Opinione scritta da Cathy

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Cathy Opinione inserita da Cathy    29 Settembre, 2022
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Non potrò mai più mangiare una pesca

ATTENZIONE! LA RECENSIONE CONTIENE SPOILER!

"Chiamami col tuo nome" è uno dei romanzi più celebrati degli ultimi anni. Non avevo mai pensato di leggerlo, perché è una storia d'amore e le storie d'amore nude e crude non mi hanno mai interessato. Solo che cercavo una lettura dal sapore di estate e di mare e mi sono detta "Facciamo un tentativo, superiamo il pregiudizio, chissà, magari anche una storia d'amore nuda e cruda può piacermi".
Con il senno di poi, avrei fatto meglio a dedicarmi alla Settimana enigmistica, ma il punto è che mi sbagliavo. "Chiamami col tuo nome" non è una storia d'amore, è la storiella dell'ossessione malata di un diciassettenne per un ragazzo figo più grande. L'amore è un'altra cosa. Questa è solo una roba disgustosa, stupida e senza senso.
Sia chiaro che il problema non è il fatto che ci sia una relazione omosessuale. Dovrebbe essere ovvio, ma meglio specificarlo. La storia tra Elio e Oliver non è assurda perché sono due ragazzi, assolutamente no. Darei lo stesso giudizio se fossero una coppia etero. Non è questo il problema. Il problema è che buona parte del libro consiste nelle turbe sessuali di Elio, accuratamente riportate dalla prima all'ultima. Va bene che ha 17 anni e gli ormoni vanno a mille, ma sfortunatamente non ero interessata a scoprirle.
Il giovane Elio incontra Oliver a pagina 1 e a pagina 2 già vorrebbe saltargli addosso. Da quel momento in poi è un susseguirsi allucinante di fantasie in cui immagina tutto quello che gli farebbe e tutto quello che vorrebbe che Oliver facesse a lui. Poi si intrufola nella sua stanza senza permesso, annusa il suo costume da bagno usato sperando di trovarci peli pubici (è così, giuro), se lo infila, lo sfila e lo rimette al suo posto. Il che implica che Oliver lo indosserà nuovamente senza sapere cosa è successo. Poi si infila nudo nel letto di Oliver, si struscia sulle sue lenzuola, si mette il suo cuscino in mezzo alle gambe. Il che implica che Oliver piazzerà la faccia su quel cuscino senza sapere dove è stato prima. A mio modesto avviso queste sono molestie, anche di una certa gravità, ma no, a quanto pare è una storia romantica. Capite perché a un certo punto ero disgustata?
Dopo aver letto queste pagine meravigliose, non avrei potuto trovare romantiche e piacevoli le successive neanche se fossero uscite dalla penna di Shakespeare e decisamente non è così. Il seguito, infatti, è solo un susseguirsi di turbe mentali, fantasie erotiche, descrizioni inutilmente volgari di rapporti sessuali (non riuscirò mai più mangiare una pesca, ma era davvero necessario? Qui dovete immaginare l’emoticon del facepalm. Ci sta a pennello). Il culmine del disgusto, però, deve ancora arrivare e ci attende quando Elio chiede a Oliver di non tirare lo sciacquone dopo essere andato in bagno perché... perché aveva perso il numero dello psichiatra, suppongo, e quindi non ha potuto fare altro che abbandonarsi alle fantasie che lo turbano e, ahimè, "ci" turbano per 272 pagine.
Non voglio dare l'impressione di giudicare le fantasie sessuali altrui. Finché si è consenzienti, va bene tutto (anche se Oliver non era certo consenziente quando Elio si mette il suo cuscino tra le gambe). Ma leggere questa roba non fa per me. È un romanzetto erotico di bassa categoria, noiosissimo, scritto male, pieno di banalità e scene a metà fra il trash, il disgusto e il ridicolo. Se siete interessati a scoprire perché Oliver non deve tirare lo sciacquone leggetelo pure, altrimenti c'è la Settimana enigmistica.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    01 Settembre, 2022
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Un giallo d'altri tempi

Il giovane disegnatore Walter Hartright sta per lasciare Londra e recarsi nel Cumberland, dove ha trovato un impiego: insegnare disegno alle due nipoti di un ricco gentiluomo, le sorellastre Marian e Laura. La sera prima di partire incontra in strada una donna in fuga: è tutta vestita di bianco, ha l'aria smarrita e confusa e parla in modo sconclusionato. Mentre Walter la soccorre e la accompagna a una carrozza, la donna gli fa il nome della famiglia e della dimora presso cui il giovane ha trovato lavoro, i Fairlie di Limmeridge House. Prima che Walter possa chiedere spiegazioni, la misteriosa donna in bianco salta in carrozza e scappa. Il giorno dopo Walter parte per Limmeridge e prova a indagare sull'identità della donna in fuga, ma nessuno sembra conoscerla. Per di più, Laura, una delle sue allieve, è identica a lei. Qual è il mistero della donna in bianco?
Dire anche solo una parola di più sulla trama guasterebbe irrimediabilmente la lettura. "La donna in bianco" è un romanzo che si fonda non sull'indagine psicologica, sulla costruzione dei personaggi o delle ambientazioni, ma sull'azione e il mistero che si intreccia e si aggroviglia sempre di più per poi dipanarsi negli ultimissimi capitoli, come una matassa di filo. Si tratta infatti di un romanzo a puntate e di conseguenza il suo scopo è dilatare il mistero principale sempre di più, aggiungere misteri secondari intorno al primo e tirarla per le lunghe il più possibile, in modo da catturare e mantenere viva l'attenzione del pubblico. Il problema di questi romanzi per i lettori di oggi, annoiati, smaliziati e amanti della velocità, è che il continuo allungare il brodo tende a stancare.
Questo problema diventa ancora più rilevante quando la trama non è abbastanza imprevedibile da lasciare davvero con il fiato sospeso alla fine di ogni capitolo. In La donna in bianco la trama è piuttosto accattivante e si riflette sulla difficile posizione femminile nell'età vittoriana, quando le donne erano sempre, in un modo o nell'altro, alla mercè un uomo, che fosse un parente, un marito, un tutore, non decidevano liberamente di se stesse e potevano essere travolte e sopraffatte dagli eventi con una rapidità e una facilità sconvolgenti. Purtroppo sono ben pochi i fatti che non sono facilmente prevedibili. Molto spesso quello che accadrà è abbastanza chiaro ed evidente, eppure i personaggi si interrogano sgomenti su come andranno le cose e si lanciano in lunghi ragionamenti per arrivare a una conclusione che era evidente già da tre capitoli. Ci sono eccessi sentimentali nello stile ed esagerazioni e ingenuità di vario genere. Ad esempio, le apparizioni della donna in bianco causano grande agitazione fin dall'inizio, quando ancora nessuno è a conoscenza del mistero a cui è legata e quindi una simile reazione non è giustificata. Per di più, sono considerate un oscuro presagio per il futuro di Laura senza alcuna motivazione logica. Tutti questi elementi dovrebbero forse conferire drammaticità alla storia, ma causano un involontario effetto comico.
La storia è raccontata dai suoi stessi protagonisti. L'autore immagina, infatti, che i personaggi che hanno preso parte agli eventi siano chiamati a dare la loro testimonianza in tribunale e che dunque riportino un resoconto fedele e imparziale. Ogni personaggio che prende la parola ha una sua voce specifica e perfettamente distinguibile dalle altre, un tono, uno stile, un linguaggio e perfino dei vezzi o tic linguistici tutti suoi. Al tempo stesso, però, i personaggi hanno una caratterizzazione schematica: ci sono i buoni e ci sono i cattivi e pochissime sfumature nel mezzo. Fa un po' eccezione soltanto il conte Fosco, mentre il personaggio peggiore da questo punto di vista è Laura Fairlie, che incarna il topos della damigella candida, buona, bellissima e innocente da salvare, è del tutto priva di carattere, forza d'animo o capacità di iniziativa ed è costantemente in balia degli altri, sia che vogliano proteggerla sia che vogliano danneggiarla. Non a caso, forse, è l'unico personaggio che pur avendo un ruolo fondamentale negli eventi non prende mai la parola.
I classici possono invecchiare più o meno bene e "La donna in bianco" è senz'altro un romanzo che mostra tutti gli anni che ha. Ciononostante, è una lettura piacevole e scorrevole, soprattutto grazie allo stile curato, elegante, descrittivo, che cattura e immerge nella storia a dispetto di tutti i suoi difetti. Wilkie Collins sapeva quello che molti autori contemporanei hanno dimenticato o forse non hanno mai saputo: anche una storia non eccezionale, se è ben scritta, può essere una buona lettura.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    25 Luglio, 2022
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Uno strano romanzo

Questo è uno strano romanzo.
«Che cos'è la storia?» si chiede Alexandre Dumas e lui stesso si risponde: «Il chiodo al quale attacco i miei romanzi». Una frase che suggerisce un'idea della storia intesa come semplice sfondo destinato ad accogliere una trama frutto della fantasia dell'autore. La cosa strana è che nei "Borgia" la storia non è affatto sullo sfondo, anzi. Le vicende della famigerata famiglia di origine spagnola che ha dato alla cristianità Alessandro VI, un Papa reso celebre dai suoi comportamenti dissoluti, e due figli, Cesare e Lucrezia, altrettanto terribili, sono tutta la sostanza del racconto, tra amori proibiti, intrighi, tradimenti, avvelenamenti, omicidi, guerre e corruzione. Il libro segue passo tutte le vicende pubbliche e le principali vicende private di Alessandro, Cesare e Lucrezia Borgia, strettamente intrecciate ai grandi eventi storici del periodo.
Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento comincia per l'Italia un periodo di gravissima crisi politica determinata dall'invasione di Carlo VIII, re di Francia, diretto alla conquista del regno di Napoli. A chiamare i francesi è per assurdo proprio un italiano, Ludovico il Moro, che ha usurpato il ducato di Milano sottraendolo a suo nipote e vuole liberarsi di uno scomodo nemico, gli Aragona di Napoli, appunto. Secondo il racconto di Dumas, la voglia di rivalsa sarebbe una semplice questione di orgoglio e vanità che però avrà conseguenze gravissime per la penisola italiana, da quel momento trasformata in terra di conquista, un campo di battaglia a cielo aperto dove i piccoli stati italiani sono costretti ad affrontare per la prima volta un nemico a loro nettamente superiore dal punto di vista militare. Le vicende personali dei Borgia sono quindi annodate a doppio filo ai fatti storici che travolgono l'Italia negli anni del pontificato di Alessandro VI e raccontare queste vicende significa raccontare la Storia: le ambizioni di Alessandro, i continui matrimoni di Lucrezia, usata dal padre come una pedina nei suoi giochi di potere, i piani di conquista di Cesare, probabilmente uno dei più grandi condottieri rinascimentali italiani.
Non soltanto la Storia, lungi dall'essere un semplice "chiodo" da appoggio al racconto, è in realtà il racconto stesso, ma la cosa più strana di tutte è che questo romanzo non sembra affatto un romanzo. Un romanzo storico, di solito, parte da una base di verità per poi inventare nuovi personaggi, dialoghi, riflessioni, eventi che non fanno parte della storia ufficiale, ma sono il frutto della fantasia dello scrittore. Nei "Borgia" questo non succede. Più che un romanzo sembra un saggio o un semplice resoconto dei fatti, talvolta piuttosto sterile. Ci sono capitoli più interessanti e movimentati, più leggeri e piacevoli da seguire, e capitoli che sembrano non finire mai, afflitti da descrizioni minuziose di battaglie, da elenchi di condottieri, battaglioni, cardinali, ambasciatori, dall'esposizione punto per punto dei trattati di pace e di alleanza. Anche lo stile lascia un po' perplessi: ci sono momenti in cui ci si sofferma molto a lungo su dettagli di cui non si capisce l'importanza, come la disposizione dei battaglioni dell'esercito di Carlo VIII, poi, all'improvviso, lo stile diventa frettoloso e si liquidano in pochissime righe questioni che invece avrebbero meritato un maggiore approfondimento. Ad esempio a un certo punto Lucrezia Borgia scompare nel nulla e la ritroviamo soltanto nelle ultime tre righe, che ci informano in tutte fretta sul suo destino. Non che sia scritto male, anzi, in alcuni momenti lo stile ironico e incalzante rende la lettura molto piacevole, ma non è neppure uno stile particolarmente curato o significativo.
I personaggi, inoltre, sono solo abbozzati, poco caratterizzati. Anche i tre protagonisti delle vicende, Cesare, Alessandro e Lucrezia, sono quasi completamente privi di sfumature e votati al male assoluto, ma senza una vera motivazione, sono cattivi e basta, cattivi perché sì, o meglio perché lo dice la tradizione. La famiglia Borgia non era italiana, ma di origini straniere, in particolare spagnole. Questo elemento, insieme all'enorme potere che era riuscita ad accumulare e all'arroganza che la caratterizzava, ha fatto sì che si sviluppasse un odio fortissimo nei confronti dei suoi componenti, ai quali sono stati attribuiti delitti e comportamenti gravemente immorali. Si è creato in questo modo, nei secoli, il mito diabolico dei Borgia capaci di qualsiasi nefandezza, una fama terribile che poi la storiografia moderna ha ridimensionato. Senz'altro Cesare, Alessandro e Lucrezia non erano dei santi, ma l'immagine a tinte forti che ne propone Dumas, quasi fossero una trinità infernale, nasce da questa tradizione ed è probabile che abbia poco a vedere con la realtà storica.
Dumas afferma di scrivere i suoi romanzi per divertire e interessare i lettori. Il problema è che "I Borgia" sembra destinato non tanto all'intrattenimento, quanto a un rapido ripasso degli eventi storici per chi già ne ha una buona conoscenza e vuole rinfrescarsi la memoria. Io amo la storia, amo il Rinascimento italiano e sono un'appassionata dei Borgia e sono riuscita ad apprezzare abbastanza la lettura, ma qualche pecca c'è e sicuramente non è un libro che consiglierei a tutti. Forse il pubblico ideale per questo romanzo è composto o da persone che già sono a conoscenza dei fatti, ma non gli dispiace ripercorrerli, anche se in modo poco approfondito, o da persone che invece ne sono a digiuno, ma sono interessate a una conoscenza soltanto superficiale dei personaggi e del contesto storico. "I Borgia", in ogni caso, sarà pure uno strano romanzo, ma non è un brutto romanzo.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    26 Giugno, 2022
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«Tragedia senza teatro»

