevole, per una rilassante seduta di lettura senza troppi problemi.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    17 Gennaio, 2025
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Adamsberg e i dolmen

Il commissario Jean-Baptiste Adamsberg, lo “spalatore di nuvole” del XIII arrondissement, ha dovuto soggiornare per qualche tempo in Bretagna per chiudere un brutto caso di un omicida seriale. Qui ha collaborato con il suo collega Frank Matthieu di stanza a Rennes e ne è diventato amico. Cenando con lui in una rinomata locanda di Louviec, paesino di poche anime vicino a Combourg, aveva fatto la conoscenza con Josselin de Chateaubriand forse erede del famosissimo letterato e uomo politico del XIX secolo e suo sosia sputato. Ma aveva scoperto pure che il paese era in agitazione perché si diceva che fosse ricomparso il fantasma dello Zoppo (un antico visconte di Combourg) e che la sua comparsa avrebbe portato, come quattordici anni prima, a qualche morto ammazzato.
Meno di un mese dopo, ritornato a Parigi, legge su un quotidiano che Gaël Leuven, il guardiacaccia di Louviec, un omone grosso come un toro e altrettanto rude, che lui aveva intravisto quel giorno nella locanda, è stato brutalmente assassinato. Indiziato principale proprio Chateaubriand, da sempre bersaglio dell’acredine di Gaël, ma nessuno di coloro che lo conosce crede che sia possibile che l’uomo, mite e schivo, possa essere l’autore del crimine, efferato quest’ultimo. Ma Adamsberg non può intromettersi nella vicenda; è fuori dalla sua giurisdizione. Tuttavia è il Ministero stesso che vuole scongiurare che uno Chateaubriand, seppur solo lontanissimo discendente dell’autore di “Memorie d’Oltretomba” possa essere accusato di omicidio senza schiaccianti prove a suo carico. Così il Sottosegretario in persona lo chiama e gli ordina di tornare a Louviec per affiancare la polizia locale e indagare sul misfatto.
Nel frattempo i morti, uccisi tutti alla stessa maniera, un paio di fendenti al torace con un coltello di marca lasciato dentro la ferita, si accumulano e Adamsberg (pur affiancato dal valido Matthieu), brancola nel buio, tra ipotesi fantasiose e divagazioni a stile suo, tentando di fare ordine, anche meditando sulla pietra in un dolmen che si erge nei pressi del paese. Stavolta però, dovrà stare più attento del solito: qualcuno vuole ucciderlo per punirlo della sua ingerenza,

Il Commissario Adamberg è uno dei personaggi più iconici del panorama poliziesco francese e l’autrice, Fred Vargas, è un’abile narratrice che, con stile sempre impeccabile, alterna accattivanti descrizioni, incursioni ammiccanti al paranormale (prontamente smentite in chiusura dei romanzi), intrecci investigativi complessi, ma coerenti, con introspezioni nello stato d’animo delle persone, in particolare del suo personaggio principale. Quindi è difficile che un libro suo risulti insoddisfacente o, peggio, sgradito.
Però, se dobbiamo fare le pulci a quest’ultima storia (e non si tratta solo di un modo di dire, visto che questi afanitteri saranno uno degli elementi chiave per la soluzione del caso) non possiamo non rilevare come “Sulla pietra” sia un’opera decisamente inferiore a quelle che l’hanno preceduta.
Ne “Il morso della reclusa” l’A. aveva in qualche modo palesato come nell’efficientissima squadra del XIII arrondissement qualcosa cominciasse a non ingranare più al meglio: i dissidi tra Adamsberg e il suo fido vice Danglard erano giunti al punto da far ipotizzare un divorzio tra i due; alcuni altri collaboratori erano passati a occupare ruoli di secondo piano; la vicenda stessa era risultata ingarbugliata e il Commissario aveva dimostrato una certa stanchezza nel suo ruolo. Insomma tutto aveva fatto ipotizzare l’intenzione dell’A. di far restare quel nono libro l’ultimo della fortunata serie. E forse, sarebbe stata una scelta felice.
Questo decimo romanzo, uscito oltre sette anni dopo il precedente, appare, sin dall’inizio, come una operazione commerciale per sfruttare la scia, ancora attraente, della fortunata saga, ma la storia è abbastanza raffazzonata, confusa. Nella vicenda si intersecano piccole vendette paesane a intrighi e delitti compiuti dalla criminalità organizzata, minacce mafiose alle forze dell’ordine e misere superstizioni come scusa per truffare i creduloni. A ben vedere, infatti, per mettere assieme questa storia, l’A. è stata costretta a cucire assieme, e non sempre in maniera efficace, quattro o cinque vicende diverse, apparentemente slegate le une dalle altre. Non tutti i passaggi appaiono logici e conseguenziali. Non tutti i personaggi coinvolti appaiono convincenti e ben disegnati. Non tutte le deduzioni sono coerenti. Anche lo “spalatore di nuvole” appare confuso e ondivago.
La storia in sé procede lentamente e il crimine seriale che dà l’avvio alle indagini spesso si perde sopravanzato da altre vicende che, più che interagire con il filone principale, confondono e depistano.
La stessa squadra di Adamsberg sul campo, ridotta a soli cinque elementi (forse anche per evitare domande sulla tenuta dei rapporti interni) è posta sullo sfondo della vicenda, senza che le singole personalità riescano a emergere, se escludiamo l’atleticità da supereroe della Retancourt e l’abilità al computer dell’ipersonne Mercadet. Ma anche per loro dette caratteristiche appaiono più un distintivo caricaturale che natura rappresentativa e qualificante della persona.
Ho avuto la netta sensazione che, per inventarsi la trama, l’A. sia andata a saccheggiare idee precedentemente utilizzate e già abilmente sfruttate, e le abbia utilizzate per allungare un po’ il brodo del racconto. Solo per citarne alcune: le pulci di “Parti in fretta e non tornare”; l’interpretazione fuorviante di certe espressioni in francese (“Nei boschi eterni”); la vendetta per i torti subiti in passato (“Il morso della reclusa”). Insomma, sotto certi aspetti questo romanzo sembra una sorta di coperta patchwork con tanti quadratini tagliati via da altri teli e cuciti assieme, ma senza troppa convinzione.
Lo stile è indubbiamente buono, e non ci si potrebbe aspettare di meno dalla Vargas, ma anche sotto questo aspetto si nota una certa stanchezza, un “tirar via” alcuni passaggi.
In definitiva, si tratta di un romanzo non memorabile, ma, soprattutto, evitabile, cioè che non aggiunge nulla alla serie, ben più valida, dei libri che lo hanno preceduto e, forse, fa un cattivo servizio alla stessa Autrice.

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... i precedenti romanzi, soprattutto perché chi li ha apprezzati proverà piacere a ritrovare personaggi amici con cui era entrato in familiarità, ma senza farsi troppe aspettative.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Dicembre, 2024
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Ma davvero repetita juvat?

Ernest Cunningham è diventato famoso. Dopo aver pubblicato un romanzo giallo tratto dalla truce storia di omicidi della quale, suo malgrado, si era trovato a essere tra i protagonisti e nella quale una buona parte della sua famiglia era restata vittima o autrice, è entrato nell’empireo degli scrittori polizieschi.
Proprio per tale motivo si trova a bordo dell’Afghan Express, più brevemente chiamato il “Ghan”, un lussuoso treno turistico che attraversa da nord a sud l’Australia centrale, da Darwin ad Adelaide. Infatti sul treno è stato organizzato il 50° Festival Australiano del Giallo e, assieme a lui, condividono gli scompartimenti dei vagoni riservati al Festival, un famoso autore scozzese di best sellers; una autrice di legal thriller, una di gialli psicologici e uno scrittore che basa le sue trame sulla patologia forense, oltre a un super-premiato scrittore di opere letterarie di alta levatura. Ognuno ha un ospite; inoltre una piccola comitiva di appassionati di letteratura poliziesca fa loro da contorno per assistere alle conferenze, ai dibattiti e alle tavole rotonde che si terranno nei quattro giorni di viaggio.
Purtroppo dove c’è Ern ci scappa sempre il morto e, così, dopo il primo giorno di viaggio in cui si sono avuti solo battibecchi e invidiose ripicche tra gli invitati, uno degli ospiti muore improvvisamente, la seconda mattina. Morte naturale o omicidio? Ern, che non riesce a trovare lo spunto per scrivere il suo secondo romanzo, punta sulla prima ipotesi, però chi è stato a commettere il crimine e, soprattutto, chi aveva il movente per farlo?
Toccherà a lui e ai colleghi giallisti (superstiti) scoprire il colpevole, tuttavia, su quel treno, tutti hanno un buon motivo per quell’omicidio e per quelli che seguiranno…

Il primo romanzo di Stevenson era stata una piacevole sorpresa, con uno stile leggero e scanzonato, l’A. era riuscito a scrivere una storia non banale che, ripigliando gli schemi dei gialli classici alla Christie, Conan Doyle, o Van Dyne, aveva ridato vita al filone del giallo investigativo/deduttivo, un po’ giocandoci sopra con discreto umorismo, un po’ provocando i lettori con continui interventi e riflessioni in prima persona rivolte direttamente a coloro che si trovano dall’altra parte del foglio di carta stampata.
Con questa seconda opera, però, l’A. ha erroneamente supposto che ripresentando il medesimo canovaccio e cambiando solo l’ambientazione e i personaggi coinvolti, l’alchimia avrebbe nuovamente funzionato. No, errato: certe invenzioni funzionano solo la prima volta, proprio perché è la novità a giocare il ruolo principale nel rendere piacevole la narrazione. Se non si hanno nuove idee e non si cercano nuove strade, il riproporre il medesimo schema diviene solo un riscaldare la stessa minestra; cambiare le spezie non è sufficiente a renderla più appetitosa.

La trama appare eccessivamente e artificiosamente arzigogolata e contorta e, a dispetto delle dichiarazioni iniziali dell’A. di essere totalmente onesto e trasparente coi lettori, sono decisamente troppe le trovate con cui viene infarcito il libro, i conigli estratti magicamente dal cappello al momento più opportuno, le scoperte spiazzanti stile soap opera; e non tutte, ahimè sono davvero plausibili. Lo stile continua a essere leggero e scanzonato, talvolta anche un po’ troppo, ma tocca le medesime corde che hanno fatto da sottofondo al primo libro, quindi, risulta ripetitivo e, alla lunga, stancante.
Poi, Ernest non perde occasione per ammiccare in modo che non è più goliardico, ma, direi, gigionesco, ricordandoci le regole per il giallo classico o, peggio, spoilerando i troppi colpi di scena che sono disseminati lungo la storia e che, alla fine, non risultano più tali.
Quanto a questi ultimi, si raggiunge l’apice; in questo romanzo non ci viene risparmiato nessuno dei luoghi comuni della letteratura di genere: agnizioni, disvelamenti di enigmi, segreti che vengono dissepolti, morti apparenti che ricompaiono improvvisamente, scambi di persone e personaggi che si celano dietro a pseudonimi o prestanome.
Tra le innumerevoli trovate di “spiritosa onestà” nei confronti del lettore ho trovato decisamente ostentato e sciocco aver precisato il numero delle volte in cui il nome dell’assassino sarebbe stato fatto prima della sua identificazione e il continuo aggiornamento del conteggio per ognuno dei sospetti, quasi ci si trovasse davanti al tavoliere di Cluedo o ad un Giallo-quiz televisivo.
Insomma il voler raccontare una vicenda di per sé seria e grave (com’è un omicidio) in modo burlesco può essere divertente come prima trovata, ma non può essere certo lo schema ideale da replicare all’infinito. Alla fine il romanzo non annoia, ma neppure diverte troppo e non si vede la fine di giungere all’epilogo che, in questo caso, è pure scivoloso a causa di una trovata finale che poteva pure essere evitata.
Poi, permettetemi una domanda conclusiva: ma l'A. doveva proprio scimmiottare e, sostanzialmente, burlarsi di uno dei romanzi più iconici della letteratura poliziesca (mi riferisco, ovviamente a "Assassinio sull'Orient Express") utilizzando la medesima ambientazione e, in sostanza, gli stessi ritmi?
Dalì si permise di sostituire al volto di Monna Lisa il suo ritratto con tanto di baffoni, ma era pur sempre un grandissimo della pittura mondiale, mr. Stevenson non è neppure lontanamente emulo di Agatha Christie e forse le deve un maggiore rispetto.

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Non è un no deciso al romanzo, solo perché a qualcuno potrebbe piacere il ritrovare le stesse atmosfere giocose di "Tutti nella mia famiglia hanno ucciso qualcuno".
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Novembre, 2024
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Caccia all’uomo per Colter Shaw

Colter Shaw, il cacciatore di ricompense, è stato ingaggiato dalla Harmon Energy Products, una piccola società del Midwest che si appresta a lanciare sul mercato un nuovo tipo di reattore nucleare portatile (SMR). Pare che un dipendente infedele abbia sottratto uno dei componenti essenziali e innovativi del reattore e si appresti a venderlo a qualche potenza straniera. Il compito di Colter è quello di individuare il colpevole, recuperare il sistema sottratto e, possibilmente, scoprire chi siano i compratori.
Ma, non appena Colter ha compiuto la missione principale, il titolare della società, Marty Harmon, lo chiama allarmato. L’ex marito della sua ingegnere capo, un poliziotto condannato a tre anni di reclusione per violenza domestica ai danni della donna, è stato rilasciato sulla parola con oltre due anni di anticipo, ma sembra che, prima di uscire, abbia confidato ad altri due detenuti che ha intenzione di ritrovala al più presto per ucciderla.
Nel frattempo lei, Allison Parker, è scomparsa assieme alla figlia sedicenne, Hannah e, avendo pianificato la fuga da tempo, si sta muovendo con astuzia e preveggenza. Ritrovarne le tracce non sarà facile, né per Colter, né per Jon Merritt (l’ex), né per due killer professionisti che un boss della zona gli ha fornito come supporto.
Comincerà una caccia frenetica volta a individuare indizi e tracce che svelino dove si trova il nascondiglio delle due donne in fuga e una corsa disperata nella speranza, per chi vuole portare in salvo la donna, di ritrovarla prima di coloro che la vogliono morta.

Quarto romanzo che vede protagonista Colter Shaw, l’uomo, esperto survivalista, che si guadagna la vita con le ricompense offerte per ritrovare persone scomparse o rapite. Per chi ha ormai familiarità con il personaggio, un gradevole ritorno.
Ormai per l’Inquieto (come l’aveva soprannominato il padre Ashton) i fantasmi del passato, che per anni lo hanno assillato, sono sepolti: gli assassini del padre sono stati tutti catturati o uccisi, però lui continua nella vita di girovago sul suo camper Winnebago, andando ovunque si offrano premi, ma soprattutto gli si prospettino missioni che lui reputa interessanti e stimolanti per assecondare il suo istinto di cacciatore e cercatore di tracce.
Come consueto la storia è ben narrata, sfruttando, almeno per l’avvio, uno dei tanti mali che ammorbano l’America di oggi: dopo la ludopatia virtuale, il settarismo e la speculazione edilizia, ora di scena è l’inquinamento selvaggio. La narrazione scorre fluida sotto gli occhi del lettore. Come scenografia è stata scelta non l’assolata California delle prime storie, ma la provincia americana, cuore pulsante del passato manifatturiero del Paese e, ora, landa abbandonata e derelitta, devastata da contaminazioni chimiche o radioattive e degrado.
L’avventura, iniziata come una spy-story con tanto di furto di ritrovati tecnologici di punta, si trasforma in una ricerca angosciosa e snervante per salvare le due donne. Ma chi sono i veri nemici? Chi si deve guardare da chi?
I toni del romanzo si discostano abbastanza da quelli dei libri che lo hanno preceduto. Qui Colter ci appare più umano e meno supereroe un paio di passi avanti ai suoi antagonisti, che prevede sempre le loro mosse; che ha sempre una risposta per ogni incidente di percorso. Spesso, ora, lo vediamo incerto, in snervante attesa di fatti nuovi che lo aiutino della missione, a volte pure impacciato.
Dei due chi appare più previdente e veramente abile nel muoversi è Allison, la quale, abile nei calcoli come nelle strategie, sembra poter prevenire ogni manovra avversaria e, pure, le sventatezze della riottosa Hannah. Ma, ovviamente, per rendere avvincente la trama, colpi di scena e improvvisi rovesciamenti di fronte provvedono, con ottimo tempismo, a smuovere le acque e a togliere ogni certezza.
Sotto quest’ultimo aspetto, imprevedibile e sorprendente è il coup de theatre nel finale che, effettivamente, ribalta completamente le prospettive con cui tutta la vicenda era stata inquadrata sino a quel momento. La rivelazione che ci viene fatta è così poco prevedibile da far venire persino il sospetto che i fatti narrati precedentemente non siano tutti perfettamente e logicamente coerenti con quelli successivi. A mio avviso, tra l’altro, la storia poteva reggere benissimo anche senza questa inversione a U della trama. Ma è tipico della narrativa di Deaver cercare sempre l’occasione per spiazzare i suoi lettori e, in questo caso, il risultato è stato pienamente ottenuto, con l’aggiunta di un tocco di buonismo e di edulcorato happy end che contrasta con il resto della vicenda.
Ho trovato ben scelti e descritti i personaggi principali, a partire dalla muscolare e determinata Sonja Nilsson, responsabile della sicurezza della Harmon Energy, che affiancherà Colter nelle ricerche, per giungere ai due killer, con i loro chiaroscuri. Ma soprattutto spicca l’accurata personalizzazione della giovane Hannah, irrequieta, terribilmente reale adolescente. La ragazzina – presa in un gioco più grande di lei in cui si trova, suo malgrado, a ricoprire un ruolo essenziale che non le è proprio - avrà tutte le reazioni, contraddittorie e innocenti tipiche della sua “età di mezzo”, che la rendono, contemporaneamente, adorabile e irritante oltre ogni sopportazione. Perfetta!
Sempre meticolosa, poi, è la descrizione d’ambiente, anche se, come in questo caso, le località in cui si dipana la storia sono frutto della fantasia dell’A. piuttosto che luoghi topograficamente identificabili, ma ben epitomano tutte le periferie americane, abbandonate dalle grandi industrie del Novecento e ora, lasciate allo sbando lungo il pendio del loro mesto declino con gli stessi abitanti ormai depauperati pure della speranza di una redenzione.

In definitiva si tratta di un buon libro, divertente e intrigante, nel quale l’azione avvince e travolge con piacevole coinvolgimento.

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... e amato i tre romanzi della serie che precedono questo
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    11 Novembre, 2024
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La vita è tutta un quiz

Clayton Stumper è un giovane di venticinque anni e ha sempre vissuto in una tenuta signorile nel Bedfordshire (Creighton Hall), con la madre adottiva, Philippa Allsbrook, e la sua famiglia “allargata”.
Questa famiglia, però, è tutt’altro che convenzionale: Philippa, ma per tutti Pippa, Pip o, addirittura Pipster, non è mai stata una donna comune. È stata la prima enigmista donna del Regno Unito, per importanza, e quella che, sotto lo pseudonimo di Squire, ha prodotto il maggior numero di schemi di parole crociate con definizioni criptiche: al suo attivo ci sono migliaia e migliaia di diagrammi pubblicati sul Times.
Proprio questa sua indubbia e rinomata abilità l’ha convinta, nel lontano 1979, a fondare quella che verrà chiamata la Compagnia degli enigmisti. In essa la donna, con caparbia tenacia, era riuscita a radunare attorno a sé le più brillanti menti britanniche nel campo: cruciverbisti, creatori di labirinti, quiz, puzzle, crittografie, giochi di parole, quesiti aritmetici, rompicapi in legno, vetro e metallo si erano, per la prima volta, riuniti e trovati tra simili, per confrontarsi, discutere e sviluppare sempre nuove idee.
Inizialmente questa variegata combriccola si era incontrata, una volta a settimana, in un pub londinese, poi, però, Pippa, messi insieme i risparmi, era riuscita a ricomprare Creighton Hall, la dimora avita in cui era cresciuta coi nonni. La vecchia casa s’era trasformata in una residenza comune dove i più assidui membri della Compagnia avevano cominciato a vivere assieme, aiutandosi e sorreggendosi tra loro nelle varie vicende della vita e, soprattutto, nella loro attività d’enigmisti, divenendo la società che produceva e vendeva più materiale in Inghilterra. I parti della loro fantasia e inventiva erano celebrati e apprezzati ovunque.
Davanti alla porta di Creighton Hall, in un mattino del 1991, Pippa aveva trovato una elegante cappelliera poggiata davanti all’ingresso dell’edificio. Dentro c’era un neonato, Clayton. Come a rispondere a un desiderio mai esaudito di Pippa, quel trovatello, era venuto a completarne l’esistenza.
Nei successivi venticinque anni Clayton era vissuto come il figlio di tutta la Compagnia, per la gioia dei suoi componenti.

Nel 2016, Pippa, dopo una breve malattia, viene a mancare all’età di 89 anni. A curare la cerimonia di esequie è Clayton, il quale, davanti al feretro della madre adottiva, sente esplodere in sé il desiderio, mai espresso a voce, di scoprire le sue origini, di sapere chi era la sua madre naturale. A Pippa non lo aveva mai rivelato, per non turbarla, ma questo desiderio, ora, è divenuto prepotente e assoluto. Ma Pippa non s’è dimenticata del suo ragazzo e, anche da morta, si prenderà cura di lui.
Così, nei giorni successivi, Clayton scoprirà che la madre gli ha preparato una sorta di caccia al tesoro, irta di difficoltà ed enigmi, seminati ovunque, che dovrebbero spingerlo a scoprire le sue origini e, soprattutto, a capire quale potrà essere il suo futuro. Ma, a differenza di tutti gli altri occupanti della casa, Clayton non è un enigmista. Così si dovrà impegnare con fatica e tenacia a risolvere cruciverba enigmatici, labirinti intricati, puzzle con pezzi mancanti, rompicapo letterari e così via.
Perciò, nel mentre al lettore viene raccontata l’incredibile avventura di Philippa Allsbrook e della Compagnia di cui era presidente, Clayton affronterà questi giochi che, per lui, sono anche un modo per scoprire la vita e sé stesso.

“La Compagnia degli enigmisti” è un romanzo che brilla per la sua straordinaria originalità. Infatti quasi in ogni capitolo al lettore sono proposti gli stessi giochi che debbono risolvere i protagonisti. Così, mentre assistiamo ai difficili inizi dell’iniziativa di Pippa o partecipiamo, assieme a Clayton, del dolore e dello smarrimento per la perdita appena subita, ci troviamo davanti schemi di parole crociate, sciarade, anagrammi, crittografie e ogni altro genere di giochi enigmistici.
La vicenda in sé è lieve e garbata, senza eccessi o emozionanti colpi di scena. La storia della Compagnia ci viene raccontata in modo lineare, con amabilità e pacatezza come una bella fiaba a lieto fine: l’avventura affascinante di un gruppo di menti geniali ed eccentriche che, nonostante le traversie personali o, forse, anche a causa di esse, riesce a trovare una propria posizione alternativa nel mondo che consenta loro di emergere e dimenticare gli strazi e i dolori patiti. La “caccia al tesoro” di Clayton si svolge con altrettanta linearità, senza particolari suspense o misteri: addirittura Claytom esasperato, ad un certo punto aprirà a martellate una Alphabetibox — una elegante scatola di legno con riposti segreti che si aprono solo alla soluzione di un piccolo enigma letterario, per vero non particolarmente complicato — giusto per trovare nuovi enigmi da risolvere.
Il ritmo, in generale è pacato e abbastanza lento, ma tra spunti umoristici e passaggi commoventi, si fa leggere con piacere.

Forse l’unico aspetto che non funziona totalmente è proprio la parte relativa ai giochi. Ovviamente questi, che sono per la maggior parte giochi di parole, enigmi letterari e cruciverba, sono stati pensati per la lingua inglese e la traduttrice avrà dovuto fare salti mortali per adattare gli stessi all’italiano. Quindi un plauso va all’impegno profuso, ma il risultato non è esaltante. Alcuni, nella nostra lingua, sono quiz abbastanza banali che un buon appassionato di enigmistica risolve in pochissimo tempo, altri, come lo schema di parole crociate iniziale, sono troppo legati alla lingua inglese (dove gli schemi sono tutti particolarmente “traforati”, ma le varie caselle consentono di inserire una e una sola soluzione compatibile con la definizione, spesso un intricato indovinello) per avere il medesimo appeal in italiano dove, invece, la risposta potrebbe non essere univoca e la stessa definizione appare non di rado ambigua e imprecisa. Altri, come il labirinto, si prestano a soluzioni multiple che non consentono di ottenere l’esito sperato dall’Autore.
Quindi, purtroppo, chi affronta il libro con la speranza di trarre divertimento anche dai singoli giochi offerti resta un po’ deluso e, alla fine, si accontenta di “pedinare” Clayton nella sua ricerca, senza essere stimolato a precederlo, impegnandosi, prima di lui, nelle singole soluzioni.

Però, a prescindere da questa pecca si tratta di un romanzo dai toni intimistici che si nutre delle emozioni dei singoli personaggi, ben ambientato e caratterizzato, che risulta amabilmente piacevole e distensivo; magari non un capolavoro, ma una lettura di sicuro relax.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    11 Novembre, 2024
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Lyra e Will in giro tra i mondi

Lyra — per inseguire suo padre, Lord Asriel, che ha aperto una voragine tra due mondi paralleli — imbocca un misterioso ponte di collegamento multidimensionale e si trova in un posto alieno, per molti aspetti simile al suo, ma con tante, troppe sostanziali differenze che la sconcertano e disorientano.
Ma la nostra attenzione, prima ancora di scoprire cosa accade all’intrepida ragazzina, è focalizzata sulle avventure di Will Parry, coetaneo di Lyra, ma che dovrebbe vivere nel nostro mondo. Abita vicino alla nostra Oxford e potrebbe condurre una vita per noi molto più familiare, se non fosse stato costretto, sin da quando era un bimbo di sette anni, a difendere sua madre e impedire che la internino. La donna spesso cade in ossessioni paranoidi che le fanno temere di essere sotto la cupa minaccia di nemici invisibili. Ma le sue sono solo suggestioni psicotiche, o c’è davvero qualcuno che li minaccia?
Purtroppo, di recente, la donna è stata fatta oggetto dell’attenzione di alcuni figuri che vorrebbero che consegnasse loro documenti in suo possesso appartenuti al marito scomparso misteriosamente durante una esplorazione scientifica in Canada, una decina di anni prima.
Per tal motivo Will, comincia a temere che i nemici di sua madre non siano solo nella sua mente ma siano persone reali e davvero pericolose. Per proteggerla l’accompagna dalla sua vecchia insegnante di musica. Purtroppo, quando torna a casa per recuperare i documenti misteriosi, si trova proprio questi uomini in casa. Nella convulsa fuga uno di loro cade dalle scale e muore. Ora Will è un ricercato e mentre cerca un rifugio dove nascondersi, scopre una misteriosa “finestra” vicino a uno svincolo stradale.
Vi si infila dentro e si ritrova in un mondo diverso, ignoto. Qui, nella bizzarra città di Ci’gazze, vuota di ogni abitante adulto, incontrerà Lyra e, con lei, farà coppia per cercare di risolvere i loro problemi, apparentemente assai diversi, ma, in effetti, strettamente interconnessi.
Da quel momento le vite dei due ragazzini saranno legate dallo stesso destino e minacciate sia dagli antichi nemici di Lyra (la signora Coulter, l’Intendenza per l’Oblazione, i Tartari), sia da quelli che Will s’è fatto nel suo mondo. Nel loro pellegrinare in uscita e in entrata tra i diversi universi scopriranno che sono in molti a dare la caccia a queste tecniche di spostamento ultradimensionale. Ma si accorgeranno anche dell’esistenza di esseri eterei, come gli spaventosi Spettri che spopolano Cì’gazze dagli adulti, portandoli in uno stato di totale, mortale indifferenza, o degli Angeli, incorporee essenze che sembrano parteggiare per loro ma per fini di vendetta che i ragazzini non comprendono. Faranno esperienza con misteriosi poteri, come quello che Lyra ormai padroneggia con aletiometro, che le pronostica con sorprendente precisione il futuro e i passi da compiere, o come quello che Will, impossessatosi della cosiddetta Lama sottile, sta cercando di apprendere per aprire nuove finestre di passaggio tra i mondi.
Personaggi vecchi e nuovi faranno la comparsa per ostacolare o agevolare la missione dei due ragazzi che, per parte loro, procederanno alla cieca, sperando solo di non commettere errori fatali.

Questo è il secondo capitolo della trilogia intitolata “Queste oscure materie” e, a differenza di quanto narrato ne “La bussola d’oro”, la trama si spezza in vari filoni narrativi connessi solo dal fluire generale della storia. Molti dei personaggi che hanno caratterizzato il primo romanzo qui non fanno neppure una breve apparizione e molti altri restano su un indistinto fondale. La storia di Lyra diviene quella di Will e di Lyra. Mentre nel primo romanzo la ragazzina ci appariva determinata e risoluta a perseguire le missioni che si era prefissa, in questo la vediamo spesso confusa e incerta, il più delle volte succube delle decisioni di Will che appare, invece, ben più deciso e determinato.
La trama, apparentemente, dovrebbe essere più lineare e con un minor numero di peripezie per i protagonisti, ma è anche meno appassionante. L’aspetto fantastico assume un ruolo predominante e di guida per il fluire delle varie vicende.
Sopra ogni cosa, comunque, ci appaiono chiari i fini dell’invenzione di Pullman: se ne “La bussola d’oro” era già risultato evidente che il nemico da battere fosse la religione, quantomeno quella coniugata secondo le regole ferree e controriformiste del Magisterium e dell’apparato ecclesiastico-politico che dominava il mondo di Lyra e vi imponeva regole asfissianti, qui l’A. palesa, senza più alcuna remora, che la sua trilogia è un progetto anti-religioso (in via principale anti-cattolico, ma in generale contrario a qualsiasi fede rivelata). L’avversario contro il quale Lord Asriel sta radunando un esercito, l’Autorità, altri non è che il Dio delle grandi religioni monoteistiche che, seppur attraverso l’opera dei suoi ministri del culto e dei vicari umani, ci appare come un cupo e tirannico essere autore solo di sopraffazioni e crudeltà verso le sue creature.
Se le Cronache di Narnia possono risultare, non di rado, tediose e vagamente stucchevoli per la continua, subliminale opera di evangelizzazione che viene ammannita in ognuno dei romanzi, in tutte le vicende narrate, qui ci troviamo di fronte a una aperta, a tratti violenta e cruda dichiarazione di guerra, una sorta di manifesto di sfida verso tutti i principi della religione cattolica. Gli stessi Angeli, che appaiono e scompaiono come deus ex machina nelle avventure di Will e Lyra, difficilmente li possiamo associare agli esseri benevoli a noi noti, ai vari Gabriele, Michele e Raffaele della nostra tradizione religiosa. Al contrario, anche per l’esplicita dichiarazione che la loro opera è motivata dal desiderio di vendetta contro l’Autorità, ci appaiono come incarnazioni dei vari Lucifero, Mammona e Belzebù protagonisti de “Il Paradiso perduto” di Milton. Insomma, siamo di fronte a un romanzo apertamente anti-religioso e, di per sé, ciò non sarebbe un crimine, neppure letterario, visto che ognuno è libero di esprimere le proprie convinzioni. Però il fatto che queste siano contrabbandate all’interno di una trilogia fantasy, ufficialmente rivolta a un pubblico giovane e, quindi, meno incline a una lettura critica e ragionata del testo, appare un’opera subdola e, sotto molti aspetti, biasimevole.

Dal punto di vista eminentemente narrativo, poi, questo secondo romanzo appare meno strutturato del primo che aveva, dalla sua, pure il pregio della novità dei temi trattati. Il fatto che si siano abbandonati non solo personaggi sostanziali, ma pure elaborate costruzioni ambientali e sociali, per crearne di nuovi tutti da definire fa sorgere più di un dubbio sulla coerenza narrativa. Il mondo di Ci’gazze è sostanzialmente vuoto, privo di alcuna caratterizzazione, e, perciò stesso, poco stimolante e interessante. I nuovi attori della storia, poi, sono decisamente meno incisivi e, tra l’altro, vengono spesso liquidati in modo spiccio durante lo svolgimento della stessa.
Insomma, anche chi aveva amato il primo romanzo, qui fatica a non restare sconcertato e deluso. Il fatto poi che il romanzo non abbia neppure una chiusura in senso proprio, ma che nell’epilogo, si trasformi nel prologo al terzo volume non aggiunge motivi di gradimento.
Per concludere, ho trovato questa seconda opera meno gradevole e interessante della prima e ho percepito un calo della tensione narrativa, con l’azione che, spesso, viene portata avanti in modo abbastanza stanco e senza soverchia convinzione.

_____________
Una postilla per l’angolo del pignolo. Nel libro si descrive il daimon di un personaggio (Stan Grumman, che avrà un ruolo chiave nello svolgimento della vicenda), come un grosso uccello rapace dalla testa bianca e viene chiamato, indifferentemente, o “procellaria” o “aquila pescatrice”. Si tratta di un colossale errore della traduzione italiana: le procellarie sono uccelli pelagici, dall’aspetto di grossi gabbiani (o piccoli albatros) con il piumaggio per lo più bruno o bianco giallastro uniforme. Mentre i rapaci con la testa bianca sono due o l’aquila pescatrice africana o l’aquila testabianca americana detta pure “calva”, nota per essere nello stemma degli Stati Uniti. Nessuno dei due ha a che fare con le procellarie, però. Una rapida consultazione di un almanacco sulle specie aviare avrebbe evitato questo clamoroso quiproquo.

