Opinione scritta da Claudia Falcone
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La vita bugiarda di tutti noi
Comincio col dire che questa recensione che ho provato a scrivere contiene spoiler sulla trama.
Ci ho messo qualche ora a metabolizzare il finale de "La vita bugiarda degli adulti", e in generale ad elaborare delle riflessioni su questo libro che prendessero una qualche forma; perchè il nuovo romanzo di Elena Ferrante, lo ammetto, qualche perplessità me l'ha lasciata, ma poi ho capito che dipendeva principalmente dal fatto che si tratta di un romanzo tutt'altro che facile, tutt'altro che piacevole o rassicurante, di certo mai-in nessuna delle sue 300 e passa pagine-consolatorio.
Questo romanzo è il racconto, doloroso e tratti disturbante, del passaggio di una ragazzina dall'infanzia verso l'età adulta.
La trama è abbastanza scarna, eppure allo stesso tempo difficile da riassumere: Giovanna, che all'inizio del romanzo ha 12 anni, proprio nel momento in cui nella sua famiglia sta per scoppiare la bomba della separazione dei suoi genitori, legata alla scoperta di una relazione extraconiugale che il padre aveva da lunghissimo tempo, si avvicina a sua zia Vittoria, sorella di suo padre e da sempre "pecora nera" della famiglia, scoprendo un mondo totalmente diverso dal suo, quello della Napoli popolare, e scoprendo a ritroso, e pezzo dopo pezzo, anche tutta la storia della sua famiglia.
Comincia così il viaggio tutto interiore di Giovanna. L'immagine dei suoi genitori, amatissimi, e in particolare di suo padre, quasi idealizzato, si disgrega, e con essa tutto il mondo al quale Giovanna è appartenuta fino a quel momento: la Napoli del Vomero, il mondo borghese, fatto di studi, letture, discussioni colte, ateismo, ideali. Scoprendo la doppia vita di suo padre, e in parallelo anche quella di Mariano e Costanza, a cui la storia della sua famiglia si lega indissolubilmente, Giovanna scopre a poco a poco anche ipocrisie e falsità del mondo a cui era sempre stata orgogliosa di appartenere. Dall'altra parte c'è il mondo di zia Vittoria, la Napoli bassa, nella quale ci sembra di riconoscere il rione di Elena e Lila, affollato di quegli stessi personaggi popolari, collerici, violenti eppure carichi di sentimenti, di umanità, di amore. Inizialmente, spinta anche e soprattutto dalla voglia di ribellarsi alla sua famiglia, Giovanna vede in questo nuovo mondo qualcosa di vero in cui vuole trovare posto, comincia a frequentare Vittoria, Margherita e tutti gli altri personaggi che popolano questa realtà e alle cui storie si intreccerà la sua vita: Corrado, Giuliana, Tonino, Rosario. Il tempo passa e Giovanna scopre in sè un fondo di cattiveria, di bassezza, che anzichè rifiutare fa diventare, per una certa fase del suo percorso, l'aspetto preponderante di se stessa: smette di studiare, indossa abiti volgari, cede alle iniziative sessuali di Corrado. Tuttavia Giovanna, nel corso del romanzo, cambia continuamente, è continuamente alla ricerca di una identità, di trovare il proprio posto in un mondo che finalmente la rappresenti e la accolga; cerca, con inquietudine e disperazione, qualcosa che sia vero, e che duri nel tempo, che non le si riveli poi in tutta la sua meschinità. Oscilla continuamente tra il mondo di su, quello di via San Giacomo dei Capri, abitato da sua madre, caduta in depressione dopo la separazione e che tuttavia non riesce a liberarsi psicologicamente da suo marito, ma anche da Costanza, dalle sue amiche d'infanzia Angela e Ida, e il mondo di giù, quello di zia Vittoria, affollato da personaggi rozzi, alcuni dei quali violenti, ai quali tuttavia Giovanna finisce per legarsi. Finchè non conosce Roberto, ulteriore tappa nella sua educazione sentimentale, forse l'unico personaggio interamente positivo del romanzo e privo di quella ambivalenza che caratterizza tutti gli altri; Roberto aiuta Giovanna a conoscere se stessa, le dà fiducia e le fa (ri)scoprire la parte migliore di sè, eppure Giovanna sa che non potrà mai averlo nè essere amata da lui nè avere con lui quella condivisione totale, sincera, che lei cerca disperatamente e di cui disperatamente ha bisogno. Così, ancora una volta, va avanti, si evolve, e la Ferrante ci conduce così al finale, che è brusco, spiazzante, forse affrettato, eppure ha un senso. Alla fine Giovanna decide di dare un taglio netto con la sua infanzia, e lo fa in un modo crudele verso se stessa, ma lei sceglie così di cominciare la sua vita adulta, in un modo che sia suo e diverso da tutti gli adulti che conosce. Che poi è quello che tutti desideravamo da ragazzi: essere degli adulti diversi da quelli che conoscevamo.
Il romanzo, quindi, è sì un romanzo di formazione, ed in particolare un romanzo che racconta il passaggio di una ragazzina attraverso l'adolescenza. Il punto di vista è esclusivamente femminile, e ancora una volta nell'animo femminile la Ferrante indaga, scava, racconta, fino alle sue pieghe più intime e nascoste.
