Opinione scritta da filo
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bei ritorni
A volte tornano (Recensione de “Il ritorno del Piccolo Principe”)
Negli anni ‘90 ci ha pensato l’autore francofono Jean-Pierre Davidts a riprendere le avventure del tanto amato protagonista che Antoine de Saint-Exupéry aveva lasciato molti anni fa.
Ebbene, in prima persona il nostro “nuovo” autore prende a narrare singolari avventure. Desideroso di compiere un viaggio in un punto lontanissimo della terra, si ritrova naufrago su un’isoletta. Qui incontra per caso lui, il Piccolo Principe.
Ancora una volta quest’ ultimo è fuggito dal suo pianeta, stavolta però per stessa ingiunzione della sua rosa (forse in questo libro un po’ più affettuosa) che lo esorta a mettersi in salvo in conseguenza dell’arrivo di una tigre che si mostra subito minacciosa nei confronti degli abitanti del pianeta. Fuggito, seppur a malincuore, il Piccolo Principe racconta al naufrago delle sue svariate peregrinazioni in diversi pianeti con l’intento di trovare qualcuno in grado di cacciare le tigri. L’unico incontro positivo del giovane è quello con una ragazzina (oltre a quello con la voce narrante) con cui sboccia un bel rapporto. Egli è poi tuttavia costretto a lasciarla per amore della sua rosa.
Riporto i passi del commiato del ragazzino dalla fanciulla:
“Devo ripartire”annunciò con una lacrima di tristezza nella voce.
“Perché? Non stai bene con me?”
Abbassò la testa:
“Sì, certo, ma c’ è il mio fiore”
“Fiori ne vedo dappertutto intorno a noi. Non ti bastano?”
“ È diverso. Nessuno somiglia al mio. È orgoglioso, anche temerario e capita che si vanti troppo, ma i suoi difetti sono proprio ciò che lo rendono così caro ai miei occhi. E poi, deve soffrire tutto solo laggiù, anche se non lo ammetterò mai”.
“Anch’io resterò sola e mi annoierò se te ne vai”.
“Ma tu non hai bisogno di me per difenderti. La mia rosa, sì. Ne sono responsabile”.
Lo stesso autore evoca il precedente incontro del Piccolo Principe con la volpe. Anche in quella circostanza egli aveva dovuto lasciare la sua “amica volpe” per amore della sua rosa: “Nel breve lasso di tempo durante il quale aveva stretto un legame d’amicizia con la ragazzina, ricordi dimenticati erano ricomparsi all’improvviso dal fondo della sua memoria. Si era ricordato della volpe che aveva addomesticato in occasione di un precedente viaggio”.
Il ricordo della volpe, incontrata sulla terra, fa venire in mente al giovane protagonista di provare a cercare in tale pianeta un cacciatore di tigri. Deluso anche dagli incontri fatti sulla terra se non per quello con il nostro naufrago, egli decide, pur rischiando, di tornare dalla sua rosa, per proteggerla dalla tigre. Il piccolo eroe, a questo punto, non ha più paura: “Un granello di sabbia ha spesso la spiacevole tendenza ad elevarsi come fosse una montagna. I problemi più spinosi lo sono meno di quanto si creda e sono dotati della strana facoltà di svanire come per incanto, quando la soluzione si presenta, miracolosamente, nel momento in cui meno se lo aspetta”
Con questa sicurezza nel cuore e nella mente il piccolo principe torna a darci ancora oggi un grande insegnamento che gli adulti dovrebbero condividere con i bambini.
Seppure il sequel delle avventure del famosissimo personaggio sia, almeno per il mio modesto giudizio, meno toccante di quelle del medesimo personaggio di Saint-Exupéry, esse sono tuttavia degne di essere lette e meditate.