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...il primo romanzo della trilogia "La bussola d'oro", per scoprire come si evolve la storia di Lyra.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    14 Ottobre, 2024
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Lyra, i Daimon e l’onnipresente Polvere

Lyra Belacqua è una undicenne orfana dei genitori (o, almeno, così le hanno sempre fatto credere) che è stata allevata amorevolmente al Jordan College di Oxford dagli Accademici e dalla servitù dell’augusto Ateneo. È cresciuta un po’ selvaggia e irrequieta e ora, con un comportamento da vero maschiaccio, è capo d’una banda di ragazzini che imperversa nella cittadina tra battaglie con i coetanei e scorribande sui tetti e nei sotterranei del College. Ma il mondo in cui lei vive non si trova nel nostro universo, ma in uno parallelo, davvero strano. Qui l’Inghilterra è separata dall’Oceano Germanico dalla New France (gli USA?), i crudeli Tartari minacciano i confini orientali dell’Europa e il popolo nomade dei Gyziani ha colonizzato i fiumi e i canali del mondo. Ma, soprattutto, ciò che distingue il mondo di Lyra dal nostro, sono i daimon. Ogni essere umano, sin dalla nascita, è accompagnato da un animale nel quale si incarna la sua anima, con cui si confronta e discute. Fino al raggiungimento della pubertà questi compagni di vita sono mutevoli nell’aspetto, com’è mutevole il carattere dei bambini, poi si stabilizzano in una forma definitiva che conserveranno sino alla morte dell’umano con cui sono accoppiati e che coincide pure con la loro sparizione. La simbiosi umani-daimon è così profonda e sinergica che se, per inconcepibile disgrazia, dovessero essere separati gli uni dagli altri per più di una distanza limite, si determinerebbe la morte di entrambi o quantomeno, un trauma psicologico tale da ledere gravemente il loro equilibrio mentale facendone delle specie di zombie. Un essere umano senza il suo daimon, per quella società, è concepibile come lo sarebbe un essere vivente che vive e cammina senza testa: un abominio.
Però c’è qualcuno che forse sta pensando proprio di operare questa separazione: molti bambini cominciano, misteriosamente, a scomparire, catturati da coloro che la voce popolare ha definito gli Ingoiatori, termine che, da solo, fa intendere le non certo benevole intenzioni di questi individui.
Ma Lyra e il suo daimon, Pantalaimon, non si interessano a tutto ciò: lei è concentrata sui giochi coi coetanei ed è affascinata dalle ricerche che suo zio Lord Asriel sta facendo nell’estremo Nord sulla Polvere – sostanza eterea e visibile solo con appositi strumenti “filosofici”, ma che pare ammanti in abbondanza tutti gli esseri umani tranne i bambini – e su una misteriosa città aerea che appare e scompare, evanescente, nelle aurore boreali.
La sua vita, tuttavia, subirà una drammatica svolta. Affidata dal Maestro del Jordan alla misteriosa, ma affascinante, signora Coulter, conoscerà un mondo nuovo a volte seducente, ma, più spesso, pericolosissimo. Farà scoperte sconvolgenti sulla propria vita che la lasceranno frastornata; si unirà ai Gyziani per andare alla ricerca dei bambini scomparsi. Dovrà lottare più e più volte per la vita propria e delle persone che le sono care, ma soprattutto si troverà ad affrontare a una serie di sfide e missioni che, alla fine, potrebbero influire in maniera drammatica e definitiva sulla stessa trama del mondo come lo ha sempre conosciuto lei.

La Bussola d’oro è il primo romanzo di una trilogia intitolata “Quelle oscure materie” nella quale l’A. in un’atmosfera dai toni steam-punk, affronta molteplici temi inquietanti e discutibili oltre che effettivamente discussi nelle critiche successive all’uscita dell’opera.
La lettura di questo primo libro mi ha lasciato piuttosto perplesso per la sua intrinseca ambivalenza e ambiguità.
Ha la tipica impostazione che ormai è diventata un classico di questo genere letterario: abbiamo un giovanissimo eroe, dotato di volontà e capacità uniche, che lotta strenuamente contro il mondo degli adulti che minacciano di distruggere tutto. La magia e le arti esoteriche aiutano e influiscono pesantemente sul succedersi degli eventi. Animali parlanti (orsi guerrieri corazzati!) e, più genericamente, creature fantastiche e misteriose svolgono ruoli non secondari nelle vicende. L’ambientazione, poi, è in un universo immaginario o, quantomeno, distopico non troppo dissimile dal nostro, ma nel contempo inquietante.
Tuttavia, nonostante queste struttura e ambientazione fantasy, i contenuti effettivi del romanzo ne sono solo marginalmente influenzati, perché appare evidente che il bersaglio dell’A. sia il nostro mondo, al quale, entro la metafora narrata, porta un attacco diretto.
Proprio per i temi trattati non può essere considerato un romanzo rivolto a un pubblico giovanile o adolescenziale. Molti, troppi sono i contenuti che possono essere compresi e valutati compiutamente e criticamente solo da un lettore intellettualmente e culturalmente più maturo.
Ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a una trattazione speculare, cioè uguale ma contraria, sia negli argomenti che negli intenti, rispetto alla saga de “Le cronache di Narnia”. Dove nei libri di C. S. Lewis, praticamente ogni situazione, ogni paragrafo è permeato da un afflato religioso e i precetti del cristianesimo si respirano ovunque, qui è proprio l’apparato ecclesiastico, la Chiesa, con il suo organo deliberante e decidente, il Magisterium, il nemico da battere, la cupa minaccia, la cappa plumbea calata su una società soffocata e guidata in modo tirannico che Pulman pone sul banco degli imputati e non certo in modo velato. Ogni crimine, ogni turpitudine è fatto risalire ad essa.
Non solo le attività quotidiane, ma pure tutte le ricerche che noi definiremmo “scientifiche” (e qui sono definite “filosofiche sperimentali”) sono caricate di contenuti teologici e hanno come unico scopo quello di acclarare la verità dei dogmi religiosi negando il libero pensiero. L’ortodossia ecclesiastica è così autoritaria che discostarsene può significare la condanna per eresia e, in ultima analisi, la morte.
Gli Ingoiatori, o, meglio l’Intendenza per l’Oblazione, come realmente si chiama l’organizzazione che perpetra abominevoli esperimenti sulle anime incarnate nei daimon, è approvata e sostenuta dalla Chiesa, ma commette crimini che noi assoceremmo solo ai cosiddetti scienziati nazisti di cui Josef Mengele è da ritenersi il prototipo.
Dove, a Narnia, tutti gli esseri viventi sono accumunati da una fratellanza quasi francescana, qui si assiste a una pesante segregazione razziale e classista. I nobili e gli accademici appartengono a una aristocrazia che non si mischia con il popolino o la servitù, considerati appartenenti a una classe inferiore relegata a svolgere solo i lavori manuali che gli altri disdegnano. La cesura è così netta che pure i daimon ne dànno una visibile testimonianza: i servi sono accompagnati solo da daimon in forma di obbedienti e disponibili cani, ben diversi dai felini, dai rapaci, dai minacciosi rettili o dai primati che sfoggiano le classi superiori.
I Gyziani, poi, rappresentano il popolo inferiore, il diverso; il nome stesso (evidente crasi tra gypsy, zingaro, e egyptian, da intendersi come africano non cristiano) ne fa degli emarginati, tollerati solo per le eventuali utilità che se ne possono trarre, ma, per il resto invisibili; perciò il rapimento dei loro figli per gli esperimenti è tollerabile e ignorato dalle autorità. Il nemico alle porte, poi, (i Tartari con le loro lupe-daimon) è accreditato di comportamenti barbarici, crudeli e, sostanzialmente inumani.

In questa ambientazione plumbea la trama si svolge in modo coerente con le premesse, portando con sé perennemente la sua carica d’ansia per i protagonisti, gli eroi buoni e bistrattati della vicenda, mentre per il lato oscuro di questa società c’è solo un cumularsi di crimini e crudeltà. Scene sanguinarie e violente si incontrano spesso e, in genere, la storia è cruda, non edulcorata e, non di rado, crudele. La separazione rigorosamente manichea tra gli attori del dramma aiuta sicuramente a immedesimarsi, ma, una volta di più, mostra come il pubblico a cui è destinato il libro non sia quello dei ragazzini.
I colpi di scena, i rivolgimenti di fronte sono ben calibrati e lo stile è fluido e leggibile, anche se, talvolta può risultare un po’ lento e pesante.
Per le ambientazioni, poi, l’A. ha scelto, o gli austeri ambienti di un college dall’aura vittoriana, o le gelide e buie terre dell’inverno a nord del circolo polare. Queste, contribuiscono ad aggiungere cupezza alla storia che, ovviamente, essendo questo solo il primo dei romanzi della trilogia, si interrompe senza un epilogo catartico, lasciando il lettore con il fiato sospeso su quale potranno essere i futuri sviluppi.

In definitiva il romanzo è un ibrido non perfettamente comprensibile, proprio perché collocato a cavallo di più generi ben distinti. Alle narrazioni avventurose e appassionanti che ne sono la colonna portante, fa da contraltare la critica sociale e teologica, l’allegoria crudele della nostra società.
Proprio per questo motivo il mio giudizio, per quanto positivo, resta in sospeso in attesa di scoprire come si evolverà la storia e quali saranno le conclusioni finali a cui deciderà di giungere l’Autore.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Ottobre, 2024
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Il thriller matrioska

Hannah è una scrittrice australiana che ha avuto un discreto successo con i suoi romanzi mistery: ha venduto parecchio, anche negli Stati Uniti. Leo, invece, è un suo fan sfegatato; vive a Boston e, pure lui, si cimenta nello scrivere libri, ma con molto meno successo editoriale: il suo romanzo, ormai, ha collezionato sin troppi rifiuti. Così Leo si consola scrivendo lettere su lettere alla sua autrice preferita, la quale, condiscendente, gli invia, in anteprima, i capitoli della sua nuova opera, ricevendone consigli, suggerimenti relativi alla città di Boston (dov’è ambientato) e sproni a continuare.
“Omicidio in biblioteca”, dell’australiana-cingalese Sulari Gentill, è uno strano romanzo che dei thriller o dei polizieschi classici ha solo la parvenza esteriore, senza averne anche la carica emotiva e senza suscitare la curiosità e il mistero che ci dovremmo aspettare.
In effetti si tratta di un inconsueto libro matrioska, ove lo strato esterno è costituito appunto da questo rapporto epistolare tra il misterioso Leo Johnson di Boston e la scrittrice australiana della quale non sentiamo mai la voce, ma di cui leggiamo, assieme a Leo, i capitoli man mano che vengono redatti.
Più all’interno troviamo, poi, la storia, raccontata da Hannah; quella di Winifred Kincaid (per gli amici Freddie) — giovane scrittrice australiana che si trova a Boston grazie a una borsa di studio per la letteratura e che si sta impegnando a scrivere un romanzo thriller ispirandosi alle vicende che le stanno accadendo — e di tre giovani da lei conosciuti nella Boston Public Library: Cain McLeod, scrittore con già un successo all’attivo, ma con un passato oscuro, Marigold Anastas, studentessa di psicologia super tatuata, ma fragile come un biscotto, e Whit Metters svogliato studente di diritto con una falsa sicurezza di sé.
Ancora più all’interno in questo gioco ad incastri, c’è il romanzo di Freddie: perché l’occasione per conoscere i suoi tre nuovi amici, le è stata data da un urlo risuonato in biblioteca dove si trovava per concentrarsi. Il grido era stato lanciato da una ragazza trovata poi morta in una delle sale. Così Freddie cerca di ricavare un mistery da questo fatto tragico e dalla personalità dei suoi nuovi amici e nel frattempo di indagare, come investigatrice dilettante, su chi possa essere l’autore del crimine. L’autore, tra l’altro, potrebbe proprio essere una delle sue nuove conoscenze, come lei stessa ci anticipa nei suoi scritti.
Più all’interno ancora ci sono il passato turbolento e misterioso di Cain e quello delle persone che, da giovane, ha frequentato e conosciuto: peraltro anche lui era arrivato al successo letterario con un libro autobiografico sulla violenza e la vendetta. Ma pure l’ossessiva passione di Marigold per Whit e le storie d’amore che si intrecciano e ingarbugliano con le indagini della polizia, e i sospetti reciproci hanno un loro corso semi-autonomo. Insomma, sono anch’esse, altre, tante “bamboline” inserite l’una nell’altra.
Non conosciamo nulla del romanzo di Freddie, se non quello che lei ci racconta, ma si può facilmente intuire che ricalchi, come un’ombra proiettata su un muro, le vicende che la vedono come protagonista. Insomma, abbiamo una aspirante scrittrice (Freddie) che altri non è che l’alter ego di una scrittrice affermata (Hannah) a sua volta alter ego dell’unica autrice in carne ed ossa (la Gentill).
La matrice poliziesca si sposta continuamente in avanti e indietro su tutti questi livelli, non mancando neppure di coinvolgere il livello più esterno, quello di Hannah e Leo, cioè, in teoria, quello della vita reale. Tuttavia nessun livello riesce a raggiungere un vero pathos che coinvolga e attragga.

Così, se, da un lato, ho trovato l’idea di partenza abbastanza originale e ben trovata, purtroppo, però, a mio avviso, la realizzazione non è risultata all’altezza dei propositi.
La vicenda poliziesca è solo imbastita e neppure con troppa cura. In alcuni passaggi prosegue in modo fiacco, svogliato e, anzitutto, impacciato. In generale la trama è prevedibile, abbastanza banale e impalpabile. Ma soprattutto, m’è parso che la costruzione generale sia troppo approssimativa e non regga a una attenta analisi sulla logica conseguenzialità degli accadimenti. Ma, se c’è una qualità essenziale in un thriller, è proprio la precisione con cui il meccanismo narrativo si muove e agisce; qui la debolezza e ingenuità dell’impalcato è sin troppo evidente.
Lo stile è decisamente semplice e abbastanza immaturo. La stessa Boston ci viene descritta come potrebbe farlo chi la conosce solo attraverso le descrizioni altrui o dopo una sbirciatina rapida a Google Maps. In definitiva il romanzo di Hannah è piuttosto povero e i capitoli, sin troppo brevi e senza un vero approfondimento di personaggi, luoghi e situazioni, sono interrotti con fastidiosa frequenza dalle lettere di Leo, il quale, addirittura, tenta di spoilerare gli sviluppi futuri della trama o di forzarne lo svolgimento verso quelle che sono le sue speranze di autore fallito. L’effetto che ha suscitato in me è una irritazione generale per i suoi reiterati puntigli. Che poi, alla fine, anche questa sua ostinazione trovi una motivazione finale nell’epilogo, è insufficiente a rendere graditi gli intermezzi.

Traendo le conclusioni da quanto sopra non mi sento di promuovere a pieni voti questo romanzo. La Gentill è autrice affermata in Australia e con un buon seguito di pubblico, mentre questo è il primo libro pubblicato in Italia. Mi viene solo da augurarmi che questo romanzo non rappresenti il meglio della sua produzione, perché è un’opera molto acerba e piena di difetti, anche se non è del tutto immeritevole di lettura.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    12 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Il rovescio delle fiabe

Ma davvero siamo convinti che le fiabe siano racconti gratificanti per bambini, dove bellissime principesse incontrano sempre il loro fascinoso principe Azzurro e dove tutti, proprio tutti, alla fine, vivono felici e contenti?
Ormai siamo avvezzi alla versione disneyana delle fiabe (mi raccomando “fiabe”, da non confondere con le “favole” morali di Esopo e Fedro), ma Cenerentola non era solo quella povera, sventurata ragazzina che veniva bullizzata dalle sorellastre a cui normalmente pensiamo; Raperonzolo (o Petrosinella, come la chiama Basile) non era una nobile principessa rapita da una perfida strega per sordidi motivi e il suo amore per l’impavido principe era tutt’altro che platonico; Cappuccetto rosso, forse, non riusciva a spuntar fuori viva dalla pancia del lupo e non è escluso che il bel principe che svegliò la Bella Addormentata nel bosco prima, quand'era incosciente, l’avesse stuprata e, poi, dopo, si fosse reso colpevole di bigamia.
In sostanza i finali di queste storie, nelle loro versioni originarie, erano molto meno mielosi, romantici e sdolcinati di quanto supponiamo e di quanto ci hanno insegnato i lungometraggi a cartoni animati americani.
Riesaminando i testi scritti da Giovan Battista Basile (Il cunto de li cunti), Charles Perrault (I racconti di mamma oca) e dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (Fiabe), l’A. ci fa riscoprire il vero senso, cruento e terrifico, di questi racconti fantastici, tipici della cultura europea; in Oriente le storie avevano un contenuto e un andamento del tutto diverso.
Le fiabe si sono state trasmesse prima attraverso la tradizione orale, che era ancor più truculenta di quanto non lo siano stati, poi, i racconti su carta. In seguito quelle storie il cui originario scopo era quello di intrattenere gli adulti attorno al focolare, mentre si terminavano gli ultimi lavori della giornata agricola, divennero oggetto di trasposizione letteraria a opera di quei famosi favolisti, a motivo di sollazzo per le corti nobiliari europee o, infine (nei Grimm), quale tentativo di conservare delle tradizioni popolari etniche. Ma nei vari passaggi molto della tematica e dello spirito iniziali s’è perso o è mutato in qualcos’altro.

Questo libro godibilissimo ci mostra il vero lato oscuro delle fiabe più tradizionali. Sebbene abbia la veste grafica di una lussuosa graphic novel, con copertina in splendida quadricromia e pagine labbrate in oro, in realtà è una accurata analisi filologia, storica, etnica, semantica e psicologica delle storie che ci sono state narrate quand’eravamo bambini. E le scoperte a cui ci conduce sono davvero sconvolgenti anche per chi abbia memoria di alcune delle fiabe dei Grimm nel testo classico.
Dal riesame critico dei testi originali dei Grimm, di Perrault e di Basile apprendiamo che Cenerentola (o Zenzola per Basile) in effetti era una bambina subdola che s’era macchiata pure d’omicidio e, alla fine, viene premiata (ingiustamente?) mentre le due sorellastre subiscono (in alcune versioni) una crudele punizione; che la vendetta di Biancaneve sulla strega cattiva è atroce come lo erano le più terribili torture medievali; che Barbablù era sì uno schifoso femminicida (come si direbbe ora), ma che in fondo, le sue vittime se l’erano pure andata a cercare. In ogni caso in giro per il mondo delle fiabe c’erano molti altri personaggi (e non solo gli orchi) che facevano a gara con lui per crudeltà efferata e brutale malizia, amputando braccia alle sorelle o smembrando donne innocenti per mera gelosia. La malvagità e il sesso sfrenato, poi, non mancavano mai in quel loro mondo incantato.
Il libro analizza gli scopi e il senso vero delle fiabe, partendo dalle labili tracce lasciate dalla tradizione orale dei narratori (anche della Cina, lontana da noi nel tempo, nello spazio e nelle tradizioni) per giungere sino alla edulcorazione finale impressa dalla tradizione Disney.
Se le fiabe evolvettero sino a diventare un cupo, cruento monito per le giovani generazioni, con esempi orrorifici e cruente punizioni che dissuadevano dal deviare dalle regole morali usualmente accettate, non è affatto detto che la loro morale fosse impeccabile.
Per quanto riguarda l’insegnamento che sarebbe dovuto promanare da esse, infatti, oggi noi avremmo più di una obiezione da sollevare sulla morale delle fiabe di Basile e Perrault,. Anzi in alcuni casi il precetto che viene fornito ci lascia perplessi se non del tutto sgomenti per l’etica che vorrebbe imporre.

Questa analisi attenta, curata e documentata è contrabbandata dall’A. e illustratrice in modo scaltro con tavole disegnate con un tratto delizioso e aggraziato, con scenette lievemente caricaturali esplicitate da fumetti con battute di salace umorismo, di satira intelligente e con divertenti, ma glaciali battute, che trasformano quello che, in diversa veste, potrebbe essere definito un tedioso trattato di saggistica letteraria, in un godibilissimo libro da leggere e guardare con piacere e interesse.
Unica obiezione, forse, è sulle conclusioni finali che prende. In esse si pretenderebbe di stigmatizzare, con puritano dogmatismo moderno, quelle novelle osservandole da una prospettiva che oggi si definisce “woke” e che vorrebbe farci sentire colpevoli per le ingiustizie, il razzismo, le disuguaglianze di genere, economiche e sociali che in esse si evidenziano. Tuttavia non dobbiamo mai dimenticare in quali tempi venivano raccontate quelle storie: nel XVII secolo (quando scrivevano Basile e Perrault) alle donne era riservato un mondo ben distinto da quello degli uomini e non necessariamente più disprezzabile, anche se il massimo obiettivo finale a cui potevano ambire era il bel matrimonio con un ricco giovane.
Gli omosessuali e quelli che, genericamente, vengono oggi definiti “queer”, rientravano nella categoria dei fornicatori, puniti dalla legge degli uomini e da quella divina. I mori, per l’immaginario dell’epoca, erano le popolazioni mussulmane con le quali lo scontro era continuo senza esclusione di colpi da nessuna delle due parti. Quindi prima di giudicare con la morale odierna, è necessario ripensare al contesto storico in cui le fiabe furono scritte.

Salvo questa precisazione, ho trovato il libro molto interessante e di piacevole e istruttiva lettura. Ovviamente, però, è sconsigliabile alle giovani generazioni come, del resto, le vignette della seconda pagina esplicitamente avvertono, ma per un lettore adulto e preparato può essere fonte di sorprese e interessanti insegnamenti. Da leggere con attenta visione disincantata. Tra l’altro stimola la curiosità: sulla scia di quanto appreso, io sono stato spinto a prendere in mano “Il cunto de li cunti” di Basile per rileggere nella versione prima le storie, ad esempio, della “Gatta Cenerentola” o di “Petrosinella”.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Settembre, 2024
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Colter Shaw lavora in proprio

Colter Shaw è un cacciatore di ricompense e dedica le sue giornate a rintracciare persone scomparse (o fuggite alla giustizia) dietro la speranza di ottenere le remunerazioni che parenti o autorità promettono a chi ritroverà gli scomparsi. Però, Colter, l’Inquieto, come lo definiva il padre, ha pure un suo obiettivo personale che lo assilla da vent’anni.
Ashton Shaw, eminente professore della California University di Berkeley, aveva costretto la sua famiglia ad abbandonare tutto e a rifugiarsi nella loro tenuta sulla Sierra Nevada, assillato dal timore paranoico di essere oggetto delle attenzioni minacciose di enti e multinazionali che ordivano oscure trame a danno suo, dei suoi e del Paese intero. Là li aveva tutti addestrati al survivalismo più integrale e assoluto, insegnando loro a diffidare di tutti e di ogni cosa.
Gran parte di questi timori, però, erano frutto della psicosi dell’uomo che, con gli anni, s’era andata aggravando, nonostante le cure della moglie, psichiatra. Tuttavia in parte erano paure pienamente fondate: proprio uno degli emissari di queste potentissime società, che Ashton cercava di denunciare, era penetrato nella tenuta e l’aveva ucciso facendolo precipitare da una rupe.
Per anni Colter aveva ipotizzato che l’autore dell’omicidio fosse suo fratello Russell, scomparso nel nulla proprio in quei giorni, ma ormai ha capito che i timori di suo padre non erano fallaci. La BlackBridge Corporate Solutions da anni agisce ai limiti della legalità e i suoi dirigenti sono persone assolutamente prive di scrupoli che adottano ogni metodo per il soddisfacimento dei loro avidi interessi.
Colter è convinto di aver individuato finalmente i responsabili della morte del padre e di molte altre persone che avevano cercato di ostacolare i loschi traffici della BlackBridge: dopo tutti questi anni, forse, sta per mettere le mani sui documenti lungamente cercati dal padre. Essi li inchioderebbero alle pesantissime responsabilità per la gestione criminale della loro società.
Ma quella gente è potente e crudele e non si ferma di fronte a nulla pur di ottenere ciò a cui mira, quindi Colter dovrà agire sempre tenendo ben presente le massime di suo padre, il Re del Mai: “Mai suppore che un nemico sia inoffensivo”; “Mai pensare di essere al sicuro”; “Mai rendersi vulnerabili”; “Mai prendere decisioni in base alle emozioni”; “Mai permettere al nemico di valutare le tue difese”. Cioè dovrà essere sempre cauto e calcolare ogni sua mossa con logica e preveggenza, cercando di precedere quelle dei suoi nemici.
A San Francisco si giocherà la partita finale con questa cricca di delinquenti, ma, nel frattempo, Colter dovrà risolvere pure il caso della scomparsa di una ragazzina (forse preda di sfruttatori) e cercare di riallacciare i rapporti con il fratello, improvvisamente riapparso nella sua vita.

Questo è il terzo capitolo della serie dedicata a Colter Shaw, enigmatico e cerebrale eremita che si dedica alle investigazioni dietro ricompensa non per necessità economiche, ma per assecondare un suo istinto di cacciatore, cercatore di tracce e che non si muove mai prima di aver valutato attentamente le percentuali di successo di ogni singola ipotesi.
Jeffery Deaver è un abile ed esperto artigiano del romanzo thriller e i suoi libri sono un ottimo cocktail di suspense, azione, colpi di scena e meticolose descrizioni d’ambiente e dei protagonisti. Le trame sono ben architettate e – se anche in alcuni casi si rischia di superare quel labile confine che divide le storie credibili da quelle in cui si deve ricorrere alla sospensione dell’innata incredulità per accettare alcune situazioni – non di rado vengono affrontati, in modo non banale, alcuni dei problemi concreti che affliggono la nostra società contemporanea: ad esempio, nel primo romanzo era presa di mira la dipendenza patologica dal gioco elettronico, nel secondo l’asservimento alle sette fideistiche, e, in questo, lo strapotere delle multinazionali.
Lo stile narrativo è rapido e fluido e ben asseconda il susseguirsi delle azioni nel loro concitato svolgersi.
A voler trovare difetti nelle storie si può osservare come la mania di descrivere con puntigliosa precisione le caratteristiche fisiche e comportamentali dei vari attori delle scene e le ambientazioni delle medesime – al punto da fornire dettagli sulla marca degli abiti, la tipologia delle bevande o dei cibi consumati, addirittura la specie di piante incontrate in un parco o lo stile architettonico degli edifici di una via – appaia eccessivo, defatigante e quasi barocco, se non proprio una forma di pubblicità occulta a questo o quel prodotto.
Però, è innegabile che, ad esempio, la città di San Francisco, venga descritta in modo così vivido e circostanziato, al punto da proiettare il lettore nelle sue strade e assuefarlo alle sue atmosfere. E i personaggi ci sono tratteggiati con tale accuratezza che, se li incontrassimo per strada, riusciremmo a riconoscerli.
Ho trovato un po’ fastidiosa l’assoluta perfezione con cui si muove Colter, che è sempre un paio di passi davanti ai suoi avversari, che prevede le loro mosse e riesce a contrastarle sempre con abilità, astuzia ed efficacia, che non viene mai preso alla sprovvista anche quando, a noi lettori, ci appare spacciato; che ha a disposizione sempre il gadget elettronico che gli permette di raggiungere i suoi scopi.
Tutti i potenziali colpi di scena, gli eventuali rovesciamenti di fronte che potrebbero vederlo in difficoltà se non, addirittura, a rischio di soccombere ai suoi avversari, sono, praticamente ogni volta, bloccati sul nascere, quando non sono, addirittura, previsti in anticipo con un piano complesso per indurre in errore i suoi nemici. Le rarissime volte in cui potrebbe trovarsi in difficoltà, a soccorrerlo arriva un provvidenziale deus ex machina (nella specie il misterioso e quasi onnipotente fratello Russell) che, non solo lo trae dai guai, ma addirittura lo sostiene e appoggia nella sua lotta.
Se pure Superman ha i suoi punti deboli e un po’ di kriptonite può renderlo inerme, Colter Shaw è assolutamente inattaccabile e, in quella violenta partita a scacchi contro gli uomini che hanno ucciso il padre, non sbaglia mai una mossa, anche se il lettore lo scopre solo pagine dopo che i fatti sono accaduti.
Quindi, in definitiva, il personaggio Colter è assai poco credibile e reale, ma sicuramente appagante e gratificante in un universo dove i cattivi ricevono sempre la giusta punizione che si sono abbondantemente meritati con le loro malefatte e la giustizia è sempre giusta, definitiva ed efficace. In definitiva, la soluzione catartica della vicenda non viene negata al lettore, il quale, al contrario, ne può godere nel modo più pieno e consolatorio.
Quindi il libro, proprio per questi confortanti esiti, è divertente e distensivo e dona qualche ora di sano svago, staccati dalla realtà quotidiana. Da leggere come degna conclusione della trilogia (iniziale?) di Colter Shaw.

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...e apprezzato i primi romanzi dedicati al personaggio di Colter Shaw
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Settembre, 2024
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Indagini mediocri per un ispettore mediocre


L’ispettore Ferraro (il nome di battesimo non lo confessa neppure sotto tortura, già ritiene troppo loffio il cognome) è un poliziotto milanese, nato a Quarto Oggiaro e, salva una breve assegnazione in montagna, vissuto sempre nel suo quartiere, dove indaga, senza mai troppa enfasi nel lavoro, su ogni tipo di crimine, dai feroci omicidi ai… furti di mele del suo ortolano preferito. Fa il poliziotto perché crede che questa sia stata l’unica opzione che gli ha offerto la vita, ma se pure svolge le indagini senza entusiasmo (a volte preferirebbe vomitare piuttosto che recarsi in ufficio), lo fa anche senza alcuna infamia o colpevole negligenza, cercando di sbrogliare la matassa che, di volta in volta, gli è capita tra le mani.
In questo volume, che è il romanzo d’esordio della lunga serie a lui dedicata, lo troviamo impegnato in quattro casi, uno per stagione. Indagini che lo impegneranno sugli omicidi di un marocchino, spacciatore di droga, sgozzato brutalmente com’era capitato, settimane prima, al suo cane; di un facoltoso e discusso immobiliarista, investito (intenzionalmente?) in una delle zone più malfamate di Milano, dove non si capisce cosa stesse facendo; di Armandino, un povero vecchio, suo vicino di casa, che non aveva mai fatto male a una mosca; e di una donna, nota venditrice di sigarette di contrabbando, pestata a morte lo stesso giorno in cui la palestra di suo figlio era stata data alle fiamme.
Ferraro, con il contribuito, spesso determinate, dei suoi colleghi, riuscirà a incastrare i colpevoli, ma la sua insoddisfazione lieviterà sino a fargli valutare un’alternativa al lavoro in polizia, alternativa che non si sa a cosa lo porterà.

Questi gialli di Biondillo sono del tutto anomali nel panorama italiano del genere: racconti sottotono di una criminalità di periferia dove gli ambienti spesso desolanti, in cui si muovono i personaggi, fanno da contraltare alle loro personalità, non di rado banali, quando non sordide.
In particolare il protagonista è un uomo mediocre, deluso dalla vita che gli ha portato via il padre quant’era ancora troppo giovane, gli ha tarpato le ali verso diversi sbocchi di carriera e che – adesso che è pure divorziato – si illumina solo nei troppo brevi fine settimana con la figlia Giulia.
Sostanzialmente è privo dei talenti investigativi tipici nei detective della letteratura. Però è tenace e puntiglioso. Non di rado piglia delle cantonate che potrebbero portare a clamorosi errori giudiziari, ma, alla fine, lui e la sua squadra, fanno girare correttamente l’arrugginita macchina della giustizia per giungere alla soluzione sperata.
È circondato da colleghi che sono personaggi da gag comica. Ad esempio l’ispettore capo Lanza, suo diretto superiore, non comprende neppure le ironie, le iperboli, le metafore più blande e, così, se qualcuno osserva che hanno dovuto raccogliere un cadavere con cucchiaino, pensa davvero che sia stato usato quello strumento per il mesto servizio. Tuttavia è assolutamente preciso e circostanziato: “se diceva che era A allora era A. Altrimenti stava zitto”. Insomma ha una mente analitica e priva di alcuna immaginazione, ma, proprio per ciò, è decisivo nel risolvere alcune indagini. Al contrario il sovrintendente Comaschi fa a gara con Ferraro per trovare le battute più corrive e fiacche che non fanno ridere neppure lui, o per punzecchiarlo con frecciatine continue. Spesso è più d’intoppo che d’aiuto, ma anche lui fornisce un contributo non ignorabile. I capi non sono da meno in questi racconti polizieschi, dove la satira scivola volentieri verso lo scherno sarcastico, la critica sociale si confonde con l’osservazione politicamente molto scorretta, la trovata fantasiosa si trasforma in situazione surreale. Insomma, i confini tra il poliziesco investigativo classico e la caricatura sguaiata sono abbastanza labili.
Anche lo stile narrativo si adatta alle situazioni e ai personaggi: il linguaggio e le costruzioni lessicali usati sono spesso disadorni e popolari, non privi di qualche rozzezza espressiva. Le trame – se da un lato ci appaiono più reali di quanto non lo siano certe invenzioni più blasonate, proprio perché la realtà è, il più delle volte, banale – dall’altro peccano di una eccessiva semplicità.
La ricerca costante dell’ironia e della situazione comica con esiti, non di rado, paradossali, richiama alla mente le avventure del bizzarro commissario Sanantonio, protagonista di centinaia di romanzi tra il poliziesco, lo spionistico e la pura farsa strampalata, frutto della fantasia dello scrittore francese Frédéric Dard. Ma Ferraro si muove più terra-terra del suo omologo d’oltralpe: non è un Superman dell’investigazione scientifica; è solo un pover’uomo che cerca di fare il lavoro, per il quale viene pagato, nel modo meno infame che gli riesce.
Da segnalare in questi racconti, la minuziosa descrizione di Milano da parte dell’A. da cui traspare un amore intenso, ma forse mal corrisposto, per la città che ci viene descritta anche nelle sue caratteristiche meno accattivanti e seducenti, tuttavia sempre con un malcelato rimpianto su quello che potrebbe, invece, donare ai suoi abitanti.