Condannato al confino dal regime fascista, Carlo Levi è costretto a lasciare la sua Torino per la lontana e sperduta Lucania. La prima destinazione è il paese di Grassano, la seconda Gagliano, ancora più piccolo e sperduto del precedente. Qui Levi trascorre un intero anno (1935-36) di vita grigia e monotona, dipingendo ed esercitando l'attività di medico per i poveri contadini del posto, completamente abbandonati a se stessi. Soprattutto, ha l'occasione di entrare in contatto diretto con la questione meridionale, di conoscere l'antica civiltà contadina del Sud e di toccarne con mano le tradizioni, i riti, i culti, la profondissima povertà, l'abbandono, l'assenza dello Stato che anzi è percepito come un nemico, con le sue tasse, le sue guerre, le sue leggi misteriose e incomprensibili. Se l'operato dello stato risulta per lo più indecifrabile, il suo risultato, invece, è molto chiaro ed è sempre lo stesso: vessare, opprimere e impoverire ancora di più chi già non ha nulla. Qualche anno dopo, tra il 1944 e il 45, quando ha ormai lasciato la Lucania, Carlo Levi decide di ripercorrere in un romanzo l'anno trascorso a Gagliano, per dare voce a chi non ce l'ha, riflettere sul problema del Mezzogiorno e ipotizzare una soluzione.
In "Cristo si è fermato a Eboli" non accade quasi nulla, gli avvenimenti veri e propri sono pochissimi. Più che raccontare una trama, l'autore descrive una cultura che appare lontanissima nel tempo e nello spazio, con un ritmo lento, scandito solo dal trascorrere delle stagioni, dei lavori agricoli, delle festività religiose.
Di solito per indicare un luogo sperduto e lontano dalla civiltà si dice che è un posto "dimenticato da Dio e dagli uomini". L'espressione "Cristo si è fermato a Eboli" significa esattamente questo: non soltanto Gagliano, simbolo di tutta la Lucania e di tutto il Sud Italia, è stato abbandonato da Dio, ma anche dagli uomini, perché "cristiano" per i contadini significa "uomo". Chi ci vive non è esattamente un uomo, agli occhi degli altri, ma è più simile a un animale. In queste terre aride e brulle, secche e bianche di argilla, inadatte alla coltivazione, falcidiate dalla malaria, il tempo, la civiltà moderna, la storia, le grandi trasformazioni non sono mai arrivate. È un mondo immobile, chiuso, isolato, in cui la morte è la compagna costante dell'uomo, impregnato di magia pagana. Qui si vive a metà del Novecento come si viveva centinaia di anni prima: gli uomini all'alba vanno nei campi a testa china, le donne vestite di scuro e con i volti velati vivono al chiuso delle loro povere abitazioni e i bambini giocano in strada magri e cenciosi, gialli per la malaria. I maestri non insegnano nulla, i medici non curano i malati, il lavoro dignitoso non esiste e dopo la crisi del '29 perfino l'unica speranza di salvezza, l'America, è diventata ancora più lontana e difficile da raggiungere.
"Cristo si è fermato a Eboli" ha avuto un ruolo fondamentale nel sottoporre la questione del Mezzogiorno all'attenzione dell'opinione pubblica e della classe intellettuale. Nelle ultime pagine, l'autore propone un'analisi molto lucida e interessante del problema, di questa «tragedia senza teatro» che è la vita dei contadini meridionali, e suggerisce una possibile soluzione, forse un po' troppo utopistica, ma interessante.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    09 Mag, 2022
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Per sempre

Il Principe Ribelle è stato catturato. Insieme a lui ci sono Delila, la sorella Demdji, Shazad, la giovane aristocratica diventata il suo primo generale, e Rahim, fratello di Amhed e Jinn e ultimo arrivato nel gruppo dei ribelli. La rivolta è piegata, ma non ancora sconfitta ed è Amani a mettersi alla guida di quello che ne rimane. Non Jinn, il Principe Straniero che non ama il Miraji e combatte solo per lei e per suo fratello. Non Hala, la Ragazza D'oro, che lotta affinché a nessun altro accada mai quello che ha subito lei, né Sam, il Ragazzo senza nome, che lotta per se stesso e per la bella Shazad. È Amani a farsi avanti e prendere su di sé il carico del destino del suo paese, la ragazza che un tempo, come Sam, credeva solo in se stessa e seguiva soltanto la propria causa, troppo abituata a essere sola al mondo. Nemmeno il vecchio amico Tamid, nonostante l'affetto che li ha sempre uniti, è mai riuscito a capirla davvero e a darle ciò di cui aveva bisogno, innamorato non della vera Amani, ma di Amani così come l'avrebbe voluta lui.
Il Bandito dagli occhi blu sa che forse stavolta ha intrapreso una missione che va al di là delle sue capacità, sa che ogni errore avrà un prezzo altissimo e che non potrà lasciarsi distrarre neppure da quello che prova per Jinn, uno dei rapporti più emozionanti, sani, equilibrati e meglio trattati in uno young adult. Un amore che non prende mai il sopravvento sulla trama e al tempo stesso ne è una parte essenziale. Ciascuno dei due accetta l'altro e lo ama per quello che è, non gli chiede di cambiare, rispetta sempre le sue decisioni anche quando non le condivide, non scavalca la sua volontà nemmeno se pensa che si stia mettendo in pericolo, accetta il sacrificio che l'altro sceglie di compiere nel nome della causa in cui crede.
Eppure Amani è disposta a mettere in gioco anche questo e a compiere sacrifici che non poteva neanche immaginare quando, all'inizio del primo romanzo, è scappata abbandonando Jinn nel deserto per salvarsi la pelle. A differenza di molti altri, è un personaggio femminile che sa essere "davvero" forte, coraggioso e combattivo senza mai diventare eccessivo, odioso o ridicolo. Ha fatto molta strada da quando ha lasciato la cittadina in cui è nata e ha capito che forse, nonostante tutto, nonostante le perdite e il dolore, il Miraji merita di essere salvato, con il suo deserto pieno di creature mitiche e affascinanti leggende, la sua capitale di cupole dorate, palazzi, vicoli e minareti, e meritano di essere salvati, a qualunque prezzo, gli amici di sempre, ormai diventati una parte indissolubile di lei e anche del lettore, grazie alla straordinaria capacità della Hamilton di costruire i personaggi quasi senza descrizioni, ma semplicemente facendoli muovere, agire, parlare. Tutti in qualche modo indispensabili, tutti, con il loro sacrificio e il loro coraggio, capaci di contribuire davvero alla rivolta, che non poggia sulle spalle del solo Amhed o della sola Amani, ma di tutto il gruppo, che si muove e agisce e combatte come un sol uomo per la stessa causa. Amani "è" il deserto, come dice Jinn, e la libertà del Miraji è anche la "sua" libertà, come donna e come Demdji. Proprio per salvare il Miraji, e Amhed con esso, Amani entra in contatto con i miti più antichi e misteriosi del suo mondo, fatti della sabbia, del sole e del vento del deserto: eroi, mostri, principesse, coraggiose fanciulle, uomini avidi, Djinni, Demdji. E infine saranno i ribelli stessi, vivi e morti, sconfitti o vincitori, a diventare a loro volta leggende scolpite nel tempo come nella pietra. Forse imperfette, perché i secoli passeranno e i dettagli si perderanno con essi, ma continueranno a essere raccontate. Per sempre.

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Romanzi storici
 
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Cathy Opinione inserita da Cathy    18 Aprile, 2022
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La storia prende vita

È una fredda, piovosa mattina del 110 a.C., a Roma, e due uomini assistono nella folla ai sacrifici rituali per inaugurare il nuovo consolato. Caio Mario è un ricco generale di origini italiche che aspira a una brillante carriera politica, ma, sebbene disponga del denaro e delle capacità necessarie, la sua nascita non aristocratica e non romana frena le sue ambizioni. Giunto all'età di 46 anni, è ormai troppo anziano per diventare console e ha quasi abbandonato ogni speranza, nonostante qualcosa dentro di sé, un istinto misterioso, gli ripeta di continuo all'orecchio che Roma ha bisogno di lui.
Di fronte a Mario c'è Lucio Cornelio, che è l'esatto opposto: un giovane biondo e affascinante, di nascita romana e di antico, purissimo sangue nobile. In teoria avrebbe la strada spianata per diventare console. Peccato che il ramo della gens a cui appartiene sia decaduto e che suo padre abbia completamente scialacquato quel che restava del denaro di famiglia. Per accedere al cursus honorum è necessario avere un patrimonio e dunque anche il giovane Lucio, come il maturo Mario, anche se per il motivo opposto, vede i suoi sogni di gloria svanire nel nulla. O almeno così sembra. Tutto sta per cambiare e le loro strade sono destinate ben presto a incrociarsi.
"I giorni del potere" è il primo romanzo di una lunga saga ambientata nell'antica Roma, nei difficili decenni di passaggio dalla repubblica al principato, e ha tutte le carte in regola per essere considerato il romanzo storico ideale. L'autrice, la scozzese Colleen Mccullough, si mostra molto più abile e documentata nel raccontare l'antica Roma di molti suoi colleghi italiani, nonostante la maggiore lontananza geografica e culturale. Non è caso, in fondo, se i suoi romanzi sono spesso citati come fonti dagli storici nei loro lavori.
Il contesto storico, sociale e culturale degli ultimi decenni della repubblica romana è ricreato alla perfezione in ogni suo minimo aspetto: gli avvenimenti e i personaggi principali, gli usi e i costumi, da quelli ufficiali e più celebri a quelli più banali e quotidiani, la rappresentazione della città di Roma, la cui descrizione urbanistica è così accurata da dare l'impressione di trovarsi davanti a una cartina, il modo di pensare e di comportarsi, le battaglie, i banchetti, l'amore, l'amicizia, i giochi politici, le elezioni dei magistrati, la corruzione. Tutto prende vita, concretamente e magnificamente. Il tramonto della repubblica, che apre la strada alle guerre civili, è rappresentato in tutte le molteplici, complesse sfumature, molto meglio di quanto potrebbe fare qualunque manuale di storia: il declino progressivo degli antichi valori, il diffondersi della corruzione, l'aumento dei poveri nullatenenti, che dalle campagne si spostano in città, l'importanza sempre maggiore attribuita all'accumulo di denaro inteso come strumento per conquistare il potere, la comparsa sulla scena politica di uomini nuovi, ovvero di nascita non nobile, ma ben diversi da Caio Mario, spesso poco competenti, disposti a sobillare la folla e a compiere qualunque atto, per quanto scellerato, pur di guadagnarsi un posto di rilievo.
"I giorni del potere", inoltre, sfugge a una vera e propria "maledizione" che affligge molti romanzi storici scritti negli ultimi anni: far agire, parlare e pensare i personaggi come se appartenessero alla nostra epoca. Nel romanzo di Colleen Mccullough Mario, Silla e tutti gli altri personaggi sono davvero uomini e donne del loro tempo e non capita mai che pronuncino una frase o compiano un gesto che appare troppo moderno o comunque distante dalla mentalità e dalla cultura della loro epoca. Sembra di avere di fronte i veri Mario e Silla, come se fossero usciti da un libro di storia. Non si tratta di statue, però, di accurate e fredde rappresentazioni di grandi personalità: oltre a essere autenticamente storici, questi personaggi hanno tutta l'umanità di persone qualunque, con pregi, difetti, desideri, passioni, ambizioni, debolezze.
Leggere questo libro equivale a una splendida immersione totale nella storia romana e, nonostante la mole, la narrazione scorre quasi sempre in modo rapido e piacevole. Per chi ama queste vicende e questi personaggi non si può consigliare niente di meglio.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    23 Marzo, 2022
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Il dubbio