Un altro tema, però, a mio parere, è preponderante nel libro, ed è l'ambivalenza che ciascuno di noi si porta dentro, il rapporto con il male, quel groviglio di meschinità che ciascuno di noi, in fondo, nasconde dietro all'immagine "borghese", ordinata, socialmente accettabile che ci sentiamo costretti a dare di noi stessi. Tutti i personaggi di questo romanzo sono personaggi estremamente complessi, nessuno è mai totalmente positivo o totalmente negativo, nemmeno il padre di Giovanna. Anche i personaggi apparentemente secondari, come quello di Tonino o di Giuliana, si scoprono pian piano: quelli che sembrano buoni, semplici, puri, rivelano poi un lato di sè quasi più "animale", ma anche fatto di insicurezze, fragilità, bisogno d'essere amati. La contrapposizione iniziale fra la Napoli borghese e quella popolare si fa via via, nel corso del romanzo, meno marcata; nessun personaggio è completamente colpevole, nessuno è completamente innocente; sono tutti, in fondo, divisi in due. E quindi sì, forse in questo romanzo c'è una critica alle ipocrisie della società borghese, ma c'è in realtà, a mio parere, un viaggio nell'animo umano che è molto più ampio.
Tra gli aspetti che mi hanno lasciato perplessa, oltre al finale, c'è il fatto che in questo libro manchino completamente spiragli positivi. Se ne L'amica geniale c'era, sempre e comunque malgrado numerosi alti e bassi, il legame profondo, vero, fra Lila e Lenù, a dare sempre un senso alla storia ed in qualche modo a rassicurare il lettore, in questo romanzo non ci sono appigli positivi: ogni volta che Giovanna compie una fase nuova del proprio percorso di crescita, prova ad avvicinarsi ad un mondo, quello le si disgrega davanti, torna la disillusione. Così anche l'iniziazione sessuale di Giovanna ( e delle sue amiche) è raccontata solo attraverso episodi negativi.
In questo senso, forse, la Ferrante torna un po' alla narrazione pre-tetralogia, torna a raccontare verità scomode, realtà disturbanti (si pensi a L'amore molesto che racconta di fatto di un abuso, o a La figlia oscura, che parla in maniera tutt'altro che idilliaca dei rapporti madre-figlia); forse per questo la Ferrante può non piacere, perchè ci racconta verità su noi stessi che noi stessi facciamo difficoltà a capire, ad accettare. Ne La vita bugiarda degli adulti ritroviamo però anche molto del mondo de L'amica geniale: quel modo di narrare, quei personaggi, quella descrizione della Napoli più profonda, è un qualcosa che non si può non riconoscere anche qui.
Insomma, non aspettatevi un romanzo piacevole (a parte per lo stile, che secondo me resta bellissimo e scorrevole): questo romanzo, in alcuni passaggi, fa letteralmente male. Eppure, non dovrebbe essere compito della letteratura, anche, darci uno scossone, un pugno nello stomaco, farci scoprire verità su noi stessi e sulla nostra vita che da soli non siamo in grado di capire?
Nel dibattito sulla Ferrante, e su quanto sia, secondo il parere di molti, sopravvalutata e spinta dall'ondata di marketing che ha accompagnato la tetralogia, la serie tv ecc, io mi schiero dalla parte di coloro che pensano che, al di là e ben oltre tutto questo, e fermo restando che la letteratura è anche, fondamentalmente, una questione di gusto personale, la scrittura della Ferrante sia qualcosa di estremamente potente, e che la sua presenza così "ingombrante" nel panorama culturale italiano, a fronte di una identità sconosciuta eppure tanto chiacchierata, sia assolutamente meritata.
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Il nuovo, maturo e bellissimo libro della Avallone
Volendo semplificare al massimo, si potrebbe dire che il nuovo romanzo della Avallone parla di genitori e figli; ma sarebbe riduttivo, perchè in realtà c'è tantissimo altro: è una storia che racconta la maternità, l'adolescenza, la periferia, i vuoti che ciascuno di noi si porta dentro. Racconta tantissime cose, ma senza mai sbavature.
Alle primissime pagine ho avuto la sensazione che l'autrice volesse riproporre lo stesso tipo di personaggi e di situazioni di "Acciaio": giovani adolescenti che abitano le periferie, il degrado, l'emarginazione; insomma, la Avallone che ripropone la Avallone. Invece sono passati sette anni e si sentono tutti: "Da dove la vita è perfetta" è un romanzo molto più complesso e più maturo.
Innanzitutto, per la struttura, molto ben costruita: il libro comincia presentandoci i vari personaggi, nella situazione di partenza; poi un lungo flashback che racconta le storie dei vari protagonisti e di come si intrecciano fra di loro, per poi ritornare, nelle ultime pagine, alla situazione di partenza, con un finale che si rivela diverso da quello che ti si prospettava all'inizio del romanzo.