Complessivamente, il libro è gradevole e, non di rado, spassoso: riesce pure a strappare qualche risata sincera e ad intrigare con l’intreccio poliziesco, ma, sinceramente, non è tra quelli destinati a rimanere nella memoria.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    20 Agosto, 2024
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Una ragnatela malefica per Ardelia

Stanno accadendo fatti inquietanti ad Albenga: uno stimato avvocato ha dato di matto e s’è spogliato nudo in piazza; un medico di grande prestigio s’è fatto saltare le cervella in un bosco; un gelataio, proprietario di un avviato esercizio commerciale, è svanito nel nulla. I fatti, di per sé, sembrano disconnessi gli uni dagli altri, ma la cittadina mormora e, forse, dietro a tutto ciò, c’è un regista occulto.
Inoltre c’è la triste storia dell’eccelsa e chiacchierata pianista Norma Picolit. L’artista ha casualmente scoperto che la sua giovane amante Serafina di Benedetti, di cui lei è perdutamente infatuata, non è cieca, come lei le ha sempre fatto credere, ma ci vede benissimo e ha una vita parallela di cui Norma ignora tutto. Per la donna, già fragile psicologicamente, è come se un intero universo fosse andato in pezzi. Cade in una depressione profonda dalla quale non sa come uscire.
È comprensibile, quindi, che — quando viene scoperto, semisommerso nel Centa in piena, proprio il cadavere di Serafina — i sospetti della PM incaricata delle indagini convergano tutti sulla Picolit. Tra l’altro le indagini autoptiche evidenziano come la ragazza, prima di essere gettata nel fiume, sia stata orrendamente torturata per farle provare realmente, e da viva, la condizione su cui lei giocava.
Solo gli amici — Ardelia Spinola, medico legale, e Bartolomeo Rebaudengo, commissario di P.S. in pensione e stimato profiler — rimarranno strenui a difenderla dalle accuse crudeli e omofobe che rischiano di travolgerla nuovamente nell’alterazione mentale da cui era faticosamente riemersa grazie alla musica. Però, anche in loro, il seme del dubbio rischia di germogliare.

Quindicesimo romanzo della fortunata serie poliziesca che vede come protagonisti il simpatico duo di investigatori sui generis formato dal genovesissimo, tormentato e tempestoso medico legale Ardelia e dal pacato e riflessivo (ora ex) poliziotto sabaudo, Bartolomeo, ritornati ad essere pure una coppia dal punto di vista sentimentale.
Come d’abitudine la Rava ci offre un romanzo ben costruito e piacevole con un discreto susseguirsi di avvenimenti che lo rendono avvincente e senza mai un momento di stanchezza.
Forse, di per sé, la trama non è originalissima, e alcune situazioni e reazioni sono esasperate in modo eccessivo e non totalmente verisimile. Inoltre certi personaggi sembrano riecheggiare caratterizzazioni già utilizzate in passato dalla medesima A.
In particolare è difficile sfuggire alla sensazione che la Dorotea Mortigliengo di questo romanzo (figlia dello stimato clinico suicida) non assomigli sin troppo alla Candida Di Blasi del romanzo d’esordio della serie, sorella di una delle vittime nella prima indagine del commissario Rebaudengo. Percezione che non dev’essere sfuggita all’A. stessa che, alla fine, con un’astuta opera di repêchage emotivo, fa ripercorrere ai personaggi il medesimo cammino (fisico e mentale) lungo il quale tutto era iniziato.
Tuttavia, questa specie di “amarcord” nostalgico della prima storia non indebolisce la narrazione, né la rende scontata o abusata. Anzi è apprezzabile come, a somiglianza dei più stimati giallisti del passato, l’A. ci presenti il colpevole sino dai primi capitoli, ma che la sua identificazione appaia, alla fine, sorprendente e sconvolgente con un colpo di scena degno della migliore Agatha Christie.
Inoltre, va rimarcato che, nei romanzi della Rava, anche la descrizione di un fatto, un accadimento ordinario, comune, di qualcosa che, normalmente, passerebbe sotto la soglia d’attenzione, non viene mai fatta in modo banale e corrivo, ma con stile ed eleganza, rifuggendo da luoghi comuni o frasi fatte. Le ambientazioni o l’esposizione di sentimenti o pensieri, ma anche descrizione di un tramonto, dello scorrere del tempo o di un evento meteorologico qualunque, sono l’occasione per approfondimenti, riflessioni accurate o per donare qualche pennellata di colore, poesia e grazia alla narrazione.
Come al solito, quindi, la lettura risulta appagante e stuzzicante: non una semplice occasione per una fuga di pensieri o un lasciarsi travolgere passivo dalla corrente emotiva dei tragici fatti narrati, ma un modo per godere appieno di situazioni e riflessioni non mediocri.

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a chi ama le storie di Ardelia Spinola e Bartolomeo Rebaudengo
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Romanzi storici
 
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3.8
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    20 Agosto, 2024
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L’ombra del Male

Nella primavera del 1831 l’ispettore Valentine Verne è tutto preso nella caccia al malvagio “Vicario”, l’uomo che lo prelevò quando aveva solo otto anni e lo tenne recluso per i successivi quattro in una lurida cantina per soddisfare le sue più abiette brame sessuali. Tuttavia la preda è tutt’altro che spaurita e in fuga. Al contrario lascia dietro di sé un atroce scia di sangue e i ruoli rischiano di ribaltarsi: Valentin corre pure seriamente il pericolo di tornare ad essere nuovamente preda, assieme a coloro che a lui sono più cari.
Nel frattempo, però, in qualità di capo dell’Ufficio affari occulti della Questura di Parigi, deve pure occuparsi di un nuovo caso inquietante. Una giovane dama, Mélanie, si rivolge a lui per smascherare quello che lei ritiene un sordido truffatore: il sedicente medium slavo Oblanoff avrebbe abbindolato il marito, il nobile Ferdinand d’Orval, promettendogli di riportare in vita la figlia Blanche, da poco defunta. L’uomo s’è quasi installato a casa loro e di esibizione in esibizione ha catturato la fiducia dell’uomo che, ormai, potrebbe esser pronto a tutto pur di riavere tra le braccia la figlia morta, cosa che la logica dovrebbe fargli apparire impossibile.
Il giovane e geniale investigatore, quindi, si dovrà dividere in queste due indagini e solo la sua profonda cultura e la sua preparazione gli consentiranno di scoprire quali astuti stratagemmi usa il truffatore e quali siano le esche che il Vicario sta seminando per attirarlo a sé. Ma da qui a far prevalere la giustizia smascherando l’impostore e a sconfiggendo il mostro, liberando il mondo dalla sua feroce brama predatoria, la strada sarà lunga e dolorosissima.

Questo è il secondo romanzo che vede come protagonista il geniale ispettore Valentine Verne nella Francia di Luigi Filippo ed è la seconda occasione per raccontare, al lettore, le mirabolanti scoperte scientifiche che la prima metà del secolo XIX offrirà al mondo.
Rispetto al primo romanzo l’ambientazione è ancora più cupa e truculenta e la figura dell’inafferrabile Vicario diverrà immanente e pervasiva, rubando gran parte della scena anche agli altri protagonisti. La descrizione della Parigi di quegli anni ’30 è meno accurata e vivida rispetto al primo libro, ma comunque affascinante e interessante. Dal punto di vista della ricostruzione storica si fanno apprezzare i riferimenti ai turbolenti avvenimenti di quei giorni e le rapide pennellate di colore di una Parigi poco conosciuta e più sordida di quanti si legga nei libri di storia.
Il lato poliziesco, purtroppo, è assai poco enigmatico per un lettore moderno: le abilità evocatrici dell’astuto truffatore Oblanoff non sono certo misteriose per un contemporaneo, sol ch’egli rifletta su quali invenzioni furono fatte in quel periodo. Anche i puzzle proposti dal cruento pedofilo non possono definirsi irrisolvibili, anzi, in alcuni casi, stupisce che l’abile investigatore si faccia fuorviare dagli apparentemente banali inganni che gli sono messi davanti.
In definitiva, nella trama si rileva quella pacata ingenuità, tipica delle trame gialle degli autori di fine ottocento, primi novecento: Gaston Leroux, Edgar Wallace e, non me ne si voglia, pure Poe e Conan Doyle, per altri versi eccelsi.
Tuttavia, forse, questo è un ulteriore motivo d’attrattiva: l’aria un po’ naif, che si respira leggendo il romanzo, spoglia l’inchiesta da gran parte di quei tecnicismi e sofisticazioni tipici dell’era moderna per riportarci in un mondo in cui l’intelletto era il solo alleato dell’investigatore e la sua capacità di superare, con la sua perspicacia, le torbide trame del nemico, l’unico mezzo per fermare il criminale.
Pure nello stile narrativo, ornato e talvolta desueto, c’è profumo d’antico. Ma ciò non disturba, poiché s’adatta benissimo all’ambientazione storica e aiuta a calarsi in quelle atmosfere d’antan attraverso le quali ci spostava solo in fiacre.
In vero, va precisato che non manca l’azione e la suspense. La dinamicità con cui s’evolve la storia ne fa un romanzo moderno che cattura l’attenzione e avvince. Inoltre è pregevole il fatto che l’A. abbia l’accortezza di documentare, in nota e con dovizia di ragguagli, ogni affermazione storica e ogni riferimento scientifico che potrebbe sollevare dubbi nel lettore. Addirittura, come nel libro che lo ha preceduto, in calce sono riportate precisazioni sulle cronologie e un’ampia bibliografia che consente, a chi lo gradisce, di approfondire gli argomenti e verificare i fatti storici.
Insomma un buon libro che non è solo poliziesco, ma anche storico e d’atmosfere, di gradevole lettura e sicuro svago.

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Consigliato a chi ha letto...
... il volume che precede, "L'ufficio degli affari occulti", indispensabile pure per capire la personalità e le motivazioni dei protagonisti
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Narrativa per ragazzi
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Come entrare e uscire dai libri

Maggie ama leggere, al punto da addormentarsi spesso abbracciata a un libro.
Suo padre, Mortimer, ma per lei solo Mo, le ha messo i libri in mano sin da quando era piccolissima. Del resto lui è un rilegatore, anzi un “dottore dei libri” che piglia vecchi volumi squinternati e li rimette a nuovo. Tuttavia Mo ha altri talenti, molto più scioccanti, ed è a causa di tali capacità misteriose e inquietanti che non ha mai letto nulla ad alta voce alla bimba.
Infatti quando Maggie aveva solo tre anni, leggendo con passione una bella avventura fantastica, “Cuore d’inchiostro”, alla moglie Teresa era accaduto un prodigio inesplicabile quanto sconvolgente: dal libro erano sgusciati fuori tre inquietanti figuri, Capricorno, Basta e Dita di Polvere. Se quest’ultimo era solo un innocuo saltimbanco mangiafuoco, gli altri due erano spietati delinquenti che avevano subito minacciato l’uomo, per cercare di ritornare da dove erano venuti e, poi, s’erano dileguati per fare danni nel mondo in cui erano stati trascinati. Ma la cosa più angosciante, che Mo sveva scoperto dopo, era che il loro posto nella storia era stato preso dall’adorata moglie, risucchiata nelle pagine del romanzo.
Da quel giorno Capricorno non fa che dargli la caccia per ottenere da Lingua di Fata, come lui lo chiama, chissà quali torbidi prodigi, mentre Mo cerca inutilmente di richiamare a sé Teresa.
Per anni Mo è sempre riuscito a sfuggire a Capricorno, ma un brutto giorno, con l’aiuto di Dita di Polvere, questi era riuscito a catturarlo assieme a Maggie e a zia Elinor, una collezionista compulsiva di libri, alla quale Mo si era rivolto per nascondere l’ultima copia di “Cuore d’inchiostro” dalla quale cercava ancora di recuperare sua moglie.
Per i tre inizieranno, così, mirabolanti e pericolosissime avventure, tra la realtà e la letteratura più immaginifica.

“Cuore d’inchiostro” è il primo volume di una inconsueta trilogia, nella quale i libri, vere porte d’ingresso e uscita da modi fantastici, hanno un ruolo da protagonisti, seppure come oggetti passivi di questi prodigi.
L’idea in sé non è certo originale, basti pensare a “La storia infinita” (la letteratura è ricca di portali da e per mondi paralleli), ma sotto certi aspetti abbastanza ben costruita.
In questo caso gli attori “fantastici” sono trascinati nel nostro mondo reale, ma, invece di esserne travolti e sopraffatti, come logica vorrebbe, lo piegano ai propri turpi voleri. Capricorno e Basta mettono assieme una sorta di cosca mafiosa che soggioga tutti coloro che si trovano a incrociarne il cammino, forze dell’ordine comprese.
Peraltro i villain di turno sono descritti come tetragoni nella loro crudeltà assoluta, ma, di fatto, queste appaiono solo dichiarazioni di facciata: si limitano a minacciare e promettere castighi, ma sono continuamente raggirati dai “buoni”.
Il testo, diviene subito evidente, è indirizzato esclusivamente a un pubblico giovanile e, purtroppo, la narrazione ne soffre pesantemente. Non solo il linguaggio è semplice (verrebbe da dire “basico”) e non particolarmente strutturato, privo com’è di approfondimenti e di attente analisi, ma la caratterizzazione dei personaggi, sia quelli positivi che quelli negativi è parecchio schematica: tutti sembrano sgrossati con un’accetta, tutti, pure i protagonisti, appaiono privi di sfaccettature e chiaroscuri. Anche l’ossessione per i libri che hanno Mo, Meggie e Elinor è abbastanza fasulla, non per nulla adulti e giovani sembrano attratti quasi solo dalla letteratura per l’infanzia o, al massimo, per i romanzi d’avventura.
La cesura manichea tra buoni e cattivi appare decisamente forzata ed eccessivamente netta. Molti, troppi sono i luoghi comuni e le ingenuità naif in cui inciampa la narrazione. Le vicende, pur essendo ambientate nel nostro XXI secolo hanno un che di anacronistico e artefatto, e ciò, si badi, non per via della trovata fantastica attorno a cui gira il racconto.
Concludendo, sebbene l’idea di partenza sia gradevole e ben gestita, il racconto non decolla, molte delle promesse di avventure e fenomeni mirabili, restano mere aspettative. Ne risulta un gradevole romanzo per un pubblico particolarmente giovane, ma abbastanza insoddisfacente per un adulto o per adolescenti smaliziati. Alla lunga, poi, privo com’è di una evoluzione della trama, risulta abbastanza noioso. Tra l’altro, si chiude consegnando al lettore molte più domande e dubbi di quanti riesca a risolvere. È comprensibile lasciarsi una porta aperta se si ha intenzione di farne una trilogia, ma in questo caso non ho rinvenuto neppure un grande stimolo a leggere i seguiti.

Come ultima notazione debbo rilevare che mi sono apparse piacevoli e ben trovate le citazioni da altre opere letterarie usate sia come apertura dei vari capitoli, sia come citazioni e letture entro il flusso della narrazione. Questo giocare dentro e fuori altri romanzi, seppur, in genere, di letteratura per l’infanzia, nobilita in un certo qual modo il testo, accentuando la sensazione di trovarsi sulla soglia di un portale tra i molteplici mondi partoriti dalla inventiva degli scrittori, in quella che Nathaniel Hawthorne definiva “The Hall of Fantasy”.

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Consigliato a chi ha letto...
... e gradito romanzi come il Peter Pan di Barrie o le avventure di Alice di Carroll; con l'avvertenza che non si troverà nulla di più di una avventura fantastica strutturata per un pubblico giovanile.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Agosto, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Il cacciatore di ricompense

Colter Shaw si guadagna da vivere riscuotendo le ricompense offerte da parenti o dalla polizia per ritrovare persone scomparse o fuggitive. Non è un “cacciatore di taglie” propriamente detto, lui si limita a rispondere agli avvisi di coloro che, disperati per la scomparsa di un proprio caro, offrono premi, non sempre consistenti, per poter sapere che cosa gli è accaduto.
Ma Colter ha pure una sua missione personale: scoprire cosa effettivamente avvenne 15 anni prima, quando fu proprio lui a trovare suo padre, Ashton, morto precipitato giù da un dirupo nella loro sconfinata tenuta ai piedi della Sierra Nevada, mentre il fratello maggiore Russell era scomparso nel nulla.
Proprio per proseguire nelle sue ricerche si era recato in California, per recuperare in modo non
propriamente lecito alcuni documenti che il padre aveva lasciato all’università di Berkley e che dovrebbero aiutarlo a risolvere il dilemma che lo assilla. Qui viene raggiunto dalla telefonata della sua agente: nella vicina Silicon Valley un uomo disperato, Frank Mulliner, sta offrendo 10.000 dollari a chi gli ritroverà sua figlia Sophie misteriosamente svanita nel nulla alcuni giorni prima.
Colter dopo un colloquio con Mulliner, decide di accettare l’incarico. Con le sue indagini, si ritroverà proiettato nel mondo delle software-house di giochi dove, spesso, si usa ogni stratagemma, pure sleale, per ostacolarsi e strapparsi utenti. Però, in quello strano microcosmo, i giocatori sono così assuefatti alle avventure “sparatutto” da trascorrere la maggior parte del loro tempo incollati a monitor pieni di alieni feroci e astronavi da guerra e, forse, uno di loro è così assorbito da quella realtà virtuale che potrebbe non aver neppure più chiaro quale sia il confine tra le ambientazioni fictional e il mondo reale. E se il rapitore di Sophie stesse proprio cercando di riprodurre “dal vero” le avventure de “L’uomo che sussurra”, uno dei giochi survival più gettonati?

Con “Il gioco del Mai” Jefferey Deaver dà inizio alla serie di romanzi con protagonista l’insolito personaggio di Colter Shaw, un cercatore di persone scomparse che accetta anche gravi rischi personali per la ricompensa promessa, ma soprattutto per il suo senso innato di giustizia che lo spinge a proseguire l’attività anche gratuitamente o accettando pagamenti ridotti o rateali dai clienti. Per la sua missione personale, poi, profonde tutte le sue energie.
Con uno stile fluido e diretto l’A. ci proietta nel mondo delle varie devianze che affliggono il nostro mondo moderno (un tema presente in questo libro, ma che si ripeterà anche in quelli successivi). La prosa scorre rapida e avvincente, forse afflitta solo, all’inizio, dalla tipica pedanteria di certi autori americani che si sentono in dovere di precisare ogni minimo particolare della scena, e dei suoi attori, dalla marca del berretto o delle scarpe indossati alla tipologia di caffè sorbito in un bar. Però, una volta che l’avventura si è ben sviluppata, questa minuziosità, un po' sfibrante, non si nota più.
Il personaggio di Colter, probabilmente è un po’ troppo sopra le righe, troppo perfetto, troppo lucido, troppo esperto nelle tecniche di sopravvivenza al punto di assomigliare più a un supereroe che a un normale essere umano. Comunque in questo genere di romanzi è appagante scoprire che il personaggio principale sappia sempre come cavarsela, qualunque situazione pericolosa si trovi ad affrontare. Dà una connotazione rassicurante alla lettura.
La trama è ben strutturata e non ha cali di interesse. Magari il lettore che amasse anticipare gli esiti potrebbe pure fare ipotesi non infondate su quale potrebbe essere l’epilogo della vicenda, ma tra colpi di scienza non certo scontati e deviazioni della trama il romanzo conserva la sua piacevolezza fino in fondo.
Forse l’unica cosa che lascia un po’ insoddisfatti è la vicenda personale di Colter, che resta volutamente irrisolta come un fil-rouge per costringe il lettore a una forzosa fidelizzazione alla serie.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Agosto, 2024
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Harry Bosch gioca su più tavoli

Harry Bosch è in pensione ormai da anni, ma, nonostante i numerosi problemi di salute, non ha smesso di occuparsi dei casi irrisolti.
Al ritorno dal funerale del suo mentore, John Jack Thompson, il poliziotto che gli ha insegnato tutto, la vedova gli fa avere un vecchio fascicolo d’indagine che il marito s’era portato a casa andando in pensione. Bosch, incuriositosi dopo aver esaminate le carte, si trova a farsi domande sull’omicidio di un ragazzo avvenuto oltre vent’anni prima e restato irrisolto, classificato come delitto nel giro della droga. Ma ci sono cose che non tornano affatto nella vecchia indagine, piuttosto affrettata, e, soprattutto, sul fatto che John Jack abbia, sostanzialmente, sottratto il fascicolo all’ufficio, senza nemmeno metterci mano.
Però, Harry ha anche altri casi da risolvere. Ha appena aiutato il fratellastro, l’avv. Mickey Haller, a far cadere le accuse per l’omicidio di un giudice mosse a carico di un suo cliente, ma non accetta che l’assassino resti impunito. Giacché i poliziotti incaricati del caso non intendono riaprire le indagini, convinti come sono che il colpevole sia proprio colui che Harry ha contribuito a liberare, si sente in obbligo, lui, di scoprire il vero autore del crimine.
Infine c’è pure la brutta storia di un ragazzo morto bruciato vivo nella sua tenda, in un accampamento di homeless. Le indagini preliminari le ha fatte la sua amica Renée Ballard, investigatrice del turno di notte a Hollywood. Parrebbe un tragico incidente: la stufetta che s’è ribaltata e ha incendiato tutto. Ma Ballard non ne è assolutamente convinta, tuttavia, ufficialmente, non ha l’autorità di investigare visto che il caso è stato trasferito al Dipartimento dei Vigili del Fuoco; però, ufficiosamente…
I due cocciuti detective si trovano così a collaborare in parallelo e “sotto traccia” su quei tre casi con la testardaggine che caratterizza entrambi. Le sorprese non mancheranno, salteranno fuori inquietanti connessioni, ed entrambi correranno seri rischi personali.

È assai difficile che Michael Connelly deluda. È un maestro dei gialli in particolare in quelli definiti police procedural, cioè quelli incentrati sulle minuziose attività che i poliziotti debbono seguire e dove i metodi e le tempistiche del Los Angeles Police Department vengono accuratamente osservati e descritti. Anche in questo caso la narrazione procede spedita come un meccanismo ben oliato, magari non abbiamo molta suspense e non sempre l’azione è travolgente, ma non si incappa mai in un calo di attenzione e la lettura è piacevole dalla prima pagina all’ultima.
Nonostante le storie siano sostanzialmente tre che si intrecciano tra loro e con le vicende personali e familiari dei due detective, è facile seguirne il dipanarsi e restarne attratti e coinvolti.
In passato, leggendo i romanzi di Connelly, ero rimasto affascinato dal fatto che, in essi, l’A. non dimenticasse mai di affrontare il lato umano delle questioni, sia approfondendo le personalità, le caratteristiche e le tortuosità dei protagonisti, sia sviscerando il lato psicologico anche dei delinquenti.
In questo romanzo, forse, questo aspetto è meno presente, ma, ormai, Hieronymus Bosch è oltremodo familiare ai lettori di Connelly, in quanto protagonista di decine di storie. Pure la detective Renée Ballard, la spigolosa poliziotta relegata al turno di notte (definito dai colleghi “l’ultimo spettacolo”) per il passato scontro con uno dei suoi capi, ormai è persona nota e ben delineata in passato, quindi si sente meno la necessità di una introspezione psicologica dei due.
Però le preoccupazioni di padre di Bosch non possono che renderci simpatico e decisamente umano il suo personaggio, mentre la scontrosa riottosità di Ballard, e principalmente, i motivi per i quali la donna è così dura con sé stessa e con gli altri. sono comunque elementi caratterizzanti e qualificanti della storia.
Insomma si tratta di un buon libro, ben scritto e piacevole a leggersi, del genere utile a “staccare la spina per qualche ora” per una immersione totale nell’indagine di polizia.

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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Giugno, 2024
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La guerra non fa preferenze

Tra l’estate e l’autunno 1938 in Spagna si combatté quella che poi fu definita la battaglia dell’Ebro. L’esercito repubblicano, per cercare di alleggerire la pressione che le armate franchiste stavano esercitando in direzione di Madrid, valicò in vari punti il fiume Ebro, in Catalogna, per aprire un secondo fronte. I nazionalisti furono colti di sorpresa e, nei primi giorni, sembrò che l’offensiva avrebbe avuto successo. Però, dopo aver percorso pochi chilometri oltre le sponde, l’avanzata si impantanò e iniziò una serie terribile di scontri d’attrito per la conquista o riconquista di ogni singolo avamposto, villaggio, cimitero.
Fu la battaglia più feroce di tutta la guerra civile. Si calcola che nei cinque mesi in cui durò, complessivamente persero la vita oltre 15.000 uomini e rimasero feriti, alcuni in modo gravissimo e permanente, almeno 50.000 combattenti. La sconfitta delle truppe repubblicane determinò, di fatto, l’esito finale della guerra e la vittoria dei franchisti.
In questo romanzo Pérez-Reverte concentra il suo racconto nei dieci giorni successivi alla notte tra il 24 e il 25 luglio, quando le truppe repubblicane varcarono l’Ebro per posizionarsi nell’immaginario paese di Castelets del Sangre, contendendo ogni metro alle, inizialmente impreparate, truppe nazionaliste che lo presidiavano. Come la località geografica, pure i personaggi che agiscono nella vicenda sono, per lo più, inventati, con l’esclusione dei nomi storici che, talvolta, compaiono nell’azione o nella narrazione dei protagonisti. Alcuni di essi, però, sono palesemente ispirati a persone reali che parteciparono davvero a quegli eventi. Inoltre i fatti narrati sono tragicamente aderenti a quanto avvenne davvero in quei giorni e l’efferatezza di quei combattimenti ricalca esattamente quanto successe allora.

“Linea di fuoco” è un romanzo duro, difficile da leggere, non tanto per lo stile narrativo che resta quello tipico di Pérez-Reverte, agile, fluido, diretto, quanto per i suoi contenuti, aspri, dolenti. È soprattutto un romanzo di fatti, azioni concitate e frenetiche che si susseguono brusche e incalzanti come una carrellata di diapositive su scontri a fuoco e sull’indiscriminata, assoluta brutalità con la quale i contendenti si affrontarono, senza rispetto neppure per chi si arrendeva. Il filo conduttore di tutta la storia è l’orrore della guerra col suo sottofondo sonoro di colpi di fucile e di mitragliatrice – che sibilano in ogni pagina, quasi in ogni riga, intervallati dalle deflagrazioni di granate e proietti d’artiglieria che spaccano ossa, dilaniano corpi – e di lamenti di poveri giovani straziati e morenti.
Non trovano posto, se non marginale, i sentimenti e le emozioni se si escludono quelle primordiali dettate dall’istinto di sopravvivenza o dall’adrenalinica pulsione predatoria. Nonostante ciò, nei radi momenti di tregua tra i combattimenti, c’è ancora qualcuno che cerca di aprire il suo animo a qualcun altro, di esprimere onestamente e apertamente il proprio pensiero, al di là dalle ideologie e dei giochi di potere; in questi radi casi si possono osservare gli spiragli di una umanità alla deriva.
“Linea di fuoco” non è neppure, propriamente, un libro di personaggi, per quanto, di questi ultimi ce ne siano davvero tanti, al punto da rendere difficoltoso ricordarli quando compaiono nella narrazione. Soprattutto perché, in ogni capitolo, si salta da un lato all’altro del fronte, da un centro di scontri a un altro, senza soluzione di continuità, rendendo frammentata la descrizione degli eventi, spezzettando in cento rivoli il fluire del racconto, e rendendo disagevole il ricordare da che parte combattesse questo o quel personaggio. Ma probabilmente questa confusione è voluta e rientra negli intenti dell’A. che non appoggia questa o quella fazione, ma mostra la tragedia dei singoli uomini espunti dalle schiere a cui appartengono, ma affratellati dal crudele destino comune.
Giacché il romanzo non parteggia per nessuno, è obiettivo nel mostrarci come non sia possibile operare una divisione manichea negli schieramenti. In entrambi i campi ci furono eroi e individui più che spregevoli. Ci furono i vigliacchi, magari costretti a diventare valorosi per necessità di sopravvivenza, e i combattenti devoti alla propria causa che ad essa sacrificarono tutto, anche la propria giovinezza. Nella storia non mancano i criminali per tendenza, gli individui stolidamente ideologizzati che ragionano solo per slogan e per i quali gli uomini che comandavano erano solo pedine di una scacchiera mossa da mani che stavano al sicuro, distanti dalla linea di fuoco. Poi ci sono le “anime pure”, gli onestamente convinti dei propri ideali e i poveri esseri strappati da casa, magari neppure diciottenni, per fornire “carne da cannone” in quel mostruoso tritacarne. Rari, ma forse, per questo motivo, più meritevoli di attenzione, gli esseri lucidi e razionali che cercano di riflettere con la loro testa sulla condizione umana e sulla situazione in cui si trovavano e lo fanno anche a rischio di essere indicati come traditori e finire epurati da chi tira le fila del grande gioco. Insomma, alla fine, ne esce un bel campionario di umanità.

Conclusivamente si tratta di un bel libro sulla guerra e, contemporaneamente, contro la guerra, che coinvolge e strazia soprattutto perché è impossibile leggerlo e dimenticare che, non troppo distante da noi, si sta svolgendo una tragedia del tutto simile dove gli esseri umani, portatori di pensieri, sentimenti e speranze, sono solo numeri di una statistica che conta i morti, i feriti e i dispersi. È anche un libro istruttivo perché richiama alla memoria una pagina di storia ormai lontana nel tempo, ma che sarebbe un crimine archiviare in un remoto dimenticatoio, soprattutto perché, noi italiani, vi giocammo un ruolo non secondario. È un romanzo, però, che conviene leggere cercando di conservare il maggior distacco emotivo, soprattutto deve ritenersi severamente vietato affezionarsi a qualsivoglia personaggio: potrebbe essere la prossima vittima dei combattimenti, di lì a qualche pagina: la guerra, si sa, non fa preferenze.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Giugno, 2024
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Ove l’irriducibile ostinato

Ove è un uomo di quasi sessant’anni (per la precisione 59 compiuti) vedovo da circa sei mesi e, da poche settimane, pure senza lavoro, perché pre-pensionato contro la sua volontà dalla società di costruzioni edili da cui dipendeva da decenni. Ormai ha un unico desiderio in testa: raggiungere al più presto possibile l’adorata moglie Sonja alla quale, ogni settimana, reca una rosa al cimitero della chiesa.
Nondimeno nel frattempo non desiste dal portare a termine tutti i compiti che s’è prefisso di svolgere quotidianamente, anzi, puntigliosamente, perché, per Ove, le regole vanno rispettate, giuste o sbagliate che siano.
Così, ogni mattina, si sveglia alle sei meno un quarto, si prepara un caffe “normale”, cioè filtrato alla vecchia maniera, non come quelle porcherie fatte con le macchine espresso, e perlustra il suo quartiere, per assicurarsi che non ci siano auto parcheggiate nel vialetto pedonale, che le biciclette siano tutte nell’apposita rimessa, che non ci siano mozziconi per terra, che sia rispettata la raccolta differenziata dei rifiuti (anche se ritiene un’idiozia la regola stessa), che gli ospiti non lascino l’auto per più di ventiquattr’ore negli spazi loro riservati, che la sua Saab sia a posto e con le gomme ben gonfie, che inesistenti vandali o, peggio, ladri non abbiano danneggiato le proprietà della zona. Poi torna a casa e, vestito elegantemente, come piaceva a Sonja, si prepara a suicidarsi, ma, manco a farlo apposta, ogni giorno accade un imprevisto: quando non si spezza la corda con cui vorrebbe impiccarsi, c’è un nuovo vicino, imbranato, che non sa manovrare col rimorchio e gli sfonda la cassetta per le lettere; o sua moglie, una piccola iraniana ‘molto’ incinta, viene a chiedergli questo o quel favore; o un gattaccio randagio e rognoso, rischia di morirgli congelato davanti a casa; o, infine, il suo vicino Rune – col quale, dopo una amicizia durata anni, è in lite perenne dal 1990 – sta per essere portato via dagli assistenti sociali perché malato di Alzheimer e non va certo bene, visto che gli uomini con la camicia bianca fanno solo guai.
Insomma, continui contrattempi gli impediscono di portare a termine il suo intento, perché, se c’è qualcosa che non va per il verso giusto, Ove si sente in dovere di porvi rimedio. Così, suo malgrado, è costretto a “mettere ordine” in quel mondo che vorrebbe solo lasciare per raggiungere il suo amore assoluto.

È difficile che in un romanzo tutti i personaggi ci risultino, all’inizio, insopportabili, antipatici e sgradevoli, ma questo libro dello svedese Fredrik Backman ci va molto vicino. Ove, ci viene presentato come un individuo fastidioso e irritante; “amaro come una medicina” lo definiscono i vicini. Per un italiano, poi, che, tipicamente osserva regole e convenzioni interpretandole in modo “creativo” per adattarle ai propri bisogni e utilità, la rigida, intransigente ottemperanza alle norme, anche quelle più futili e astruse, che dà Ove è veramente troppo da digerire. La sua inflessibilità mentale ci rammenta certe rigidità di pensiero tipiche di alcune forme di autismo: lui si sente in obbligo, non solo di rispettare pedantemente tutte le direttive, anche quelle che si è autoimposto, in maniera risoluta, ma di farle rispettare, con toni aggressivi, pure a tutti gli altri e se non ce la fa, va su tutte le furie. Insomma è un vero piantagrane.
Però, è inevitabile che un personaggio così dia occasione per innumerevoli scenette comiche e, dopo un po’, non si faccia che ridere, di cuore, delle sue disavventure, dei battibecchi con Parvaneh, la vicina di origini persiane, degli scherzi che faceva a Rune (tanto simili alle “battaglie” che Paperino ingaggiava con l’irriducbile vicino Mr, Jones), della sua ossessiva mania per le Saab. Si ride pure delle evenienze tragiche, come l’infinita serie di tentativi di suicidio non andati a buon fine.
L’A., poi, furbescamente, usa tutti gli artifici per farci diventare inesorabilmente simpatico il povero Ove del quale scopriamo, pian piano, che è nato, è vero, con un carattere chiuso e introverso, ma che la vita non ha contribuito affatto ad addolcirlo, colpendolo con ogni possibile serie di disgrazie e tribolazioni. Inoltre, quel suo desiderio maniacale di sistemare ogni cosa nasconde una bontà infinita, un animo che mal accetta di vedere ingiustizie e dolore negli altri senza cercare di dare il meglio di sé stesso per risolverli o, almeno, lenirli.
Chi ha familiarità con il fumetto americano “Dennis la minaccia”, in lui non può che individuare il burbero, ma generoso Mr. Wilson, ma sono tanti i modelli nella letteratura di generosi scorbutici che alla fine sentiamo di amare totalmente.
In definitiva si tratta di un buon romanzo abilmente strutturato e narrato, dove la comicità di facciata, talvolta irresistibile, vela anche una profonda malinconia e commossa dolcezza. Alla fine, incredibilmente, si inizia quasi a invidiare quel rione sperduto della Svezia con il suo intransigente sistematore di ogni stortura e a voler bene a quel rompiscatole di Ove.
Ottima storia, quindi, e, in definitiva, pure buono spunto per una trasposizione cinematografica. Non per nulla ne sono già stati tratti due film, uno svedese e uno, molto più recente, che vede nei panni del protagonista un Tom Hanks molto nella parte.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Mag, 2024
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Fable, ma sei fatta per questa vita?