Da quando Amani ha lasciato la sperduta cittadina di provincia in cui è nata e cresciuta per unirsi ai ribelli che aspirano a sconfiggere il crudele sultano Oman e mettere sul trono il suo legittimo erede, il Principe Ribelle, è cambiato tutto. Ha combattuto al fianco di Amhed, Shazad, Jin, Hala, Imin, è diventata una di loro e per loro ha versato il suo sangue. Ha scoperto cosa significa dare la propria vita per gli altri e amare un'altra persona più di tutto il resto. Ha svelato il mistero delle sue origini e ha iniziato a scoprire chi è davvero. Ha imparato a essere parte di qualcosa, a lottare con i suoi compagni come un sol uomo, a credere in una missione che non sia soltanto la propria libertà, ma quella di tutta il Miraji, stretto nella morsa di un sovrano usurpatore che ha venduto il paese agli stranieri, opprime il suo popolo e schiaccia ogni opposizione senza pietà. Non è più la ragazzina che credeva solo in se stessa e combatteva solo per se stessa. Adesso Amani crede in qualcosa di più grande di lei, ha trovato il proprio posto nel mondo ed è disposta a tutto pur di proteggerlo, anche se questo significa ritrovarsi prigioniera nell'harem del sultano, a Izman, la capitale del regno. Dopo aver attraversato il deserto in lungo e in largo nel primo libro della saga, "Il tradimento" si svolge quasi per intero in un nuovo, affascinante scenario, fra intrighi di palazzo, concubine e ritorni inattesi di vecchie conoscenze.
Chiusa in una gabbia dorata, Amani è di nuovo sola e può contare solo su stessa per sopravvivere. È cambiata profondamente dai tempi di Dustwalk, e la sua evoluzione come personaggio è una delle più profonde e interessanti mai viste in uno young-adult, eppure ora tutto potrebbe cambiare di nuovo: la vicinanza al sultano le permette di conoscere il famigerato nemico della ribellione e fa nascere dentro di lei il dubbio, spingendola a interrogarsi sul senso delle azioni che compie, il significato del potere e la reale capacità di governare di Amhed. Il suo Principe Ribelle, onorevole, generoso, premuroso con gli altri, dolce, cauto, riflessivo, sempre pronto ad ascoltare le opinioni dei suoi compagni prima di decidere, incapace di punire chi gli disubbidisce e di imporre la sua volontà con la forza, è un uomo infinitamente migliore di suo padre, ma sarebbe anche un governante migliore? Il sultano Oman, il "cattivo" della storia, è perfettamente descritto dalla penna essenziale ma sempre efficace di Alwyn Hamilton ed è uno dei villain meglio costruiti e più interessanti che si possano trovare in un fantasy young-adult: un "cattivo" che non agisce per pura crudeltà o semplicistica brama di potere, ma perché crede sinceramente di salvare il Miraji e riesce a essere così convincente da insinuare il seme del dubbio non soltanto nella protagonista, ma perfino nel lettore.
A lottare insieme ad Amani contro i demoni interiori e le spie e i pericoli che riempiono lo splendido harem del sultano non c'è nemmeno Jin, prima impegnato in una missione per conto di Amhed, poi scomparso misteriosamente nel deserto. "Rebel", però, non è una di quelle saghe che in realtà, a conti fatti, sono dei romance con appena un tocco di fantasy, la trama poco più che un contorno o uno sfondo per la relazione sentimentale della protagonista. "Rebel" non è una storia d'amore, o meglio, non è soltanto questo. È la storia del Miraji e della ribellione che punta a mettere sul trono il principe Amhed. L'aspetto sentimentale è presente e ha un ruolo abbastanza importante per lo sviluppo del personaggio di Amani, come è giusto che sia, ma non prende mai il sopravvento. Anche in questo secondo volume, come già nel "Deserto in fiamme", a fare da padrona è l'azione, sempre incalzante e coinvolgente. Anche tra le lussuose mura dell'harem, senza pistole, assalti e fughe nel deserto, non si tira mai il fiato. Gli eventi, le sorprese, le svolte di trama si succedono una dopo l'altra e lo straordinario gusto del racconto, che è uno dei maggiori punti di forza della saga di "Rebel", non viene mai meno neppure per una pagina. È così che dovrebbero essere i romanzi perfetti.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    09 Febbraio, 2022
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Il profumo del deserto

Amani ha sedici anni, vive nell'ultimo paesino sperduto dell'ultima Contea nel regno desertico del Miraji ed è disposta a tutto per di scappare via da un posto che non le ha mai dato nulla e anzi le ha già tolto tutto quello che aveva. È abituata a sopravvivere a un'esistenza dura, non ha legami se non quello con il migliore amico Tamid, l'unica cosa che la fa andare avanti nel nulla polveroso di Dustwalk (un nome, una garanzia), dove la fonte principale di sostentamento per gli abitanti è una fabbrica di armi. Prima che morisse, sua madre le raccontava storie favolose di Izman, la splendente capitale del Miraji, un posto dove perfino una ragazza, che nel deserto è considerata poco più che un animale, può essere libera e creare il proprio destino ed è lì che Amani vuole andare. Per scappare, però, ha bisogno di denaro e l'unica cosa che può vendere è la sua eccezionale abilità con le pistole: a Dustwalk c'è abbondanza solo di due cose, sabbia e armi, e lei ha imparato insieme a sparare e a camminare.
Mentre partecipa a una gara di tiro travestita da ragazzo, incontra qualcuno che cambierà la sua esistenza in un modo tale che non sarà più possibile tornare indietro. Amani e il Serpente dell'Est, il suo nuovo compagno, vivranno insieme avventure incredibili in un mondo che coniuga un'ambientazione arabeggiante, fatta di deserto e creature della mitologia preislamica, con elementi dal sapore un po' Western. Anche se può sembrare una strana accoppiata, a conti fatti funziona alla grande e questi elementi si fondono tra loro con efficacia, dando vita a un mondo originale e ricco di fascino. Oggi i fantasy ambientati in Oriente e Medio Oriente non sono una novità, ma "Rebel of the sands" è uscito in lingua originale nel 2015, quando non erano così diffusi. Dal momento che è stato un best-seller, è altamente probabile che abbia contribuito a creare questo filone. Il magico deserto del Miraji accoglie personaggi dall'anima forte e dal carattere chiaro e ben delineato, che fanno venir voglia di combattere al loro fianco, di continuare a leggere la saga per scoprire quale sarà il loro destino e quello della loro missione, e avventure al cardiopalma che fanno voltare una pagina dopo l'altra praticamente senza interruzione.
"Il deserto in fiamme" è il primo volume di una trilogia, ma non è affatto un libro introduttivo, anzi: si entra nel vivo dall'azione quasi subito e la narrazione mantiene un livello altissimo, serrato e appassionante, in modo costante. I momenti di pausa, nei quali non succede nulla di rilevante, sono davvero pochissimi, a differenza della maggior parte delle saghe, in cui si tende sempre ad allungare il brodo per riempire almeno tre romanzi. Un'unica, lunga avventura, elettrizzante, divertente, originale, che non fa tirare il fiato neanche dopo l'ultima pagina. E anche se in alcuni punti si sente che la scrittura dell'autrice è ancora un po' acerba e si avvertirebbe il bisogno di un maggiore approfondimento, non si può fare a meno di lottare e sperare e rischiare la vita e ridere e amare con i personaggi, di sentire il profumo del deserto del Miraji, la sabbia tra i capelli e il sole ardente sulla pelle. Meraviglioso.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    26 Gennaio, 2022
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« [...] solo se io ho la tua anima».