Attraverso questi personaggi, la Avallone è riuscita a raccontare tante cose. Prima di tutto, sicuramente, la maternità (e mi chiedo infatti se questo romanzo non sia stato scritto dopo che la stessa autrice abbia vissuto nella sua vita reale questa esperienza); viene raccontata, in modo diametralmente opposto, attraverso le due principali protagoniste femminili, Adele e Dora. La prima, 17 anni, fidanzata con un mezzo delinquente di periferia, con una famiglia sfasciata alle spalle, rimasta incinta per sbaglio. La seconda, trentenne, colta, istruita, ma che si porta dietro tutto il peso della sua infertilità, anni e anni di tentativi di avere un figlio andati a vuoto, un bisogno che diventa un'ossessione. E alla fine, le loro storie così diverse andranno quasi a coincidere, perchè entrambe, nella possibilità di avere un figlio e di dare inizio a una nuova vita, a una nuova storia, rinasceranno loro stesse. Attorno ad Adele e Dora ruotano i personaggi maschili, i padri reali e mancati, i padri che scelgono di essere padri. Manuel, il fidanzato di Adele, piccolo delinquente di periferia ma personaggio dalle tante sfumature, a tratti spregevole, ma tutt'altro che scontato. Poi Zeno (il mio personaggio preferito in assoluto), apparentemente lo stereotipo dell'adolescente sfigato, intellettuale, secchione, è probabilmente il personaggio piuù puro di tutti, l'unico a cui la Avallone non attribuisce una qualche meschinità come a tutti gli altri. E poi c'è Fabio, il marito di Dora, più fragile e più sensibile di quel che può sembrare in superficialità. Tutti, in realtà, si portano dietro una storia da scontare, dalla quale non riescono a liberarsi: Manuel ha il suo passato da piccolo spacciatore, che culmina in un gesto terrificante che poi lo porterà a costituirsi e a finire in galera; Zeno da anni accudisce la madre, precipitata in una grave forma di depressione per una storia che si svela solo verso la fine del libro; Fabio non riesce a lasciarsi alle spalle i suoi complessi di adolescente grasso, figlio di un benzinaio, bullizzato dai compagni di classe. Ma per tutti loro, alla fine in modi diversi, arriverà un riscatto, che non vorrà dire lasciarsi alle spalle le loro esistenze, ma accettarle provando, ciascuno, a riempire il vuoto che si porta dentro.
Ci sono poi gli altri personaggi collaterali: Rosaria, Adriano, Serena, Emma, Marilisa, ciascuno piccolo eppure fondamentale nella storia.
E poi ci sono i Lombriconi. Ancora una volta, quindi, la Avallone torna a raccontare la periferia, e lo fa nello stesso modo minuzioso, reale, in cui lo ha fatto in "Acciaio"; perchè attraverso le sue descrizioni ti sembra di vederli, quei palazzoni, le strade grigie, i ragazzini in motorino, le fermate degli autobus, ti sembra di entrare, attraverso le finestre aperte, nelle vite di quelle famiglie col loro sbattere di porte, rumore di piatti all'ora di pranzo, fumo di sigarette fumate affacciati al balcone. E ancora una volta delle periferie la Avallone racconta quel misto di disperazione, voglia di fuga, degrado, ignoranza, ma anche di profonda umanità...
"Da dove la vita è perfetta" è un romanzo ambizioso ma lieve, che non fa mai sentire il peso di tutto quello che vuole raccontare. Con uno stile asciutto e scorrevole, ma anche a tratti incredibilmente intenso (e meno aspro, secondo me, rispetto ai romanzi precedenti), ci conduce nelle vite di Adele, Zeno, Dora e Fabio, personaggi nei quali inevitabilmente possiamo riconoscere pezzetti di noi stessi, e che alla fine non vorremo più lasciare. Di ciascuno di essi riusciamo a comprendere un po' di quei vuoti che si portano dentro. Per questo, inevitabilmente, il finale ci fa commuovere.
E ci fa sperare che ciascuno di noi arrivi prima o poi a trovare quel posto da cui la vita è perfetta.
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Uno spaccato sulla periferia italiana
Ho letto "Acciaio" soltanto adesso, a distanza di sei o sette anni dalla sua pubblicazione, e trovo che per essere un esordio letterario sia un romanzo non perfetto, ma di sicuro potente.
La Avallone mette molta carne al fuoco: i personaggi che si intrecciano in questo libro, e quindi le loro storie, tracciano diversi temi tutt'altro che leggeri: le morti sul lavoro, la crisi economica, la violenza domestica. Temi tutt'altro che semplici, insomma, e nel tentativo di tenerli tutti assieme la Avallone un po' ci si perde...Ma volendo dare una definizione d'insieme di questo romanzo, credo si possa dire che, al netto di tante storie e di tante tematiche che cerca di affrontare, rappresenta un ritratto crudo e realistico della periferia italiana. In particolare la periferia raccontata qui è quella di Piombino, città che evidentemente la scrittrice deve conoscere molto bene: le descrizioni che ne fa sono tutt'altro che vaghe, ci si muove bene, ne descrive accuratamente ogni cosa, dai paesaggi alle strade, fino all'umanità che li abita. Trovo che in questo la Avallone abbia colto nel segno: nel raccontare uno spaccato della nostra realtà, in particolare quello del microcosmo che ruota attorno alla Lucchini, ma che in generale può essere esteso a qualunque periferia delle nostre città. I personaggi che popolano questo microcosmo in buona parte sono rassegnati a non avere alternative (al di fuori della fabbrica, al di fuori di un matrimonio infelice) oppure le trovano spesso nell'illegalità; la maggior parte di loro non crede nella scuola e nel potere dell'istruzione; si muovono fra spiagge, bar, discoteche e feste di paese; cercano emozioni nel sesso o nella coca; le vicende che provengono dal mondo di fuori, e che vagamente percepiscono attraverso tv o giornali, sono per molti di loro qualcosa di lontano, di superfluo. L'isola d'Elba, a un'ora di traghetto, è un sogno che sembra irraggiungibile. Eppure a ciascuno di questi personaggi la Avallone riesce a dare sfaccettature diverse; ciascuno di essi rivela nel corso della storia altri aspetti di se stesso, che riescono a far ricredere il lettore, in positivo o in negativo che sia. In questo senso il personaggio più complesso e affascinante è sicuramente quello di Alessio.