Fable non ha ancora diciotto anni, ma da quattro cerca di sopravvivere sull’isola di Jeval, covo di criminali violenti e senza scrupoli, mettendo a frutto la sua tenacia e, soprattutto, le sue abilità di apneista e gemmofila, per racimolare pietre preziose dal fondo del mare. Vi è stata portata, anzi, abbandonata dal padre, Saint, il più potente armatore mercantile dello Stretto, dopo che la loro nave era affondata trascinando con sé l’adorata moglie Isolde, la madre di Fable.
L’uomo, dal carattere cinico e imperscrutabile, le aveva promesso che, se fosse riuscita a sopravvivere e a tornare da lui nella città di Ceros, le avrebbe riservato ciò che le spettava. Per questo Fable ha cercato di risparmiare ogni ramillo (la valuta del luogo) che guadagnava vendendo i piropi che faticosamente stappa dal fondale corallino, per pagarsi il passaggio su una delle poche navi mercantili che attraccano a Jeval.
In particolare Fable è in contatto col giovane West, il comandante della Marigold, una lorcha che fa scalo ogni due settimane sull’isola. È lui che le compra tutte le gemme che trova. Quando, inseguita da uno dei loschi figuri di Jeval, Fable riesce finalmente a salirvi e, dando fondo a tutti suoi risparmi, a pagarsi il viaggio, crederà che la sua odissea sia terminata e ogni suo guaio risolto: potrà tornare dal padre e imbarcarsi su una delle sue navi.
Nulla di più errato: si troverà coinvolta in guai e pericoli che mai si sarebbe immaginata di dover affrontare tra misteri e intrighi tutti da scoprire. In una società feroce, che punisce ogni sgarro con morte atroce e che conserva rancori per decenni, dovrà lottare contro tutti e contro tutto per sopravvivere e riuscire a rifarsi una vita sua, libera da paure e costrizioni, libera anche dall’ombra opprimente di suo padre.

“Fable” è il romanzo d’apertura di una serie di storie ambientate in un immaginario mondo che gravita attorno a un braccio di mare chiamato “lo Stretto”, dove le tempeste che squassano le acque sono pane quotidiano per i marinai che osano percorrerne le rotte, ma dove il pericolo maggiore viene dagli uomini, implacabili e feroci al punto che una delle regole che Saint impartirà a Fable sarà proprio “Non rivelare mai, per nessun motivo, chi o cosa conta per te”, perché quella debolezza potrebbe essere fatale. E Fable lo scoprirà sulla sua pelle.
Ufficialmente considerato parte di una saga fantasy, in realtà questo libro di fantastico ha assai poco, se si esclude la dote della “gemmofilia”, l’affinità per le pietre preziose che contraddistingueva Isolde e che Fable ha ereditato da lei: una particolare sensibilità che l’aiuta a capire dove siano le gemme e quale sia il loro effettivo valore.
Per il resto è una storia di formazione alla dura vita dello Stretto, tra confronti non dissimili a quelli che potrebbero essere raccontati in un’avventura tra i bucanieri dei Caraibi o in un qualunque slum infestato da bande criminali e dolorosi ritratti di esseri umani che, per sopravvivere alle condizioni di vita disperata in cui sono costretti, accettano ogni compromesso, scendono a ogni bassezza. È pure una storia di amicizia e solidarietà (en passant pure d’amore), ma dove gli affetti debbono essere tenuti celati, per non trasformarsi in strumenti di ricatto e minaccia da parte di chi ti odia, sostanzialmente, cioè, da parte di tutti gli altri.
Molto ben delineate le ambientazioni marinaresche, anche con l’uso corretto dei vari termini tecnici, senza sbavature o i classici strafalcioni di chi non è uso a quel particolare vocabolario. Anche le atmosfere sono ben trovate e descritte. Il neo principale del romanzo, forse, è l’estrema sua lentezza descrittiva. Tutto sommato, nelle oltre 350 pagine, si racconta poco di più del viaggio di Fable tra Jeval e Ceros e il suo confronto col padre. Purtroppo il far parte di una collana che, a oggi, conta, oltre alla trilogia principale, un volume di prequel (dedicato a Saint) e due di sequel, ha concesso tempo e spazio all’A. di spandere su molte pagine il contenuto della storia che aveva in mente. Ne soffrono la descrizione dei personaggi, che in questo primo libro sono poco più che abbozzati e ancora da definire con chiarezza, soprattutto per i misteri e i retroscena che ognuno di loro cela accortamente. La reticenza che li contraddistingue ad aprirsi e manifestare i loro intimi stati d’animo, peraltro, rende i loro caratteri solo soffusi e tutti da decrittare. Ma pure l’evoluzione delle loro vicende è ancora incerta. Il concatenarsi delle azioni è solo ai primi passi, al punto che il romanzo si conclude lasciando il lettore col fiato sospeso a seguito degli ultimissimi spiazzanti avvenimenti che sembrano sparigliare le carte di una storia che si avviava verso un auspicato lieto fine.

In definitiva si tratta di un interessante libro, sotto certi aspetti innovativo, ma sul quale il giudizio finale resta ancora in sospeso, in attesa di vedere quali possano essere gli sviluppi futuri della storia e l’elaborazione che, in questo mondo fantastico solo all’apparenza, si intende dare alle tante questioni e relazioni al momento solo abbozzate.
Purtroppo è speranza vana aspettarsi che i romanzi fantastici possano essere autoconclusivi (anche se all’interno di una saga) e non unicamente elementi di una collana di indeterminata lunghezza da far scorrere sino al suo ultimo, lontano punto estremo.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Mag, 2024
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Un romanzo double face

Londra 1881, il giovane medico Simeon Lee è ossessionato dalla volontà di sconfiggere il colera, ma non riesce a ottenere dal suo istituto ospedaliero i necessari fondi per la ricerca. Allora accetta l’incarico che suo padre gli ha trovato: assistere un lontano parente, il reverendo Oliver Hawes che da alcuni giorni denuncia un progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute. Simeon, perciò, si reca a Colchester, Contea dell’Essex, e da lì nell’isola di Ray un affioramento fangoso collegato alla terraferma solo da una strada che l’alta marea spesso sommerge rendendo pericoloso il percorrerla. Sull’isoletta, non di rado avvolta dalla gelida bruma del Mare del Nord, sorge solo la residenza del sacerdote, Turnglass House, un bizzarro edificio a due piani, sormontato da una banderuola fatta a clessidra di cristallo. Qui vivono solo padre Oliver e sua cognata Florence che il tribunale ha condannato alla reclusione domiciliare, come alternativa all’internamento in manicomio, per la brutale aggressione ai danni del marito a seguito della quale l’uomo era morto dopo una breve agonia.
Il sacerdote sospetta di essere stato avvelenato proprio da lei, anche se non sa in qual modo, visto che non si ciba che delle pietanze preparate dai due domestici anche per loro (ed essi godono di ottima salute) e la cognata da oltre due anni vive confinata in un’ala dell’edifico, una sorta di gabbia di vetro, senza poter aver alcun contatto con l’esterno.
Per il dottor Lee, inizia così una gara contro il tempo per scoprire le cause dell’infermità dello zio, ma anche per portare alla luce la storia passata della famiglia, misteriosa e inquietante; storia che potrebbe nascondere la motivazione, se non la causa, del male che sta uccidendo il sacerdote.

Los Angeles 1939, Ken Kourian è un giovane laureato a Boston che s’è trasferito in California nella speranza di sfondare nel cinema sonoro che sta avendo un enorme successo ovunque. Il caso gli farà conoscere Oliver Tooke, figlio del governatore dello Stato e scrittore di successo. Ne diviene amico e, con lui, passerà momenti piacevoli nella villa sull’oceano della famiglia; un bizzarro edificio a due piani interamente in vetro, sormontato da un segnavento a forma di clessidra di cristallo che è fronteggiato, in mezzo al mare, da una strana costruzione che l’amico chiama “torre dell’ispirazione”, ove si rifugia per lavorare ai suoi libri.
Questi momenti felici verranno brutalmente interrotti dalla morte violenta di Oliver. Ken, una notte in cui si trovava ospite a casa sua, lo ritroverà, ormai cadavere, nella torre dell’ispirazione, ucciso da un colpo di pistola alla testa.
Possibile che Oliver si sia davvero suicidato, come asserisce la polizia, proprio il giorno dopo l’uscita del suo ultimo, atteso romanzo, “Turnglass House”? Ken, lo ha visto sulla barca che si dirigeva alla torre assieme a un’altra persona; ma il secondo uomo non si trova da nessuna parte e non c’è nessuno a confermare la sua versione.
Assillato dai dubbi, inizierà a indagare assieme alla sorella del morto, Coraline, andando in Inghilterra, sull’isola di Ray, dove sorge l’antica casa di famiglia dei Tooke per indagare, ma pure studiando attentamente l’ultimo romanzo di Oliver, che narra della storia del giovane medico Simeon Lee il quale, nel 1881, cercò di salvare la vita al reverendo Oliver Hawes. Proprio nel libro scoprirà inquietanti corrispondenze tra il passato della famiglia Tooke e i personaggi del romanzo. Che dette somiglianze siano qualcosa di più che semplici casualità, espedienti narrativi o mere ispirazioni letterarie? Che in esso Oliver abbia tentato di fare rivelazioni scottanti relative alla sua famiglia e queste abbiano fornito il movente per il suo omicidio?

Due romanzi in un unico volume? O un unico romanzo suddiviso in due storie convergenti? Questo è ciò che ci offre Gareth Rubin in questo sorprendente libro double-face.
La tecnica tipografica del tête-bêche era molto utilizzata dagli stampatori del XIX secolo e consisteva nel disporre una parte del testo al diritto e l’altra al rovescio. L’A. in questo caso ci offre due romanzi, uno, con copertina blu da leggere al dritto e uno, con frontespizio rosso, da leggere capovolgendo il volume.
La scelta non è solo un artificio grafico per rendere più accattivante e curioso il libro, ma proprio un metodo narrativo. Non per nulla anche le due storie sono racconti matrioske con libri entro libri che interagiscono con la realtà raccontata cercando di svelarcela o anticiparcela. Inoltre in entrambe sono presenti libri tête-bêche: nella storia del XIX secolo c’è un libricino con una vicenda ambientata nel suo futuro (1939 in California!) che, sul retro, riporta il diario segreto del reverendo; nella seconda, quella del 1939, il romanzo di Oliver Tooke sul retro riporta un diverso racconto.
Ma il gioco di specchi continua per tutta la narrazione, intrigando e incuriosendo il lettore: entrambe le vicende sono misteriose e piene di enigmi; i riferimenti e i collegamenti tra le due vicende, lontane mezzo secolo, divengono, pagina dopo pagina, più evidenti e inquietanti.
L’A., in pratica, oltre a offrirci due racconti intrinsecamente connessi l’uno all’altro, ci presenta un gioco di incastri ed enigmi per sfidarci a scoprire le arcane relazioni che esistono tra le due vicende distanti nel tempo.
Molto abilmente anche lo stile narrativo si adatta alle epoche: quello usato per raccontare la storia del 1881 è più retrò e ricercato, mentre quello della seconda vicenda è decisamente più veloce e diretto, quasi chandleriano.
La prima vicenda ha un sapore vagamente gotico, con atmosfere cupe e tenebrose, che si snodano in un ambiente chiuso e astioso, fatto di gente dedita a traffici illeciti, ostile verso gli estranei; evidenti i richiami a temi cari a Poe, Bierce e Stoker, con accenni a vaghe ingerenze soprannaturali.
La seconda, invece, ci porta in una California rutilante al colmo del suo splendore, tra feste alla Grande Gatsby (con gente sfavillante fuori e vuota dentro) e infatuazioni cinematografiche, ma con situazioni hard boiled e immancabili strizzate d’occhi, come accennavo, alle ambientazioni tipiche in Chandler e Hammett.
Gradevoli le due vicende, ben congegnate ed entrambe cariche di suspense e colpi di scena, narrate con ritmo serrato e scorrevole, anche se non sono particolarmente astrusi gli enigmi proposti e intricate le avventure che affrontano i protagonisti. La fine di entrambe, però, ci lascia parzialmente insoddisfatti, come se i due cammini, che dovrebbero condurci alla soluzione finale del doppio mistero steso tra i due secoli, fossero interrotti da un baratro, un burrone che impedisce di percorrerli sino all’auspicata meta. Le quattro pagine bianche che dividono la fine del dramma ottocentesco da quella del giallo moderno sembrano quasi poste allo scopo di consentire al lettore di continuare, lui, la narrazione per giungere a una conclusione comune e soddisfacente, cercando di dare un senso a indizi e segnali disseminati nelle due storie che, a fatica, si debbono individuare, interpretare e connettere.

In definitiva, si tratta di un romanzo gradevole e divertente, di buon intrattenimento, ma parzialmente incompiuto, irrisolto; un libro che pur svelando le trame occulte che vi sono intessute e identificando formalmente i colpevoli e i mandanti dei delitti compiuti, ci priva del momento catartico atteso nel finale. In pratica ci lascia insoddisfatti e in attesa di un ulteriore capitolo risolutivo, con la delusione di chi, intrigato e affascinato dall’idea e dalla sua realizzazione tipografica, si aspettava ancor di più di quanto realizzato e si trova, invece, abbandonato sull’orlo del disvelamento risolutivo.
Un’ultima curiosità: come Dante si dilettò di chiudere le cantiche della sua Commedia con la parola “stelle”, ripetuta nei suoi ultimi tre endecasillabi, così Rubin termina i due racconti con la stessa, identica parola: “tempo”. Forse, proprio il tempo è la chiave di lettura di questo libro, la soluzione cercata: con il suo scorrere può sciogliere, prima o poi, i nodi e gli intrecci che gli uomini ordiscono.
____________
Un’avvertenza ai futuri lettori. Per quanto, in teoria, è previsto che si possa iniziare sia dal racconto ottocentesco che da quello più moderno, consiglio di cominciare da quello cronologicamente precedente, cioè da quello con la copertina blu. Infatti, per quanto esistano richiami incrociati alle due vicende, nella storia del 1881 si incontrano meno anticipazione dell’altra e, quindi, non c’è rischio di privarsi delle sorprese che ci riserva la seconda.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    22 Aprile, 2024
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Due accademici alla ricerca dell’Illuminismo

Presso la Real Academia Española a Madrid è presente una copia della prima edizione integrale dell’Encycopedie curata da Diderot e D’Alembert. L’Autore-narratore, accademico di questa prestigiosa istituzione, ne resta affascinato e, incuriosito, si comincia a domandare come, un’opera così rara e preziosa, sia potuta arrivare sin lì, soprattutto se, come gli confermano i colleghi, è certamente giunta alla fine del XVIII secolo quando, oltre a essere formalmente proibita in Francia, era posta all’indice pure dalla Santa inquisizione spagnola che mai avrebbe consentito l’importazione della monumentale trattazione, ritenuta eretica e offensiva della fede.
Per l’A. inizia, così, una appassionante ricerca tra gli atti e i verbali dell’Academia e nei documenti che relazionano sulla storia di quell’ultimo quarto di secolo che, di lì a poco, sconvolgerà il mondo con la rivoluzione in Francia.
Quindi, sulla scia di quanto rinvenuto, ci narra le avventure degli accademici Don Hermógenes Molina, bibliotecario dell’Academia, e don Pedro Zárate, brigadiere in pensione della Marina Reale, ma chiamato ammiraglio dai colleghi. I due verranno incaricati dal direttore Francisco de Paula Vega de Sella, marchese di Oxinaga, di recarsi a Parigi per acquistare e portare a Madrid i preziosi volumi che arricchiranno la collezione della biblioteca e aiuteranno gli accademici nella revisione del loro monumentale Diccionario Catalan.
L’impresa non si rivelerà per nulla facile, un po’ per la rarità dell’enciclopedia — i ventotto volumi della prima edizione, l’unica attendibile come contenuti, furono stampati in poco più di 4000 esemplari, la maggior parte dei quali venduti all’esterno della Francia, stante la contrarietà religiosa alla sua diffusione, e quelle poche edizioni ancora disponibili raggiunsero presto costi stellari — un po’ perché due loro colleghi accademici, Manuel Higueruela e Justo Sánchez Terrón, di contrapposte posizioni ideologiche, ma entrambi fermamente contrari all’acquisizione dell’opera, si accorderanno segretamente con un sordido individuo, perché faccia di tutto per ostacolarli.

Con questo suo romanzo del 2015 Pérez-Reverte tenta un interessante esperimento con il quale, attraverso le righe di ciò che, ufficialmente, dovrebbe essere “solo” un romanzo storico, cerca di riproporre e veicolare le idee e i principi che hanno ispirato la filosofia illuminista e hanno fatto grande quel movimento di pensiero trasformandolo nel motore che ha radicalmente mutato la cultura occidentale.
In effetti, ciò che evidentemente interessa di più l’A. non sono tanto e solo le avventure dei due accademici attraverso una Spagna e una Francia turbolente e perniciose, quanto l’enunciazione dei fondamenti portanti dell’epoca dei lumi e il dibattito che ne seguì, a sostegno o in opposizione a quelle tesi. A dar voce e difendere, nelle diverse graduazioni, i principi dell’illuminismo scenderanno in campo, con lunghi e argomentati dibattiti, i due “uomini buoni”: don Hermógenes, pacato e pio studioso che, pur affascinato dalle nuove tesi, si fa scrupolo di non abbandonare la sua pietas religiosa e il devoto rispetto dei principi del cristianesimo; più apertamente riformatore e cinicamente scettico nei confronti delle tesi moderate del compagno è l’ammiraglio don Pedro, agnostico e pessimista di natura. Si unirà a loro nelle dispute verbali l’abate (di nome, ma non di fatto) Salas Bringas Ponzano, il Virgilio che li guiderà per Parigi e li assisterà nella difficile ricerca dell’Encycopedie. L’uomo manifesterà posizioni accesamente rivoluzionarie; un deciso, sanguinario giacobino ante litteram, al punto che l’A. gli farà fare la medesima fine dell’avvocato di Arras. I suoi pensieri, non più moderati di quelli che esporrà a gran voce Robespierre nel Comitato di salute pubblica durante il Terrore, scandalizzeranno e stupiranno i due accademici, ma si riveleranno profetici.
Nella narrazione non manca neppure spazio per l’esposizione delle tesi opposte, da quelle più radicalmente conservatrici e intransigentemente bigotte del giornalista baciapile Higueruela a quelle di Sánchez Terrón, illuminista radicale, ma favorevole solo a una elitaria ed esclusiva diffusione della filosofia innovatrice che non consegni quel “materiale infiammabile in mani poco adatte”.
Al temine della lettura resta il sospetto che il libro sia una sorta di testamento spirituale dell’A. e un modo per affermare a gran voce che, anche oggi, quei principi vadano difesi, anzi attuati per evitare di ricadere nel dogmatismo e nella soggezione a un mondo che l’A. non ha mai nascosto di ritenere ignorante e brutale; un mondo che ha tradito gli ideali dell’Illuminismo.
Ne discende che le pagine più curate e attentamente elaborate sono proprio quelle nelle quali i protagonisti si confrontano su quegli argomenti filosofici e dibattono su temi quali religione contro laicità; ragione e progresso contro tradizione e ossequio dei dogmi cattolici; libertà o tirannia; prevalenza della scienza o del precetto divino; eguaglianza tra gli uomini e indipendenza di pensiero, o subordinazione a una guida superiore, sia essa divina che di un saggio sovrano. Nessuna delle posizioni dell’epoca verrà taciuta, tutte elaborate e contestate.
Purtroppo, l’aver preferito una narrazione che predilige il ragionamento all’azione (che non manca, ma è assai diluita tra i capitoli) rende un po’ lenta e faticosa la lettura. L’aver giocato soprattutto sui lunghi dialoghi pro e contro le varie tesi appesantisce lo scritto. Chi è abituato alla prosa di Pérez-Reverte, fluida, emozionante e coinvolgente, resterà, forse, parzialmente deluso. Infatti gli argomenti, senza dubbio importanti e su cui riflettere, spesso sono dibattuti in modo troppo “accademico” e l’attenzione tende a scivolare via.
Segnalo che alla narrazione principale è abilmente intrecciata pure una sorta di relazione autobiografica i cui intermezzi servono all’A. a raccontarci il come e il perché delle sue ricerche storiche e l’impegno profuso per ricreare con fedeltà e accuratezza le ambientazioni, i personaggi e le situazioni, studiando trattati e documenti storici, compulsando antiche mappe, ripercorrendo le stesse strade di quel viaggio avventuroso e parlando con esperti per approfondire le specifiche materie. In pratica nel libro è inserita una sorta di manuale su come comporre un romanzo storico con proprietà e accuratezza documentale. Queste parentesi, se, da un lato, rallentano e spezzettano ulteriormente il racconto sulle avventure degli accademici, dall’altro appaiono stimolanti nell’illustrare cosa sia, per davvero, il difficile mestiere dell’autore letterario.

In conclusione un bel libro, pieno di concetti importanti e di descrizioni avvincenti, ma non sempre piacevolissimo e di lettura scorrevole e agevole. Comunque, da leggere per ricordarci chi siamo o, almeno, chi dovremmo essere per non rinnegare coloro che hanno fatto evolvere la nostra civiltà.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Marzo, 2024
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Anita in trasferta

Ottobre 1935, il matrimonio di Anita Bo, maldestra dattilografa della Casa editrice Monné (ma acuta investigatrice sotto traccia) si sta avvicinando a grandi passi e Mariele, sua madre, non perde occasione di precettarla e coinvolgerla nei preparativi della cerimonia. Proprio per questa ragione, la ragazza, sempre meno convinta di voler sposare il bel Corrado Leone, coglie al balzo l’occasione per stare lontano una settimana da Torino. Il federale Sauro Bonatti, futuro suocero del suo capo, Sebastiano Satta Ascona, di cui lei è segretamente innamorata, ha invitato il genero a passare una settimana nelle Langhe dal di lui fratello, in occasione della vendemmia. Ma la rivista di gialli Saturnalia, curata da Sebastiano, non può perdere un'intera settimana di lavoro, così lui, per continuare nelle traduzioni di racconti americani, si dovrà tirar dietro la dattilografa Anita con gran gioia di quest’ultima.
La campagna piemontese cattura col suo fascino autunnale la ragazza, abituata allo smog torinese. Poi, scoprire che alcuni ragazzi del luogo hanno voluto tener in vita lo scoutismo (bandito dal regime) riunendosi segretamente nei boschi, la riempie di gioia.
Purtroppo anche tra le vigne l’orrore è in agguato. Nicola Noero, uno dei giovani scout appena conosciuti, figlio del notaio del paese e cugino dei Bonatti “campagnoli”, viene trovato morto accoltellato, una mattina all’alba, al limitare del noccioleto ove si riuniva con gli altri.
Il primo sospettato è Orlando Bonatti, perché, in tal modo, il ragazzo erediterà il ricco studio notarile dello zio. Però i Bonatti sono potenti e ricchissimi: è improbabile che, seppure colpevole, il ragazzo verrebbe mai condannato.
Questa è l’occasione ideale perché la coppia di investigatori part-time (segretamente antifascisti) formata da Sebastiano e Anita si metta nuovamente in azione per scoprire ciò che è realmente accaduto e, se del caso, scrivere un racconto giallo sotto lo pseudonimo di John Dorcas Smith, il 'nom de plume' con cui hanno già denunciato vari delitti, insabbiati dal regime, camuffandoli da fantasiose gangster story in una immaginaria Rivertown americana.
Ben presto, però, indizi e sospetti punteranno a indicare come colpevole per l’omicidio di Nicola ben altri, in luogo del viscido cascamorto Orlando, e, forse, a rivelare una verità molto dolorosa per gli stessi due intraprendenti investigatori per hobby, i quali, nel frattempo, si scopriranno molto più affini l’uno all’altra, di quanto sarebbe conveniente, per la morale dell’epoca e viste le loro relazioni sentimentali ufficiali.

Quarto romanzo giallo-rosa con protagonista la bellissima, ma altrettanto sbarazzina e intraprendente Anita Bo, in una Torino del ventennio, tra rievocazioni del tempo che fu e semplici intrighi polizieschi.
In questa occasione la dattilografa che si diletta di investigare con il suo capo si reca nelle Langhe e ciò dà l’occasione all’A. di dilettarci con la descrizione delle belle colline piemontesi ammantate dai rossi e dall’oro delle vigne autunnali e di raccontarci la semplice vita di campagna nei tempi che furono. Inoltre, grazie alla forzosa, continuata vicinanza tra Sebastiano e Anita, riesce pure a far evolvere la loro relazione, ormai ben più che professionale.
Lo stile della Bosco è quello consueto: leggero, leggero, forse anche troppo, pur se meno disinvolto e colloquiale che in passato. In ogni caso la prosa continua a fluire in modo brioso e gioviale. Ci vengono risparmiati molti dei tormentoni che infarcivano (e alla lunga appesantivano) i racconti precedenti, quali l’insistita italianizzazione dei termini inglesi o le pleonastiche specificazioni di certe espressioni già di per sé ovvie. L’agilità nella lettura ne trae giovamento e, tutto sommato, non si sente eccessivamente la mancanza dell’effetto comico legato a quegli escamotage.
L’intreccio giallo non è particolarmente complesso e il lettore attento ben preso si trova indirizzato verso la soluzione finale. La storia non è scevra di alcune ingenuità nella ricostruzione storica e nelle modalità in cui operano Anita e Sebastiano: un critico attento, forse, potrebbe ritenere poco credibili molte situazioni narrate. In realtà tutta la descrizione dell’Italia fascista del ventennio pecca di eccessive generalizzazioni e appiattimenti su luoghi comuni e stereotipi. Ma se lo si considera solo come l’inevitabile fondale scenico in cui ambientare le avventure di Anita, allora la cosa non disturba troppo e la si può accettare come una convenzione indispensabile per giustificare l'azione.
Ho apprezzato che il romanzo approfitti della trama poliziesca per omaggiare le “Aquile randagie” (nome-schermo sotto il quale i gruppi scoutistici continuarono a operare dopo lo scioglimento delle organizzazioni ufficiali), ma forse anche qui siamo andati un po’ oltre il confine della credibilità in certi frangenti.
Comunque, anche questo romanzo, se inteso come pausa rilassante e di mero svago, continua ad essere gradevole e divertente. Come lettore resto incuriosito dall’evoluzione dei personaggi principali e continuo a chiedermi come l’A. riuscirà a trarsi dall’impaccio (un vero imbuto senza uscita) che essa stessa si è creata e che rischia di porre fine alla prosecuzione della storia tra non troppi episodi. Ma, è probabile, lo scopriremo nei prossimi romanzi che certamente non mancheranno.
Quindi chi s’è già affezionato alla saga non potrà omettere la lettura anche di questo libro.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    02 Marzo, 2024
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La banda del Pleroma

Primi anni ’70, Don Pezza, parroco di Santa Liberata in Torino, è un sacerdote davvero particolare. Dopo aver vestito i panni (laceri) del prete contadino o del prete operaio, aver sperimentato i ruoli dell’apostolo degli umili, dei diseredati, di coloro che la società rigetta (talvolta pure a ragione), a seguito di tafferugli tra i suoi protetti e dei rimbrotti della Curia, sembra che si sia riconvertito a torvo e feroce pastore del suo gregge. Così, nelle funzioni speciali del venerdì sera lo terrorizza con le peggiori minacce tratte dall’Apocalisse di Giovanni. Proprio al fine di incutere sacro terrore alle sue “pecorelle”, ha staccato l’illuminazione elettrica della chiesa; ha allestito, per il riscaldamento della stessa, una specie di caldaia che richiama le fiamme infernali e, soprattutto, ha fatto costruire una impalcatura d’acciaio, alta sette piani (come i peccati capitali) per far scendere, con voce imperiosa e tonante, i suoi ammonimenti sull’ecclesia tutta.
Peccato che, proprio nella serata d’esordio, quando avrebbe dovuto recitare la predica dall’ultimo livello, un’esplosione d’ignota natura lo abbia scaraventato dabbasso, interrompendo per sempre il suo apostolato terreno. E tutto questo avviene quando due poliziotti erano presenti in chiesa e altri tre piantonavano, in borghese, l’ingresso, proprio per evitare problemi d’ordine pubblico.
Incaricati delle indagini i commissari De Palma e Santamaria. Soprattutto quest’ultimo si impegna nel cercare di capire chi fosse e cosa predicasse don Pezza e chi lo odiasse al punto da ucciderlo in quel modo.
Già dopo le primissime informative ne risulterà un quadro intricatissimo, che vedrà coinvolti l’arcivescovado (l’alto prelato era presente, in incognito all’omelia fatale), un manipolo di mafiosi in domicilio coatto, e, addirittura, la Fiat.
Tra sospette eresie gnostiche – con richiami alle dottrine di Carpocrate, Valentino, Marcione e Basilide (l’infame!) – e molto più terrene devianze dal codice penale, le piste da seguire saranno tante, confuse e intricate. Anche i sospetti e i fermati saranno numerosi, ma sulla base più di indizi vaghi o sospetti inconsistenti.
A complicare il quadro, già di difficile lettura, l’elenco dei morti violenti si allungherà: infatti, già il giorno dopo verrà trovato, ucciso nella sua auto, il corpo del maresciallo Aurelio Genovese dell’Arma dei Carabinieri che da parecchi giorni indagava, sotto copertura, sulla possibile presenza nel torinese di una fabbrica per la produzione di stupefacenti, ma che, misteriosamente, era stato visto nei pressi della chiesa di Santa Liberata proprio la notte dell’attentato a don Pezza.
Che i colpevoli siano i mafiosi della zona, il cui contabile (Graziano Scalisi) era ‘casualmente’ presente in chiesa, ufficialmente per accompagnare la sua ragazza (Thea) e conoscerne la di lei madre (la sofisticata signora Guidi)? Ma perché, allora il viscido, bavoso ing. Vicini della FIAT, collaboratore stretto del Pezza nelle recite del venerdì, s’era eclissato prima dello scoppio in chiesa? E che fine avevano fatto i due maneschi fratelli Boltolon, factotum del prete, anche loro misteriosamente allontanati dalla funzione? E cosa ci faceva lì un editore ‘impegnato” con tutto il suo staff? E lo storico carteggio Crispi-Oderici, di cui si occupa il Monguzzi, uno dei redattori della medesima, in che cosa influisce sulla vicenda di sangue?
Insomma “grande è la confusione sotto il cielo” di Torino.

La premiata Ditta “Carlo Fruttero & Franco Lucentini” ha notevolissimi meriti nella letteratura italiana. Oltre ad aver sdoganato filoni narrativi una volta ritenuti marginali o di serie B (vedi fantascienza e polizieschi) curando collane e antologie di grande importanza, ha avuto una feconda produzione di romanzi di pregio.
“A che punto è la notte” è un libro del 1979 che utilizza alcuni dei personaggi già protagonisti del precedente, e più famoso, “La donna della domenica” e ci porta in una Torino agitata dallo spettro del terrorismo, dalla penetrazione mafiosa e da una generale insicurezza diffusa e pervasiva tra gli abitanti della città.
L’ho preso in mano seguendo il consiglio di un amico che me lo ha caldamente consigliato come un libro di grande valore letterario e l’impressione finale è sicuramente buona, ma con qualche distinguo.
Indubbiamente il duo F&L si conferma essere un’accoppiata di abilissimi narratori e la storia che ci offrono è senz'altro intrigante e divertente. Molto ben congegnati e dipinti sono sia i personaggi principali che quelli secondari, i quali, tutti, sono molto più che comparse usate per riempire il fondale della vicenda. La storia, poi, ha il pregio di essere assolutamente plausibile con le indagini che, come nella realtà, spesso si perdono in mille rivoli, confuse come sono da indizi contraddittori e false piste.
Decisamente interessanti sono il filone d’indagine relativo allo gnosticismo, con tutte le sue criptiche ramificazioni, e le divagazioni – al seguito del pedante, tenerissimo Monguzzi – sul carteggio storico tra l’Oderici e il Crispi.
L’ambientazione, che all’epoca della stesura doveva essere contemporanea, ora ci porta indietro in un tempo che ci appare remotissimo, in un’epoca che ormai non esiste più, in una Torino ove aleggiano (dietro le quinte, ma minacciose), le ombre del terrorismo degli anni di piombo. Un’epoca dove la FIAT è ancora ammantata di sacra inviolabilità quasi ieratica e ultraterrena, più della stessa Chiesa cattolica; dove le tensioni sociali sono ancora vive e palpabili; dove la telefonia mobile è ancora in mente dei, mentre i computer sono solo enormi macchinari in dotazione alle grandi aziende e usano, come supporti di memoria, banali audiocassette da 1/8 di pollice non dissimili da quelle usate dai registratori portatili in voga in quegli anni.
F&L approfittano della storia poliziesca per fare anche una satira di costume, lanciando qualche feroce strale contro l’istituto del domicilio coatto, certo clericalismo bigotto e i vari moralismi, l’assurda, pretesa inviolabilità della FIAT e il viscido servilismo (fantozziano) dei suoi quadri intermedi nei confronti dei vari potentissimi dirigenti.
La trama è interessante e ben costruita, ma (e qui cominciano i “distinguo”) forse troppo, troppo intricata e contorta. Come detto sono decine i personaggi coinvolti e tante le storie che si intrecciano e intralciano l’una con l’altra: oltre al filone principale del neo-gnosticismo di Pezza e delle supposte trame mafiose, c’è la storia d’amore tra la dolce Thea e l’equivoco Graziano; l’attrazione tra il commissario Santamaria e la signora Guidi; le perversioni e le devianze dell’ing. Vicini, dello stesso don Pezza, della viceparroca (sic!) alcolista Caldani, del Priotti e di tutti gli strambi individui che gravitano attorno a Santa Liberata; le apparizioni, a lungo misteriose, del “venditore di matite”, e le manie dell’editore e del suo team di redattori. Insomma il lettore fa presto a perdersi mentre tenta a fatica di star dietro al racconto. In qualche caso, addirittura, sarebbe opportuno pigliare appunti per ritrovare i riferimenti indispensabili a capire tutto.