Durante un'azione il giovane partigiano Milton si ritrova a passare per caso nei pressi della villa dove viveva la ragazza di cui è innamorato, Fulvia. Entrato per rivivere i ricordi all'ombra dei ciliegi, incontra la custode della villa e i due iniziano a parlare di Fulvia. Milton scopre così che la ragazza aveva probabilmente una relazione con Giorgio, migliore amico di Milton e come lui partigiano, in una brigata diversa dalla sua. Tormentato dal bisogno di conoscere la verità, Milton tenta di rintracciare Giorgio, ma una nuova, terribile scoperta lo attende: Giorgio è stato catturato dai fascisti e, se non è già stato fucilato, è possibile che lo sarà a breve. L'unica speranza di riaverlo, e insieme a lui trovare la verità, è scambiarlo con un prigioniero. Milton inizia così un viaggio disperato nelle Langhe, diventate teatro di una guerra tanto più atroce perché condotta tra compatrioti, tra fughe e imboscate, sotto la pioggia, al freddo, nel fango, un unico, martellante interrogativo nella mente: «debbo sapere, solo se io ho la tua anima».
Scrive Italo Calvino in un saggio del 1949 che, nonostante la vasta produzione memorialistica e romanzesca sull'argomento, ancora non esiste in Italia un'opera che possa dire di rappresentare davvero la Resistenza. Quindici anni dopo, nella prefazione al suo romanzo "Il sentiero dei nidi di ragno", afferma che finalmente il vuoto è stato colmato e l'opera in grado di rappresentare quella parte così cruciale della storia italiana del Novecento adesso esiste: è "Una questione privata", pubblicato postumo nel 1963. La cosa singolare è che nel romanzo di Fenoglio, in realtà, la Resistenza resta sullo sfondo. Non ci sono grandi operazioni di guerra, ma è rappresentata soprattutto la difficile quotidianità dei partigiani, con la sua miseria e i suoi orrori, senza la minima traccia di retorica o esaltazione, ma attraverso una prosa pulita ed essenziale: le scarpinate nelle peggiori condizioni atmosferiche, il bussare ai casolari per chiedere un pezzo di pane, le scomode sistemazioni per la notte, gli appostamenti infruttuosi, la morte che accompagna ogni passo e alita di continuo sul collo, il fango e il sangue che ricoprono i vestiti laceri, il bisogno disperato di fumarsi una sigaretta per riuscire ad andare avanti, e intanto un pensiero fisso nella mente: quando finirà?
Il cuore del romanzo non sono i terribili eventi storici del momento, ma il dramma personale di Milton, che arriva quasi a coincidere e diventare un tutt'uno con la sua missione, fino a prendere il sopravvento sulla lotta al nazifascismo: trovare Giorgio e con lui la verità è come ritrovare Fulvia e trovare lei e vincere la guerra sono la stessa cosa. Nulla è più importante dell'amore per lei, neppure prendere la vita di un fascista. «Hieme et aestate, prope et procul, usque dum vivam et ultra»: «d’inverno e d’estate, da vicino e da lontano, finché vivrò ed oltre».
D'altronde Fenoglio ha ormai deciso di prendere le distanze dalla memorialistica sulla Resistenza, dai numerosissimi racconti pubblicati all'indomani della fine della guerra che narrano esperienze personali all'interno delle quali questi racconti restano intrappolati, come in un recinto, incapaci di andare oltre e di esprimere qualcosa di più. Di questa vasta produzione restano ancora le tracce nel "Partigiano Johnny", un'opera nella quale, ammette lo stesso autore, il centro, il punto focale della narrazione è il personaggio. Non c'è un nucleo tematico forte intorno al quale organizzare gli eventi, ma è Johnny in quanto loro protagonista a unificarli. "Il partigiano Johnny" è un'opera "poco romanzesca" e risulta più simile a un resoconto di esperienze personali, a una raccolta di fatti anche molto diversi tra loro, accomunati soltanto dalla figura intorno alla quale si verificano.
"Una questione privata", invece, ambisce allo status di romanzo, sebbene questo non significhi che si tratti di un'opera necessariamente superiore, ma solo impostata in modo diverso. Non un romanzo sulla Resistenza, ma un romanzo nel quale la Resistenza rimanga sullo sfondo. Eppure la "questione privata" che costituisce tutta la sostanza del racconto è in realtà emblema proprio della guerra civile, quasi un caso di "mise en abyme", una storia nella Storia che ne racchiude e ne condensa i temi e il significato. Giorgio e Milton, infatti, non sono soltanto migliori amici. Sono quasi fratelli. «Siamo nati insieme», risponde Milton a un partigiano che gli domanda che tipo di rapporto ci sia tra lui e Giorgio per spingerlo ad affrontare una missione così assurda pur di salvarlo. La ragione che spinge Milton è l'amore per Fulvia, è vero, ma questa scelta di parole senz'altro non è casuale. La guerra civile è una guerra tra fratelli, così come la rivalità tra Giorgio e Milton per Fulvia è uno scontro tra fratelli, sebbene tanto Giorgio quanto Fulvia siano figure evanescenti, poco definite, inafferrabili, più simili a ombre. Inseguire queste ombre Milton corre per le Langhe in un'atmosfera allucinata, fatta di nebbia, sangue, fango e pioggia, impegnato in una ricerca che sembra assurda, impossibile, il cui senso ultimo sfugge perché entrambi gli obiettivi restano eternamente irraggiungibili, e in fondo tutte le risposte sembrano già date in partenza. E dunque cosa sta cercando Milton? Qual è il senso della sua corsa disperata nella nebbia, della guerra che insanguina la terra e frantuma l'unità di un intero popolo? Un interrogativo destinato, nel finale in sospeso del romanzo, a restare senza risposta. E forse proprio in questo sta la sua angosciante modernità.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    16 Novembre, 2021
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Partita a scacchi con la morte

Una mattina l’imprenditore tedesco Dieter Frisch viene trovato morto nel parco della sua residenza di campagna, in uno spiazzo a forma di scacchiera al centro esatto di un labirinto. Una fine drammatica che appare in tutto e per tutto un suicidio, eppure, a detta di coloro che lo conoscevano, Dieter Frisch non aveva alcun motivo per togliersi la vita. Sulla sua scrivania nessun messaggio d’addio, solo una strana scacchiera di stoffa grezza su cui le pedine disposte in una precisa posizione di gioco sembrano essere state abbandonate nel mezzo di una partita.
Poco prima di morire, su un treno Monaco-Vienna Frisch incontra un giovane sui vent’anni, Hans Mayer. Scoperta la passione di Frisch per gli scacchi, Hans decide di raccontargli la propria storia di scacchista e poi la storia dell’uomo che gli ha fatto da maestro: Tabori, un personaggio bizzarro, ma dotato di un talento eccezionale per gli scacchi. Forse un incontro casuale, quello tra Frisch e Hans Mayer, o forse una mossa precisa all’interno di una grande partita giocata tra la vita e la morte, tra il bene e il male, tra la giustizia e chi cerca disperatamente di sottrarsi a essa da molto tempo.
Quali terribili segreti si nascondono nel passato di Dieter Frisch? Chi è la persona che ha mandato Hans Mayer a cercarlo per chiudere finalmente una lunga, estenuante partita iniziata quarant’anni prima? Qual è il mistero che si cela dietro la posizione di gioco che Frisch, sulle pagine della sua rivista di scacchi, ha battezzato "la variante di Lüneburg", gettando inconsapevolmente un filo a qualcuno che tenta di rintracciarlo da una vita?
In questo breve romanzo Paolo Maurensig sembra suggerire che l’intera esistenza umana non sia altro che una lunga serie di partite a scacchi giocate con il destino e a volte, quando ci si trova immersi nell’orrore più cupo e profondo, compiere una mossa significa decidere non soltanto della propria vita, ma anche di quella degli altri. Un peso al quale non si può sfuggire e che anche a distanza di tanto tempo richiede un risarcimento, ammesso che quando si parla di vite umane esista un modo di ripagare la perdita. Una sola cosa è certa: per Dieter Frisch l’incontro con Hans Mayer è lo scacco matto in una partita giocata con la morte e che è destinato a perdere.
Moltissime opere letterarie affrontano il tema dell’Olocausto e purtroppo "La variante di Lüneburg" non brilla all’interno di questa vasta produzione. L’impressione generale è quella di un romanzo discreto, che fa abbastanza bene il suo lavoro di intrattenimento, ma non riesce a brillare sotto nessun punto di vista. I personaggi e lo stile sono piatti e non hanno nulla di particolare che resti impresso nella mente di chi legge, mentre la trama, che gioca costantemente con il rimando al mondo degli scacchi, è basata su idee affascinanti, ma è poi sviluppata in modo un po’ monotono, prevedibile e senza guizzi creativi.
"La variante di Lüneburg" può essere una lettura interessante per chi cerca un romanzo sull’Olocausto che non richieda troppo impegno e si legga velocemente, ma se si vuole una storia che lasci con il fiato sospeso o approfondisca in modo adeguato un argomento così difficile e complesso forse è meglio aprire un altro libro.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    08 Ottobre, 2021
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«Questo groviglio mortale»

Nel saggio "L’eroe tragico moderno", Agostino Lombardo scrive che l’"Amleto" è un’opera così ricca e polivalente, così problematica, misteriosa e sfuggente – in una sola parola, così moderna – da non tollerare né la schematizzazione né una definizione e che qualsiasi discorso su di essa non può che essere una semplice introduzione. Il dramma e il suo protagonista presentano infatti i significati, le luci e le ombre che gli hanno attribuito tanto Shakespeare quanto i critici e i poeti successivi che si sono interrogati su di esso.
L’unica interpretazione che sembra in grado di abbracciare interamente l’opera è quella che la vede come immagine dell’uomo moderno posto di fronte al «misterioso labirinto del reale», un universo oscuro, sfuggente, problematico, da interpretare senza l’appoggio delle certezze medievali, crollate con l’avanzare dell’età moderna: l’affermarsi della visione copernicana dell’universo in sostituzione di quella tolemaica, l’espansione della Riforma, la scoperta di nuovi mondi, il lento crollo dell’ordine feudale ed aristocratico sotto la spinta degli “uomini nuovi”, l’incertezza politica determinata dalla morte imminente della regina Elisabetta, lo sviluppo della nuova scienza. Questi eventi cambiano profondamente la fisionomia del mondo medievale e danno vita ad una realtà davanti alla quale l’eroe tragico moderno e shakespeariano appare segnato da smarrimento, perplessità, cecità. Il tema dell’enigmaticità e della conseguente difficoltà di lettura del mondo percorre l’intero macrotesto shakespeariano, da Bruto ad Amleto, da Macbeth a Otello, ma trova proprio nell’"Amleto" la sua espressione più profonda e problematica.
Già il "Giulio Cesare", che precede immediatamente l’"Amleto" e ha un rapporto molto stretto con esso, offre un’immagine fortissima della fragilità umana e della relatività e mutevolezza del reale, diventato qualcosa di inafferrabile, sfuggente e osservabile da mille punti di vista. Il dubbio di Bruto davanti al dramma insolubile dell’uccisione di Cesare incarna il tormento dell’uomo moderno che non sa più quale strada intraprendere al cospetto di un modo radicalmente mutato.
Nell’"Amleto" la domanda di Bruto divampa e si amplia enormemente: non solo cosa fare e come comportarsi, ma anche cosa è il bene e cosa è il male, cos’è la vita e quali sono le sue ragioni, cos’è la morte e cos’è Dio, cos’è l’uomo e quali sono i suoi rapporti con se stesso, gli altri, la vita e ciò che lo aspetta dopo di essa. Come molti altri drammi di età elisabettiana, l’"Amleto" è un remake, rifacimento di uno spettacolo precedente, e la differenza più importante tra il testo shakespeariano e il suo modello è proprio l’aggiunta al personaggio di Amleto della dimensione del pensiero, della consapevolezza, della coscienza morale, totalmente assente nel dramma e nelle altre fonti dalle quali Shakespeare ha preso ispirazione.
Amleto è emblema dell’uomo moderno consapevole della nuova, difficile realtà, «disjoint and out of frame» (indebolita e fuori di sesto), che gli si presenta quando l’ordine tradizionale scompare e impegnato nel tentativo di decifrarla e chiarirla a se stesso e agli altri anche per mezzo del teatro. Come Bruto, Amleto dibatte angosciosamente sul proprio comportamento, si pone domande continue, non dà nulla per scontato e nulla accetta dall’esterno o dall’alto, ma tutto vuole personalmente sondare, verificare, sperimentare, capire. Scrive Agostino Lombardo che il dubbio e l’interrogazione diventano così «la condizione permanente» della modernità.
Il dramma si apre con una domanda, quasi fosse una vera e propria scelta di metodo. «Essere o non essere – questa è la domanda» riflette Amleto nel celebre monologo all’inizio del terzo atto. Tutti i personaggi si pongono interrogativi che sono il corrispettivo formale dei loro dubbi e assumono a turno il ruolo di inquisitore e di informatore, nessuno ha certezze e a tutti la realtà non offre che misteri e ambiguità: gli uomini sugli spalti si chiedono il motivo del loro fare la guardia, il re e la regina si interrogano sullo strano comportamento di Amleto (che dunque è soggetto e oggetto della domanda al tempo stesso), Polonio indaga sul comportamento del figlio Laerte a Parigi e poi interroga Ofelia per sapere quali siano esattamente i rapporti tra lei e il principe Amleto. Domande particolari e allo stesso tempo universali, solo in apparenza legate a una situazione specifica, ma in realtà derivanti dalla mancanza di certezze esistenziali e metafisiche: Amleto è sì in dubbio su uno specifico atto da compiere, la vendetta, ma lo è perché della vita intera coglie il mistero, l’ambiguità, la contraddizione. Lo stesso meccanismo del teatro nel teatro, che occupa la scena centrale del dramma e svela la colpevolezza di re Claudio, è finalizzato a dare una svolta decisiva alle indagini di Amleto: il teatro è strumento privilegiato di comprensione del reale. L’opera assume quindi la forma di una serie di inchieste, indagini e contro indagini parallele su «questo groviglio mortale», come Amleto definisce, nel monologo all’inizio del terzo atto: l’intricato nodo di contraddizioni che sono la realtà e le azioni umane.
La domanda più importante fra tutte quelle che aleggiano nel dramma è forse cosa sia lo spettro che appare a mezzanotte sugli spalti del castello di Elsinore affermando di essere il fantasma del padre di Amleto e chiedendo vendetta per il proprio assassinio. È una questione cruciale, poiché l’azione di Amleto, o meglio, la sua riluttanza ad agire, dipende proprio dalla corretta identificazione della vera natura di questo personaggio: il principe vuole una prova della colpevolezza di Claudio e non intende uccidere solo perché spinto da una misteriosa entità sovrannaturale. La natura dello spettro, però, è destinata a restare sconosciuta e indecifrabile fino alla fine e tale incertezza è forse la manifestazione più sconcertante dell’enigmaticità dell’universo in cui sono immersi i personaggi della tragedia.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    13 Settembre, 2021
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«Un vago rumore»