Ma oltre alla narrazione amara di questa vita di provincia, "Acciaio" è, anche e soprattutto, un meraviglioso racconto sull'adolescenza e sull'amicizia al femminile. Al centro della storia, infatti, c'è il legame tra Francesca e Anna, profondamente diverse fra loro eppure complementari, inizialmente inseparabili e poi portate a dividersi. Francesca vuol fare la showgirl, Anna vuole studiare architettura; Francesca è bionda, Anna ha una chioma di ricci bruni; Francesca ha un padre violento, Anna un padre che non si fa vedere in casa per mesi interi. Vivranno assieme scuola, amori, giornate estive in spiaggia o chiuse nel bagno di casa a truccarsi; sentiranno confusamente e con senso di colpa l'ambiguità e la profondità insite nel loro stesso rapporto, fino ad un certo punto a litigare e a separarsi. Passerà del tempo e poi, devastate entrambe da vicende familiari che hanno travolto le loro vite, riusciranno a ritrovare nella purezza del loro rapporto il punto di partenza per allontanarsi da quella vita (finalmente, infatti, nelle pagine finali si ritrovano e decidono di raggiungere l'Elba). La Avallone racconta con dolcezza ma anche con disperazione, e da un punto di vista esclusivamente femminile, la difficoltà dell'essere adolescenti in quella particolare realtà. Anche Francesca e Anna a tratti saranno cattive, insopportabili, stupide, a tratti sincere, umane, insinuando nel lettore il senso della compassione (non nell'accezione negativa del termine, ma intesa come condivisione del pathos).
In quanto allo stile, quello della Avallone è a tratti crudo, brutale, disturbante; a tratti semplicistico, quasi sgrammaticato (ma in questo, credo, è funzionale alla realtà che vuole raccontare); a tratti invece è profondo, lirico, tratteggia descrizioni bellissime. Ad ogni modo, ti prende poco a poco, e superato un certo punto la storia comincia a scorrere e si lascia leggere tutta d'un fiato. I protagonisti diventano personaggi reali, che potresti incontrare a pochi isolati da casa tua.
"Acciaio" non è certamente un romanzo perfetto; pecca soprattutto nel voler cercare di raccontare tanto, forse troppo, e nel farlo non riesce alla fine ad andare a fondo in tutto; ma offre un punto di vista vero sulla realtà, e lo fa con coraggio. Non è forse questo che ci si aspetta dalla letteratura?
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Il dovere di difendere i nostri legami
"Il senso dell'elefante" è uno dei libri più belli che io abbia letto negli ultimi tempi, e Marco Missiroli uno scrittore di grande talento e rara sensibilità.
Lasciate perdere il confronto col suo più maturo "Atti osceni in luogo privato": sono in realtà due romanzi troppo diversi per poter essere messi a paragone.
Il senso dell'elefante parte da più storie limite: il giovane prete che vive un rapporto conflittuale con la propria stessa fede, si innamora di una donna fino a farci un figlio, lascia il sacerdozio; il giovane medico appassionato che pratica l'eutanasia a domicilio; la sua adorata moglie che da sempre ha una relazione col suo migliore amico, e nasconde da due anni un pesante segreto, ovvero che la piccola Sara non è figlia di suo marito. Attorno a queste storie, che vengono a intrecciarsi fra loro, altri personaggi collaterali ma non per questo meno potenti: l'esilarante avvocato Poppi, il dolce Fernando con sua madre Paola, Andrea costretto in un letto, il piccolo Lorenzo, e poi due figure di donne come Celeste e Anita, diverse fra loro eppure entrambe dolci, forti, fragili allo stesso tempo.
Missiroli esplora, attraverso questi personaggi che si muovono molto spesso al .limite dell'etica e della morale (portandoci poi in fondo a chiederci cosa sia davvero etico e cosa no), tematiche fondamentali come il rapporto con la fede, l'amore, il tradimento, e soprattutto il rapporto genitori-figli. E in realtà riesce, pur senza porci un punto di vista univoco, ad andare anche oltre queste stesse tematiche, mostrandoci come la linea di confine, il filo conduttore, tra una storia e un'altra, tra un legame e un altro, sia in realtà molto labile, sottile. E così, il senso dell'elefante è qualcosa in più rispetto al semplice rapporto che lega i genitori ai propri figli: è il senso di devozione verso quelli che sono i propri legami più forti: siano essi figli naturali della cui esistenza si viene a conoscenza solo quarant'anni dopo; siano essi piccoli pazienti che chiedono solo un gesto d'affetto, uno stralcio di vita normale; oppure, ancora, la fedeltà verso un amore andato via troppo presto, la devozione verso un uomo che dorme con te ogni sera da anni. Il senso dell'elefante è il dovere di proteggere i propri legami più forti; un dovere, un richiamo imprescindibile, che trova la sua espressione più alta nel gesto finale di Pietro. Anche qui, ricordiamolo, siamo in una storia-limite, il finale è una iperbole, ma a volte la letteratura deve far questo, ovvero estremizzare un racconto per farcene comprendere fino in fondo l'essenza.