Molto interessanti sono gli esperimenti linguistici di F&L che giocano in modo vivace e indisponente con l’italiano e pure (com’è avvenuto anche ne “La donna della domenica”) con certe equivoche espressioni piemontesi. Però, forse, sarebbe stato preferibile in molte occasioni una tecnica stilistica meno sbarazzina e una minor libertà nell’uso della punteggiatura; meno descrizioni in stile colloquiale; meno frasi troncate a metà con l’uso dei puntini di sospensione (quasi un tormentone in tutto il testo). Pure le annotazioni infarcite di abbreviazioni negli appunti dell’assistente di polizia Pietrobono talvolta risultano faticose e tediose.
Insomma alla fine ne risulta un bel libro da leggere che nel mentre ci consente un viaggio nel tempo che fu, ci diverte e distrae, ma che, a mio modestissimo avviso, poteva essere pure migliore se si fossero curati di più alcuni aspetti stilistici e se la storia fosse stata snellita e resa meno erratica con le troppo frequenti divagazioni.

Chiudo con la citazione di una battuta del commissario Santamaria che ben sintetizza il suo stato di confusione e turbamento, come uomo e come poliziotto, e che dà pure corpo al sentimento che agita gli altri personaggi e tutta la società di quegli anni.
“Niente è più quello che sembra, niente sembra quello che è… La porta alla fine si apre, ma con una chiave sbagliata, o magari era una porta già aperta. Oppure la chiave giusta arrugginisce, si spezza dentro la serratura…”

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    19 Febbraio, 2024
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Il “Socio” e il terrorismo

New York, 2005: Mitchell “Mitch” McDeere, conduce una bella vita: è socio dello studio legale Scully & Pershing “il più grande del mondo”; ha una bella moglie (Abbie) che ama e da cui è riamato; ha due bambini magnifici, bravi, spigliati e intelligenti; vive in un lussuoso appartamento a Manhattan dove, quasi tutte le sere, chef stellati vengono a cucinare piatti sopraffini (le cui ricette dovranno essere inserite nei libri di cucina di cui Abbie è editor). Insomma s’è buttato alle spalle il passato e il fatto che, circa quindici anni prima, aveva rischiato la galera e, fors’anche, la vita, quando l’FBI aveva messo gli occhi sullo studio Bendini dove era stato da poco assunto, per sospetti legami con la mafia.
Però il destino tornerà a bussare alla sua porta mettendolo, di nuovo, in una terribile situazione dove lui e tutta la sua famiglia rischieranno personalmente a causa di terroristi islamici.
Mitch è stato incaricato di occuparsi di una scabrosa controversia, sottoposta al giudizio di un collegio arbitrale internazionale, che vede contrapposti la grande società turca Lannack e il governo libico per centinaia di milioni di dollari di compensi non pagarti per un ponte nel deserto, voluto dalla megalomania di Gheddafi. Per preparare la difesa si recherà a Tripoli al fine di supervisionare le opere di cui è causa. Lo accompagnerà la bella Giovanna Sandrone, figlia dell’avv. Luca, socio romano di Scully & Pershing. Lui, malato terminale, non è più in grado di seguire dappresso il cliente turco nella complessa vicenda, la figlia, invece, per ora impiegata nella sede londinese della Scully & Pershing, s’è stancata del noioso lavoro d’ufficio e vuole vivere un po’ d’avventura. Troverà pane per i suoi denti.
Infatti, mentre Mitch è bloccato in ospedale a Tripoli per una fastidiosa intossicazione alimentare, Giovanna decide di partire ugualmente per il deserto, accompagnata dalle guardie del corpo dell’impresa turca. Non arriverà mai al cantiere: la scorta sarà brutalmente trucidata e lei rapita da un ignoto gruppo sovversivo nemico del leader libico.
Per la sua salvezza i rapitori chiederanno una cifra assurdamente alta che il pur ricco studio Scully & Pershing non può pagare. A quel punto Mitch sarà costretto a una angosciosa gara contro il tempo per trovare il denaro per il riscatto e salvare la vita a Giovanna, mentre i terroristi mostreranno periodicamente di quanta ferocia siano capaci.

Grisham torna a utilizzare il personaggio di Mitch McDeere, che era stato il protagonista del romanzo che gli aveva dato notorietà mondiale (“Il Socio”), per una nuova avventura adrenalinica. Questo libro, lasciate sullo sfondo le questioni giudiziarie, tratterà soprattutto delle difficili questioni dei rapimenti e dei relativi riscatti; in particolare: sin dove è lecito spingersi per salvare la vita di una persona? Quanti e quali sforzi sono moralmente legittimi se, in futuro, essi significheranno mettere a repentaglio molti più esseri umani?
L’abilità dell’A. di congegnare un intreccio avvincente e ben progettato è al di fuori da ogni dubbio e questo libro non fa che confermare le sue abilità di narratore. Tuttavia, a mio avviso, il risultato non è pienamente soddisfacente; siamo ben lontani dai fasti delle primissime opere dello scrittore americano e, forse, si pareggia solo il valore, non sempre eccelso, delle più recenti.
Nonostante il ritmo concitato della narrazione e l’agitazione con la quale Mitch salta da una costa all’altra dell’Atlantico e a parte l’episodio del rapimento che giustifica il racconto, il libro è privo di reale azione e di colpi di scena. Procede lineare verso il suo prevedibile epilogo senza che i protagonisti, e per essi il loro autore, abbiano un guizzo di inventiva per dare una svolta ingegnosa e interamente appagante alla storia. Senza voler svelare il finale, posso comunque dire che l’ho trovato piuttosto deludente, piatto e scarsamente appassionante. Anzi, sotto certi rilievi (che non posso precisare per evitare spoiler) m’è sembrato pure moralmente inaccettabile e, comunque, indigesto per la mia coscienza.
Anche l’utilizzo del personaggio dell’avvocato McDeere non ha alcuna reale giustificazione nella trama e sembra, più che altro, un’esca per catturare i lettori affezionati ai romanzi d’esordio. I primi capitoli, tra l’altro, servono solo a farci sapere cos’è accaduto a Mitch dal momento della sua fuga con gli svariati milioni sottratti alla mafia e prima della sua assunzione presso il mega studio legale. Però sono del tutto inutili e defatiganti ai fini della storia principale.
Il meccanismo narrativo, ben rodato, continua a funzionare e, se ci limitiamo a farci travolgere dalla vicenda, coinvolge, ma non è chiaro dove ci voglia condurre. Detto brutalmente: il resoconto di una transazione giudiziaria avrebbe lo stesso impatto emotivo, se la posta in gioco fosse la vita di una persona.
Ho apprezzato abbastanza la descrizione di noi italiani da parte di un americano: è priva dei soliti banali stereotipi e dà una visione abbastanza corretta dei nostri stili di vita. Evidentemente i lunghi soggiorni da noi di Grisham hanno avuto qualche benevolo effetto. Al contrario m’è parsa assai meno piacevole e, sotto molteplici risvolti, assai poco credibile, l’invenzione dell’ipertrofico studio legale, pletorico e autoreferenziale. Una struttura che pare agire con mezzi e poteri non troppo dissimili da quelli di uno Stato sovrano o di una pervasiva multinazionale, ma con risultati assolutamente deludenti se non proprio penosi. Anche molti dei personaggi di contorno sembrano sopra le righe ed eccessivi.
Inoltre ho il vago sospetto che l’A. abbia peccato in più di un anacronismo, soprattutto quando dota i terroristi di tecnologie e capacità oggi, magari, disponibili con certa ampiezza, ma che, vent’anni fa, erano a stento in uso presso le maggiori superpotenze statuali.
In conclusione si tratta di un romanzo non totalmente disprezzabile, ma sicuramente lontano dalle aspettative.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    18 Febbraio, 2024
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Libri e nazismo

Un lungo viaggio in treno, tra Mosca e Parigi, dà l’opportunità ad Annie, giovane inglese in cerca di nuova occupazione, di fare la conoscenza con Valerie, anziana signora franco-britannica, che dice di viaggiare sempre con i propri ricordi, incorniciati, dentro alla valigia.
La curiosità stuzzica Annie che, abbandonata la relazione che sta scrivendo al computer, comincia ad ascoltare la storia di Valerie. Questa inizia a narrare di come nel 1962, appena compiuti vent’anni, aveva deciso di lasciare Londra, dov’era vissuta sino ad allora con la zia Amélie, per recarsi a Parigi; di accettare il posto di lavoro in una piccola libreria (“Gribouiller” cioè scarabocchio) gestita dal burbero vecchio Vincent Dupont – il nonno che lei non ricordava di aver mai conosciuto e che credeva morto durante la guerra come i genitori; di cercare di indagare sul proprio passato e sul perché, diciassette anni prima, era stata spedita in Inghilterra con una parente che nemmeno conosceva.
In incognito, per paura di essere rifiutata dal nonno, comincerà a lavorare come commessa per quest’uomo bisbetico, sempre pronto a rimbrottarla, a criticare come veste, come mangia (all’inglese) e come pretenderebbe di sistemare sugli scaffali i libri, che, per lui, dovrebbero essere classificati solo a seconda del fatto che l’autore si fosse bevuto il cervello o meno, ovviamente a suo insindacabile giudizio.
In ogni momento libero Valerie cercherà di scoprire qualcosa di più su Mireille, quella mamma di cui aveva solo una foto ingiallita e spiegazzata. In questa sua indagine segreta le sarà d’aiuto Clotilde Joubert, la fioraia vicina di negozio, che era stata l’amica più cara di sua madre.
In tal modo Valerie, rivivrà i duri anni dell’occupazione, gli stenti di quegli anni, la cappa di oppressione che schiacciava tutti, la difficoltà stessa di vivere a contatto con un esercito brutale indottrinato dalla folle ideologia nazista. Alla fine scoprirà com’era stata sua madre e cosa aveva fatto; chi era suo padre; come e perché erano morti e, infine, la ragione per la quale il nonno, alla fine, s’era risolto ad affidarla alla cugina Amélie, affinché l’allevasse lontano da una Francia rancorosa e carica d’odio e rivalsa contro tutto ciò che le ricordava gli anni dell’occupazione.

“Il Segreto della Libraia di Parigi” è un romanzo che oscilla tra un tentativo (balbettante) di ricostruzione storica dei tristi anni dell’occupazione di Parigi e la voglia di scrivere la vicenda sentimentale di due povere anime travolte nella bufera della guerra. Purtroppo il risultato non è dei migliori né sotto il primo, né sotto il secondo aspetto.
Il libro alterna i toni da romanzetto rosa in stile collana Harmony a quelli di un lamentoso “way we were”, stucchevole e non particolarmente coinvolgente. Tra l’altro si percepisce molto la difficoltà dell’A. (sudafricana di nascita e inglese di cultura) di immedesimarsi in una Francia che non c’è più e di cui fatica a comprendere mentalità e sentimenti. Si ha la sensazione che le atmosfere siano descritte più sulla base di un 'sentito dire' che di una reale, efficace documentazione storica.
Sono abbastanza simpatici alcuni personaggi di contorno, a cominciare dal vecchio, scorbutico Vincent e dalla fioraia Madame Joubert. Ma per lo più, sullo sfondo di una Parigi opaca e non più concreta e tangibile di una scolorita cartolina d’epoca, si muovono figure abbastanza convenzionali, scontate. Ho percepito la rievocazione storica come stereotipata e basata molto su luoghi comuni e frasi fatte che non riescono a calare davvero il lettore negli anni della guerra.
A mio avviso, poi, è piuttosto fastidioso il fatto che ci si riferisca sempre ai soldati occupanti (si badi: soldati della Wermacht, non SS) come a “nazisti”, quasi si volesse fare un prudenziale distinguo tra gli occupanti del 1940-44 e gli abitanti della Germania. È pur vero che il principale antagonista di Mireille e Vincent, il crudele Valter Kroeling, è chiaramente un ufficiale indottrinato e partecipe dell’ideologia e dei crimini hitleriani, ma la semplificazione di per sé è una banalizzazione fuorviante che, tra l’altro, rende difficile spiegare i comportamenti, a quel punto “devianti”, del capitano medico Mattaus Fredericks, un uomo “normale”, soldato solo perché il suo Paese è in guerra e non perché animato da chissà quali istinti predatori.
Le due storie d’amore (quella di Mireille con Mattaus e quella di Valerie con Freddie) riprendono con pedissequa diligenza tutti i topoi del genere rosa, senza troppa originalità.
In definitiva si tratta di un librino, non disprezzabile negli intenti e nella struttura della trama, moderatamente piacevole, ma, del quale, tutto sommato, si può pure fare tranquillamente a meno.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    17 Febbraio, 2024
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Galeotti furon i libri e chi li consegnò

Victor Iordanescu è un giovane immigrato rumeno diplomato al conservatorio in composizione, ma, per vivere in Germania, s’è adattato a fare l’autista per una società di consegne a domicilio e, ogni giorno, gira la città sul suo furgone portando pacchi e pacchetti. Victor è intelligente e osservatore e si diverte a immaginare la personalità dei suoi clienti dagli oggetti che recapita loro a casa. Però la sua fantasia prende il volo quando un giorno gli capita di consegnare all’indirizzo di Bianca Martini, (a cui normalmente porta dei libri) una elegante confezione contenente, a tutta evidenza, della biancheria intima sexy. Come fare per incontrare questa misteriosa Bianca che, quando lui fa le consegne, non è mai in casa?
Dopo il lavoro pensa di recarsi in una piccola libreria per acquistare qualche bel libro da lasciare in omaggio alla bella (almeno così se la immagina) sconosciuta. Inizia così, per lui, un percorso che lo farà appassionare sempre di più alla lettura grazie al quale farà la conoscenza di una graziosa libraia, di Leòn, un ragazzino spigliato e accanito divoratore di libri e di un cagnone che ne diventerà l’ombra.
E che ne è di Bianca Martini? Si tratta, in realtà, di una anziana signora impiegata part-time in un negozio di te; le mutandine sexy le aveva ricevute solo per far un piacere alla giovane vicina. Ma il Caso è in agguato per far felice Victor, Bianca, Leòn e tutti gli altri protagonisti di questa favola moderna.

“Il club delle fate dei libri” è un piccolo romanzo lieve e delicato, verrebbe da dire, leggero come le ali di una farfalla o, per restare in tema, come quelle di una fata. Non ci sono drammi esistenziali da risolvere, non tragedie in agguato sui protagonisti. Anche l’unica ombra scura che aleggia sul piccolo Leon, alla fine, sembra dileguarsi. Insomma è una storia rasserenante e distensiva nella quale il protagonista principale è l’amore per la lettura. Non per nulla spesso la narrazione viene intercalata con ampi stralci che i protagonisti leggono da questo o quel romanzo che li ha particolarmente colpiti. Così, alla prosa di Montasser si alternano brani tratti da Defoe, Mann, Calvino o Martel e, talvolta, queste storie importate fanno da filo conduttore per guidare (dirottare?) le vite dei personaggi della storia.
Divertente, poi, che tutte le coincidenze e gli equivoci che inizialmente sembrano intrecciare le vite dei protagonisti in uno strano viluppo, alla fine congiurino assieme per un happy end consolatorio e rassicurante.
Lo stile, semplice e scorrevole, è, al pari della storia, un invitò alla lettura disimpegnata. Insomma non si tratta di un capolavoro letterario, ma di un librino che dona qualche momento di tranquilla serenità d’animo.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Febbraio, 2024
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Le bugie hanno le gambe corte?

Pedro ha undici anni, è figlio di un ingegnere italiano che – venuto in Brasile per lavoro e restato immobilizzato lungo il Rio delle Amazzoni, nel piccolo paesino di Rablasinas, per un’avaria del “barco” che lo trasportava – s’era innamorato della bellissima ragazza che gli aveva portato da mangiare; l’aveva sposata e messo su famiglia assieme a lei.
Sono gli anni ’60 e ora Pedro è rimasto orfano di entrambi i genitori, ma vive una vita serena e piena di sogni a occhi aperti. Bada a lui il fratello maggiore José, che si occupa pure delle due gemelline Ana e Ava, ma lui è totalmente infatuato da Vicente, per tutti Cent, il fratello giramondo che rimane a Rablasinas solo per pochi giorni tra un viaggio e l’altro; viaggi che lo portano nei posti più remoti e affascinanti della Terra, dove vive mirabolanti avventure. O almeno questo è ciò che racconta a Pedro al suo rientro. Il bambino resta incantato dalle sue storie e dai libri che lui gli porta in regalo ogni volta, e per lui si aprono i mille mondi della fantasia.
Ma quelle di Cent sono reali peripezie o il fratellone affascinante ed esuberante non è che un contastorie, un raccontaballe, un fanfarone e la sua vita è assai meno splendida e, soprattutto, onesta di come la racconta?
Il caso complotterà a che Pedro scopra chi è veramente suo fratello e cosa combina assieme alla banda di scansafatiche che pencola sempre dalle parti della capanna da Cabelereira (parrucchiera) della bella Amalia.
Comincerà così, per il ragazzino, un viaggio verso una consapevolezza da adulto, ove dovrà dare prova di maggiore maturità di quanta ne abbia mai avuta il, per lui, mitico Cent; anzi più di una volta sarà il piccolo Pedro che dovrà salvare lo "scafato" Cent da guai che potrebbero essere davvero tragici.

Il duo Radice e Turconi ci regala una bella favola moderna, una specie di rivisitazione delle avventure di Huckleberry Finn, dove il Mississippi è sostituito dal Rio delle Amazzoni e il Barco a motore che fa la spola tra Rablasinas e Manaus prende il posto della zattera che segue la corrente verso l'Ohio..
La storia ci viene raccontata in prima persona dal piccolo Pedro, che, su un quadernino a righe, ci relaziona sulla sua famiglia, sui suoi pensieri, le sue paure e sull’avventura incredibile che, suo malgrado, vivrà al seguito del ribaldo Cent. Sono pensieri semplici, a volte ingenui, ma pure profondi e, non di rado, disperatamente accorati. È una storia di crescita e di presa di consapevolezza dove anche i cattivi maestri, alla fine, riescono a impartire buone lezioni. La vicenda, melanconica e struggente, non avrà un lieto fine da favola, ma solo un aggiustamento meno doloroso delle eventuali alternative, un epilogo che lascerà aperte tutte le porte, compresa quella della speranza.
Come al solito bellissime le tavole ad acquerello di Turconi che riempiono gli occhi dei meravigliosi colori della foresta, popolata da variopinti animali, alberi altissimi e accecanti riflessi sulla superficie del grande fiume. La sceneggiatura con i testi di Radice è semplice, come può essere semplice il racconto di un bambino, ma anche dolce e tinta da quella saudade tipicamente brasiliana che la rende accattivante e coinvolgente. I dialoghi sono scarni e, talvolta, secchi, interrotti da lunghe pause. La voce interiore di Pedro, fissata dalla sua scrittura infantile sul quadernetto, entra nel cuore per la essenziale, sintetica autenticità dei concetti espressi. Deliziosa e commovente la piccola storia parallela dell’ascesa e caduta del grande tenore Pepe Jobim, inserita come un cameo nelle vicende di Pedro, a mo’ di parabola sulla caducità delle cose umane.
Insomma “Il Contastorie” è una graphic novel da leggere e godere dalla prima all’ultima pagina dove, come cadeau finale, troviamo una carrellata di provini tracciati in febbrili tratti a matita grassa di tutti i personaggi principali della vicenda.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Febbraio, 2024
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Vita da cani per i cani di strada

Nero è un grosso cane da combattimento, incrocio tra un mastino spagnolo e un fila brasileiro. Per due anni ha lottato con altri cani nell’arena clandestina, lo Scannatoio, dove gli uomini si giocano soldi a pacchi e i cani la vita contro loro simili addestrati a uccidere.
La fortuna lo ha assistito, il suo padrone lo ha ritirato dai combattimenti prima che diventasse troppo vecchio per sperare di sopravvivere. Inoltre Nero è riuscito a conquistare la fiducia dell’uomo rivelandosi un ottimo cane da guardia. In tal modo ha evitato anche l’atroce fine che tocca ai vecchi combattenti non più utili a far vincere soldi ai proprietari: un colpo di fucile o un cappio di ferro al collo e una impiccagione lenta e straziante.
L’unico svago per Nero è girovagare per la città con i suoi simili e ritrovarsi la sera all’Abbeveratoio di Margot: uno spiazzo accanto agli scarichi di una distilleria di anice, dove Margot, una bovara delle Fiandre, cura che tutto sia in ordine e pulito. L’industria sversa nel fiume i suoi liquami e i cani vanno lì a bere, stanno in compagnia con altri vagabondi come loro, si raccontano a vicenda e si rilassano sotto i fumi alcolici. Però, ultimamente, all’Abbeveratoio si latra solo della scomparsa di Teo, un ridgeback rhodesiano, e di Boris il Bello, un levriero borzoi da esposizione canina, vincitore di numerosi premi. Sembrano scomparsi nel nulla e i cani pensano che sia successo loro qualcosa di veramente brutto.
Teo è l’unico reale amico che Nero abbia mai avuto; quando c’è stata necessità si sono sempre spalleggiati a vicenda. Ora la sua sparizione lo agita, soprattutto quando, dopo brevi indagini, viene a sapere che i due scomparsi sono stati visti per l’ultima volta, una sera, mentre passeggiavano assieme. Forse sono stati catturati da chi organizza i combattimenti, per utilizzarli come sparring partner, cioè come carne da cannone per far allenare e abituare a uccidere i combattenti dello Scannatoio.
Nero dice che fa fatica a pensare rapidamente, che la vecchiaia e la vita passata lo hanno reso tonto e tardo, ma in questa occasione concepisce in fretta un piano audace: si farà catturare anche lui e, una volta dentro ai recinti, cercherà di far evadere Teo. Così, lui che aveva deciso di non combattere più, di stare lontano da quell’inferno che lo costringeva a infierire sui suoi simili, sarà di nuovo sbattuto nell’arena a versare il sangue di povere bestie mandate al macello, con il miraggio di salvare il suo amico.

Ho comprato il libro sulla base della sola stima che da sempre nutro per la prosa di Pérez-Reverte, Tuttavia confesso che, inizialmente, avevo creduto che il titolo fosse solo una metafora per descrivere la vita randagia di uomini reietti che vivevano ai confini della società. Lo scoprire che i protagonisti sono proprio cani in carne ed ossa mi ha abbastanza stupito, poiché non è certo un argomento familiare allo scrittore spagnolo.
Però, superata la sorpresa iniziale, sono stato catturato dalla sua narrazione. Ben presto ci si dimentica che i protagonisti hanno quattro zampe e una coda e si partecipa della loro vita con ansia ed empatia, quasi fossero umani. Anzi, ancor di più, perché chi, come me, adora gli animali, mal sopporta la crudeltà che noi, pretesa specie superiore, siamo in grado di infliggere a creature che ci si affidano con l’amore e la dedizione che pochi bipedi senzienti sanno esprimere.
Il romanzo è crudo e dolente, ma nel contempo toccante ed emozionante. Pregevole l’abilità dell’A. che riesce a farci partecipi della dura vita di quegli animali, trattati come oggetti e sottoposti alle peggiori crudeltà. La trama è avvincente come potrebbe esserlo un thriller con protagonisti gli umani e non sono rari i colpi di scena che aggiungono tensione e interesse.
Sotto molti punti di vista il libro è quasi una denuncia del trattamento riservato a molti cani in Spagna (ma davvero in Italia siamo tanto migliori?), tra perreras da incubo in cui vengono reclusi e, spesso, soppressi, agli allevamenti clandestini che sfruttano sino allo sfinimento le povere bestie e, appunto, ai combattimenti all’ultimo sangue, preceduti da allenamenti in cui poveri cuccioli indifesi sono usati come sparring partner per i molossi da addestrare all’uccisione.
Ma è anche un inno alla libertà, all’amicizia e al principio che, per esse, è giusto e nobile giocarsi tutto, anche la vita. Non per nulla Agilulfo, il cane “intellettuale” del gruppo, più volte farà riferimento alla ribellione di Spartaco, il gladiatore, e, alla fine (che non anticipo) qualcuno di loro deciderà di imitarlo.

In conclusione, si tratta di un bel libro, inconsueto, ma che sviscera temi profondi e importanti; scritto con stile incalzante e coinvolgente. Non mi sono sentito di dare il massimo alla piacevolezza, per il solo motivo che certe scene, certi passaggi sono davvero duri da mandar giù e dopo averli letti ne sono rimasto profondamente amareggiato e sconfortato.

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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    15 Febbraio, 2024
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Gli scorpioni pungono pure l'arte?

Autunno 1937. L’agente franchista Lorenzo Falcò, appena tornato da una missione — nella quale ha “recuperato forzosamente” a Biarritz un finanziatore della fazione repubblicana che, in Spagna, dovrà dare molte risposte e, poi, esser messo a tacere — viene convocato dal suo capo, l’Ammiraglio, il quale gli affida un nuovo incarico, urgente.
Si dovrà recare al più presto a Parigi per cercare di screditare lo scrittore attivista Leo Bayard, noto per il suo appoggio finanziario, ma anche personale, da eroe di guerra, alla causa repubblicana e far sì che venga sospettato di collusione con i franchisti, in modo che “chi di dovere” provveda a toglierlo di mezzo. Però c’è pure un’altra missione che lo aspetta: nel suo studio di Rue des Grands-Augustins, il grande pittore Pablo Picasso, noto per le sue simpatie socialiste, sta lavorando a un enorme quadro che dovrà apparire nel padiglione spagnolo (gestito dai repubblicani) dell’Esposizione internazionale «Arts et Techniques dans la Vie moderne» che dovrà aprire i battenti tra poco nella capitale francese. Quel quadro avrà lo scopo di denunziare la brutalità dei falangisti e l’orrore della guerra che stanno facendo contro il loro stesso popolo. Si intitolerà “Guernica” (!) e Falcò dovrà distruggerlo o, comunque, renderlo impresentabile per la mostra.
Questa missione, oltremodo ambiziosa e pericolosa, a cui collabora pure l’Abwher tedesco guidato dall’Amm. Canaris (e forse pure un insospettabile MI5 britannico), lo porterà in una Ville Lumière, che vive ancora una falsa illusione di spensieratezza nella sua ultima stagione di grandeur, e gli farà conoscere personaggi di spicco della cultura di quegli anni, in un accavallarsi di azione frenetica, intrighi e vita mondana nei prestigiosi night club della città.

Terzo e (per ora?) ultimo capitolo della trilogia dedicata all’anti-eroe Lorenzo Falcò, dove la finzione letteraria sfuma in modo inavvertibile nella realtà storicamente documentata. In una Parigi in gran splendore per l’imminente esposizione internazionale si muovono sia personaggi che hanno lasciato la loro impronta nel ventesimo secolo e ancora brillano per la loro fama, che individui cupi e pericolosi che nei torbidi anni d’anteguerra operarono losche trame nella crescente contrapposizione tra i vari totalitarismi. In mezzo ad essi agisce — con la solita, inusuale perizia, meccanica efficienza e scanzonata fredda indifferenza — l’agente spagnolo, fascinoso ammaliatore, abile trasformista, ma anche spietata macchina di morte.
In un mondo in cui l’essere “politicamente corretti” è assurto a precetto a cui tutti, obbligatoriamente, dobbiamo sottostare, pena il pubblico ludibrio, leggere le avventure di Falcò è come assaporare una ventata d’aria fresca e impudentemente sbarazzina. Lui è l’esatto contrario di tutto ciò che l’odierno sentire imporrebbe. È amorale e, talvolta, immorale; freddo calcolatore e, se serve, brutale esecutore anche di compiti deprecabili, senza alcun freno morale. Cinico, sprezzante di tutte le convenzioni, impudente e impunito in tutti i suoi atteggiamenti; apolitico e religiosamente agnostico. Esplicitamente concreto e non intellettuale, ma in grado di muoversi in mezzo all’intellighenzia e al bel mondo dell’alta società con assoluta naturalezza e savoir faire. È fedele solo a sé stesso e, se ha deciso di servire una delle parti in lotta nella sanguinosa guerra civile spagnola, lo ha fatto non perché creda nei principi del franchismo, ma solo perché, con fredda valutazione razionale, ha scelto di stare dalla parte di chi risulterà il vincitore finale. Ammira e stima le donne, di cui riconosce il valore e la determinazione, le tratta da sue pari (a differenza di ciò che è il sentire dell’epoca), ma si rapporta con loro solo come un predatore e si dimentica di loro dopo essersele portate a letto.
Insomma, un vero eroe negativo, ma, forse proprio per l’esasperata contrapposizione al convenzionale che lo contraddistingue, Falcò è inesorabilmente simpatico, l’individuo a cui tutti gli uomini vorrebbero assomigliare e che tutte le donne vorrebbero incontrare sulla propria strada: una specie di James Bond mefistofelico, ma, ancor più dell’eroe di Fleming, decisamente umano e realistico. Non è un supereroe invincibile, perché anche lui commette errori che potrebbero costargli la vita, ma la fortuna gli ha sempre arriso e, per ora, è sempre riuscito a cavarsela, in avventure ad altissima tensione emotiva che avvincono il lettore.
Questo terzo romanzo, oltre alla consueta attrattiva della trama, ben congeniata e ottimamente ambientata, ha un ulteriore spunto di interesse che viene offerto al lettore: alle rapide incursioni nella finzione letteraria di personaggi reali, come l’Amm. Canaris, Picasso, Marlene Dietrich si frammischiano altri personaggi chiaramente ispirati a figure realmente vissute, ma abilmente mimetizzati in false identità; sta a chi legge giocare a scoprire chi si nasconda dietro la loro maschera. Facile individuare nella bellissima Eddie Mayo, quella stupenda artista che fu Lee Miller. Ma Leo Bayard a chi dovrebbe somigliare? E dietro a quel pletorico sbruffone alcolista che è lo scrittore americano Gatewood, chi dovremmo scorgere? E il comandante Verdier, capo della Cagoule? E la bellissima e bravissima cantante di colore Maria Onitsha? Insomma un gioco di specchi che invoglia a discernere la realtà storica in mezzo alla finzione ucronica.
Come al solito lo stile di Perez-Reverte è ottimo, anche quando indulge nelle iperboli volutamente pulp, fuori luogo in diverso contesto, ma che qui ben si adattano a questa storia spionistica dove l’esasperazione è d’obbligo.
Insomma un bel romanzo tutto da godere in tutte le sue irriverenti sfaccettature, con l’unico rammarico che, forse, questo è l’ultimo romanzo che vedrà protagonista l'incontenibile Falcò.
_______________
Chiudo con una riflessione che Lorenzo fa sulla sua vita sempre ai limiti; riflessione che ben lo descrive:
“Gli uomini, pensò ancora una volta, nascono, camminano, lottano e si spengono. Nel frattempo, era formidabile continuare a giocare giochi mai dimenticati, vivere in margini fabbricati da sé stessi; naturalmente, a patto che si fosse disposti a pagare quando fosse arrivato il conto. Che alla fine arrivava, o sarebbe arrivata. Però nel frattempo il sangue scorreva nelle vene in un altro modo, e sentirlo così era un privilegio prossimo alla felicità: azione, donne, una sigaretta, un’aspirina, alberghi di lusso, pensioni sordide, passaporti falsi, frontiere incerte attraversate all’alba, un completo di Savile Row, un berretto proletario, un paio di scarpe su misura di Scheer & Söhne, un bicchiere di vino in un bordello da quattro soldi, una lametta da barba nella fascia di un cappello da ottanta franchi, una pistola identica a quella che aveva scatenato la Grande Guerra, un sorriso ironico e divertito di fronte allo spettacolo di un mondo che Falcó si beveva fino all’ultima goccia della bottiglia. Una sfida, insomma, alla vita e anche alla morte, in attesa della risata finale.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... i primi due libri della serie ("Il codice dello scorpione" e "L'ultima carta è la morte"), ma anche a chi apprezza le storie d'azione ben ambientate entro un bel romanzo storico.
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30
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Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    14 Febbraio, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Ardelia veste a lutto

I giorni di Ardelia Spinola scorrono tutti ugualmente monotoni e mesti, immalinconita dalla scoperta che, forse, tra le due persone che più ama (l’ex commissario Bartolomeo Rebaudengo e la talentuosa pianista Norma Picolit) sia scoccato l’amore. Poi, inaspettatamente, una sera, riceve una telefonata enigmatica da Arturo Granero, l’ex fidanzato mollato per i suoi troppi misteri. Il breve colloquio più ricco di parole non dette che di vere comunicazioni, la lascia inquieta e dubbiosa. Qualche giorno dopo, chiamata per i tristi rilievi su un cadavere ritrovato dentro la piscina in una villa di Albenga, fa una scoperta sconvolgente. Il morto, ucciso da una fucilata, è proprio Arturo, il suo Arturo.
Precipitata nello sconforto più nero, la donna si domanda se in quella telefonata l’uomo avesse voluto comunicarle qualcosa, lanciarle una muta richiesta d’aiuto che, per il disinteresse da lei manifestatogli, non si era esplicitata. Forse lei, Ardelia, è stata una delle concause della sua morte? Ovviamente, in quanto parte interessata, non potrà eseguire gli esami autoptici, ma la bramosia di scoprire chi ha ucciso Arturo la tormenta e la deprime. Tra l’altro un dubbio la arrovella: l’uomo era ospite di un suo amico di recente data, tal Davide Drusi, uomo dagli ignoti traffici, che gli assomiglia come un gemello monozigote. Che il povero Arturo sia stato vittima di uno scambio di persona? Forse la vittima designata doveva essere proprio quel Drusi, che, tra l’altro, ha una serie di conti in sospeso con il vicino, un sociopatico iroso e vendicativo.
Per fortuna di Ardelia, il buon Bartolomeo Rebaudengo le è subito a fianco, per sostenerla, rincuorarla e, grazie alle ancora salde conoscenze tra le forze dell’ordine, tenerla aggiornata sulle indagini. Ma si sa, il medico legale, nonostante le spergiurate promesse di non immischiarsi, non riuscirà a starsene fuori. Anzi, proprio grazie alla sua tenacia, sarà possibile svelare tutte le trame oscure che reggono la truce faccenda; trame che il magistrato incaricato, per la troppa fretta di chiudere il fascicolo, non avrebbe mai scoperto.