Lascio gli estremi di questo libretto
Il ritorno del piccolo Principe, Jean-Pierre Davidts, Il ritorno del piccolo Principe, tr.it a cura di Fedra Cocca, edizioni il Punto d’incontro, Vicenza 2000 (originale: Le petit prince retrouvé, Les Édition Les Intouchables, Montréal 1997)
Filomena Gagliardi
A proposito della rosa del Piccolo Principe, lascio una mia poesia dedicata al “mese-simbolo” delle rose:
Maggio
Respiro
le tue notti
tra rose lucenti
Assaporo
la carta
Odorosa
Vecchia
di libri
Siedo
Ferma
sul passato
Aspetto
la luna
di Maggio
Speranza luminosa
che mi salva
Vivo
Risplendo
nel sole
al Rosso dei papaveri
Mi ubriaco
Gioiosa
del tuo profumo
Indicazioni utili
LIbro che ci permette ci capire che l'uomo non cam
L’attualità della Storia (recensione)
Quest’estate mi sono fatta sedurre dal titolo di un romanzo, davvero suggestivo: “Il sermone sulla caduta di Roma”. Scritto dal francese Jérôme Ferrari, docente di filosofia presso varie università francofone, il romanzo si è aggiudicato il premio Goncourt 2012, uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari francesi. È stato tradotto recentemente in italiano per le Edizioni E/O. L’evocazione del titolo, che ricorda l’omonima opera del filosofo Agostino (S. Agostino, vescovo di Ippona 354-530 d.c) permane nei capitoli, ciascuno dei quali, ad eccezione dell’ultimo, è fatto precedere da una frase dello scrittore latino tesa a mettere in evidenza la vanità del mondo terreno, rispetto alla Città di Dio. (é senz’altro presente anche l’eco dell’omonima opera De civitate Dei)
Agostino, con la sua filosofia sul contrasto tra città divina e la città umana, è uno dei due filosofi che reggono le fila del romanzo. L’altro è Leibniz (1646-1716) che incombe sulle storie dei personaggi con il suo monito relativo alla sua teoria dei mondi possibili, secondo cui quello in cui ci troviamo a vivere è solo, appunto, uno dei tanti mondi che ci si è manifestato, non certo il migliore e il più compiuto.
I due filosofi sono, non a caso, quelli che i due protagonisti, Libero e Matthieu, studiano all’università, senza troppa convinzione. Essi sono due giovani legati quasi ab origine, fin da quando, ogni estate il piccolo Matthieu veniva mandato in un paesino della Corsica in vacanza, ospite di Libero, di cui diventa amico di vita. Qui vive anche il nonno di Matthieu, Marcel un vecchio scontroso, la cui storia si alterna nel romanzo a quella del nipote. In questo avvicendarsi di peripezie delle tre generazioni coinvolte (quella del nonno, dei genitori e di Matthieu stesso) si scopre che ciò che regge la storia umana è sempre lo stesso principio: il mondo che ciascuno di noi (si) crea, si esaurisce in se stesso, perché non rappresenta nient’altro se non la città terrena, transeunte ed effimera, di fronte alla civitas dei, eterna. Tale mondo è inoltre autonomo ed indipendente, parallelo ad ogni altro, come può esserlo ogni periferia rispetto al centro. E così Marcel, che ha vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale e che ha vissuto la sua vita prevalentemente lontano dal centro, Parigi (la nuova Roma!) sia come funzionario in Africa per la ricostruzione post- bellica, sia da vecchio, in Corsica (la sua terra di origine), vede il mondo da lui creato morire in se stesso, senza più legami con il centro della cultura francese. Come le province romane secoli prima, così lui si è sempre sentito “a parte” rispetto al continente, dove ha affidato suo figlio (Jacques) alle cure della sorella, non sentendosi di accudirlo dopo la perdita della moglie. Jacques finisce per sposarsi con la cugina (Claudie). Da questa unione nascono Aurelie e il nostro Matthieu. Che finisce per tornare proprio in Corsica. Dopo una breve parentesi universitaria in cui lui, per onorare il vecchio legame di ospitalità ricevuto da piccolo, ospita a sua volta a Parigi il suo amico Libero, i due decidono che questa realtà non fa per loro. Rilevano pertanto un vecchio e famoso bar esistente nel paese di Libero, ma da tempo caduto in disgrazia e danno vita ad una “nuova età”, fatta di