Il finale di questo romanzo è struggente, e suscita in noi molte domande: esiste davvero un limite (etico, morale appunto) da non valicare quando si tratta di difendere le persone che amiamo? A cosa siamo disposti a rinunciare pur di fare il loro bene? Siamo in grado di discernere davvero cosa è giusto da cosa non lo è?
Con questi interrogativi profondi, e con uno stile asciutto ma al tempo stesso intimo, avvolgente e senza mai sbavature, Missiroli ci regala un romanzo potente e tutt'altro che semplice, che difficilmente potrà lasciare indifferenti.
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Un classico moderno
"Lo straniero" di Camus è un libro non facile da commentare. Prendo in prestito le parole di Calvino, e cioè che un classico è un libro "che non finisce mai di dire quel che ha da dire", perchè Lo straniero è senza dubbio un classico moderno (e non è un ossimoro questo). Difficile spiegare esattamente cosa ti smuove dentro questo libro; non lascia sensazioni immediate, ma lascia piuttosto riflessioni nei giorni a seguire. Tutti, almeno in una circostanza nella nostra vita, siamo stati stranieri nel senso che c'insegna Camus. In patria, in società, nella nostra famiglia, abbiamo provato questo senso di estraneità rispetto a tutto. Mersault va a morte, e le ultime pagine del romanzo, che sono poi le ultime ore della sua vita, sono strazianti. Cosa resta dunque, alla fine, del suo personaggio? Probabilmente la sua sconfinata ed irritante indifferenza verso il mondo intero; la sua insanabile apatia. Ma anche, in fondo, la sua capacità di rimanere sempre fedele alla sua lucida visione del mondo e dei sentimenti; il suo riuscire stoicamente a non concedere mai agli altri (che siano l'avvocato dell'accusa, il prete, la gente che lo vede il giorno del funerale della madre) ciò che questi si aspettano da lui. E' ingeneroso, Mersault, ma alla fine ci colpisce la sua capacità di vedere il reale, senza mai concedersi appigli nelle illusorie consolazioni che gli vengono proposte (ad esempio la religione). In questo senso, credo, Camus descrive uno stato d'animo proprio dell'uomo del Novecento, ed in questo modo diventa un classico intramontabile.
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Un libro feroce ma non troppo
Ci ho messo un po' a interpretare le sensazioni che questo libro mi ha lasciato, non riuscendo neppure a capire bene se nel complesso mi è piaciuto o no.
Lagioia ha talento, questo sicuramente, e lo ostenta fin troppo. Con questo romanzo decide di rischiare: mescola il noir al dramma familiare al romanzo ad impronta giornalistica/di denuncia; utilizza a più non posso flashback, passa continuamente da un piano temporale ad un altro, da un punto di vista all'altro; usa metafore, frasi talvolta contorte, lo stile a volte si fa troppo artificioso, si fatica a seguirlo.
Il tema portante in definitiva è quello della speculazione edilizia, che ha distrutto e continua a distruggere la nostra terra in nome del dio denaro. Lagioia si inventa (ma neanche poi troppo) una storia di pura finzione e tutta privata come quella di Clara e della famiglia Salvemini, per denunciare e raccontare cose reali, ed è un'intenzione nobile la sua. Ma tutto sommato non ci dice nulla di nuovo; e anche la trama familiare che imbastisce, il racconto del degrado morale di una famiglia della buona borghesia, il rapporto tra i due fratelli Clara e Michele, non riescono a coinvolgere e a convincere fino in fondo. Ad una prima impressione, l'opera di Lagioia sembra originale ed ambiziosa; ma quando arrivi verso la fine, ti rendi conto che hai faticato un po' e che in fondo non ti ha convinto davvero.
Il libro comunque si lascia leggere, e io che sono pugliese ho apprezzato particolarmente i richiami, sia in positivo che in negativo, alla mia terra, vera protagonista forse del romanzo. Insomma, quest'opera di Lagioia vuol essere un romanzo di denuncia, vuol raccontare un mondo feroce e spietato, dove la ferocia è capace di travolgere tutto, la terra così come i rapporti tra le persone...eppure a me, quando ho girato l'ultima pagina, ha lasciato addosso un senso di incompletezza e di non totale soddisfazione, che non saprei rendere meglio con le parole.
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Il disordine degli anni'70 e dell'animo di Elena
"Storia di chi fugge e di chi resta", terzo volume della saga de L'amica geniale della Ferrante. Se il secondo libro è troppo prolisso, ripetitivo, a tratti forse un po' banale, questo si legge d'un fiato, è sincero, intenso, viscerale. E molto complesso. Al suo interno c'è tantissimo: il racconto degli anni Settanta, gli anni del terrorismo e delle lotte operaie; l'amore, il matrimonio, la maternità, la condizione femminile - e a proposito, non posso credere che dietro Elena Ferrante si celi un uomo, sa sviscerare troppo bene l'animo dei suoi personaggi femminili per pensare che possa non essere una donna. E poi sempre Napoli, sullo sfondo, dura e crudele, caotica e affascinante, sempre capace di esercitare quel richiamo imprescindibile sui protagonisti così come sul lettore. Il personaggio di Elena qui finalmente cresce, viene fuori in tutta la sua pienezza e il suo disordine represso, mentre Lila resta l'amica geniale ed enigmatica, adesso forse la più lucida e lungimirante fra le due. Impossibile non cominciare subito, avidamente, il quarto volume, con l'ansia di seguire ancora le storie delle due amiche, che più che personaggi di un romanzo adesso sembrano persone che si conoscono da sempre...