Trovare in libreria i romanzi di Cristina Rava è sempre una piacevole sorpresa, però, come si suol dire, non tutte le ciambelle riescono col buco. Questo romanzo, pur scritto con il solito stile garbato, corretto e ben strutturato, stenta a decollare, sembra quasi che il meccanismo perfetto che aveva mosso le vicende precedenti, si sia in qualche modo arrugginito, che necessiti di essere lubrificato. I primi capitoli sono un triste (e un po’ monotono) resoconto degli umori neri della Spinola. Si sente la mancanza delle auliche descrizioni d’ambiente o dei sentimenti umani; delle osservazioni, apparentemente colloquiali, ma ricche di considerazioni profonde; dei divertenti dialoghi, talvolta battibecchi, che i protagonisti intrecciano tra di loro. Questi ultimi, in particolare, almeno nei primi capitoli, appaiono abbastanza piatti e i vari interlocutori scarsamente caratterizzati. In passato non era neppure necessario precisare chi pronunciasse le varie battute, perché l’autore era immediatamente identificabile. In questo romanzo spesso accade che tutte le frasi sembrino pronunciate dalla stessa bocca senza una precisa coloritura distintiva negli interventi. Anche i girotondi sentimentali dell’anatomo-patologa non ravvivano a sufficienza la vicenda, anche se, per gli affezionali lettori della serie, si preannunciano vere sorprese.
Dal punto di vista della vicenda poliziesca, poi, il fatto che la Spinola, per la maggior parte del tempo, se ne debba stare alla finestra a osservare ciò che fanno gli altri senza poter intervenire (o senza intervenire troppo) nelle indagini, spoglia il libro dell’azione che ravviverebbe la narrazione.
Per fortuna, seppur lentamente, la storia prende quota e si ritrovano pagine che ricordano i migliori romanzi della serie. Il racconto non si limita più a esporre il lento procedere delle indagini, ma spazia su altri temi, sull’umanità dei personaggi coinvolti, sulle loro vicende private, su considerazioni importanti. Tuttavia si ha la sensazione che la fase di spleen dell’A. (o la sua mancanza d’ispirazione) non sia ancora cessata e pure la produzione letteraria che offre al suo pubblico ne risenta. Alla fine, l’epilogo, decisamente non catartico e parzialmente insoddisfacente e incompiuto, lascia con un po’ d’amaro in bocca, mentre alcune vicende, rimaste in sospeso, forse in attesa di una futura risoluzione, abbandonano il lettore, dubbioso, nel mezzo di un cammino letterario che non mostra chiaramente la sua meta.
In definitiva, questo appare come un romanzo un po’ dimesso, sottotono, un interludio un po' vano, pur conservando i pregi della prosa sempre affascinante e curata della scrittrice ligure. Comunque da leggere, anche solo per non perdere di vista le vicende della simpatica dottoressa “frugamorti”.

___________
Chiudo con una tirata d’orecchi agli editor (o ai correttori di bozze?) della Rizzoli. Non si può vedere in un volume di una casa editrice di tale pregio una frase di questo tipo: “Ci vediamo di rado. L’hanno scorso capitava più spesso”. Un errore da matita blu anche alle elementari!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... i precedenti romanzi della doppia serie Rebaudengo-Spinola, con l'auspicio che, in futuro, la scrittrice con un colpo d'ali torni a volare alto nei cieli della letteratura poliziesca italiana.
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30
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Fumetti
 
Voto medio 
 
4.3
Sceneggiatura 
 
3.0
Disegno 
 
5.0
Originalità 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Febbraio, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Lombroso il Cuore insanguinato

1889, Torino, il professor Cesare Lombroso, vuole dimostrare la fondatezza delle sue teorie sulla fisiognomica e, soprattutto, che il comportamento criminale dipenda dall’atavismo e sia rivelato dalle caratteristiche somatiche del soggetto che delinque. A tale scopo riesce a ottenere il permesso per un esame autoptico del corpo di Giulio Perboni, ex maestro elementare all’Istituto Moncenisio, morto suicida nel carcere “Le Nuove”, dove scontava una pena detentiva per estorsione ai danni degli ex alunni. Assistono all’esame gli studenti di Lombroso e l’agente De Rossi, ex alunno di Perboni.
Lombroso si presenterà pure ai funerali dell’uomo, durante i quali entrerà in contatto con molti degli ex studenti del maestro che, nonostante tutto, continuano ad amarlo come una fulgida guida. Ma gli eventi precipitano, Enrico Bottini, altro alunno del Perboni, viene trovato morto in casa sua, ucciso barbaramente. La sorella Silvia si rivolge a lui per scoprire cos’è avvenuto, ma, prima che il medico possa esaminare il cadavere, questo viene trafugato e l’agente De Rossi, che lo stava sorvegliando, ucciso.
Inizia così una pericolosa indagine per Lombroso che si troverà a investigare sui vizi privati degli alunni di Perboni e sui moventi che potrebbero aver spinto all’omicidio di Bottini.

Con questa graphic novel inizia una trilogia dedicata al discusso scienziato del secolo XIX che si trasformerà, per necessità, in investigatore privato in una Torino fin de siecle affascinante e attentamente ricostruita.
Chi di noi non ha mai ironizzato sul libro Cuore e sui suoi personaggi? Qui gli A.A. fanno un passo avanti e proiettano i ragazzini della III elementare del 1882 (ma in realtà nel fumetto sono assai più grandi di quanto dovrebbero esserlo secondo una mera logica anagrafica) in un loro immaginario futuro e nel farlo si permettono più di uno sberleffo ai danni di quei personaggi. Enrico, l’autore dei diari scolastici di cui al romanzo di De Amicis, ci viene mostrato come uno scrittore fallito e, per questo, divenuto un tossicodipendente dedito all’assenzio. Sua sorella maggiore, la protettiva Silvia di De Amicis, ora è diventata una prostituta! Il terribile Franti sconta una pena carceraria pesante, ma resta sprezzante e irridente l’autorità. Il ricco Derossi è entrato in polizia, ma cade subito sotto i colpi dell’ignoto assassino. Garrone resta il gigante buono del libro, ma si dimostra un incontenibile iroso tanto da mettersi nei guai con la giustizia. Insomma, con un gusto un po’ perverso, ne “Il cuore di Lombroso” viene smontato il giocattolo troppo mieloso di De Amicis, per riportare gli attori di quelle storie a una realtà cruda e molto meno idilliaca e a un’Italia ancora realmente da fare come Nazione.
I disegni, tutti rigorosamente in bianco e nero, sono stilisticamente impeccabili e le ricostruzioni d’ambiente sono davvero affascinanti e frutto di un attento studio storico. Meno curata appare la sceneggiatura della storia, un po’ affrettata e non particolarmente strutturata: sarebbe stato più interessante descrivere con maggiore accuratezza i personaggi e le loro vicende. Tutto sommato, comunque, resta un fumetto gradevole, anche grazie alle beffarde strizzatine d’occhi che gli A.A. fanno al lettore che ben conosce l’opera deamicisiana. Un buon esordio per la trilogia che proseguirà con una rivisitazione dei personaggi collodiani e con una terza opera ancora da scoprire.
Insomma un fumetto (rectius, una sofisticata graphic novel) davvero divertente e originale, da godere dalla prima all’ultima tavola.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... "Il naso di Lombroso", successivo a questo come pubblicazione editoriale, ma antecedente nella cronologia interna delle storie.
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30
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Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Febbraio, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Gli scorpioni possono provare amore?

Nel marzo 1937 la Guerra civile spagnola pretende il suo penosissimo tributo giornaliero di sangue e dolore, mentre le fazioni non lesinano colpi feroci per cercare di aver la meglio l’una sull’altra.
I Repubblicani sono sempre più legati all’Unione sovietica per il sostegno militare necessario a impedire che le schiere falangiste, e i contingenti italiano e tedesco che affiancano Francisco Franco, riescano a sopraffarli sui campi di battaglia. Così – ufficialmente per proteggerli dalle mani dei Nazionalisti, in realtà come pagamento delle forniture d’armi russe – già moltissime tonnellate d’oro prelevato dalle casse del Banco de España sono state spedite a Mosca. Però c’è ancora un carico che non riesce a raggiungere Odessa. Una trentina di tonnellate sono imbarcate sul cargo Mount Castle che è stato sorpreso in mare dalle navi da guerra franchiste. Per evitare la cattura s’è rifugiato a Tangeri, protetta dal suo stato di città con statuto internazionale. Da lì sperava di poter ripartire per il Mar Nero, ma è stata raggiunta dal cacciatorpediniere nazionalista Martín Álvarez, che le si è ormeggiato vicino e la sorveglia dappresso come un predatore affamato. Il Comitato di Controllo che governa la città ha già fissato un termine improcrastinabile entro il quale le due navi dovranno lasciare il porto. Ma è chiaro che se ciò avverrà, dopo, in alto mare, il cargo, lento e poco maneggevole, non riuscirà a sfuggire all’agile nave da guerra e, se non si arrenderà e farà catturare, finirà a fondo sotto le cannonate del caccia.
Lorenzo Falcò, spregiudicato mercenario agli ordini dell’Ammiraglio, capo del Servizio informazioni della Marina nazionale, riceve l’ordine di recarsi al più presto a Tangeri e cercare, in ogni maniera, di evitare che il carico d’oro finisca in bocca ai pesci, ma, al contrario, divenga preda dei nazionalisti senza necessità di uno scontro a fuoco. Ha libera mano su come agire, anche cercando di corrompere il capitano Quirós del Mount Castle. Ma nella città nordafricana è presente pure la spia sovietica Eva Neretva che Falcò ha conosciuto in una precedente missione, amato selvaggiamente in una Alicante squassata dalla guerra civile e salvato da morte certa quando lei era finita nelle mani della polizia franchista: una donna dura, determinata e animata da una fede incrollabile nel marxismo. Sarà una avversaria temibile, perché è a Tangeri proprio per consentire al mercantile di raggiungere la sua meta prefissata.

Seconda avventura della spia franchista che si muove secondo il codice dello scorpione (osservare con calma, pungere veloce e ritirarsi ancor più rapidamente) e seconda occasione per immergersi nell’atmosfera torbida e violenta della guerra civile spagnola, dove l’unico modo per sopravvivere è restare fedeli, ma solo a sé stessi.
Nel romanzo viene ulteriormente precisata la figura di Falcò, che ci appare come un James Bond ante-litteram: spregiudicato, implacabile, coraggioso sino alla temerarietà, ma pure cauto e astutamente programmatore dei propri movimenti.
Con le tipiche esagerazioni della letteratura di genere spionistico, ci vengono descritti gli intrighi, i doppi-giochi, le minacce, i sotterfugi e, purtroppo, inevitabilmente, le inumane torture che vengono inflitte alla vittima di turno, sia da una fazione che dall’altra, senza che sia possibile individuare una parte buona e una cattiva.
La trama scorre rapida e incalzante e la figura di Lorenzo Falcò spicca su tutti gli altri per la personalità travolgente: un guascone ribaldo, privo di ogni morale ed etica, bramoso di assaporare tutte le emozioni che ci può offrire la vita, senza remore o pregiudizi, ma, nonostante tutto, inesorabilmente simpatico, proprio per la sua sfacciataggine. Si muove disinvoltamente sia nel bel mondo degli alberghi lussuosi e delle dame in abiti di seta, che nei sordidi vicoli di angiporto e nelle bettole frequentate dalle peggiori ciurme. Non c’è donna che sappia resistergli e lui si fa vanto di non averne risparmiata nessuna. Insomma un tipo decisamente poco corretto politicamente, visto con gli occhi di oggi, ma terribilmente divertente nell’ambientazione che gli è riservata.
Inoltre, forse, pure gli scorpioni hanno un cuore e la fine del romanzo ce lo fa pure sperare o, quantomeno, dubitare.
Un buon libro appassionante e incalzante, da leggere tutto d’un fiato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
...il romanzo che precede questo nella serie ("Il codice dello scorpione") e chi ama la prosa di Pérez-Reverte
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40
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Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    12 Febbraio, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

Un poliziotto scientifico per Luigi Filippo

Parigi, 1830. La Francia è appena riemersa dai tumulti che hanno causato la caduta del regno di Carlo X Borbone e l’ascesa di Luigi Filippo d’Orleans, ma la città è ben lungi dall’aver trovato pace e tranquillità e l'odio tra le varie fazioni non s'è spento.
Valentin Verne è un giovane poliziotto colto e affascinante. Suo padre Hyacinte, deceduto tragicamente quattro anni prima investito da un fiacre, gli ha lasciato un ingente patrimonio e il ragazzo potrebbe vivere di rendita, ma ha scelto di assolvere una missione: catturare e assicurare alla giustizia il sedicente Vicario, un uomo di chiesa brutale che rapisce giovani orfani per soddisfare la sua lussuria.
Damien Combes è uno di quei poveri derelitti: abbandonato in fasce era stato allevato dall’amorevole famiglia di un guardaboschi, ma, quando l’uomo era caduto a Waterloo, la vedova non aveva avuto altra scelta se non di affidarlo al religioso che s’era detto disposto ad accudirlo e educarlo. Purtroppo per Damien, lo aspettava l’orrore assoluto: era stato sbattuto dentro una lurida cantina e usato per anni come giocattolo sessuale dal religioso che, in caso di ribellione o anche solo di titubanza nell’eseguire le pratiche che pretendeva da lui, lo rinchiudeva in una gabbia poco più grande di una stia per polli.
Per salvare Damien e tutti i poveri, piccoli martiri caduti sotto le grinfie del Vicario, Valentin ha accettato di entrare in polizia, nel più sordido dei suoi distaccamenti, la Buon costume. Però un giorno viene convocato dal commissario Jules Flanchard, capo della Sûreté. Dovrà indagare sul suicidio di Lucien Dauvergne, unico figlio maschio di Charles-Marie Dauvergne, potente magnate con solidi agganci nella politica francese. È indubbio che il giovane si sia ucciso da solo, gettandosi da una finestra, sotto gli occhi terrorizzati della madre, ma la sua morte appare così assurda e inspiegabile che il padre pretende una solida inchiesta che, eventualmente, individui chi ha istigato il figlio al folle gesto.
Inizierà così, per Valentin, una difficilissima indagine nella quale più volte rischierà la vita e che, alla fine, mostrerà risvolti inquietanti e sorprendenti che chiameranno in causa pure persone altolocate e nuove scoperte della medicina.

Éric Fouassier ambienta, in un inusuale periodo del passato francese, un poliziesco altrettanto singolare che miscela azione, puntigliosa rievocazione storica e ambientale, un pizzico di romanticismo e meraviglia, ma anche inquietudine per i coevi ritrovati di scienza e medicina.
In uno stile che riecheggia quello di certi feuilleton del XIX secolo, l’A. ci cala in una Parigi tormentata, sporca, cattiva e indocile, dove gli spiriti rivoluzionari covano sotto la cenere dell’apparente calma portata dalla monarchia costituzionale di Luigi Filippo. Anche le forze dell’ordine non appaiono più fedeli alla legalità di quanto lo siano i peggiori delinquenti. Con una precisione pignolesca si viene condotti tra boulevard e vicoli sordidi di una città in piena evoluzione, dove un antro scuro può nascondere un sicario armato di coltello, un cadavere può esser fatto sparire facendolo scivolare nella Senna e anche la edificanda Place de la Concorde può celare sotterranei minacciosi. La capacità descrittiva rende vive e palpitanti le scenografie usate come fondali per l’azione. La ricostruzione storica è perfetta e avvincente. Pure gli aneddoti di contorno sono rigorosamente corretti e documentati da apposite note in calce. I personaggi inventati sono altrettanto credibili di quelli che realmente vissero in quegli anni. Questi ultimi, spesso, fanno da comparse nel racconto, a cominciare dal leggendario Eugène-François Vidocq, criminale, avventuriero e, infine, investigatore e creatore della Sûreté; qui ci appare spesso come un deus ex machina risolutore delle situazioni più critiche.
Molto interessante l’aura di mistero che ammanta tutti i protagonisti, mentre la trama, decisamente cupa e angosciante, pur con digressioni più leggere, trascina il lettore in un climax di emozioni che affascina senza che far venir meno il rigore descrittivo.
Complessivamente un bel libro di intrattenimento che, però, racchiude in sé anche un nucleo istruttivo di non minore importanza. Forse l’unico difetto del libro è avere un finale aperto per consentire all’A. di proseguire la serie con altri romanzi aventi come protagonisti gli stessi personaggi. E, infatti, il secondo libro (Il fantasma del Vicario) è già uscito qualche mese fa.

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Lettura consigliata
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60
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Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Novembre, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Vita, morte e “miracoli” di una faina

Archie è una faina. È nata poco prima di quando sua madre è restata vedova. Infatti il compagno, noto ladro di galline, era stato ucciso a fucilate da un contadino, stanco per l’ennesimo furto. Così Archi e i suoi fratelli sperimentano la fame e i patimenti, giacché la madre fatica a trovare cibo per tutti loro. Quando un giorno Archie decide di contribuire al sostentamento della famiglia e, avvistato un nido di pettirossi, si avventura lungo un ramo, gli capiterà un infortunio che lo segnerà per tutta la vita. Il ramo si spezzerà e lui, caduto a terra, resterà per sempre zoppo e dolorante a una gamba. La madre, decisamente pragmatica, deciderà, allora, di “cedere” Archie all’usuraio Solomon, per una gallina e mezza.
Solomon è una vecchia volpe, saggia e astuta che, dopo una vita da bandito, s’è convertita a una vita più onesta. Ora commercia con tutti gli animali del bosco, scambiando vegetali del suo orto, uova e polli del suo allevamento (che amministra con scrupolo) in cambio di altri beni e relativi interessi. E semmai il debitore dovesse tardare nel saldare le pendenze, il grosso cane Gioele provvederebbe a recuperare il dovuto, con le buone o con le cattive.
Ma Solomon è molto più di questo: sa leggere e scrivere ed è affascinato dagli uomini (è convinto di essere un uomo reincarnato) e crede in Dio. Nella sua tana conserva gelosamente una bibbia che legge con devozione e colleziona tutti i manufatti umani su cui riesce a mettere le zampe. Archie, dopo settimane da “schiavo” entra nelle grazie di Solomon che gli insegnerà a leggere e che ne farà un suo apprendista. Ma la vita di una faina non è mai semplice e ad Archi capiteranno mille avventure, spesso niente affatto piacevoli.

Ho sempre molto apprezzato i romanzi con protagonisti gli animali, per quel fondo di incontaminata ingenuità che tendiamo ad attribuire ai nostri vicini pelosi e per quel modo che hanno di mostrarci i nostri pregi e i nostri difetti, attraverso una diversa prospettiva. Ma ci sono mille modi per rendere un animale protagonista di una storia che lo riguardi e parli pure di noi. Si può, assai semplicemente, raccontare di lui dal nostro fallace punto di vista, narrandone le vicende così come noi le percepiamo, senza sforzarci di immedesimarsi in lui. All’estremo opposto è possibile arrischiare una storia mostrando il mondo attraverso i suoi sensi e le sue impressioni; tentando di interpretare in qual modo lo stesso percepisca ciò che lo circonda (noi compresi) e si adatti ad esso. Tra i due estremi ci sono, poi, ovviamente, innumerevoli sfumature. Ma c’è pure un metodo ancor più radicale di parlare degli animali, usarli come maschere dietro cui celare noi umani, le nostre qualità e, soprattutto, le nostre mancanze. Lo si può fare nell’ingenuo e edulcorato modo della Disney, ma pure con una più attenta valutazione di sentimenti e comportamenti.
Il romanzo di Zannoni si pone in una terra di mezzo tra tutte queste tipologie di romanzi “animaleschi”: il mondo degli umani è posto sullo sfondo come una presenza immanente, ma discreta e la società degli animali si atteggia secondo regole non scritte. Gli attori di questo libro sono sì parzialmente umanizzati: parlano tra loro, di qualunque specie essi siano, e comunicano in modo articolato e complesso; usano utensili, vivono in tane che sembrano più case rurali che rifugi naturali. Hanno cucine dotate di stoviglie e focolare, camere con letti, sedie e arredi vari; praticano il commercio, l’agricoltura e l’allevamento (le uniche che, stranamente, sono restate allo stato totalmente bestiale sono le galline, macchine per uova e carne). Alcuni, come Solomon, leggono pure, si dicono religiosi e credono nell’Aldilà. Tuttavia nessuno di loro ha dismesso i primordiali istinti ferini. Uccidono per difendersi o per procacciarsi il cibo, senza alcuna remora morale, anzi con un’intima gioia e appagamento, senza neppure il tabù del cannibalismo. Si accoppiano proni alle pulsioni stagionali ignorando cosa sia l’incesto. Provano sentimenti “umani” come l’amore, l’amicizia, l’odio, la bramosia, il desiderio di vendetta; Solomon, addirittura è un intransigente bigotto (almeno quando gli fa comodo), ma rimangono animali selvaggi per i quali l’unica legge che conti davvero è quella della Natura.
Questa dicotomia, anzi questo crogiuolo di elementi contrastanti e confliggenti gli uni con gli altri, se da un lato è la ragion d’essere della storia, dall’altro non sempre sembra funzionare perfettamente, raggiungere lo scopo, per altro niente affatto chiaro. Più di una volta, il fluire del racconto sembra incepparsi, incappare in contraddizioni, assurdità, esagerazioni. Insomma il meccanismo non appare ben oliato, ma stride e fatica a procedere. Gli animali “colti” paiono ossessionati solo dalla consapevolezza di dover morire, dal fatto che la morte non sia una cosa che riguarda solo gli altri. La connotazione fiabesca della storia viene continuamente turbata dal carattere tragico delle vicende, la continua immanenza della morte violenta, cala una cappa plumbea sul racconto, senza che sia chiaro il messaggio che si vuol trasmettere. Soprattutto l’evidente intento di voler trattare troppi grandi temi (il rapporto col divino, con la verità e la conoscenza, con il potere della letteratura di tramandare le nostre esistenze dopo la morte e di elevarci a uno stadio superiore a quello puramente bestiale), senza poter, d’altronde, fornire risposte, è un carico eccessivo per una storia che poteva essere molto più agile e fruibile.
Considerando la giovanissima età dell’A. l’opera è sicuramente di notevole interesse, ma forse il tema avrebbe meritato un approccio più maturo e ragionato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
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30
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Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Ottobre, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Vanina e i gelati corretti alla valeriana

In una afosa domenica d’agosto Catania è scossa da un improvviso scandalo: nei gelati di una delle più rinomate catene di gelaterie della città (“Il Re del gelato”) sono state ritrovate pillole di ignota natura. L’ispettore Spanò, interpellato dal titolare, il sig. Agostino Lomonaco, suo amico, inizia a indagare.
Quella sera stessa, però, la cosa assume caratteristiche ben più tragiche. Il Lomonaco è ritrovato morto dal figlio Rino; la testa sfondata da un corpo contundente, riverso dietro al bancone della sua gelateria Numero uno, quella in cui ha sede il laboratorio che fornisce anche tutte le altre. A quel punto il vicequestore Vanina Guarrasi, che aveva seguito la prima fase delle indagini solo per evitare la noia di una domenica priva di significato e con troppi ricordi, è costretta a impegnarsi per scoprire l’autore dell’omicidio.
E le ipotesi che si possono fare sul crimine sono davvero tante: rivalità commerciale con Ruggero Cammarata, ex socio che si sentiva truffato dal Lomonaco, gelosia di quest’ultimo, che sospettava una tresca della moglie col Cammarata, avidità della figlia Corinna che temeva di essere diseredata dal padre che la pensava figlia della relazione extraconiugale della moglie; e, infine, giacché siamo comunque in Sicilia, anche intimidazione mafiosa per un pizzo non pagato.
Solo ulteriori tragici sviluppi forniranno alla Guarrasi la soluzione del caso.

Sull’onda del successo ottenuto dalla collana di romanzi con protagonista il vicequestore Vanina Guarrasi, l’A., Cristina Cassar Scalia, ha pensato di dare alle stampe una sorta di prologo alle indagini catanesi della tenace “sbirra” palermitana. Forse, proprio questa circostanza è il difetto maggiore del romanzo breve. Non può essere considerato né un prequel né un’opera da collocarsi come libro d’esordio della serie, cioè non solo nella cronologia interna alla narrazione, ma pure in quella di lettura.
Come prequel, dedicato a chi già conosce i vari personaggi della serie, risultano inutili e tediose tutte le specificazioni riguardanti i protagonisti, le reiterate precisazioni sul loro passato o sui loro attributi fisici o caratteriali; cose che dovrebbero essere già ben note ai lettori affezionati. Se, invece, il romanzo fosse inteso proprio come storia d’esordio destinata a essere letta prima di tutte le altre, mal si comprendono certe strizzatine d’occhi, certe allusioni a fatti o persone che verranno introdotte successivamente nel prosieguo della serie (su tutte l’onnipresente figura del commissario in pensione Patanè). Sono tutti richiami, che risultano incomprensibili per chi faccia la conoscenza dell’ambientazione a cominciare da questa storia. Queste storture un po’ disturbano e un po’ appesantiscono la storia che potrebbe essere assai più agile.
La trama, poi, è abbastanza arruffata, preciserei inutilmente, ma, contemporaneamente, poco strutturata, coi personaggi appena delineati a rapidi tratti.
La serie di tracce investigative, poi, viene sparsa attorno ai fatti come una cortina fumogena allo scopo di rendere imperscrutabile l’andamento delle indagini più che per indirizzare verso la soluzione finale, la quale viene servita affrettatamente, solo nelle ultime pagine del libro, senza una reale preparazione e senza aver fornito al lettore quegli indizi rivelatori che lo avrebbero forse coinvolto con maggior partecipazione. Lo stile resta gradevole, diligente e scorrevole, ma privo di alcun guizzo inventivo o raffinatezze letterarie.
In generale si tratta di una opera carina, ma decisamente inferiore alle altre, e traspare lo scopo di ottenere qualche vendita editoriale in più spremendo dall’ambientazione già ben sfruttata qualche goccia ulteriore di interesse nei lettori. In pratica una operazione commerciale non pienamente riuscita. Comunque, accertati e accettati questi limiti, restano un centinaio di pagine o poco più da leggere con moderato godimento e interesse.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    18 Ottobre, 2023
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Anna in trasferta

Per Anna Melissari, la donna che parla con gli animali, si prospetta uno stimolante miglioramento di carriera: Giovanni Cantoni, il titolare dell’agenzia investigativa per cui lavora, è propenso ad assumerla in pianta stabile come membro effettivo dello staff. Inoltre, quando una vecchia amica di Cantoni, Cecilia, si rivolge a lui per chiedergli aiuto nella ricerca di Yasser (un giovane profugo siriano che lavora al rifugio che lei gestisce assieme al marito Tullio), sembra che le si prospetti l’occasione ideale per fare bella figura col capo: indagare dove i migliori testimoni sono proprio animali e piante.
Il rifugio di Cecilia, infatti, si trova sugli appennini, in mezzo ai boschi. Dà accoglienza provvisoria a molti profughi in attesa che si completi l’iter per la concessione dell’asilo politico. Yasser era uno dei ragazzi più promettenti: dopo aver passato mille traversie, era giunto al rifugio dove aveva subito cominciato ad ambientarsi. Gentile, servizievole, alacre e volonteroso, si dava continuamente da fare e stava diventando indispensabile nella conduzione dell’attività alberghiera, oltre a formarsi come abilissimo ebanista che produceva sculture e mobili di fattura mirabile. Inspiegabilmente, il giovane, da un giorno all’altro, era scomparso, senza portarsi dietro nulla, nemmeno un vestito o qualcuna delle sue opere più raffinate. Inutili si sono rivelate le ricerche degli amici nei boschi che circondano il rifugio, mentre i Carabinieri si erano subito disinteressati della faccenda perché, secondo il maresciallo, “si sa come sono fatti quelli là…”.
È l’indagine ideale per Anna: in mezzo alla natura chissà quanti animali potranno aiutarla a scoprire cos’è avvenuto di Yasser? Invece, appena arrivata in montagna la donna ha un collasso: c’è troppa natura attorno a lei. Milioni di esseri viventi le urlano in testa e lei non riesce a reggere quel micidiale frastuono; sviene in continuazione. Così quello che doveva essere un caso facile da risolvere si trasforma in una tortura per la donna e una bega difficile da sbrogliare per Cantoni che, oltre a badare che lei non si esponga troppo (con rischi per la sua salute), deve districarsi tra la diffidenza dei profughi e l’ostilità di Tullio, che reca, nei suoi confronti, un rancore antico e bruciante.

Nuova avventura per la stramba investigatrice che scuce informazioni ai più improbabili testimoni e, in teoria, nuova occasione per una lettura divertente e distensiva. Purtroppo, sin dalle prime pagine si percepisce che non c’è quel mutare di ritmo che sarebbe stato utile per ravvivare l’interesse nella serie ed evitare che scivoli verso una routinaria ripetitività delle opere precedenti.
Lo stile continua a rimanere piacevole giovandosi, come fa, del consueto linguaggio che oscilla tra il familiare e il colloquiale leggero, con le frasi che scorrono rapide sotto lo sguardo del lettore. Talora l'A si concede la licenza di accomodarsi su visioni piuttosto convenzionali e di generale accettabilità, quando l’argomento trattato scivola su questioni più serie, che meriterebbero un approfondimento più ragionato, mostrando quasi il pudore di turbare coscienze o sollevare quesiti inquietanti. Ma ciò è in linea con questa lettura che dev’essere, sostanzialmente, di svago.
Il serraglio floro-faunistico che sputa sentenze alla donna si arricchisce di nuove campioni: il riccio che pretende di essere un fine astronomo, la capretta che spera di essere rapita dagli alieni, la banda di scoiattoli taglieggiatori che pretendono il pizzo in nocciole, il cinghiale che si crede uno scoiattolo o una vacca alpina e una piantina di sedum che vorrebbe entrare in agenzia come stagista e agente sotto copertura. Insomma tutto assurdamente divertente, ma anche spudoratamente esagerato. E questo forse è il difetto più grande del romanzo. L’idea iniziale da cui è partita la serie era molto divertente: far parlare gli animali e consentire loro di giudicare in modo acuto e irriverente i nostri comportamenti – che pretenderemmo essere frutto della nostra superiore intelligenza e, invece, spesso sono solo illogici e bislacchi – è sempre una carta vincente della narrativa. Però il ricercare a ogni costo la battuta comica, la trovata paradossale inventandosi caratteri bizzarri, individui psicotici o bestie che pontificano in modo sofistico e dottorale, se non viene dosato in modo equilibrato e cauto, rischia di rendere il tutto più simile alla farsa, spogliando quelle considerazioni anche del loro nucleo serio, acutamente critico.
Poiché la vicenda è ambientata in trasferta, sono meno frequenti le presenze dei personaggi di contorno che, a volte, in passato, avevano appesantito il racconto evidenziandone ancor di più il carattere buffonesco. Però, nonostante quest’azione di snellimento la storia regge sino a un certo punto. Comprensibile, ai fini dello sviluppo del racconto, che si sia deciso di utilizzare l’escamotage di rendere Anna handicappata di fronte allo strapotere delle voci della foresta. In caso contrario l’enigma sarebbe stato risolto con una semplice passeggiata nei boschi, ma si sarebbe appiattito ogni intreccio narrativo. Purtroppo, in tal modo s’è esaltato pure la caratteristica imbranataggine della donna, il suo essere perennemente sull’orlo di una crisi di nervi, la inettitudine personale, il continuo stato di stress per i micro-guai suoi e della famiglia lontana, le sue paranoie… Insomma la si è resa ancor più ridicola e, se vogliamo, irritante. Se da un lato ciò è funzionale alla trama, dall’altro, alla lunga, stanca.

Complessivamente, però, il romanzo resta gradevole e divertente, pur essendo inferiore di qualche livello a quelli che lo hanno preceduto. Ma sul serio, adesso, c’è la necessità di un cambio di marcia per evitare che la serie si imballi in una collana ripetitiva di storie tutte cloni l’una dell’altra.

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...i tre romanzi che precedono questo nella serie.
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    20 Settembre, 2023
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Vanina e il morto ‘mmiricano

Due informatori sanitari, appena sbarcati a Catania Fontanarossa, scoprono, nel parcheggio dell’aeroporto, dentro alla sua auto, il cadavere di un uomo freddato da un unico colpo al petto.
Il Vicequestore Vanina Guarrasi è richiamata immediatamente da Palermo, dove si era recata un paio di settimane prima nella vana speranza di catturare l’ultimo dei sicari che uccisero suo padre, e inizia immediatamente le indagini con la sua fidata squadra, affiancata dall’immarcescibile commissario in pensione Biagio Patanè.
Dalle indagini si accerta che l’uomo, il settantacinquenne Esteban Torres, aveva un passato decisamente movimentato. Nato all’Avana, trasferitosi in USA, a seguito dell’avvento del castrismo, dopo essersi arricchito con il gioco d’azzardo e i commerci (non esattamente leciti) aveva sposato un’italiana, acquisendone la nazionalità, ma da anni viveva in Svizzera. Le piste, per comprenderne l’omicidio, si diramano in varie direzioni, non escluso anche un eventuale coinvolgimento mafioso. Però, quando, un paio di giorni dopo, viene scoperto il cadavere (ormai saponificato) dell’amante dell’uomo, Roberta Geraci, che qualcuno aveva gettato nel pozzo di un albergo lussuoso di Taormina una quindicina di giorni prima, tutto si incanala verso una motivazione più personale; tra l'altro, l'arma usata per il primo omicidio era quella regolarmente denunciata del morto. È inevitabile, quindi, ipotizzare un delitto non premeditato e collegare entrambi i delitti ricercando il movente e il suo autore nei rapporti tra la coppia e in quelli che l’uomo aveva con le ex mogli (incluse le due americane) e in quelli, ormai recisi, dello stesso con Cuba e i parenti che ancora vivono laggiù.
Per Vanina, che nel frattempo si dibatte in crisi sentimentali, si prospetta un caso intricato non privo di colpi di scena che riesumano anche misteriosi fantasmi nel passato del Torres, mentre il fido ispettore Spanò appare distratto e concentrato soprattutto sui suoi problemi familiari.