È con un lieve scricchiolio che inizia la fine di Casa Florio. Un lento insinuarsi di crepe appena percettibili nel cuore di una costruzione che sembra ancora solidissima, «un vago rumore» simile all'inizio lontano del rombo cupo e raggelante che precede un terremoto. Ignazio Florio Junior, figlio di un Ignazio e nipote di un Vincenzo, erede di una delle più grandi fortune del suo tempo, siede nel suo ufficio, che prima di lui ha accolto suo padre e suo nonno, e sente quei cigolii diventare sempre più forti e insistenti fino a trasformarsi in una valanga rovinosa che spazzerà via senza speranza tutta la sua ricchezza, tutta la sua vita fatta di divertimenti, amanti, sperpero e fallimentari tentativi di essere all'altezza dei suoi predecessori. Neanche questo romanzo, purtroppo, è all'altezza di quello che lo precede. Non che "I leoni di Sicilia" fosse un capolavoro, ma è una lettura più godibile e piacevole di questa, che eredita i problemi principali del primo romanzo (stile telegrafico e insignificante, scarsa caratterizzazione dei personaggi, tendenza a raccontare più che a mostrare) e in più ne aggiunge di nuovi.
"L'inverno dei leoni" paga forse uno scotto in partenza: leggere dell'ascesa dei Florio, scoprire come abbiano potuto trasformarsi da bottegai a principi della navigazione e del commercio, è più interessante e appassionante che leggere della loro caduta. Anche perché, non appena si introduce il personaggio di Ignazio Junior, si capisce immediatamente come andranno le cose. Rispetto al volume precedente si ha una cura maggiore del contesto storico-sociale ed è chiaro che l’autrice ha condotto un lavoro di ricerca notevole sulle vicende dei Florio, gli affari, le questioni private, le persone che hanno frequentato, i luoghi che hanno visitato, le case che hanno abitato, perfino i gioielli che hanno posseduto e le strade di Palermo che hanno percorso. Tutto questo è senz’altro lodevole, ma purtroppo non è sufficiente a produrre un buon romanzo. Catturare e tenere viva l'attenzione è essenziale, soprattutto quando si scrivono così tante pagine.
E così si arriva al secondo, evidente problema di questo libro: la lunghezza eccessiva. A meno che un autore non sia Tolstoj, deve avere qualcosa di davvero importante o interessante da dire per poter scrivere ben 688 pagine. Il contenuto, poi, non migliora la situazione: lutti, mariti "sciupafemmine", tradimenti, figli morti in tenera età e tragedie varie degne di una fiction di Rai 1. Il sottotitolo di questo romanzo potrebbe essere "Anche i Florio piangono", ispirato a una celebre telenovela che negli anni 80-90 spopolava tra le nonne italiane. Insomma, è un vero polpettone e per giunta prolisso fino all'inverosimile, infarcito di dettagli perlopiù superflui e ripetitivi dei quali si potrebbe fare a meno senza problemi. Lo stile, sebbene molto semplice e adatto alla capacità di lettura di chiunque, non riesce a essere scorrevole, anzi: questo libro è una sorta di enorme matassa sulla quale si inciampa continuamente, una lettura di una pesantezza e di una lentezza assolute che si trascina una pagina dopo l'altra senza alcun piacere solo per arrivare alla conclusione e tirare un respiro di sollievo perché si è scalata la montagna. "L'inverno dei leoni" è una (fin troppo) minuziosa cronaca degli eventi privati e pubblici che colpiscono la famiglia Florio, del tutto priva di quel gusto del racconto che dovrebbe distinguere un saggio da un romanzo.
Molti eventi potenzialmente interessanti, poi, non sono mostrati, ma raccontati. Ad esempio, la liaison francese di Ignazio: si sprecano moltissime parole e altrettanti sospiri per ribadire quanto la perdita della ragazza che amava, sacrificio compiuto nel nome di Casa Florio, sia stata dolorosa per lui, su quanto senta la mancanza di lei e su quanto sia stato felice quando erano insieme. Di tutto questo, però, noi non vediamo nulla, abbiamo solo un resoconto a posteriori. Di conseguenza, è una vicenda che non prende vita, non emoziona e non coinvolge, ma resta inerte sulla carta. In poche parole, Stefania Auci dovrebbe decisamente lavorare sullo "show, don't tell".
Il primo libro della dilogia può essere una proposta valida per chi vuole leggere un romanzo storico discreto, senza doversi impegnare troppo e senza scossoni di nessun genere. Il secondo si potrebbe tranquillamente saltare, ma è chiaro che chi ha letto e apprezzato "I leoni di Sicilia" sarà propenso a leggere anche "L'inverno dei leoni". In tal caso, che la pazienza sia con voi.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    28 Agosto, 2021
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Il peso delle ali

Alina è fuggita da Ravka, al di là del Mare Vero. Insieme a lei c’è Mal, l'amico del quale è innamorata da quando era bambina, e al collo porta l'amplificatore realizzato con le ossa del cervo che l'Oscuro l'ha costretta a indossare e di cui non può liberarsi. Nascosta nell'ombra, senza più utilizzare il suo potere, con una nuova identità e una vita che ha troncato quasi ogni legame con il passato, spera di sottrarsi all'Oscuro e al suo piano di dominio del mondo. Eppure Alina non ha portato con sé, nella fuga, soltanto Mal e la collana del cervo. Quel passato che cerca a ogni costo di lasciarsi alle spalle ha tracciato dentro di lei un segno difficile da cancellare e inciso nel profondo, a un livello che neppure il fedele Mal può raggiungere e capire. Fino a quel punto, a vedere così in profondità dentro Alina, è arrivato soltanto l'Oscuro, l'unica persona al mondo che possa capire lei, il suo potere, la brama di luce che la tormenta, e al tempo stesso, paradossalmente, colui dal quale Alina deve fuggire se vuole restare libera e non lasciarsi soggiogare.
Ma forse Alina libera non lo è stata mai e mai più potrà esserlo, soprattutto da quando ha scoperto cosa il suo potere è in grado di fare e ha sentito nascere dentro di sé un bisogno crescente e spaventoso di averne sempre di più. Forse, senza nemmeno rendersene conto, ha già imboccato una strada dalla quale non si torna indietro, quella più difficile di tutte: non la fuga, ma tornare indietro e affrontare il destino. «L'uccello avverte il peso delle sue ali?», le ha chiesto una volta Baghra in sogno. Costretta ad addossarsi la responsabilità della salvezza di Ravka, a compiere scelte difficili, addirittura a trasformarsi in qualcosa che non desidera diventare né riesce a comprendere, Alina avverte ormai tutto il peso delle ali che il suo potere le ha dato.
Di solito i secondi volumi delle trilogie soffrono di una specie di "maledizione": spesso infatti sono una preparazione al gran finale, uno step intermedio tra l'inizio dell'avventura, nel primo libro, e l'attesa conclusione, nel terzo, e quindi il loro contenuto non riesce a essere esaltante. "Assedio e tempesta" non fa eccezione a questa regola o almeno non del tutto. Gli eventi davvero significativi per lo sviluppo della trama si concentrano nella parte iniziale e in quella finale, mentre la parte centrale è dedicata per lo più alla preparazione dello scontro con l'Oscuro e allo sviluppo di personaggi e relazioni. Questo penalizza il romanzo o rende la lettura meno piacevole? Assolutamente no e la differenza rispetto ad altre trilogie sta tutta qui. Punto di forza di "Assedio e tempesta", come già del primo libro, è la scrittura della Bardugo, che riesce a essere coinvolgente, evocativa, curata e descrittiva, ma al tempo stesso essenziale, pulita e concisa, senza mai perdersi in chiacchiere superflue o ghirigori stilistici. Quello che si racconta non è tanto importante quando lo si sta raccontando bene.
Anche il contenuto, però, non è affatto superfluo come potrebbe sembrare: nei capitoli centrali del volume si assiste a un approfondimento dei personaggi già noti, come Alina e Mal, e si va alla (meravigliosa) scoperta di quelli nuovi. Uno degli aspetti più vincenti della scrittura della Bardugo è che i personaggi sono così ben costruiti e ricchi di sfaccettature che non si può prendersela comoda nel giudicarli. Succede sempre qualcosa, a un certo punto, che spinge a ribaltare o comunque modificare la propria opinione su di loro, basti pensare alle scelte di Genia, al cambiamento di Zoya o a quello lentissimo, quasi impercettibile e al tempo stesso evidente, di Alina, che subisce sempre più il fascino pericoloso del potere.
Le riflessioni più significative riguardano forse il personaggio di Mal. Lui è un ragazzo come tanti, un orfano terrorizzato alla prospettiva di perdere la sua migliore amica, l'unica persona alla quale sia mai stato legato. Impara a "vederla davvero" solo quando gli viene portata via per trasformarsi in qualcosa che lui non capisce e che lo spaventa, scopre di provare un sentimento che gli era sempre rimasto celato e nel nome di questo sentimento sfida se stesso, le sue paure e i suoi limiti per restare al suo fianco. Ama Alina, ma non riesce ad accettare fino in fondo cosa è diventata. Darebbe la vita per lei, ma la teme. Vuole lasciarla libera, ma non vuole perderla. Ha paura che Alina sia troppo per stare con un semplice soldato, ma nel profondo vorrebbe che tornasse la ragazzina che aveva sempre bisogno di lui. Mal è una mescolanza perfetta di positivo e negativo e proprio questo lo rende uno dei personaggi più complessi, interessanti e soprattutto umani della saga.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    13 Agosto, 2021
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«Un mucchietto di polvere»