mondanità, divertimento, spensieratezza, di volontaria chiusura rispetto a tutto ciò che è impegno, affetto, sentimento. Per approdare in tale ambiente Matthieu ha dovuto rinnegare il suo amore di gioventù per una “brava ragazza”, la studiosissima e brillantissima Judith Haller. Anche se teoricamente vive con il nonno Marcel, egli ha trovato la comodità di dormire nell’appartamento dove vivono le cameriere assunte per il bar in particolare con la spagnola Izaskun. Egli la considera come sorella e non vede niente di male nel dormire carnalmente con lei la notte, per poi trattarla come normale dipendente di giorno. In questa sua nuova vita egli decide di non soffrire quando sa che suo padre è malato, né decide di andarlo a trovare a Parigi, con grande risentimento di sua sorella Aurelie. Sarà Jacques a tornare, da morto, in Corsica, alla terra paterna. Le regole di tale modus vivendi, però, iniziano a presentare il loro salato conto: Libero e Matthieu devono constatare cos’è il mondo che hanno creato con il loro bar: il loro locale (e l’ambiente circostante) è diventato un autentico bordello, dove si va per bere, bestemmiare, per provarci con le cameriere; è un ambiente in cui si consumano gelosie, risentimenti tra persone, in cui viene meno la fiducia reciproca fra padroni e dipendenti, gestori e avventori. Proprio un di questi risentimenti, consumatosi in un omicidio da parte di Libero nei confronti di uno degli avventori, costituisce la goccia che fa traboccare il fragilissimo “vaso di Pandora” costituito bar. Che viene lasciato, anche per i problemi economici, sopraggiunti ai vari “malaffari” degli ultimi tempi. A sorpresa il romanzo si chiude con la rievocazione della notte in cui i barbari saccheggiano Roma (410 d. C) commentata dalla solita (e apparente) indifferenza agostiniana per la vanità del mondo terreno; ciò fa da sfondo sia alla morte di Marcel, sia all’inizio del nuovo mondo di Matthieu, a Parigi, finalmente con la sua Judith, che non ha abbandonato gli studi e ora è diventa insegnante. Anche stavolta la nuova vita si apre in chiusura con quella precedente. Dal romanzo, infatti, si capisce che egli torna solo due volte in Corsica nel giro di otto anno: la prima per testimoniare in favore del suo amico Libero, che aveva ucciso sì l’avventore, ma per difendere un suo dipendente aggredito da quello, la seconda mentre il nonno sta morendo. Matthieu, però, è sempre lo stesso, come espresso dal punto di vista della sorella: “Non è cambiato. Crede sempre che basti guardare dall’ altra parte per rispedire al nulla interi pezzi della propria vita. Crede sempre che ciò che non si vede smetta di esistere”.
Nonostante le tragedie, quindi, il mondo va avanti: l’uomo sembra aver bisogno di chiudere violentemente con un mondo che ha amato alla follia, per dimenticare il suo vero amore, ma nel quale, godendo, si è perso. Questa chiusura con la vita precedente sembra realizzarsi solo con l’apertura traumatica di un’altra, altrettanto indipendente. Non solo allora ogni mondo umano è destinato a morire; esso è anche una monade isolata da ogni altra. Si realizzano, pertanto, sia le verità sia di Agostino che quelle di Leibniz. E allora, l’amicizia malata tra Libero e Matthieu, è davvero suggellata (e forse chiusa?) solo da un rapporto giuridico di testimonianza?
Il romanzo non fornisce alcuna risposta a questa domanda; anzi la sua bellezza più grande risulta, a mio parere, proprio dalla narrazione sfumata sugli ultimissimi episodi (come il ricongiungimento con Judith) suggeriti, piuttosto che descritti, a differenza della precisione narrativa dei capitoli precedenti. Altro elemento vincente dello stile narrativo consiste nel susseguirsi del tutto casuale dei capitoli dedicati a Marcel, di quelli dedicati alla famiglia di Matthieu e di quelli dedicati a lui stesso, sicchè i loro mondi sembrano davvero restare, a lungo, paralleli e distanti.
Buona lettura
Indicazioni utili
non so perchè, ma questo libro di Ferrari mi ricorda Le memorie di Adriano
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