Terzo romanzo con protagonista il vicequestore Guarrasi che non delude gli amanti della serie, ma neppure li stupisce con esaltanti novità nella narrazione o negli intrecci. Si tratta di una storia carina e ben architettata e ambientata, non particolarmente involuta e contorta, pur con le varie vicende che interagiscono tra loro, che appassiona e diverte in modo distensivo. Le moderate incursioni del dialetto catanese, delle consuetudini e della gastronomia isolane non disturba, ma dona un sapore di credibilità e freschezza al racconto.
Per chi, come me, ha già letto quasi tutti i romanzi del ciclo, il libro non rappresenta una sorpresa particolare e comincia a mostrare le caratteristiche di quella ripetitività che, alla fine, lo ha trasformato in un modello sempre un po’ uguale a sé stesso. Ma come lettura distensiva e senza impegni non risulta affatto sgradevole; anzi confortevole per la familiarità delle situazioni che si ripetono. Lo stile è corretto e fluente, i dialoghi, a volte spiritosi e mai banali, sono ben congeniati, i tempi della narrazione ben calibrati.
Come nel precedente, ho trovato un po’ invasivi i riassunti dei fatti precedenti, che troppo spesso vengono inseriti per ragguagliare il lettore distratto o non particolarmente assiduo e hanno il difetto di deviare la narrazione appesantendola con informazioni forse superflue. Ho sentito la mancanza di qualche descrizione d’ambiente e, soprattutto, di un vero approfondimento della storia e delle vite dei protagonisti principali, che sì, ci vengono raccontati anche al di fuori delle mura della Questura di Catania, ma senza la cura e l’attenzione che, forse, dovrebbe essere dedicata loro. Pure i travagli dell’Ispettore Spanò e le sue iniziative al limite dello stalking ai danni dell’ex moglie, appaiono quasi intermezzi macchiettistici, più che un approfondimento psicologico del personaggio.
Al contrario l’indagine poliziesca ci viene raccontata in modo accurato e credibile, come una vicenda vera, con tutti gli inevitabili ripensamenti e mutamenti di prospettiva.
Insomma si tratta, non di un'opera di grande letteratura, ma di un buon libro per trascorrere alcune ore in totale relax.

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i primi romanzi dedicati a Vanina Guarrasi
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Romanzi
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Agosto, 2023
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Enzo e Danny sotto un diluvio di malvagità

A Enzo piace guardare per ore la TV. Enzo adora le automobili e le corse in pista. Enzo sa tutto ciò che importa sul pilotaggio in velocità. Enzo ama la sua famiglia e farebbe di tutto per vederla serena e felice accanto a lui. Ma c’è un problema: Enzo è un ibrido di Labrador e, forse, di Terrier e, purtroppo, la sua famiglia, composta da Danny, sua moglie Eve e dalla piccola Zoë ha un sacco di problemi che, con l’andar degli anni, non fanno che ingigantirsi. In particolare, dal giorno in cui Eve si ammala gravemente, le loro vite vengono sconvolte. Ma Enzo ce la metterà tutta per cercare di fare, nei limiti delle sue potenzialità canine, ma con l’ausilio della sua non comune intelligenza, quanto necessita agli umani con cui coabita. Questo romanzo racconta la sua storia, o meglio, la vita della famiglia Swift, vista attraverso i suoi piccoli, ma acuti occhi.

Permettetemi, una volta tanto, di cominciare l’esame dagli aspetti negatici, dalle mie “lamentazioni di Giobbe”. Mi sono sempre domandato per quale motivo, quasi tutti i romanzi che hanno per protagonisti i nostri animali domestici, debbano, prima o poi, sbatterci in faccia la caducità della loro vita e la tristissima verità che il tempo accanto a loro è inesorabilmente limitato. Insomma, perché questi romanzi debbono sempre finire con il cane o il gatto che ci lasciano la pelle? Chi ama gli animali lo percepisce sempre e comunque come un vulnus, anche se la storia ha tenore sentimentale, romantico e non manca l’auspicato happy end (per gli umani!).
Leggendo la sinossi del romanzo mi ero illuso che questo libro facesse eccezione alla regola generale: la voce narrante è quella di Enzo e, si sa, chi parla, in genere, non è morto. Ma è lo stesso Enzo a toglierci ogni illusione nelle primissime righe del libro, dove ci confida che, ormai, gli manca poco da vivere e auspica che il suo padrone abbia il coraggio di portarlo dal veterinario per consentirgli una fine dignitosa e dargli la possibilità di reincarnarsi dopo la sua morte in un essere umano come lui è certo avverrà.
Dopo questa mazzata iniziale, che lascia l’amaro in bocca sino alla parola fine, inizia il racconto della sua vita, da quando, ancora cucciolo, Danny Swift, di professione e aspirazione pilota automobilistico, ma, per necessità di vita, meccanico di autosalone, lo acquistò dal contadino che lo stava allevando.
L’amore, reciproco, tra Danny e Enzo (non casualmente battezzato come il grande patròn della Ferrari) è subito profondo e non viene intaccato né dall’arrivo di Eve che, dopo i primi mesi di diffidenza, inizierà, anche lei, ad amare il cane, né della piccola Zoë, che adorerà l’animale come un fratello maggiore. Purtroppo la vita ha in serbo delle terribili prove per loro, prove che il cane faticherà a comprendere e, ancor con maggior difficoltà, cercherà di lenire. Soprattutto perché, con la malattia di Eve i suoceri cominceranno a diventare per Danny e Zoë l’equivalente dei felon, delle canaglie che popolavano i feuilleton di cento anni fa.
In definitiva la storia, in sé, non è particolarmente originale, tutto incentrandosi sul conflitto tra il povero “vaso di coccio” Danny e la protervia dei ricchi Gemelli Cattivi (come li ha soprannominati Enzo), forti dei loro soldi e della loro arrogante, pretesa superiorità sociale, i quali non si periteranno neppure di usare false accuse nei confronti del genero per i loro scopi non encomiabili. Le varie vicende che si susseguono, in fondo, sono tutte tristemente prevedibili e inevitabili in questo cammino, già prefigurato “per aspera ad astra”. Chi, come me, odia le ingiustizie perpetrate ai danni dei deboli, anche se nella finzione letteraria, avrà modo di accumulare parecchia adrenalina nella lettura.
Ciò che nobilita il racconto è il fatto che voce narrante e pensante sia il cane, con la sua pulizia d’animo, la sua generosità, l’amore incondizionato per i suoi padroni e con quella filosofia, vagamente zen, che lo anima, condita da divertenti metafore che ci spiegano di come la vita non sia, in fondo, molto diversa da un Gran Premio d’automobilismo e le sventure siano da affrontare come la pioggia: mano leggera sul volante e sguardo fisso al proprio obiettivo, perché “la macchina va dove vanno gli occhi”.
Ed è proprio grazie ad Enzo che il libro ha una dignità, un valore letterario superiore ai contenuti della storia narrata. Grazie alla sua travolgente simpatia e spiccata umanità che si viene travolti dalla storia, se ne entra in sintonia e si partecipa alle vicende narrate come se fossero le nostre personali. Alla fine non si può non infatuarsi della bestiola, commuoversi per ciò che gli accade e, in fondo, amare pure il libro per ciò che trasmette, anche se non veniamo consolati dall’auspicata catarsi che, dopo tante sventure, meriterebbero Danny, Zoë e, soprattutto, Enzo.

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Fantascienza
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    23 Agosto, 2023
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Umani anche se col cuore meccanico

Secondo il vocabolario Treccani, l’androide è un automa in forma approssimativamente d’uomo, cioè una macchina, un robot che simula le caratteristiche fisiche degli esseri umani. La fantascienza ne ha fatto uno dei grandi temi su cui i suoi autori si sono sbizzarriti dando libero sfogo alla fantasia.
Questa antologia, un classico del genere, raccoglie 14 racconti scritti da alcuni dei più rinomati autori di fantascienza, a cominciare da Asimov (che, ovviamente, gioca tutto sulle sue famose tre leggi della robotica) per passare al poetico Bradbury e al geniale Matheson, ma con la presenza pure di firme meno note al pubblico italiano, però capaci di scrivere novelle veramente toccanti e interessanti.
Sono stato a lungo incerto se segnalare questo libro, pubblicato ormai in tempi assai lontani. Però, ho accertato che si tratta di un’opera tuttora reperibile, sia nella sua versione elettronica che nelle ultime ristampe in formato cartaceo. Quindi mi è sembrato giusto parlarne, visto che merita essere pubblicizzato, nonostante l’inevitabile “invecchiamento” di alcuni riferimenti, cioè chiudendo un occhio, ad esempio, sul fatto che, William Nolan (curatore della raccolta), si meravigli in premessa, del fatto che ci siano “già ben 23.000 calcolatori elettronici in funzione” o sulle piccole ingenuità di alcuni autori che negli anni ’50-‘60, pensavano il 1975 o il ‘90 già come un futuro remoto pieno di stupefacenti mirabilie.
Io l’ho scoperto casualmente, andando a caccia di un racconto la cui lettura pubblica di tanti anni fa mi aveva oltremodo divertito. Quindi cercavo solo di riattizzare il divertimento d’allora.
Però ho dovuto apprezzare, con stupore e piacere, il fatto che molti pezzi ricompresi nell’antologia siano qualcosa di più di una amena storiella divertente, tanto da conferire un valore aggiunto alla mia “scoperta”.
Sebbene siano tutti racconti dichiaratamente di fantascienza, ove “gli uomini meccanici” sono i necessari protagonisti, molte di esse trattano temi universali, quali l’amore, l’umanità, il coraggio, la dedizione a una causa; temi che ben potrebbero prescindere dall’elemento futuribile. Molti, dunque, consentono riflessioni che trascendono il semplice ambito della letteratura di anticipazione.
Ho trovato molto toccante, ad esempio, Matheson quando racconta una storia ambientata nel duro mondo della boxe, storia che mi ha ricordato, molto, film come il commovente “Una faccia piena di pugni” con Anthony Quinn e Mickey Rooney e altri similari che esaltavano la dedizione e il sacrificio di chi si dedicava a questo sport “nobile”, ma brutale, anche con l’animo delle persone. Per vero, dopo aver letto il libro, ho scoperto che dal racconto ne è stata ricavata pure una pellicola in anni recenti (Real Steel di Shawn Levy), purtroppo per nulla aderente allo spirito del racconto.
Altrettanto drammatico, pur sotto l’apparente ironia dello stile, è il racconto “Scherzo” di Ron Goulart sul mondo delle scommesse e della disperata indigenza in cui viene trascinato chi è schiavo del gioco.
Altri racconti ci pongono un interessante quesito: fin dove possiamo considerare “macchine” e non “esseri umani compiuti”, organismi che pensano e agiscono in tutto e per tutto come noi, avendone i medesimi sentimenti, simili pulsioni o angosce? Trattano questo tema “etico” il racconto d’apertura “Quelli fra noi”, di Henry Kuttner, tutto giocato sui toni dell’invasione occulta (chi non si ricorda il film “La minaccia degli Ultracorpi” e i suoi vari remakes), ma che ci conduce, con un climax avvincente, al tema del sacrificio altruistico. “Gli ultimi riti” di Charles Beaumont, pone interessanti implicazioni religiose.
Il commovente “Juke-baby” di Robert Young e il conclusivo “La gioia di vivere” di William Nolan infine sono racconti, in qualche modo speculari l’uno dell’altro, che ci fanno ragionare su quali confini possono essere valicati dal vero amore.
In conclusione, si tratta di una raccolta interessante che penso possa piacere anche a chi non è un patito di fantascienza, ma apprezza queste sottili valutazioni psicologiche.

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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    21 Agosto, 2023
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Nuno e l’Ammiraglio del Mare Oceano

Nuno è un diciassettenne figlio di una prostituta di Palos che, dopo la sua nascita, s’è riciclata a scrivano per i marinai al porto e per i tanti analfabeti che abitano la cittadina. Dopo la morte prematura della madre, il ragazzo, travolto dalle persecuzioni che Torquemada ha scatenato contro chiunque non professi apertamente la fede cattolica (Nuno sarebbe ebreo, anche se non ha mai praticato), si ritrova al porto schiacciato tra una moltitudine di suoi correligionari in attesa di un imbarco che, forse, si concluderà con un eccidio di massa. Invece, per una serie di fortuite circostanze, viene imbarcato al posto di un mozzo fuggitivo su una nave pronta a partire per una missione misteriosa e forse ugualmente mortale. La nave si chiama Gallega, ma ormai è stata ribattezzata Santa Maria e il suo capitano, uno straniero di nome Cristoforo Colombo la vuol portare, assieme a due caravelle, in una direzione dalla quale mai nessuno è mai ritornato: il Catai del Gran Khan o il Cipango dai tetti dorati, ma non aggirando l’Africa, come fanno i portoghesi, bensì attraversando il Mare Oceano che tutti sanno insuperabile.
Così per l’inesperto, maldestro, timido Nuno inizia il viaggio che lo porterà dopo due incredibili mesi d’ansia e paure, alla scoperta di quelle che, poi, saranno chiamate le Americhe. Qui scoprirà pure l’amore per una bellissima indigena.

Ci sono innumerevoli modi (intelligenti) di narrare, a romanzo, una vicenda storica ormai assurta a mito. Ad esempio ci si può limitare al racconto degli avvenimenti, depurati degli aspetti mitici, facendo una cronaca ben calata nell’ambientazione del suo tempo. Oppure si può conferire una maggiore tridimensionalità ai fatti e ai personaggi coinvolti, sfruttando le licenze concesse dal romanzo storico e arricchendo le vicende e gli attori del dramma di dialoghi e accadimenti inventati, ma coerenti al contesto. Oppure ancora si può porre la vicenda storica a sfondo delle storie personali degli attori (non necessariamente reali) che coprono il ruolo di protagonisti. In ultima analisi, si può pure utilizzare la predetta licenza per inventarsi un'avventura che solo riecheggi i fatti documentati, pur senza contraddirli.
L’A. ha scelto di seguire la via peggiore: appoggiandosi pedissequamente al mito colombiano, ha predisposto un palcoscenico in cui mettere in scena una vicenda che, in pieno revisionismo storico, tenta di fornire una lettura politicamente corretta, secondo l’odierno sentire, di quelle vicende passate, con un affannoso e non richiesto sforzo di autocritica. Il tutto miscelato a una stucchevole storia d’amore tra il giovane Nuno e Lei, la bella india incontrata nell’esplorazione. Tutto ciò appare subito artefatto, macchinoso e per nulla coinvolgente.
La figura di Colombo spesso è descritta in modo macchiettistico e irriverente. La ciurma delle tre caravelle assomiglia più a quella della Hispaniola de “L’isola del tesoro” di Stevenson (per non dire a quella del Capitan Uncino della Disney) che a un credibile equipaggio tardo medievale.
Nuno che, ricordo, è un diciassettenne del XV secolo, quindi, per i canoni dell’epoca, un uomo fatto, appare come un bamboccio imbranato e assolutamente poco verosimile. Per non dire delle sue considerazioni etiche che sono decisamente fuori luogo per una persona coeva anche se, come nel caso di specie, appartenente a una classe emarginata e perseguitata.
Ma la cosa che più deprime la lettura è lo stile usato: l’A. si abbandona sin troppo spesso a un profluvio di iterazioni che si accavallano a reiterazioni rozzamente ridondanti che in costante amplificazione e accumulazione ripetono più o meno gli stessi concetti nel tentativo di infondere emozioni nel lettore che, invece, ne risulta sopraffatto, sfinito e infastidito. Le enumerazioni caotiche, poi, talvolta veramente esondanti (e non di rado in asindeti privi di interpunzione), sfiancano, al punto da far dire: “meno elenchi e più virgole!”.
La storia d’amore di Nuno viene descritta con la stessa stucchevole enfasi retorica di un impacciato innamorato crepuscolare. Le, per fortuna rare, scene di sesso, poi raggiungono una rara goffaggine descrittiva.

In conclusione, il risultato finale è assolutamente deludente. Ero partito, forse, con aspettative troppo elevate, ma l’argomento scelto le meritava. Alla fine l’unica certezza è che un’occasione d’oro puro è stata maldestramente sciupata, svilita in un romanzo da ombrellone.
____________
Mi rendo conto che aprire l’angolo del pignolo per questo libro è come “sparare sulla Croce Rossa”, ma non posso esimermi dal fare alcune domande. È mai possibile che nessuno dei marinai della Niña abbia mai avuto la tentazione di chiamare la nave su cui navigava da anni con il suo vero nome di Santa Clara? Oppure che Nuno, per quanto “testone” possa essere, dopo sette mesi di mare non abbia imparato che su una nave non esistono ringhiere, ma che il parapetto si chiama impavesata o battagliola, a seconda di com’è fatto? O che non esistono “corde”, ma cime, sartie, draglie, sagole e così via? Che le sovrastrutture di un vascello si chiamano cassero e castello di prua? Che l’apertura usata per scendere ai livelli inferiori si chiama boccaporto?
Anche da questi piccolissimi particolari si capisce quale sia la cura con cui è stato concepito e progettato un romanzo.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    17 Agosto, 2023
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Scambio di persona nella lotta tra Bene e Male

Ogni mille anni, tra il regno della Luce e quello delle Tenebre si svolge una seguitissima gara per stabilire chi, nel millennio a venire, avrà il controllo sugli Umani. Per questo volgere di tempo sono stati designati ad affrontarsi il diavolo Mefistofele e l’arcangelo Michele. Seduti a un tavolo in una Taverna del Limbo decidono i termini della gara: Mefistofele dovrà utilizzare un umano scelto da Michele e trasportarlo in varie epoche storiche per vedere se e come cercherà di mutare gli eventi storici. A decidere dei risultati finali sarà Ananke, la Necessità, che valuterà le diverse prove e i loro esiti. L’uomo scelto da Michele è il dottor Faust, rinomato mago e negromante del XVI secolo che, "attualmente", vive a Cracovia. Questi i luoghi e i tempi in cui dovrà agire: il 1290, Costantinopoli, durante la quarta crociata che portò alla distruzione della città a opera dei crociati; 1295, Pechino, poco prima del ritorno di Marco Polo a Venezia; 1492 a Firenze, per il primo “Rogo delle vanità” ispirato da Savonarola; 1590 a Londra, per il debutto della tragedia “Faust” di Marlowe; 1789 a Parigi per la fuga dei Borbone dalla rivoluzione. Sono tutte date memorabili per la storia dell’umanità e una azione accorta potrebbe mutare il corso degli eventi futuri.
Tuttavia Mefistofele – presentandosi in casa di Faust per proporgli ricchezze, longevità, sapienza e potere in cambio del suo ruolo nella gara – commette un madornale scambio di persona (forse agevolato da Michele che non sembra comportarsi in modo totalmente onesto): nell’edificio non c’è il dotto negromante, ma un ladruncolo di bassa lega che sta cercando un po’ di bottino. Cosa combinerà agli eventi storici il sempliciotto, ignorante, opportunista, maldestro Mack la Mazza? Inoltre il vero dott. Faust riuscirà a riprendersi il ruolo che gli spetterebbe?

Robert Sheckley e Roger Zelazny sono due pilastri della letteratura fantascientifica mondiale e, da una simile accoppiata, ci si aspetterebbe un romanzo di altissimo livello, visto, soprattutto, che l’intento è chiaramente quello di fare un’opera divertente, se non addirittura apertamente comica e dissacrante.
Si parte da un’idea di base sicuramente vincente (peraltro preceduta da una storia analoga, “Voglio la testa del principe azzurro”, ove si mettevano in burletta le fiabe). Gli AA. ripigliano il mito faustiano – reso immortale da leggende e numerosissime opere letterarie tra cui spiccano, ovviamente, i drammi di Marlowe e di Goethe a cui si sono pesantemente ispirati – per trarne un romanzo satirico e iconoclasta. Sono divertenti molti personaggi che scendono in campo, in particolare i diavoli, ma pure lo gnomo Rognir, in costante urto sindacale contro i primi che non lo pagano adeguatamente e lo precettano proprio quando sta andando a un importantissimo convegno, e la strega Ylith, riconvertitasi al bene che, come tutti i neofiti, è ancor più rigida e intransigente degli angeli stessi. Poiché, però, il cimento del falso Faust prevede che egli debba affrontare situazioni nodali per il corso delle vicende umane, si offre l’opportunità di sorridere pure di altri personaggi storici: il doge Enrico Dandolo; Marco Polo e Kublai Khan; Achille, Ulisse e gli altri eroi dei miti greci; Lorenzo il Magnifico, Savonarola e Pico della Mirandola e così via. Quindi occasioni per la satira irriverente ce ne sono fin troppe.
Tuttavia, a mio avviso, l’operazione non è pienamente riuscita. Lo stile è sicuramente scorrevole, ma anche sin troppo guascone; mentre la ricostruzione degli episodi storici è un po’ cialtronesca. Il comportamento di certuni personaggi più che essere ironico risulta quasi farsesco, mentre altri si comportano come cow boys in un saloon (Marco Polo che addobba la sala ricevimenti di Kublai di teste mozzate gocciolanti sangue? Ma per favore!). Ciò deprime il livello del romanzo che, invece di essere una parodia garbata, rischia di apparire una buffonata un po’ sguaiata. La satira, per essere godibile, dev’essere pure intelligente e ben calibrata. È apprezzabile la conoscenza approfondita della storia e dei miti europei da parte dei due autori americani, ma forse sarebbe stato più opportuno trattare i vari episodi con maggior rispetto pur nell’ambito comico/farsesco della narrazione. Invece non è raro che si abbia la sensazione di assistere ad una slapstick comedy in cui tutto può esser messo in burletta.
Da rimarcare, poi, alcuni evidenti falsi storici, non sempre funzionali alla narrazione. Tra i tanti: nell’episodio fiorentino la morte di Lorenzo, correttamente fissata nell’aprile del 1492, non poteva essere contestuale al “Rogo delle Vanità” il cui primo episodio è datato cinque anni dopo, nel febbraio del 1497. Nell’ultima prova, invece, i Borbone tentano di fuggire da Parigi già nel 1789, l’anno della presa della Bastiglia. Ma nella realtà storica la fuga verso Varennes avvenne nel 1791 e non quando i moti rivoluzionari erano appena all’inizio e Luigi XII sperava ancora di mantenere il controllo della situazione e, visto che non ci sono altri fatti collegati alla “missione” di Faust, perché anticipare il tutto di due anni?
Insomma il libro è sicuramente divertente, ma anche troppo arruffato, troppo caoticamente irriverente al punto da sfociare spesso in una americanata. Non m’è piaciuto poi il finale, con intenti vagamente pedagogici ed edificanti, assolutamente non in linea con il senso stesso delle vicende, che, in quanto ironiche, sono ciniche e impudenti.
Io ho amato moltissimo la prosa di Sheckley, il miglior scrittore di fantascienza comica, ma qui si nota un po’ di appiattimento nel suo stile, forse su temi più consoni a quelli de suo co-autore, Zelarny. Peccato, perché la trovata era davvero promettente.

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Per l’angolo del pignolo faccio rimarcare un errore che mi è risultato fastidioso. Probabilmente è stato commesso solo in sede di traduzione: Mefistofele, Azzie e gli altri rappresentanti del Regno delle Tenebre sono diavoli, cioè, demòni (plurale di demonio) e non démoni. I démoni, (dal grego daimon) sono entità sovrumane, spiriti interposti tra il mondo sensibile e quello divino, in grado di dispensare facoltà soprannaturali anche benevole, non solamente malefiche. Al contrario i demòni (dal greco daimònion), cioè i diavoli, sono deità provocatrici del male che, nella tradizione cristiana, si contrappongono alle forze del bene. Ora l’evidente errore della traduzione è sottolineato dal fatto che ogni volta che compare la parola, questa è accentata sulla terzultima sillaba, in modo sdrucciolo, quindi senza possibilità di fraintendimenti, mentre al singolare si usa il lemma démone e non demonio. Male!

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Lo consiglio solo perché, sulla base dell'antico principio "semel in anno licet insanire", ogni tanto fa bene pure una lettura un po' folle.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
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4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Quattro assi per un poker di gialli

Il gioco è una febbre che trascina e sconvolge la mente, come ci ricorda uno dei protagonisti di questa raccolta, e proprio per tale motivo esaspera i sentimenti e può divenire movente per il delitto.
In questo libro sono presenti racconti scritti da quattro dei più rinomati giallisti nel panorama italiano: Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni, Diego De Silva, Carlo Lucarelli.
Nel primo episodio, Stefano Mallarmè, barone di Belcastro, ultimo discendente di una nobile casata pugliese, che si faceva vanto d’aver sperperato al gioco l’ingente patrimonio di famiglia, viene trovato morto in una posizione che farebbe pensare a un gioco erotico finito male. Ma la professoressa Blasi sua amica e confidente, non ne è assolutamente convinta, soprattutto non crede che l’assassino sia il giovane Toni Bannera, ultimo amante dell’uomo. Che ci siano di mezzo loschi affari di mafia?
De Giovanni ci presenta invece un’indagine del Commissario Ricciardi. Una domenica mattina il commissario che “vede i morti” è chiamato a risolvere l’omicidio di Gaspare Rummolo, detto o’ Cecato; un “assistito”, cioè una persona in grado di fornire i numeri del lotto in base ai sogni delle persone. Apparentemente o’ Cecato era persona amata da tutti, non si faceva neppure pagare le sue consulenze, accettava solo modici regali. Tuttavia l’uccisione è avvenuta in un modo brutale: un colpo inferto con odio nell’orbita oculare cieca dell’uomo. La cosa più misteriosa è che non sembra che sia salito nessuno da lui, che abitava al di sopra del Banco lotto. L’unico potenziale indiziato è il conte Romualdo Palmieri di Roccaspina, che è stato l’ultimo, assieme alla moglie Bianca, ad averlo visto vivo. Ma l’uomo, afflitto dal vizio del gioco d’azzardo, era affezionato all’assistito: non l’avrebbe mai ucciso.
Nel racconto di De Silva, l’avvocato Vincenzo Malinconico deve aiutare, ahilui, gratuitamente, una presunta amica, da un probabile caso di stalking telefonico. Ovviamente, con la sua solita inettitudine, l’avvocato (di insuccesso) sistemerà le cose, ma senza trarne alcun vantaggio.
Infine, un caso davvero problematico per l’ispettore Grazia Negro. Come ultimo incarico, prima di entrare in congedo per una maternità assai problematica, la donna deve raccogliere la testimonianza di un mafioso, potenziale pentito. È l’unico superstite della strage che ha sterminato interamente la famiglia Malapoti, che gestivano la ’ndrina di Castelfranco Emilia. L’uomo, uscito malconcio dallo scoppio di una bomba, a fatica racconta come l’arma sia stata fatta detonare dal figlio minore del boss. Alcune parole del vecchio guardaspalle porteranno la Negro sulla pista di una serie di suicidi davvero inconsueti, tutti, apparentemente, legati gli uni agli altri dalla figura di una giovane, misteriosa donna con una stellina tatuata sulla caviglia.

Sono incappato casualmente in questo volume, pubblicato nel 2014, dopo aver scoperto, da lettore compulsivo delle avventure del Commissario Ricciardi, che mi era sfuggito un episodio, proprio perché non era in un romanzo autonomo, ma una storia breve, inserita in questa antologia.
I protagonisti dei racconti sono tutti personaggi cari ai vari autori, a cominciare dall’acida e spigolosa professoressa di Lettere Emma De Blasi che pare aver terrorizzato metà Lecce con le sue interrogazioni e, ora, che si trova coinvolta in un misterioso omicidio, è costretta a scontrarsi con un suo allievo, divenuto Pubblico ministero. Il racconto è abbastanza carino e scorre rapido. Forse non avrebbe guastato una maggior lunghezza della trama, in modo da sviluppare meglio le storie dei protagonisti, comunque è gradevole.
De Giovanni mostra ancor maggiori difficoltà sulla distanza breve di questo racconto. Le storie del Commissario Ricciardi di solito procedono con un passo lento e meditativo, cosa che qui non è consentita. In tal modo la conclusione giunge troppo in fretta, troppo brusca e, in fondo, troppo inspiegabilmente facile, prima che le prove si siano cumulate a inchiodare il responsabile alle sue responsabilità. Inoltre, aver deciso di far raccontare l’indagine direttamente al protagonista, priva la narrazione di quelle parentesi in cui si può assaporare l’atmosfera napoletana in tutte le sue sfaccettature, e si può godere di qualche delicata descrizione dei luoghi e delle persone che li animano.
Assai divertente il personaggio di Vincenzo Malinconico, molto più credibile di tanti avvocati letterari, super-efficienti, super-impegnati e abilissimi sia in aula che sulla scena dei delitti. Purtroppo la pregevole caratterista della credibilità, che ce lo rende sicuramente simpatico per la sua partenopea umanità, è parzialmente offuscata dallo stile, troppo volutamente sgangherato e colloquiale; troppo sciatto e pieno di incisi tra parentesi (e volgarità) che, se all’inizio appaiono pure piacevoli, alla lunga stancano e rendono difficoltosa la lettura. Inoltre, la storia appare abbastanza fuori tema, poiché non c’è né un vero delitto né, soprattutto, alcun gioco d’azzardo. Preso come semplice divertissement, però, riesce a strappare qualche sorriso sincero, se non proprio risate piene.
Infine interessante la vicenda che vede come protagonista l’ispettore Negro. Intrigante per la visione tutta femminile dell’indagine, sia da parte dell’investigatrice (nella sua condizione di donna incinta con gravidanza a rischio) che degli autori dei delitti. Ma anche affascinante per la storia in sé e per la lucida e determinata premeditazione con cui i colpevoli si muovono in un ben pianificato disegno atrocemente vendicativo. Lascia un po’ dubbioso il finale, brusco e parzialmente aperto, ma, in fondo, è in linea con le premesse.
Complessivamente questa breve raccolta, se pure non mostra il meglio che i vari autori potrebbero dare, è comunque piacevole e divertente.

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Consigliato a chi ha letto...
...i romanzi lunghi dei quattro autori e ne vuol gustare un assaggio "concentrato", in queste storie brevi, ma autoconclusive.
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30
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Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Vanina, è vero che nel torbido si pesca meglio?

Una coppia di amici che ha deciso di passare la notte d’un fine settimana novembrino a pescare, con la tecnica della lampara, assiste a un fatto inquietante: un’auto, sulla strada costiera, si ferma vicino alla riva; ne scendono due uomini che si trascinano dietro, a fatica, una grossa valigia; la gettano a mare e, immediatamente dopo, ripartono sgommando.
Una telefonata anonima al numero diretto della Sezione reati contro la persona della Questura di Catania, denuncia l’uccisione di una ragazza, avvenuta la sera prima in una casa, in via Villini a Mare.
Su queste fragilissime basi parte la nuova inchiesta del vicequestore Vanina Guarrasi, che per molto tempo non saprà se cercare una donna scomparsa, magari volontariamente allontanatasi da Catania, o il suo cadavere. L’unica cosa certa è che la giovane donna si chiama Lorenza Iannino e svolge la professione di avvocato presso il prestigioso studio legale del prof. Elvio Ussaro. Però c’è pure da tener conto che nella valigia, ritrovata vuota sugli scogli battuti dai marosi, c’è una evidente macchia di sangue (di Lori?), come ce n’è una altrettanto chiara su una delle poltrone della villetta, dove pare si sia tenuta una festa sfrenata, a base di alcol, sesso e coca, cui hanno partecipato persone molto potenti della Catania bene.
Indagando sulla scomparsa, pian piano, emergono fatti sconcertanti sul prof. Ussaro. Come la lampara attira i pesci nella notte, così questa indagine sembra destinata a mettere in luce una sentina di corruttele e comportamenti mafiosi a carico dell’esimio cattedratico e della sua cerchia di più o meno illustri accoliti. Che fosse quello il fine ultimo della vicenda?

Secondo romanzo della, ormai lunga, serie di gialli con protagonista il vicequestore Guarrasi che, dopo aver dato per anni, a Palermo, la caccia ai mafiosi che le uccisero il padre, ora si concentra sulle vicende meno luride e schifose, ma altrettanto orrende e violente che insanguinano una Catania che ancora deve imparare a conoscere bene.
L’A. continua a sfruttare i collaudati personaggi già presentati nel romanzo d’esordio di cui va precisando le caratteristiche e le peculiarità. La narrazione prosegue attenta e scrupolosa, magari senza particolari guizzi creativi, ma fluida, concentrata soprattutto sulla vicenda poliziesca, concedendosi poche divagazioni in descrizioni d’ambiente o digressioni su sentimenti o pensieri che non siano quelli investigativi. Con cura, precisione e dovizia di particolari si viene messi a parte delle situazioni che si susseguono con buon rispetto dei tempi narrativi e delle loro cadenze.
L’enigma poliziesco in sé non è particolarmente complicato e il lettore attento già intuisce, verso la metà del volume, quale ne sarà l’epilogo o, almeno, quale ne dovrebbe essere l’epilogo se nuovi eventi non giungessero a scombinarne l’andamento. Tuttavia, anche se non ci vengono offerte molte sorprese e la soluzione finale è, più o meno, quella aspettata, la storia riesce ad appassionare ugualmente. Magari, a volte, per rendere la narrazione più scorrevole, sarebbe preferibile non incappare nel solito riassunto dei fatti precedenti questa vicenda (un lettore affezionato già dovrebbe ben conoscerli) o tornare a rimarcare questa o quella caratteristica dei personaggi. Poi, assodato che Vanina ha la passione per i film italiani degli anni dal ’50 al ’70, preferibilmente girati in Sicilia, ma è davvero necessario accoppiare a ogni nuovo personaggio che compare il suo sosia nello schermo? Una semplice descrizione somatica non sarebbe sufficiente?
Ma a parte questi peccati veniali, il libro risulta gradevole e divertente ambientato com’è in una Sicilia concretamente reale, dove il brutto (che si può trovare ovunque) è mischiato a cose stupende che lasciano senza fiato e gli attori del dramma sono credibili, come le scene che sono chiamati a impersonare. Insomma, un buon poliziesco che non fa certo alta letteratura, ma diletta e appassiona e convince per la verosimiglianza delle situazioni descritte.