Esistono romanzi così profondi, complessi, ricchi e stratificati che per quanto si possa leggerli e rileggerli attentamente si ha sempre la netta sensazione di non riuscire a comprenderli fino in fondo. Le sfumature, i dettagli, i livelli di lettura sono così tanti e così sottili da lasciare quasi disorientati. E se già capire davvero un libro del genere è una faccenda complicata, scriverne una recensione, poi, è ancora più difficile. "Il Gattopardo" di Tomasi di Lampedusa è indubbiamente una di queste opere.
Si può dire che "Il Gattopardo" racconta la decadenza della nobiltà borbonica attraverso le vicende dei principi Salina: la famiglia aristocratica protagonista della vicenda riesce infatti a conservare intatti il prestigio e i privilegi all'indomani del 1861, ma al contempo vede i patrimoni disperdersi e gli immensi feudi disgregarsi un giorno dopo l'altro, come una zolla di terra stritolata in un pugno, davanti alla spinta incalzante di una modernità che i sonnolenti aristocratici del Sud non riescono a capire né a seguire.
Si può dire che racconta la delicata fase di passaggio dal Regno delle due Sicilie all'Unità d'Italia e, allo stesso tempo, l'ultima fase della parabola esistenziale del principe Fabrizio, quasi uno specchio che riflette il tramonto del mondo borbonico e ne condensa il significato essenziale. A questi temi fondamentali si ricollega il senso di morte e di decadenza che abbraccia entrambe le vicende, quella di Fabrizio e quella della vecchia nobiltà giunta al termine del proprio ciclo vitale e costretta a mutare forma per sopravvivere. Il profumo dolciastro del disfacimento, tanto nauseante quanto seducente, sembra giungere a Tomasi di Lampedusa direttamente dalla temperie decadente ottocentesca, permea il racconto e trova l’incarnazione perfetta nell’amatissimo cane del principe Fabrizio, Bendicò. «Fai attenzione», scrive l’autore in una lettera a un amico, «il cane Bendicò è un personaggio importantissimo ed è quasi la chiave del romanzo». Così importante da finire ridotto a «un mucchietto di polvere», come tutto il resto, il corpo stesso del principe, lo splendente Tancredi o le reliquie gelosamente custodite dalle vecchie principesse.
O ancora, protagonista del racconto è il necessario compromesso tra il vecchio e il nuovo: quest'ultimo viene sì accolto, perché bisogna farlo, perché altrimenti calerà come una scure spietata sulla testa di chi lo rifiuterà, ma per indirizzarlo nella direzione giusta, che tutto sommato non è poi tanto diversa da quella precedente. E il latte dal sapore dolcissimo della sopravvivenza aiuta a mandare giù anche i bocconi più amari, come un matrimonio molto al di sotto della propria classe sociale o la protezione e l'amicizia di soggetti che nel mondo di prima non si sarebbero mai potuti neanche avvicinarsi ai Salina.
"Il Gattopardo", insieme ad altre opere come "I Vicerè" di Federico De Roberto, segna la nascita di un nuovo modo di rappresentare la storia nel romanzo: essa non è più finalizzata al progresso e alla felicità dell'uomo, secondo la concezione ottimistica tipicamente ottocentesca, al compimento delle "magnifiche sorti e progressive", ma è una macchina spietata, insensata, che travolge gli uomini e i destini privati e non fa che portare nuove sofferenze, nuove ingiustizie, nuove tragedie.
Quale di queste interpretazioni è quella principale? Tutte, e nessuna. Tutte sono essenziali, ciascuna svela una prospettiva fondamentale del racconto, ma non può fare a meno delle altre, nessuna è in grado di abbracciare l'opera nella sua interezza e svelarne ogni segreto. Capire davvero, fino in fondo, un romanzo del genere è impossibile. Ci sarà sempre qualcosa che sfugge. Tutto quello che si può fare è abbandonarsi al piacere di una scrittura straordinaria, capace di indagare le pieghe più minute dell'animo umano con un'acutezza, una lucidità e una dolorosa compassione che hanno pochissimi uguali in letteratura.
Forse l’unica, possibile interpretazione globale si intravede nel cane Bendicò, che, come afferma l’autore, è «quasi la chiave del romanzo» ("quasi", appunto, perché neppure questa possibilità di lettura può dare il senso pieno del romanzo senza le altre): tutto passa, tutto cambia, tutto muore o si trasforma. Di tutto ciò che gli uomini desiderano e amano e aspettano e tramano per ottenere, alla fine, non rimane nulla. L'amore, il potere, la guerra, il denaro, la gloria. Tutto, perfino le illusioni, finisce così, in un misero «mucchietto di polvere», proprio come il povero Bendicò. La vita sembra non avere un senso ultimo. Eppure, se anche si accettasse questa amara consapevolezza, in fondo che cosa cambia? La vita umana sarà pure una corsa affannata verso il nulla, ma cos'altro potremmo fare se non viverla?

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Cathy Opinione inserita da Cathy    23 Luglio, 2021
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Tempesta di confusione

Recita un vecchio luogo comune che più si sale in alto e più un'eventuale caduta rischia di essere rovinosa. Nulla di più vero nel caso in esame. La saga dell'Attraversaspecchi era iniziata bene, anzi, molto bene, e sembrava ci fossero tutte le premesse per una storia indimenticabile. Magari non ai livelli di saghe ormai "storiche", come "Harry Potter", ma aveva tutte le carte in regole per occupare un posto di tutto rispetto nel panorama del fantasy contemporaneo. Purtroppo già il terzo volume aveva iniziato a mostrare qualche cedimento per quanto riguarda la trama, la struttura, la caratterizzazione dei personaggi, ma credevo che fosse solo un inciampo lungo il percorso e confidavo che l'autrice si sarebbe brillantemente ripresa per il gran finale. "Echi in tempesta", invece, si rivela un deragliamento completo. Non si salva nulla. La recensione sarà del tutto priva di spoiler, semplicemente perché non ho capito nulla della trama e quindi svelare qualsiasi dettaglio sarebbe quasi impossibile. Un po' come in un brutto sogno, si succedono una dopo l'altra, a gran velocità, una serie di scene surreali, sconnesse, delle quali capire il senso e lo scopo nella storia è un'impresa non indifferente. Le due o tre idee di base che sono riuscita a comprendere non erano neanche male, anzi, avrebbero potuto essere molto interessanti. Peccato che la Dabos abbia dimenticato come si scrive. Come hanno potuto pensare, lei e il suo editor, di mandare in stampa questa roba, che definire "libro" è un insulto ai libri veri? Devono aver pensato che tanto i lettori lo avrebbero acquistato comunque, anche se fosse stato la peggior ciofeca della storia letteraria, perché dopo aver letto tre libri di una saga che fai, ti fermi sul più bello e non scopri come va a finire? E quindi non vale la pena di lavorare per dare ai fan un finale decente, basta pubblicare questa cosa assurda, incomprensibile, scritta da schifo, e intascare. Mi dispiace dover pensare questo di una scrittrice per la quale avevo tanta stima, ma in quale altro modo si può spiegare "Echi in tempesta"?
Neppure la storia d'amore tra Ofelia e Thorn ha uno sviluppo e una conclusione decenti e anche da questo punto di vista i problemi sono evidenti già nel terzo libro. I due personaggi hanno sempre mostrato, fin dal principio, evidenti problemi personali sia nel rapporto con se stessi sia nel modo di relazionarsi con gli altri e sarebbe stato interessante esplorare questi aspetti in profondità, assistere a un'evoluzione, vederli crescere e migliorare una pagina dopo l'altra. Purtroppo quello che vediamo è che quasi di punto in bianco diventano una coppia vera, non più unita soltanto da un matrimonio combinato, e si scoprono innamorati, ma non compiono nessun percorso come coppia. Tra i due Ofelia è l'unica che mostra un cambiamento personale, diventando più forte, autonoma, decisa rispetto all'inizio della saga, ma le ragioni profonde delle sue difficoltà, dei timori e dei blocchi psicologici che l'hanno tenuta lontana da Thorn per tanto tempo non sono mai indagate.
A essere del tutto onesta, questo libro avrebbe meritato una valutazione anche più bassa. Si salva per il bel ricordo lasciato dalla lettura dei primi due romanzi della saga e in parte del terzo.

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Consigliato solo a chi ha letto i libri precedenti della saga e vuole sapere come va a finire. Ammesso che riesca a capirci qualcosa.
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Cathy Opinione inserita da Cathy    30 Giugno, 2021
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Una fiaba russa

Petrùša, figlio di un nobile che ha servito come maggiore nell'esercito, viene arruolato ancor prima della nascita. La sua infanzia e la prima adolescenza si svolgono allegre e spensierate, nell'ansiosa attesa del momento in cui finalmente andrà a Pietroburgo per entrare nella Guardia reale, un corpo specializzato nella protezione dello zar e della sua famiglia. Nulla di troppo impegnativo, quindi, solo il fascino della divisa e la piacevole vita mondana della capitale. Quando Petrùša compie sedici anni, però, suo padre decide invece di destinarlo alla sperduta fortezza di Belogórskaja, ai confini delle steppe cosacche, affinché la durezza della vera vita militare faccia di lui un uomo. Il giovane Petrùša, che è ancora poco più che un bambino, si ritrova così nel bel mezzo della rivolta del cosacchi di Pugacëv, che tenta di rovesciare la zarina Caterina II e impadronirsi del trono, sperimenta la guerra, l'amore, il tradimento, l'appassionata difesa dell'onore e perfino, al di là di ogni previsione, la labilitá delle categorie che dividono gli uomini tra buoni e cattivi, amici e nemici.
"La figlia del capitano", romanzo storico composto nel 1836, è una delle pochissime opere letterarie in prosa di Puškin. L'autore è una sorta di padre fondatore della letteratura russa e questo breve romanzo è considerato uno dei suoi capisaldi. Eppure questo è uno di quei casi in cui, giunti al termine della lettura, ci si ritrova un po' perplessi a chiedersi il perché. Certo, non è un brutto libro, anzi. Quella di Petrùša e Màša, la "figlia del capitano", è una storia che ha il sapore di una favola. C'è l'eroe positivo senza macchia, ma con una buona dose di realismo e praticità, e se all'inizio sogna la gloria dell'uniforme, è consapevole che sacrificarsi è «una spacconata inutile» e alla fine è felice di tornare a casa. C'è la fanciulla pura, ingenua e innamorata persa dell'eroe. C'è il perfido oppositore (che non è Pugacëv, al contrario di quello che ci si potrebbe aspettare) e gli aiutanti dell'eroe, alcuni dei quali decisamente insospettabili. I personaggi hanno quasi tutti un qualcosa che li fa restare impressi: "la capitana", moglie del capitano della fortezza di Belogórskaja, che comanda al posto d marito, o Savél’ic, cocchiere di Petrùša e suo comico e fedelissimo servitore, o lo stesso Pugacëv, con il suo curioso miscuglio di ferocia e compassione, sono indimenticabili. E indimenticabile è l'atmosfera russa che trasuda dalle pagine e avvolge completamente il lettore: il mondo contadino della Russia del Settecento è vivo, pulsante, come un antico ritratto a olio.
Purtroppo, forse anche a causa della brevità del testo, si ha l'impressione che una certa superficialità aleggi su tutto. I personaggi sono caratterizzati in modo efficace, ma piuttosto piatti e privi di profondità e l'unico che fa un po' eccezione è Petrùša. I temi del romanzo (le rivolte sociali, il significato dell'onore, la crescita di un individuo che passa dall'infanzia alla piena giovinezza, la questione del doppio incarnata dalla contrapposizione tra Petrùša e Švàbrin) sono interessanti, ma affrontati senza un autentico approfondimento, risolti in modo rapido, semplicistico, o grazie a un intervento dall'alto. In alcuni passaggi tutto accade talmente in fretta che quasi si perde il nesso tra un evento e l'altro. Forse con un centinaio di pagine in più, per approfondire problemi e personaggi e dare alla narrazione i tempi di cui aveva bisogno, "La figlia del capitano" sarebbe stato davvero quel grande classico celebrato dai manuali. L'impressione finale è che sia solo un buon romanzo, una lettura piacevole, romantica e avventurosa, assolutamente consigliata a chi ama le atmosfere russe, ma nulla di più.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    19 Giugno, 2021
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«Dal simile al simile»