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Il Grossman che non ti aspetti
Soltanto un grande scrittore può restare se stesso pur cambiando totalmente il proprio registro linguistico. Usando l'espediente dello spettacolo di cabaret, e attraverso un linguaggio che per lunghi tratti non sembra il suo (ma non fatevi ingannare), Grossman ci regala una nuova intensissima storia, ci parla col linguaggio a cui in realtà siamo abituati. Scrittura sempre intima e lieve, la sua, ma capace di squarciare l'anima. Per tutte le 176 pagine noi siamo lì, assistiamo allo spettacolo di Dova'le, e riviviamo con lui quel terribile viaggio della sua infanzia, quel tragitto che ha segnato per sempre la sua vita. Dova'le ci mostra se stesso, si mette a nudo, chiede al pubblico e al suo amico giudice una sentenza, là dove lui si è già condannato da solo. Grossman è sempre grandioso, nel saper scandagliare dolcezze e brutture dell'animo umano, nel saper andare a fondo fino a quei sentimenti che restano nascosti, sepolti, a cui non sappiamo dar parole. E alla fine la sua scrittura ti scuote dentro, ma esercita anche tutta la sua immensa forza catartica, purificatrice.
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Un romanzo freddo
Non me la sento di dare a questo romanzo un giudizio positivo, ma mi rendo conto di non poterlo nemmeno demolire. Da tanti punti di vista l'opera della Mazzucco è ineccepibile. Lo stile è molto buono, scorrevole, colto: il libro si legge senza difficoltà. L'argomento (tutt'altro che semplice) è affrontato con mente aperta, delicatezza, tatto, sensibilità, e soprattutto con naturalezza. A chi nutre dei pregiudizi, a chi si ritiene scettico nei confronti delle famiglie omosessuali e dell'omogenitorialità, consiglio di leggere questo romanzo, per la limpidezza con la quale descrive i rapporti d'amore esistenti fra i tre componenti della famiglia, Christian, Giose ed Eva. Lo consiglio perchè ben fa comprendere quanto sia ottusa e limitante la legge italiana, che priva di qualunque diritto i componenti delle famiglie omosessuali, che non tutela, ma allontana, divide, distrugge. Tutto questo è ben raccontato dalla Mazzucco. Eppure. Eppure in certi punti ho trovato questo romanzo mortalmente noioso, non ha saputo mai coinvolgermi davvero; non mi sono avvicinata ai personaggi, non mi sono appassionata alle loro vicende. Il tutto alla fine si limita ad una narrazione, ben fatta sicuramente, ma fredda, priva di emozioni, nonostante il materiale emotivo sia notevole. Gli stessi personaggi sono ben caratterizzati ma non riesci quasi mai a sentirli vicini, vivi. Dispiace, perchè a mio parere il romanzo perde tanto. Ho avuto quasi l'impressione che la Mazzucco abbia deciso di scrivere questo romanzo per dare un messaggio (fondamentale, indiscutibile, da ribadire in questi tempi ottusi) ma senza metterci l'anima.
Promosso, ma con riserva.
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Un Paolo Giordano più maturo
"Il nero e l'argento" è il terzo romanzo di Paolo Giordano. Uno scrittore che continua a pagare lo scotto di un esordio da premio Strega e milioni di copie vendute, da molti considerato sopravvalutato, dopo il secondo, atteso e secondo me fallimentare, romanzo, torna con una storia da sole 118 pagine, breve e tutt'altro che rasserenante. Lo stile è molto bello, cresciuto, maturo, toccante; la storia è tutt'altro che allegra; i personaggi sono delineati bene, anche se non abbastanza approfonditi. Ma d'altronde una storia del genere, se prolungata anche solo di altre 50 pagine, avrebbe corso il rischio di diventare pesante. Giordano tenta di raccontare, e ci riesce secondo me piuttosto bene, attraverso una storia d'amore come tante, una giovane coppia come tante, le spaccature di una generazione -la nostra, quella dei nati negli anni '80- fatta di incertezze e di timori, di precarietà nella vita sentimentale quanto in quella lavorativa; ne racconta, seppur di volata, le insicurezze e la difficoltà di affrontare ruoli, situazioni e scelte (come il trasferirsi all'estero per lavoro) che le generazioni precedenti forse non avevano dovuto fronteggiare. Racconta le fragilità di due umori -il nero e l'argento- che tentano di mescolarsi continuamente, senza forse mai riuscirci davvero. Non un capolavoro, ma consigliato.