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... altri libri della serie di Vanina Guarrasi.
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Fumetti
 
Voto medio 
 
4.7
Sceneggiatura 
 
4.0
Disegno 
 
5.0
Originalità 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Lombroso contro le cento anarchie

Cesare Lombroso, famoso medico, alienista, criminologo torinese, passato alla storia per la sua teoria fisiognomica e per la convinzione che il comportamento criminale dipenda dalle caratteristiche anatomiche del soggetto che delinque, qui è protagonista di una adrenalinica indagine poliziesca in un’Italia post-unitaria, piuttosto ucronica.
Il 30 giugno 1881 il professore porta le due figliolette al teatro San Martiniano per uno spettacolo di marionette. Durante la rappresentazione, però, scoppia un incendio (doloso) nel retropalco. Durante la caotica fuga che ne segue, Lombroso viene urtato e cade a terra. Quando si riprende s’accorge che Paola, la figlia maggiore, è scomparsa: rapita! Il giorno successivo, mentre, ancora sconvolto, tiene lezione all’università, viene contattato dal colonnello Osio, tutore di Vittorio Emanuele, principe ereditario di casa Savoia, il quale chiede la sua collaborazione: oltre a Paola pare che quel giorno sia stato rapito pure il principino. Unica traccia, un naso di legno che, forse, è stato perduto dal macchinista della troupe teatrale, un uomo misterioso che si nasconde sempre dietro a una maschera.
Comincia così una frenetica ricerca dei due bambini tra il Piemonte e la Toscana. Ad aiutare Lombroso ci sarà Silvia Bottini, intraprendente sua studentessa, mentre a contrastarlo numerosi gruppuscoli di quella che è la galassia anarchica che agita il Paese appena riunito. L’impresa di salvare i due bambini si rivelerà più ostica e pericolosa del previsto.

Il naso di Lombroso è la seconda graphic novel dedicata al discusso scienziato del secolo XIX. Nella precedente (Il cuore di Lombroso) il professore si trovava a incrociare il suo cammino con quello di De Amicis e con la genesi del libro Cuore. Qui – giacché sin dal titolo si parla di nasi – i protagonisti occulti non potevano che essere Carlo Lorenzini e Pinocchio, ma le vicende sono decisamente più crude e violente rispetto alla fiaba.
La trama, invero, è piuttosto ingarbugliata, con continui colpi di scena e capovolgimenti di fronte, al punto che, talvolta, si fatica a seguirne gli sviluppi che ci trasportano, alla ricerca dei due bambini, in una corsa sfrenata attraverso un’Italia dominata dall’anarchia e dallo scontento popolare. Numerosi i richiami alla campagna d’Africa in Eritrea e ad altri episodi della storia del giovane Regno d’Italia. Le trame oscure degli scatenati anarchici e nichilisti forse sono un poco sopra le righe e il folle piano di dominio planetario appare esagerato, ma la storia resta comunque avvincente e ben sviluppata, tanto da non far mai venir meno l’interesse del lettore.
Bellissimi i disegni di De Stena in una raffinata china monocroma, e veramente accurata la ricerca storica dei luoghi e dei personaggi dell’epoca, molti, come Lombroso, il colonnello Osio, Collodi, realmente vissuti. Assai divertenti le continue strizzate d’occhi e i richiami alla favola di Pinocchio: le marionette che compaiono nelle tavole richiamano le fattezze classiche del “burattino”; i nomi dei personaggi del libro (Geppetto, Mangiafuoco, Lucignolo, etc.) sono pure quelli di alcuni dei personaggi della storia, disegnati come la tradizione ce li ha tramandati, anche se hanno ben altri propositi e spirito; alcune battute riecheggiano quelle del libro, ma spesso il significato è ben altro. Insomma la favola del burattino capriccioso che sbircia da dietro le quinte di una storia noir cruda e violenta che mostra una versione tutt’altro che edulcorata dell’Italia ancora in via di formazione, ben diversa da quella che ci ha tramandato De Amicis.
Insomma un fumetto davvero gradevole e originale, da godere dalla prima all’ultima tavola.

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Fantascienza
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    05 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Vivere nella Torre di Babele

Il Beanstalk è un grattacielo di dimensioni inusitate: alto 674 piani e con una superficie alle fondamenta proporzionalmente enorme ospita quasi mezzo milione di abitanti, molti dei quali non sono mai scesi a terra al punto da sviluppare la cosiddetta suolofobia, il terrore di trovarsi al di sotto del 50° piano, con sensazioni di soffocamento, nebbia cognitiva e allucinazioni. Il nome stesso dell’edificio ne dà una misura delle dimensioni, riecheggiando la favola di Jack e la pianta magica di fagioli (beanstalk). L’edificio è così grande che ha ottenuto lo status di nazione indipendente: ha il suo Servizio di sicurezza e le sue Forze armate. Queste ultime sono in costante conflitto con la Cosmomafia, una organizzazione criminale nata dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. Per accedervi è necessario superare infiniti controlli tra il 22° e il 25° piano, dov’è tracciata una ideale linea di confine con il mondo esterno. Però la gente che vi abita è mediamente felice, conduce una vita più o meno normale e, come nel mondo esterno, esistono corruzione, ma anche generosità, opportunismo ma pure idealismo, amore e odio, ricchezza e povertà (anche d'animo). Insomma sono presenti tutti i pregi e i difetti di una vita in comunità, con l’unica differenza che, qui, i rapporti si sviluppano su scala tridimensionale, piuttosto che bidimensionale e la questione non è solo formale, ma pure sostanziale al punto che le stesse discriminazioni sociali sono conseguenti all’altezza del piano in cui ci si può permettere di risiedere: gli ultimi cento piani sono riservati alla sola élite del grattacielo.

Questo volumetto raccoglie sei storie che si svolgono entro questo immaginifico palazzo. Quindi si comincia facendo la conoscenza con un gruppo di ricercatori che indagano su dove si accentrino i poteri occulti dalla Torre, e che scopriranno, con incredulità, che uno dei personaggi più influenti è un cane attore, nominato pure sindaco (cioè governatore e vertice assoluto) del palazzo.
Segue la storia di uno scrittore, prima dedito a opere di pesante critica contro l’establishment, che ora produce solo racconti sulla natura, perché s’è innamorato di una casetta a Frigiliana, un paesino sulla costa spagnola, che gli è stata donata (per corromperlo!) e che lui non potrà mai raggiungere perché è suolofobico e può ammirare i luoghi solo per mezzo delle svariate telecamere che sono installate in quella villetta.
Una giovane donna smuoverà l’intero web per cercare di salvare il suo ex-ragazzo che risulta disperso e, forse, gravemente ferito, in un desolato deserto, dopo che il suo aereo è stato abbattuto dalla Cosmomafia.
Ci sarà raccontato pure come il più aspro conflitto politico all’interno di Beanstalk sia tra il sindacato dei Verticalisti (che gestisce i trasporti in ascensore) e quello degli Orizzontalisti, che si occupano, invece, delle consegne in ogni singolo piano del grattacielo. Per reprimere le sempre più frequenti sommosse un’agenzia per la sicurezza interna farà portare a P.321 (il 321° piano) un elefante, per caricare i manifestanti, ma la povera bestia, troppo buona, susciterà solo simpatia e venerazione.
Infine la guerra tra Beanstalk e la Cosmomafia sembrerà giungere al suo tragico epilogo, con un crudele duello di spie e attentatori; ma, in fondo, il grattacielo non è una Torre di Babele come lo definiscono i detrattori, e, forse, la sua condanna non avverrà o sarà solo rimandata.
La nuova edizione, riveduta e corretta, contiene, poi, alcune storie autonome che, seppur collegate in qualche modo all’universo della Beanstalk, se ne discostano per contenuti e ambientazioni.

“La Torre” è, senza alcun dubbio, un libro assai strano. Viene classificato come antologia di racconti di fantascienza, ma l’unico aspetto fantastico è il luogo stesso in cui le vicende accadono: un grattacielo di dimensioni abnormi. Però le storie dei suoi abitanti potrebbero essersi verificate ovunque nel nostro mondo. La tecnologia e le relazioni umane sono quelle della nostra epoca, i sentimenti sono i nostri e la critica, neppur troppo velata, a corruzione, poteri occulti, capitalismo sfrenato, conflitti sociali, può essere estesa anche al nostro “mondo esterno”. In effetti il libro trae proprio la sua ragion d’essere dal desiderio, nemmeno troppo occulto, di analizzare attraverso la mimesi distopica e, forse, stigmatizzare, quando non proprio stroncare con sferzante ironia, i nostri malcostumi, i nostri vizi, le nostre “deviazioni”, i nostri falsi miti.
Purtroppo non tutto giunge immediato al lettore nostrano perché la società coreana, anche in questo libretto fantasioso, si manifesta in tutta la sua diversità, al punto che, addirittura, per evitare alcuni fraintendimenti, all’edizione italiana sono state premesse note chiarificatrici su alcune usanze.
Le storie sono tutte ugualmente surreali, come quella d’apertura in cui un gruppo di ricercatori cerca di localizzare i centri d’aggregazione del potere nella Torre, tracciando, con un particolare software, il percorso che fanno certi regali prestigiosi perennemente riciclati; in genere costosissimi distillati giapponesi che nessuno beve, ma molti donano per deferenza. O come ne “Il Buddha in piazza”, dove il povero elefante (si immagini quanto disorientato in un ambiente così innaturale) dovrebbe fare da spauracchio contro le manifestazioni di protesta non autorizzate lungo corridoi che a malapena ne reggono il peso. Le conclusioni, a cui giungono le storie, sono spesso volutamente paradossali, e di rado consolatorie.
Ho trovato affascinante il calarsi in quella cultura asiatica a noi non familiare, che, subisce i convulsi ritmi accelerati del vivere moderno, in modo ancor più frenetico e stordente di quanto lo sperimentiamo noi (e forse pure i giapponesi!), ma non dimentica la sensibilità buddista e le deferenze e il garbo, anzi il pudore profondo, nei rapporti interpersonali tipici della cultura orientale. Insomma una ambientazione doppiamente aliena, raccontata, però, con stile fluido anche se ancora un po’ acerbo (è stato il primo scritto dell’A., ancora giovanissimo, il quale, a distanza di dieci anni, lo ha rivisto totalmente, ma lasciandogli la freschezza iniziale) che si fa leggere e apprezzare. Certe “parabole”, certi ammonimenti, forse peccano di ingenuità, e la ricerca costante del lato etico nei comportamenti non sempre convince, ma nell’insieme la critica alla società coreana e, più in generale, alla nostra visione “occidentale” della vita, è ben mirata e colpisce nel segno.
I sei racconti - per quanto cronologicamente concepiti e inseriti con vaghi accenni, nei successivi, alle vicende dei precedenti - sono autonomi e abbastanza sgranati così da non fornire una storia unitaria, e l’unico elemento unificatore è proprio il palazzo-stato, con le sue leggi, spesso non scritte, e il suo habitat anomalo e inquietante. Alcune pagine sono davvero divertenti, altre appaiono più enigmatiche; ad alcuni racconti marca forse un finale realmente conclusivo, altri sembrano quasi un esperimento letterario per rendere tridimensionali (nel vero senso del termine) certi rapporti umani, ma, in definitiva si tratta di un libro decisamente curioso, ma anche grazioso e inusualmente divertente.

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4.3
Sceneggiatura 
 
3.0
Disegno 
 
5.0
Originalità 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    01 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

L’armata “Bragonleone” alla ricerca della Fenice

Akbar è un mondo crudo e violento, popolato da animali che sembrano usciti da un incubo ed esseri senzienti non meno inquietanti e mostruosi. In questo universo fantastico e spaventoso la giovane Velissa, una ragazza procace e conturbante, ha ricevuto un incarico dalla madre, la maga principessa Mara: raggiungere l’eroico cavaliere Bragon, ormai anziano e prigioniero dei suoi ricordi, per iniziare una difficile impresa di ricerca.
Millenni prima, gli dei che regnavano in pace su Akbar furono costretti a rinchiudere in una conchiglia uno di loro, il perfido Ramor, per impedirgli di prendere il controllo del mondo e imporgli le sue crudeli leggi di distruzione e morte. Però il tempo è trascorso; gli dei, ormai vecchi e stanchi, si sono ritirati in un mondo segreto dimenticandosi di Ramor. Ora il suo periodo di carcerazione sta per concludersi: mancano solo nove giorni alla notte del cambio di stagione, nella quale il dio malvagio si libererà dell’incantesimo! Per evitare che Akbar precipiti nel caos bisogna rinchiuderlo nuovamente. Mara ha trovato il libro magico degli dei che spiega come fare, ma per eseguire l’incantesimo bisogna per prima cosa recuperare la conchiglia custodita dai cultori della divinità, e, poi, trovare la Fenice, l’uccello del tempo, per bloccarne il suo fluire: il rituale è lungo e difficile, e non ci sarebbe modo di completarlo prima che Ramor fugga dalla sua prigione.
Trovare tutti i componenti per l’incantesimo sarà il compito di Bragon e Velissa che dovranno percorrere tutte e sette le Marche in cui è divisa Akbar per completare in soli nove giorni la difficile ricerca. Saranno accompagnati, di volta in volta, da personaggi ancor più strani, e si dovranno confrontare con minacce multiformi e con gli stessi principi stregoni che reggono le sorti delle Marche e che, normalmente in guerra uno contro l’altro, ora sembrano coalizzati solo contro questa piccola, sparuta compagnia di eroi.

Questa graphic novel, è stata una delle prime ad affrontare una saga fantasy attraverso la ricchezza delle sue immagini. Uscì per la prima volta nel 1975 in una versione in bianco e nero, molto diversa dall’attuale, per contenuti e stile grafico. Ora viene riproposta a colori, in modo unitario, con tutti i quattro capitoli riuniti in un unico volume, e con la storia ampiamente rimaneggiata.
L’universo immaginato è nel contempo fantastico e minaccioso, affascinante e terribile. I paesaggi, ben rappresentati dalle matite e dai colori di Régis Loisel, sono lugubri e sinistri come l’ambientazione richiede, ma lasciano ammirati per l’accuratezza e ricchezza dei particolari. Molto interessanti anche i personaggi, di questa “Armata Brancaleone” dei mostri, a cominciare dal burbero e irascibile Bragon e dalla sensuale Velissa, sempre semi-discinta e ammiccante, per giungere al misterioso Messer Sconosciuto, al quale sono riservati i siparietti comici che intervallano l’azione, o all’inquietante spiritello di Fol di Dol con i suoi letali indovinelli.
La storia è originale e ricca di azione e mistero. Si tratta di una tipica “quest” fantastica, ma la sua evoluzione, tutt’altro che scontata, sorprende e diverte. Come dice in una sua battuta Messer Sconosciuto, “Il solito tran tran! Lotte, inseguimenti, stanchezza, fame, piedi gelati, litigi e riconciliazioni… senza dimenticare, naturalmente, una punta… ehm… o due… di erotismo! Insomma… piccole storie… e grandi miserie”.
Forse l’unica pecca sta proprio nella sceneggiatura, frammentata e discontinua. I dialoghi non sempre esaltanti e ben studiati. Soprattutto nei primi capitoli, poi, il racconto appare un po’ sgranato e, se non venissero in aiuto le immagini, si farebbe fatica a seguire la narrazione che salta spesso “di palo in frasca” senza spiegare situazioni e/o comportamenti e reazioni che, invece, richiederebbero una più approfondita descrizione, soprattutto perché spesso sono proprio gli aspetti più affascinanti di questo mondo fantastico.
In generale si tratta di una graphic novel piacevole e divertente che, forse, sarebbe stata ancor migliore se fosse stata arricchita di ulteriori tavole e un ancor più strutturato studio della trama.

___________
Per la pagina del pignolo non posso esimermi dal notare come spesso i fumetti siano funestati da numerosi refusi, che, a volte, quasi portano a fraintendere le frasi. Ora, se ipotizziamo che nei baloon le parole siano scritte a mano, non riesce comprensibile capire come sia possibile scambiare, ad esempio, un maschile con un femminile o la reggenza di un verbo in modo così grossolano. Peccato!

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    31 Luglio, 2023
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Una gita nel catalogo dei pianeti Terra

“Può darsi che l’universo si biforchi ogni volta che cade una foglia e che si crei un miliardo di nuove ramificazioni ogni istante, come ci suggerisce la meccanica quantistica, ma non è che noi esperiamo un miliardo di realtà: gli stati quantistici si sovrappongono, come le armoniche su una singola corda di violino. Ma forse vi sono occasioni, per esempio quando un vulcano si risveglia, una cometa ci sfiora o un vero amore è tradito, in cui si vive effettivamente una distinta realtà esperienziale, una treccia di fili quantistici. E forse queste trecce vengono poi riunite in una dimensione superiore dalla similarità e si autorganizza una catena di mondi o qualcosa del genere.”
Questa ipotesi è ardita e al tempo stesso intrigante, ma è proprio ciò che avviene in questo romanzo di Terry Pratchett che abbandona il suo comicissimo fantasy, per una fantascienza immaginifica.
Uno scienziato, assemblando piccole componenti elettroniche in un contenitore e ricavando l’energia da una semplicissima patata (un po’ come quegli orologi che si costruiscono nei laboratori di scienze delle scuole), è riuscito a costruire il cosiddetto “passatore”, un apparecchietto che consente di ‘passare’ da una Terra alle successive in una serie, apparentemente infinita, di repliche del pianeta che, pur rimanendo all’interno del medesimo spazio-tempo, differiscono l’una dalla precedente, spesso solo per pochissime caratteristiche, per l’essersi verificata in esse una delle molteplici potenzialità. Unico elemento saliente in queste “Terre replica”: la specie Homo sapiens è presente solo in quella di partenza, nelle altre i luoghi sono assolutamente non antropizzati e la natura è ancora incontaminata, vergine.
Poiché l’apparecchio è semplice a costruirsi (pure un bimbo ci riesce) avviene che, ben presto, milioni di persone iniziano una diaspora in questo multiverso di Terre alla ricerca del luogo ideale ove vivere e crescere la propria famiglia, lontano dallo smog, dalla competizione, dalla povertà o dall’ansia e dai problemi della vecchia Terra (per tutti ora solo Terra Riferimento).
In questa riedizione della Corsa all’Ovest, però, ci sono individui speciali che possono “passare” senza l’uso di nessuno strumento e senza il terribile senso di nausea che coglie tutti gli altri, nei minuti immediatamente successivi al passaggio. Tra questi c’è Joshua Valienté che, addirittura, il primo passaggio l’ha fatto appena partorito dalla madre.
Sfruttando questa indubbia dote, Lobsang – un software a cui è stata riconosciuta giudizialmente l’umanità, che pretende di essere la reincarnazione di un meccanico tibetano e che è divenuto socio di riferimento della potentissima società Black Corporation – lo assolda come compagno di avventure sulla sua aeronave Mark Twain. Lobsang vuole esplorare le infinite Terre sequenziali per capirne la natura, darne un’approfondita descrizione, scoprire se la lunghissima serie abbia un termine e se ci sia una ragione per la sua stessa esistenza. Joshua oltre che da compagno di viaggio ed esplorazioni gli servirà da scialuppa di salvataggio: nell’ipotesi che l’aeronave dovesse andare in avaria, dovrà trasportare l’hardware in cui è contenuto il suo backup per ricondurlo a Terra Riferimento. Man mano che i due procedono nel viaggio, però, si aggiunge un ulteriore scopo: è possibile che laggiù in fondo alla Lunga Terra, non si annidi una fatale minaccia per tutta l’Umanità?

Il concetto della biforcazione dell’Universo al verificarsi di ogni alternativa è stato sempre un tema caro a Pratchett che ne ha sintetizzato l’essenza con l’espressione “trousers of time” (i calzoni del tempo), perché come in un paio di pantaloni la realtà si suddividerebbe a ogni evento occasionale. In questo romanzo, però, la biforcazione, in precedenza usata solo come espediente per qualche trovata umoristica, diviene il tema conduttore della storia. Così, l’esplorazione di Joshua e Lobsang consente di mostrare una catena infinita di mondi in cui tutte le possibilità, inespresse nel nostro pianeta, sono divenute realtà e ognuna di esse può essere oggetto di speculazioni e ragionamenti, tra lo scientifico e il filosofico. Oltre a questo viaggio turistico tra le eventualità ipotetiche, però, il romanzo segue pure le vicende di alcuni personaggi che rivivono le esperienze pionieristiche nelle varie repliche terrestri, cercando di adattare questi nuovi habitat alle necessità dell’Uomo.
L’idea di base è estremamente affascinante per un romanzo di fantascienza, tuttavia, mi è parso che lo sviluppo della storia non esca dai canoni di una divertente carrellata di paesaggi da cartolina alternati a qualche flash sulla nuova epopea stile Vecchio West. Probabilmente ciò dipende anche dal fatto che il libro è solo il primo di una serie di storie che s’è fermata a cinque solo per la morte dell’autore principale. Quindi, “La Lunga Terra” può essere considerato più il volume introduttivo di presentazione di questa realtà alternativa, che un libro a sé stante. Le trame e gli intrecci, probabilmente, si svilupperanno solo nei libri successivi. Del resto gli ultimissimi capitoli aprono a inquietanti sviluppi. Purtroppo i seguiti non sono stati (ancora?) tradotti in italiano.
La trama di questo primo volume è fresca e gradevole, ma non particolarmente avvincente: l’idea di base sovrasta e soffoca la descrizione dei personaggi e le loro vicende personali e blocca lo svolgimento di un vero intreccio emotivamente coinvolgente.
Si percepisce anche l’evidente propensione di Pratchett al fantasy puro, dove i limiti della fisica e della logica stessa sono laschi al punto da consentire agli AA. qualsiasi licenza narrativa. Del resto, pure Baxter nelle sue opere ha esplorato spesso universi alternativi con particolare disinvoltura.
Per quanto riguarda lo stile, è sicuramente fluido e piacevole, in linea con la bravura dei due AA., però non sono riuscito a ritrovare il caustico humor tipico di Pratchett (in ciò, probabilmente, ha influito molto l’opera di Baxter) salvo qualche battuta divertente nei dialoghi, mentre spesso la narrazione non esce dai semplici binari descrittivi di questa strana realtà.
In conclusione è una lettura piacevole, ma che viaggia lungo un incerto confine tra fantasy, fantascienza e novella utopistica (guarda caso il quarto libro si intitola proprio “The Long Utopia”). Così facendo rischia di trovare a fatica il giusto pubblico che lo apprezzi.
___________

Due considerazioni collaterali: per prima cosa dubito fortemente che, nella realtà che conosciamo (iper-tecnologica, iper-controllata, iper-connessa, ricca di agi e facilitazioni), così tanti terrestri accetterebbero volentieri di perdere tutto per ricominciare da capo come semplici cacciatori-raccoglitori del neolitico, in un mondo brado e, sostanzialmente, pericoloso, per il quale non sono assolutamente preparati.
Seconda considerazione, più triste: i nuovi coloni procedono su queste Terre alternative come uno sciame di cavallette, disboscando, scavando miniere e costruendo fucine (il ferro non può passare da un mondo all’altro e, quindi, la metallurgia deve essere ricreata da zero), cacciando e predando indiscriminatamente, in sintesi, comportandosi da parassiti e sfruttatori da par loro. Possibile che l’Uomo non possa comportarsi in maniera più saggia? Mai?

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Sono in dubbio se consigliarlo, perché, al di là dell'indubbia piacevolezza del romanzo, impegnarsi nella sua lettura significa anche predisporsi a leggerne i seguiti che, come detto sopra, si trovano solo in lingua inglese. A suo tempo lessi i primi capitoli del secondo volume "Long War", carino e in linea con questo, ma più impegnativo, non solo perché in lingua originale.
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Romanzi
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    24 Luglio, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Umani = solo primati stupidi e violenti?

Andrew Martin è un professore di matematica dell’Università di Cambridge e, nel suo campo, è un genio. Forse ha risolto uno dei cosiddetti problemi del millennio, la cosiddetta “Ipotesi di Riemann”, che spiegherebbe la distribuzione dei numeri primi e che potrebbe a rivoluzionare l’intera civiltà umana.
In effetti, però, Martin non è più nulla. È stato rapito dagli alieni (i Vonnadoriani) e, subito dopo, ucciso. Questa civiltà di esseri intelligentissimi, immortali, matematici eccelsi e dotati di poteri quasi magici era convinta che la scoperta di Martin mettesse a repentaglio l’intero Universo. Così, dopo aver soppresso il matematico, ha spedito uno di loro sulla Terra sotto le mentite spoglie del morto per cancellare ogni traccia delle ricerche da lui fatte. Però ha commesso alcuni errori, prima di tutto, non ha fornito all’inviato tutte le informazioni necessarie per impersonare Martin e muoversi inosservato sulla Terra.
Il poveretto, perciò, si trova a camminare nudo per la città (ignorando che ciò contrasti con le convenzioni terrestri), attirando su di sé la curiosità dei passanti e le attenzioni delle forze dell’ordine. Ma anche la vita in famiglia non sarà agevole, perché Martin, assorbito totalmente dai suoi studi, era un marito tutt’altro che esemplare (di recente stava pure tradendo la moglie Isobel con una studentessa) e un padre quantomeno assente per il giovane Gulliver. Ma l’alieno non sa quasi nulla di relazioni umane, a parte il fatto che, pare, siano dominate da violenza e istinti primordiali.
Inizialmente, pur trovando schifoso tutto ciò che lo circonda, a partire dagli esseri umani stessi, dai loro cibi e bevande, per finire alle loro abitudini, totalmente incomprensibili e aliene, in vonnadoriano cercherà di adeguarsi per portare a termine la missione che comprende, tra l’altro, l’uccisione di tutti coloro che sono venuti a conoscenza dei risultati raggiunti. Ma, lentamente, quanto inesorabilmente, comincerà ad assimilare la nostra cultura, a provare piacere per la nostra musica, per la poesia e… nell’amore, sino a risolversi a una scelta drastica, per lui, assolutamente illogica e incomprensibile prima, che lo porterà in rotta di collisione con i suoi mandanti.

La letteratura è ricca di esempi nei quali si tenta di analizzare i comportamenti e la natura dell’Umanità per il tramite di un osservatore esterno, sia esso un animale (ovviamente parlante e senziente), un essere meccanico o, appunto, un alieno. In tal modo s’è provato a dare un giudizio obiettivo ed equo, diciamo scientifico, evitando ogni lusinga autoassolutoria, a cui un narratore umano sarebbe indotto in quanto parte dei giudicati. Neppure da specificare che non tutti questi tentativi sono andati a buon fine.
Quando ho preso in mano questo libro mi aspettavo qualcosa di simile a ciò che si legge nel racconto di Robert Sheckley “Viaggio organizzato”, cioè una garbata ironia sulle nostre manie e sulle nostre convenzioni che, per un alieno giunto tra di noi solo parzialmente edotto, dovrebbero apparire singolari e, tal volta, astruse.
L’esordio, con il clone di Andrew Martin che se ne va in giro completamente nudo e cerca di entrare al college “Corpus Christi and the Blessed Virgin Mary” in costume adamitico, dà effettivamente questa sensazione. I suoi approcci con gli umani, il loro cibo, le loro abitudini quotidiane tendono a convincerci di questa impressione iniziale. La lettura risulta quindi divertente e fresca come un lungo aneddoto comico. Aiuta in ciò la brevità dei capitoli (in alcuni casi concentrati in un solo paragrafo, quando non in una sola frase) e lo stile fluente e di facile lettura che non fatica a strappare qualche risata.
Tuttavia il racconto evolve e diventa altro. Innanzi tutto il falso Andrew comincia a mostrarci come le nostre contraddizioni, la nostra fragilità, sia fisica che psicologica, siano, in realtà, i nostri punti di forza, ciò che ci rende unici e che, a dispetto della superiorità intellettuale e cognitiva dei vonnadoriani, ci fa speciali e, sotto molti profili, “meravigliosi”.
Man mano che si procede emerge un ulteriore aspetto, più serio, più sentimentale e, a tratti, più drammatico; vagamente moraleggiante, ammonitorio. Da un lato la voce di Andrew cerca di spingerci ad apprezzare le cose che nella vita umana abbiano effettivamente significato, che ci aiutano a una elevazione spirituale, ma che noi tendiamo a sottovalutare, sopraffatti dall’abitudine; dall’altro ci invita a rifuggire dalle nostre peggiori inclinazioni: la violenza, la presunzione, l’egoismo, l’avidità, e via dicendo, dando la preferenza ad altruismo, generosità, amore. In pratica l’anonimo vonnadoriano che racconta la sua esperienza si trasforma da inconscio esploratore, vagamente stranito e stupito dallo strambo mondo in cui è stato mandato, a predicatore di saggezza e di una morale superiore.
Addirittura, in uno dei capitoli finali, si produce in una sorta di decalogo (peccato che si prolunghi in quasi cento consigli a Gulliver) di comportamenti “buoni e giusti” che un buon umano dovrebbe seguire per dare un senso alla sua breve vita.
Questo secondo aspetto del romanzo risulta meno apprezzabile, un po’ per il tentativo stesso di “montare in cattedra” e fare una lezionicina etica, un po’ perché tende a banalizzare certi concetti e a estrarre una morale non necessariamente condivisa, un po’ per i risvolti eccessivamente sdolcinati e sentimentali che prende, giustificati solo dallo stato psicologico in cui versava l’A. quando scrisse il romanzo che, in postfazione, confessa.
Ammetto che da umano (ancora intriso di primitiva violenza?) non ho apprezzato alcune delle scelte che farà il protagonista; e non tutte le decisioni dei logicissimi Vonnadoriani mi sono apparse così logiche e razionali. Ma questa è solo la mia opinione personale.
In conclusione, “Gli Umani” è un romanzo sorprendente da leggere e da apprezzare per quella abilità di mostrarci privi di quei vestiti psicologici che usiamo abitualmente per celare il nostro vero io.

___________
Due appunti per l’angolo del pignolo sollecitati soprattutto dal vanto che i vonnadoriani fanno di essere i matematici e i fisici più sopraffini.
I terrestri sanno benissimo che l’aria è una miscela composta prevalentemente da ossigeno e azoto e non di idrogeno, come scrive incautamente il nostro narratore vonnadoriano, per il quale la cosa dovrebbe essere ancor più palese.
Inoltre, quando l’alieno spiega a Gulliver dove sia il suo mondo, se, nell’esempio che fa, la Terra-chicco d’uva dista meno di un metro dal Sole-pompelmo, l’arancia-Vonnadoria, non può trovarsi solo in Nuova Zelanda, ma, per rispettare le proporzioni, andrebbe collocata, almeno, su Alpha Centauri se non più distante.

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Fumetti
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    23 Luglio, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Aymar nel sanguinoso Medioevo

Aymar de Bois-Maury è un cavaliere errante, un guerriero senza macchia e senza paura come quelli che ci sono stati tramandati dai romanzi gentili rinascimentali. Fu scacciato dal suo feudo e dal castello “con le torri più alte e più belle della cristianità” quand’era ancora solo un fanciullo e, da allora, vaga per l’Europa offrendo il suo coraggio e la sua spada al servizio di chi, con buone intenzioni, glieli chieda, nella mai sopita speranza di riconquistare le sue terre.
Durante il suo pellegrinaggio continuo sarà testimone di numerose vicende, dai soprusi dei nobili europei spesso a danno della povera gente, ai tentativi di usurpazione di feudi, dalle rapine e brigantaggi agli orrori della persecuzione dell’Inquisizione, sino alle crudeltà dei crociati in Terra Santa. A volte avrà un ruolo attivo e decisivo nella risoluzione positiva delle medesime, a volte potrà essere solo un muto e amareggiato spettatore dei crudeli drammi che agitano un Medioevo brutale e senza pietà.

Le gesta del prode cavaliere, a ragione, sono state definite uno dei fumetti più innovativi nel panorama franco-belga dell’ultimo scorcio del secolo passato. Raccontate e disegnate da Hermann Huppen (di solito ci si riferisce a lui con il solo nome) sono sicuramente storie di grande impatto, sia grafico che narrativo. Le tavole, disegnate con puntigliosa precisione, ci mostrano, con un tratto preciso e altamente scenografico, un mondo assolutamente reale e credibile. Chi si aspetta una rappresentazione del Medioevo sullo stile del Principe Vaillant rimarrà sorpreso di questi scenari crudi, violenti che non concedono nessuna edulcorazione a un’epoca sanguinaria e spietata. Hermann sbatte in faccia al lettore un Medioevo grezzo, brutale, lacero, straccione e affamato dove si è pronti a uccidere (o essere uccisi) per un tozzo di pane muffito e nessuna bassezza è mai troppa da frenare la ferocia degli uomini. Dove le casupole dei servi non paiono meno miserevoli delle tetre dimore dei nobili o dei cupi corridoi dei monasteri. Nessuno è senza peccato, ma tutti sono brutti, sporchi e cattivi; anche il nobile, generoso Aymar, mostrerà la sua dura spietatezza e i suoi cedimenti alla lussuria, all’ira, all’impulsiva irruenza.
Affascinante l’alternarsi di grandi tavole – che ci illustrano con ricchezza di particolari e artistica perizia i paesaggi che fanno da scenografia alle azioni – a minuscoli quadretti che, come in improvvise zoomate o fermi immagine, fotografano l’azione, l’emozione del momento.
Forse, in questo panorama decisamente positivo, il lato più debole lo si ritrova nella sceneggiatura. Non è raro che i dialoghi appaiano abbasta convenzionali, talvolta piatti e scontati, tal altra eccessivamente enfatici, anche in bocca a personaggi che non ci si aspetta certo che posseggano la minima retorica. Nella narrazione, poi, spuntano degli iati che determinano un frammentarsi del racconto e il lettore fatica a riempire questi vuoti. I dieci racconti che compongono la saga sono stati scritti nell’arco di un decennio circa. Ora, però, riuniti in un unico volume, mostrano, come non sempre i comportamenti dei personaggi siano coerenti con le loro caratteristiche dichiarate e le loro storie pregresse. Non tutti gli episodi, infine, risultano ugualmente piacevoli e ben studiati.
Complessivamente, però, si tratta di una mirabile opera grafica di assoluto godimento che non può mancare a chi ama le graphic novel di qualità.

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