La nuova frontiera del fantasy, stando alle uscite più recenti e di maggior successo, sembra essere non tanto creare una storia nuovissima o molto originale. Nella maggior parte dei casi le trame non sono tanto diverse l’una dall’altra: una serie di regni in guerra tra loro o minacciati da un cattivo o da un pericolo di vario genere e l'eroina o eroe della situazione chiamato a salvare il mondo in virtù della sua discendenza, dei suoi poteri particolari, delle sue capacità o qualcosa del genere. Su questo schema di base possono innestarsi infinite varianti e non è affatto detto che queste storie finiscano con l'essere noiose o tutte uguali, ma in sostanza non ci si allontana mai troppo da questo scheletro narrativo. D'altronde, non si può negare che ormai è già stato detto, se non tutto, almeno quasi tutto e inventare una trama completamente, totalmente originale diventa sempre più difficile.
L'aspetto sul quale gli autori sembrano concentrarsi maggiormente è invece l'ambientazione, il setting in cui si colloca la storia, che sempre più spesso si basa su epoche storiche, paesi o contesti culturali reali, autentici, sui quali si innesta un sistema magico, con maghi e streghe, creature fantastiche, miti completamente inventati, incantesimi e compagnia. "La città di ottone", uscito nel 2017, è ambientato in Egitto nei primi anni dell'Ottocento, "La stirpe della gru" (2019) nella Cina medievale, mentre "La grazia dei re" (2015) preferisce l'Oriente dell'età moderna e "La guerra dei papaveri" (2018) è ispirato alla seconda guerra sino-giapponese.
"Tenebre e ossa", primo capitolo di una trilogia, esce nel 2012, quando la narrativa fantasy è ancora dominata dall'urban fantasy (soprattutto dai romanzi in stile "Twilight") e affiancata dalla distopia, come "Hunger games", il genere forse di maggior successo in quel periodo. "Tenebre e ossa" fa qualcosa di diverso e diventa un vero e proprio apripista per le tendenze future: il Grishaverse creato da Leigh Bardugo è ispirato alla Russia zarista dell'Ottocento, un'ambientazione già di per sé originale e piena di fascino che l'autrice arricchisce con un sistema magico molto interessante e ben sviluppato.
Nelle sue linee generali la trama non è poi tanto diversa da tante altre: Alina Starkov è la solita ragazza qualunque, abituata a passare inosservata perfino agli occhi del ragazzo di cui è innamorata da quando era bambina, fino al momento in cui scopre di possedere un potere unico, eccezionale, che forse può salvare Ravka, il suo paese, dall'annientamento. Il contesto, però, è originale e soprattutto molto ben costruito. Il world building è forse l'aspetto più importante quando si giudica un romanzo fantasy, ma non è affatto scontato che sia il più curato. Il Grishaverse ha tutto il fascino dell'impero russo ottocentesco e in più è articolato in un sistema magico strutturato e dettagliato, dotato di regole precise e complesse, gerarchie, miti, leggende, addirittura santi. Lo stesso territorio di Ravka non è soltanto un nome, ma ha le sue città, i suoi costumi, la sua cultura, ed è un vero e proprio specchio fantasy del mondo russo. Leggendo Tenebre e ossa si entra letteralmente in un mondo vivo, pulsante, dal quale non si vorrebbe mai uscire.
La figura centrale dell'universo magico di Ravka è il Grisha, un essere che definire mago o strega sarebbe riduttivo e sbagliato, perché non agita bacchette e non fa incantesimi, ma sfrutta la capacità di evocare a sé e manipolare gli elementi della natura (il vento, l'acqua, il fuoco, l'oscurità, la luce e così via). Il grisha dunque non può "creare", e anzi la creazione dal nulla è severamente proibita a chi pratica la Piccola Scienza (così si definiscono le pratiche Grisha), ma può solo chiamare a sé ciò che già esiste nella natura e sfruttarlo o manipolarlo. Ne deriva un sistema magico non soltanto originale e affascinante, ma anche sobrio, pulito, elegante, privo di quegli eccessi che a volte possono risultare infantili o un po’ ridicoli.
È questo il mondo nel quale Alina è praticamente costretta a entrare dopo aver scoperto quasi per caso di possedere un dono che può ribaltare le sorti del suo paese. La sua vita cambia completamente, inizia a studiare per imparare a controllare e indirizzare il suo potere, ma soprattutto entra in stretto contatto con l'Oscuro, il Grisha più potente di Ravka e comandante dell'esercito dei Grisha. L'Oscuro è un personaggio difficile da definire se non come un insieme di spinte contrastanti: luce e ombra, passione e dovere, protettività e ferocia, cuore e mente, orgoglio di essere al di sopra di chiunque altro e bisogno di sconfiggere la solitudine che ne deriva. Una figura in apparenza lontanissima da Alina, la povera orfana senza nulla al mondo se non il suo amico Mal, e dalla vita che lei ha condotto fino ad allora, ma forse molto più vicina a lei e ai suoi desideri, nel profondo, di quanto Alina stessa possa immaginare. «Dal simile al simile», recita uno dei principi di base della Piccola Scienza e in un certo senso descrive anche la parabola compiuta dalla protagonista, che torna al mondo al quale appartiene di diritto, quello dei Grisha. Senza mai sfociare nel romance o in un banale triangolo sentimentale, Bardugo chiama in causa qualcosa di molto più potente dell'amore sentimentale: la natura umana più profonda e imperscrutabile, che ci chiama verso ciò che più le somiglia e che Alina dovrà imparare a conoscere se vuole una possibilità di salvare non soltanto Ravka, ma anche se stessa.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    06 Giugno, 2021
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La palude

Molto spesso, nelle recensioni o nei commenti critici sui "Viceré", si legge che il capolavoro dell’autore napoletano racconta la decadenza di un’antica stirpe aristocratica, quella degli Uzeda, principi di Francalanza ed ex Viceré di Sicilia per conto dei sovrani spagnoli. Insieme alla decadenza di questa nobile famiglia, si racconta quella degli ideali e dei valori risorgimentali, destinati a tramontare nell’Italia postunitaria, soffocati dal dominio dell’interesse privato e dall’ossessione per il denaro. Nessuno potrebbe mai negare, in effetti, che la famiglia degli Uzeda, nella quale dominano i matrimoni tra consanguinei, sia drammaticamente corrotta nel sangue, nel corpo e nella mente secondo i principi naturalistici seguiti dall’autore, preda di malattie e deformità non solo fisiche, ma anche mentali. Non si salva proprio nessuno: Lucrezia è ossessionata dall’idea di sposare il giovane avvocato Giulente solo perché la sua famiglia si oppone per poi iniziare a odiarlo, mentre sua sorella Chiara prima fa fuoco e fiamme per non sposare l’uomo che le impongono, poi se ne innamora follemente, cade nell’ossessione di una gravidanza impossibile e non esita a compiere qualunque gesto pur di dare un figlio al marito. Donna Ferdinanda vive per accumulare denaro e suo fratello Ludovico in funzione della carriera ecclesiastica. E poi la vecchia principessa Teresa, ossessionata dal secondogenito Raimondo al punto da danneggiare volutamente gli altri figli pur di favorirlo, il principe Giacomo, che pensa solo a sottrarre al fratello e alle sorelle la loro eredità, il conte Raimondo, che insegue gonnelle solo per il puntiglio di sottrarsi al fastidioso vincolo matrimoniale.
Tutti sono vittime di una vanità e di un orgoglio che sconfinano nella patologia, perfino la dolce, buona, obbediente Teresina, che pur di continuare a essere lodata, apprezzata e amata da tutti, quasi come la santa di famiglia di cui porta il nome, sacrifica la sua intera esistenza ai voleri del padre. In ciascuno di loro c’è un pensiero dominante, che lo avvince completamente e finisce con il rovinargli la vita, un po’ come i personaggi di "La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo" di Laurence Sterne. Caso emblematico è quello del conte Raimondo, che solo per puntiglio dichiara guerra all’intera famiglia per poter lasciare la moglie e sposare l’amante, salvo poi stancarsi anche di lei, ritrovandosi intrappolato per la seconda volta. Tutti inseguono la loro ossessione, non la felicità, e i risultati sono a dir poco tragicomici. Solo un grande talento come De Roberto può far morire dal ridere scrivendo un romanzo dal contenuto così deprimente.
Insomma, non ci sono dubbi che il termine “decadenza” calzi a pennello. Eppure leggendo il romanzo la sensazione più forte che si ricava è che in realtà l’intento dello scrittore non sia raccontare il decadimento di una stirpe, ma una situazione che cambia solo in apparenza, all’esterno, e in sostanza resta sempre la stessa. La materia di cui sono fatti gli Uzeda è identica a quella di cui erano fatti i Viceré loro antenati, secoli prima: orgoglio, vanità, pretesa di comando e di superiorità.
Lo stesso discorso, in un certo senso, vale anche per i fatti storici e sociali rappresentati. Il cambiamento sembra essere un fatto solo ed esclusivamente esteriore: i sovrani e i regimi si succedono, ma la realtà più profonda delle cose resta sempre uguale a se stessa nei suoi tratti fondamentali. A tenere le redini del comando, infatti, sono sempre loro, gli Uzeda. Tramontato il titolo di Viceré, siedono nel Parlamento della nuova nazione unita, ma in ogni caso continuano a occupare i primissimi gradini della scala sociale.
Lo stile è asciutto, secco, quasi teatrale, fondato solo sui dialoghi e sul discorso indiretto libero, e fa emergere l'orrore, il disgusto e il ridicolo senza bisogno di "spiegare" nulla. Tutto si manifesta da sé, perfettamente, nella sua evidenza cristallina e acquistando in tal modo ancora più forza, anche grazie alle numerose simmetrie sulle quali si regge l’architettura della narrazione: tra Chiara e Lucrezia (i cui percorsi sono, passo per passo, esattamente opposti), tra Ferdinanda e Consalvo (la prima inflessibile nella fede borbonica e conservatrice, il secondo pronto a mutare bandiera senza scrupoli per la brama di potere), tra Eugenio e Consalvo (il primo incarna forse più di chiunque altro la decadenza e la fine della vecchia nobiltà borbonica, mentre il secondo ha fiutato benissimo da che parte tira il vento e sa che la via della grandezza passa per Roma e il Parlamento).
Un gioco di equilibri, come se l'autore cercasse in qualche modo di dare un "ordine" alle caotiche follie degli Uzeda. Il parallelismo che forse colpisce più di tutti è quello tra l'inizio del romanzo, con il funerale da ancien regime della vecchia principessa Teresa, e la conclusione, con il modernissimo comizio elettorale di Consalvo: due mondi opposti che sanciscono un passaggio di regime, un passaggio nel quale, però, tutto sommato non è cambiato un bel niente. "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi" dice Tancredi nel Gattopardo e ci sta a pennello.
E forse ancora oggi, in fondo, la sostanza è sempre la stessa. Nel suo discorso conclusivo agli elettori, Consalvo promette tutto e niente: libertà, ma moderazione, democrazia, ma con ordine, rispetto della religione, ma anche della ragione, rispetto delle tradizioni, ma largo al progresso... Non è poi tanto diverso da certi discorsi che si ascoltano ancora oggi. Forse ormai i discendenti dei Viceré non siedono più neanche in Parlamento, eppure si può dire che sia cambiato effettivamente qualcosa? L’impressione dominante, dunque, non è che l'Italia e con lei gli Uzeda siano decaduti da un’originaria grandezza, ma che tutto anneghi lentamente, inesorabilmente in una palude stagnante, da sempre.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    28 Mag, 2021
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Il volto di Dio