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Un romanzo "tutto al maschile"
Questo romanzo di Scurati è stato una piacevolissima scoperta. E' un libro leggero e profondo allo stesso tempo, ironico e talvolta triste, amaro ma allo stesso tempo molto dolce. Con uno stile a mio parere bellissimo (soltanto in qualche punto lievemente artificioso), con un'ironia che a volte ti strappa un sorriso e a volte ti lascia l'amaro in bocca, Scurati racconta una storia "tutta al maschile". Partendo dal momento in cui Giulia, la moglie del protagonista (alter-ego dell'autore? forse solo per alcuni aspetti), gli annuncia di volerlo lasciare (con una frase lapidaria: "Forse non mi piacciono più gli uomini"), Scurati ripercorre, narrandola in prima persona, la storia personale di quest'uomo, cominciando dal momento della laurea e quindi dell'ingresso nell'età adulta, fino alla sua relazione con Giulia e alla paternità. Il romanzo è molto intimo, intenso, scandaglia l'animo del protagonista, ed esplora territori vastissimi: racconta l'amore e la fine dell'amore, racconta il sesso, racconta -con una delicatezza ed un'intensità forse rari per un uomo- la paternità e il legame indissolubile fra un padre e sua figlia. Ma racconta anche la crisi della generazione dei quarantenni di oggi, e la deriva della società dei nostri tempi, attraverso episodi e aneddoti che riescono a divertire e a far riflettere nello stesso tempo. Non c'è esattamente un happy ending in questo romanzo, l'amore non trionfa, i sentimenti sono imperfetti e non assoluti. Ma le due pagine finali ti strappano un sorriso e scaldano il cuore. Da leggere.
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I Lambert siamo tutti noi
*** Attenzione, la recensione contiene spoiler ***
E' molto difficile per me recensire Le correzioni, romanzo letto circa un anno fa, ed entrato a pieno titolo tra i miei libri preferiti di sempre. Le correzioni è un romanzo, forse, prima di tutto, sulla famiglia. La famiglia di cui seguiamo le vicende è quella dei Lambert: Enid e Alfred, che ci vengono presentati all'inizio del romanzo, anziani, malati e pieni di piccole manie, e che poi ritroveremo nel corso della narrazione, sia soli che insieme ai loro figli;e i figli, appunto: Chip, Gary e Denise, profondamente diversi l'uno dall'altro, ciascuno con la propria storia costellata di fallimenti e fragilità, conformismo e ribellione. Quella dei Lambert è la storia di una famiglia come tante; una famiglia della medio-borghesia del Midwest, schiacciata e plasmata dai valori, dalle ipocrisie e dalla mentalità di quel piccolo mondo, cieca forse, incapace di comprendere le pulsioni e le infelicità che si celano dietro le consolidate e rassicuranti apparenze. Sono proprio le pulsioni ad allontanare e a rendere infelici i tre figli dei Lambert, che cercano di fuggire da quella gabbia dorata nella quale i genitori avevano tentato di imprigionarli, correggendo, appunto, qualunque comportamento potesse deviare da quella che secondo loro rappresentava la norma, la buona regola. E quindi eccoli, personaggi di un libro ma così veri e sinceri e vicini a noi da sembrare nostri amici di sempre: Gary, buon padre di famiglia intrappolato in un matrimonio infelice; Chip, professore anticonformista schiavo della passione per una ragazza molto più giovane di lui; Denise, donna dalla carriera affermata, che manda tutto all'aria per essere andata a letto con la moglie del suo capo. Ma riusciamo a sentire vicini anche Enid e Lambert, che impariamo a conoscere nel corso della narrazione, ed anche un po' ad odiare per come si sono comportati coi propri figli, per come hanno impostato le loro relazioni familiari, ma verso i quali alla fine non riusciamo a non nutrire tenerezza, affetto e comprensione, come ad un anziano genitore a cui si riescono a perdonare tante cose. Franzen ci trasporta, attraverso 500 e più pagine, e con uno stile superbo, in un vortice di storie e sentimenti forti, scava nell'animo dei personaggi ed è come se scavasse un po' anche nel nostro. Perché ci sono pezzi di noi nelle storie che Franzen racconta. Perché ci sembra di comprendere la tristezza di Gary, la passione di Denise, la disperazione di Chip; ma anche l'amarezza di Enid, la compostezza di Alfred, il loro aver fatto tutto in buona fede. Perché, in fondo, i Lambert siamo tutti noi.
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un libro crudo e spiazzante
Fare una recensione a caldo di questo romanzo non è facile, perché in realtà andrebbe digerito, bisognerebbe ripensarci ed elaborarlo, tentare di comprenderlo meglio. Che dire? E' geniale nella sua costruzione, crudo ed asciutto nel suo stile, amarissimo e doloroso per la storia che racconta. Il dolore, la guerra, la solitudine, ma anche l'amore, la follia, la capacità di sopravvivere al dolore. In questo libro c'è tutto, ma purtroppo non c'è mai uno spiraglio di speranza. Non c'è salvezza, il finale è spietato. Delle tre parti ho preferito la seconda; la prima l'ho trovata troppo asciutta, la terza a tratti difficile da seguire. Non riesco ad accodarmi completamente alle recensioni entusiaste che ho letto, perché qualche perplessità questo libro me la lascia, ma indubbiamente è un libro magnetico e disarmante. Da leggere.
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Promosso sì, ma con riserva
Ho letto questo romanzo soltanto un paio di mesi fa, nonostante sia uscito già da qualche anno, e abbia avutofin dall'inizio un notevole successo. Mi aspettavo quanto meno una storia forte, intensa e coinvolgente; purtroppo, però, mi ha rinconfermato l'opinione che già avevo sulla Mazzantini,e cioè che sia un'autrice piuttosto snob, che vuol stupire a tutti i costi, e che molti dei suoi romanzi contengano qualcosa di molto artificioso. Artificioso, infatti, è lo stile, fatto di periodi brevi e continue metafore non sempre comprensibili. Artificiosa è un po' anche la storia, che vuol essere una storia forte (ed in effetti lo è: l'amore, la guerra, la violenza, la maternità...di temi forti ce ne ha messi tanti) ma alla fine, a parer mio, finisce col diventare un po' tortuosa, a tratti inverosimile. Insomma, il libro si legge, scorre, alla fine si riesce ad arrivare in fondo quelle 500 pagine, nonostante alcuni tratti della storia siano decisamente inutili. Io però non sono riuscita ad appassionarmi veramente, nè a provare empatia per i personaggi, che ho trovato a tratti irritanti e troppo estremi in certi aspetti (il desiderio ossessivo di maternità di Gemma, l'ostinazione di Diego nel rinunciare alla sua vita per tornare a Sarajevo, la sua idea un po' malata di libertà...soltanto quello di Gojko mi è parso vero e naturale). La Mazzantini, a mio parere, scrive a tavolino i suoi romanzi (che puntualmente verranno poi trasformati in film dal marito), e il fatto che sappia scriverli bene non basta.
Uno dei romanzi più intensi che abbia letto
Scriverò poche righe su questo romanzo letto ormai due anni e mezzo fa, mentre ero alle prese con l'esame di farmacologia. Era un freddo febbraio, e la sera, finalmente, dopo ore ed ore di studio, mi immergevo nella fantastica ma dolorosa storia di Orah ed Avram, di Ofer e Adam. "A un cerbiatto somiglia il mio amore" è un libro che ti lascia dentro una ferita profonda, come se quella storia, che hai seguito per 800 e più pagine, fosse la tua; come se quel figlio, Ofer, fosse tuo; come se Avram fosse l'uomo che hai sempre amato. Grossman non è sempre di facile lettura, e non tanto per lo stile, che è sempre scorrevole e mai artificioso, e in fondo neanche per il contenuto, perché sì, la storia è forte, ma in fondo i romanzi che parlano di guerra, e di storie complicate che si svolgono con la guerra sullo sfondo sono tanti. Ma Grossman fa di più, lui comincia a scavare nell'animo dei suoi personaggi; li fa soffrire, li fa disperare, fa provare loro dei sentimenti che li straziano, fa viver loro delle vicende incredibili, delle storie forti e dolorose, e comincia a scavare così tanto dentro di loro da farteli sentire incredibilmente vicini, quasi che quei personaggi fossero in realtà tanti piccoli pezzi di te stesso. E' per questo che alla fine un romanzo del genere ti lacera. Perché è come se lungo tutte quelle pagine tu fossi madre insieme ad Orah, come se insieme a lei riuscissi ad amare follemente Avram, a soffrire per Ofer. Da leggere con animo aperto e disponibile, con molta pazienza (per superare anche qualche passo un po' più lento)...e con i fazzoletti a portata di mano.
Rinunciare per amore alla propria felicità
"La signora delle camelie", di Dumas figlio, è un classico che non ho mai davvero preso in considerazione, fino a quando non me lo sono ritrovato per caso davanti, sullo scaffale della libreria del mio paese, nella edizione Newton Compton a soli 99 centesimi. L'ho comprato, e dopo un paio di mesi sono riuscita finalmente a leggerlo. Adesso che l'ho finito, posso dire con certezza che il personaggio di Marguerite Gautier mi resterà nel cuore come uno dei più bei personaggi della letteratura di tutti i tempi. Uno dei più bei personaggi femminili, aggiungerei. Sì, perché quello di Marguerite è uno di quei personaggi femminili carichi di forza e di passione, affascinanti e tormentati, profondamente veri, che non possono non toccare le corde della lettrice (e mi auguro anche del lettore) che ne segue le vicende, i dolori, gli amori, i tormenti. Marguerite, mantenuta di un anziano duca, amante di numerosi uomini conosciuta in tutta Parigi, dedita ad una vita di lussi e dissolutezze e indebitata fino al collo, accetta l'amore di Armand Duval, giovane di poche speranze animato da sentimenti sinceri, e finisce con l'innamorarsene perdutamente a sua volta. Ormai decisa ad abbandonare la vita di un tempo, vicina ad una sorta di redenzione, e con davanti la prospettiva di una vita felice-seppur breve, a causa di una malattia- accanto al suo uomo, Marguerite decide di rinunciare a tutto ciò, sceglie volutamente di perdere tutto quello che l'aveva finalmente condotta ad una vita non più disonorevole, per amore del suo Armand. La storia di Marguerite (ricostruita abilmente dallo scrittore, attraverso un piccolo stratagemma letterario) va letta e compresa fino in fondo; Marguerite, donna bella e tormentata, al di fuori degli schemi come altre eroine di altri romanzi (Emma Bovary, Anna Karenina, Lady Chatterley) compie in realtà un sacrificio ben più grande rispetto a tutte le altre...se Emma si lascia trasportare dalla sua passione malata verso un triste epilogo, se Anna decide di togliersi la vita pur di non sopportare l'idea di non essere amata da Vronskij dopo aver rinunciato a tutto per lui, se Lady Chatterley ha il coraggio di rinunciare a tutto pur di vivere felice con il suo amore, Marguerite rinuncia alla sua felicità per amore del suo uomo. Quello di Marguerite è un personaggio immenso e indimenticabile, e la scrittura elegante di Dumas riesce a farcelo amare fin dalle prime pagine in cui lei fa la sua comparsa, allegra e disinibita, pungente e incurante di tutto, animata da una leggerezza che -si capisce bene- nasconde in realtà una tristezza insondabile. Assolutamente da leggere.
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