Sono trascorsi due anni e sette mesi dall'ultima volta che Ofelia ha visto Thorn, sul Polo, appena prima che lui fuggisse attraverso uno specchio per sottrarsi alla giustizia del sire Faruk. Una giustizia pilotata da Dio, che ormai non aspetta altro che liberarsi di Thorn e Ofelia, diventati due scomodi sassolini nella scarpa che intralciano i suoi piani di governo del mondo. Da allora Ofelia, tornata su Anima, non ha più ricevuto notizie di lui e si è ripiegata su se stessa, chiusa nel proprio dolore, impossibilitata ad allontanarsi dalla sua arca natia per cercare suo marito a causa della stretta sorveglianza delle Decane, alleate di Dio. Fortuna che c'è Archibald, pronto a orchestrare una fuga rocambolesca da Anima e a portarla via. Finalmente libera, Ofelia raggiunge l'arca di Babel, che, stando alle sue visioni e alle sue ricerche, è il luogo dove si nasconde il passato di Dio e degli spiriti di famiglia e forse anche il nascondiglio di Thorn, impegnato a cercare un modo per combattere Dio. Prima di poter anche solo avvicinarsi ai suoi obiettivi, però, Ofelia deve affrontare prove ancora più dure di quelle già sperimentate e questa volta si ritrova completamente sola, senza nessuno degli appoggi sui quali ha sempre potuto contare fino ad ora.
Il terzo volume della saga dell'Attraversaspecchi si rivela un romanzo difficile da giudicare. L'autrice mostra ancora una volta un'originalita e una potenza creativa non comuni nel dare vita a un nuovo universo, l'arca di Babel, e a molti nuovi personaggi che, pur non avendo una caratterizzazione psicologica particolarmente approfondita, sono tutti ben delineati e restano impressi con forza. Babel si presenta come un mondo piuttosto diverso dal Polo e da Anima, le due arche conosciute finora, un'ambientazione singolare e affascinante con il suo strano miscuglio di natura e tecnologia. Qui i signori che dominano l'arca, i Lord di Lux, e che di fatto hanno anche il pieno controllo dei due spiriti di famiglia di Babel, hanno creato una sorta di inquietante "dittatura della felicità" che punta a dar vita al "migliore dei mondi possibili" e non importa quante libertà e quante vite umane saranno calpestate pur di realizzare l'impresa. Come sempre nella saga di Christelle Dabos, niente è davvero ciò che appare e a Babel dietro la facciata di ordine, benessere e felicità si nasconde molto altro, proprio come dietro gli scopi ufficiali dei Lord di Lux si celano intenzioni segrete, legate a Dio e ai suoi poteri.
Uno dei pregi maggiori della scrittura della Dabos, poi, è la capacità di rappresentazione del diverso come qualcosa di naturale e spontaneo, che fa indissolubilmente parte della persona e, anche se non determina il suo intero modo di essere, la rende unica e speciale.
A differenza dei due romanzi precedenti, però, il terzo volume della saga non è impeccabile. Qualche nota dolente c'è, a cominciare proprio dalla descrizione del mondo di Babel: in alcuni passaggi la scrittura diventa troppo frettolosa, la descrizione si fa approssimativa e soprattutto l'autrice non torna quasi mai due volte su uno stesso elemento, dando tutto per assodato dopo averlo introdotto. La conseguenza è che alcuni aspetti di Babel, pur essendo piuttosto importanti, restano nebulosi. Di certo non si pretende che la Dabos dedichi pagine e pagine a descrizioni minuziose, ma a volte è possibile, durante la narrazione, recuperare un elemento a cui si è già fatto cenno o arricchire una descrizione o una spiegazione con qualche banale trucchetto: in questo modo il lettore può chiarirsi le idee senza che la scrittura diventi prolissa.
Un altro aspetto problematico è che la Dabos allunga il brodo, forse un po' troppo. Anche i primi due libri, in effetti, sono un po' lenti nella parte iniziale, ma non sono mai noiosi, perché anche il riempitivo riesce ad essere interessante e affascinante. Stavolta, invece, forse anche a causa di alcune descrizioni sommarie e spiegazioni poco chiare, questa tendenza diventa un problema. Il "contorno" non riesce a catturare come catturava sul Polo. Per tutto il romanzo, e si tratta di un romanzo molto corposo, gli eventi strettamente legati alla trama principale sono pochissimi. I fatti davvero significativi si condensano nelle ultimissime pagine. Trattandosi del penultimo volume della saga, il lettore si aspetta forse qualcosa di più concreto che faccia compiere un passo avanti decisivo verso la risoluzione della vicenda. Le rivelazioni ci sono, ma, pur essendo sorprendenti e interessanti come sempre, lasciano la storia in una posizione sostanzialmente statica.
Nonostante i difetti, però, "La memoria di Babel" resta una lettura piacevole e accattivante, e soprattutto è il romanzo nel quale, finalmente, conosciamo il volto di Dio. Parlando di rivelazioni, questa vi lascerà davvero a bocca aperta.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    10 Aprile, 2021
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Partita a dadi

Finalmente il dado è tratto: Ofelia ha scoperto la verità sulle ragioni del suo fidanzamento con Thorn e la sua presenza sull’arca del Polo ed è pronta a prendere il suo posto a corte, sotto la protezione del sire Faruk, in attesa che la celebrazione del matrimonio consenta al suo promesso sposo di acquisire il potere di "leggere" il libro di Faruk, vera e propria ossessione dello spirito di famiglia del Polo che nessuno, finora, è mai riuscito a soddisfare. Anche se la verità sembra significare la fine di ogni speranza di un rapporto sereno con Thorn, che le ha mentito fin dall’inizio, Ofelia è incuriosita dalla possibilità di "leggere" un oggetto tanto antico e misterioso e soprattutto ansiosa di trovare il proprio posto a corte, un posto che non si limiti a quello di “fidanzata dell’Intendente”. Per affermare se stessa e i propri talenti Ofelia è disposta a barcamenarsi fra gli intrighi, gli inganni e le illusioni della corte, ma la situazione si complica quando la ragazza inizia a ricevere lettere minatorie che tentano di allontanarla dal Polo, minacciando la sua stessa vita, e, nel frattempo, una serie di misteriose sparizioni si verificano una dopo l’altra a Chiardiluna, sede dell’ambasciata.
Il secondo volume della quadrilogia dell’Attraversaspecchi conferma pienamente tutti gli aspetti positivi già emersi durante la lettura di "Fidanzati dell’inverno": l’enigmaticità dei personaggi, che rende molto difficile, se non impossibile farsi un’idea chiara di loro e dei loro scopi fin quasi alle ultime pagine; la conseguente imprevedibilità degli eventi, che aprono strade sempre nuove e inaspettate, stimolando senza sosta l'interesse, l'attenzione e la curiosità del lettore e spingendolo a interrogarsi di continuo su ciò che legge. Si potrebbe dire che la fruizione del romanzo è tutt'altro che passiva e che si partecipa agli eventi, alle indagini, ai pericoli insieme a Ofelia nel senso più autentico e pregnante dell'espressione. Al tempo stesso, in "Gli scomparsi di Chiardiluna" iniziano a delinearsi con maggior chiarezza quelli che sembrano essere gli elementi portanti della saga della Dabos: il libero arbitrio e il rapporto tra umano e divino, temi che senza dubbio spiccano per l’originalità in un fantasy contemporaneo. Ogni uomo, afferma Thorn, avrebbe il diritto di giocarsi a dadi la propria vita e di lasciare che sia il caso, il destino o la propria abilità a plasmare il futuro. Qualcuno, però, molto tempo prima, gli ha rubato i dadi e si è arrogato il diritto di decidere al posto suo. Vale la pena di lottare per restituire i dadi all'umanità intera?
Se nel romanzo, in generale, si può dire che regni l'ambiguità, quasi una caratteristica necessaria del mondo della Dabos, c'è un personaggio fondamentale sul quale invece "Gli scomparsi di Chiardiluna" getta finalmente una luce chiarificatrice, anche se la sensazione è che non tutte le carte siano state ancora scoperte: si tratta di Thorn ed è uno squarcio che rivela tutto il fascino poetico, malinconico e un po' struggente di questo personaggio. Con la sua freddezza da ghiacciolo e l'ossessione per i numeri, la precisione e la razionalità, Thorn non è certo un tipo sentimentale e sembra, nonostante la buona volontà, scarsamente capace di provare un caldo sentimento per Ofelia o di amare qualcuno in generale. Eppure lo squarcio che qui si apre su di lui, la sua storia personale e i suoi reali obiettivi mostra che sotto la spessa coltre di ghiaccio vibra qualcosa di intenso. Sarà sufficiente a recuperare i dadi e a far innamorare Ofelia? La risposta, forse, nel prossimo volume.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    21 Marzo, 2021
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Dan Brown incontra "Shadowhunters"

Devo confessare di non avere molto da dire su questo libro dal momento che sono arrivata a pagina 200 (su ben 497) prima di arrendermi e chiuderlo definitivamente. Duecento pagine nelle quali non succede quasi nulla di rilevante o interessante, ma assistiamo solo a un gran mucchio di chiacchiere e spiegazioni farraginose e ripetitive senza mai essere chiare, mentre i personaggi girano di qua e di là senza che nemmeno loro capiscano esattamente cosa sta succedendo o cosa stanno facendo e perché. Duecento pagine che non sono sufficienti neppure a caratterizzare efficacemente i personaggi, che restano indefiniti e piatti come carte da gioco. Probabilmente sarebbe difficile trovare una protagonista più incolore di Evangeline ed è l'unico aggettivo che è possibile associarle. La trama riesce a essere banale e nebulosa al tempo stesso e quelli che, si presume, nelle intenzioni della scrittrice dovevano essere grandi colpi di scena sono inspiegabilmente sventolati sotto il naso del lettore fin dall'inizio. Che gusto c'è a leggere un romanzo quando hai già intuito, più o meno, cosa succederà? Nessuno, soprattutto se lo stile non è abbastanza piacevole o particolare da invogliare comunque alla lettura. La scrittura di Danielle Trussoni è troppo pesante, minuziosa e didascalica per un romanzo che si propone di essere un paranormal-thriller. Perfino chi apprezza i "mattoni", lo stile descrittivo e i libri ricchi di dettagli si ritrova ad ammettere che questa volta è troppo, anche perché tutto l'insieme è gestito piuttosto male.
La sensazione è che Danielle Trussoni ci abbia provato, con una buona dose di impegno e serietà, ma che abbia elaborato un progetto troppo grandioso e complesso che poi, nella pratica, non è stata in grado di gestire con efficacia. Considerando che "Angelology" è un'opera prima, forse sarebbe stato più saggio ridimensionare il tutto e puntare più in basso. Quando una persona ha appena cominciato ad allenarsi non punta subito alla maratona, giusto? Comincia a correre per un quarto d'ora, poi per mezz'ora, poi per un'ora e via via alza il livello. Forse la Trussoni ha preteso troppo da se stessa. Eppure un po' dispiace, perché si percepisce la buona volontà dell'autrice e il materiale di base non era malvagio. Sarebbe stato possibile tirarne fuori qualcosa di meglio di questo mix poco riuscito tra Dan Brown e "Shadowhunters".
Dal momento che avevo davanti a me ben quattrocento e passa pagine di questo tipo da affrontare e che c'è pure un sequel, ho preferito dare forfait. Non me la sentivo di passare le prossime settimane cercando di capire le gerarchie angeliche e di appassionarmi alle vicende di una protagonista che fa venire il latte alle ginocchia. Le buone intenzioni c'erano, peccato che non si siano tradotte in qualcosa di leggibile.
Giusto per curiosità, ho sbirciato il finale e a quel punto ho deciso definitivamente che questo romanzo non faceva per me, tra banalità di vario genere e scene da film di supereroi. So che prima di giudicare un libro sarebbe più corretto leggerlo per intero, ma credetemi, è una vera sfida.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    01 Marzo, 2021
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Parlar chiaro

All'inizio di questo romanzo il futuro imperatore Claudio racconta di una ballata, diffusa a Roma ai tempi dei primi fasti del principato, che descrive l'albero genealogico della dinastia Giulio-Claudia come un pero che produce frutti perfetti e frutti bacati, i secondi in misura nettamente maggiore rispetto ai primi. Nero Claudio Druso – o Cla-Cla-Claudio o "il povero zio Claudio", come viene "affettuosamente" definito dai suoi nipoti – è sempre stato considerato dalla famiglia uno dei frutti più bacati: zoppo, balbuziente, sordo da un orecchio, tendente ai tic nervosi, colpito nell'infanzia da numerose malattie che hanno sfigurato e danneggiato il suo corpo in ogni modo possibile, più portato per lo studio della storia che per le attività pubbliche o militari, non può certo rivaleggiare con il suo splendido fratello Germanico, l'orgoglio della famiglia, ed è costantemente oggetto di comportamenti sgradevoli che oggi sarebbero etichettati sotto la definizione "bullismo".
La sua triste situazione è però destinata a capovolgersi quando si ritrova quasi per caso a indossare la corona di alloro che ha visto poggiata sul capo di ben tre imperatori prima di lui e ad avere nelle mani il governo di uno degli imperi più grandi che siano mai esistiti. Da bravo appassionato e studioso di storia, decide allora di comporre un'autobiografia, che assume le dimensioni e le caratteristiche di una vera e propria cronaca di famiglia, a partire dalla sua nascita, e promette di "parlar chiaro", come dichiara la profezia proclamata da una Sibilla: coloro che hanno scritto prima di lui, infatti, erano costretti ad accattivarsi il favore dei suoi predecessori, tra i quali si annoverano ben due tiranni (di cui uno completamente fuori di testa); Claudio, invece, sarà libero di scrivere tutta la verità, solo la verità, niente altro che la verità e allora saranno gli altri, con le loro parole false e adulatrici, a balbettare, mentre le parole di Claudio parleranno «chiaro e con audacia» anche a distanza di secoli.
Senza dubbio si può dire che Claudio abbia tenuto fede al suo proposito e che il suo racconto sia, più che chiaro, cristallino nel tracciare un quadro terrificante e spietato della dinastia Giulio-Claudia, con i suoi personaggi inquietanti, folli, crudeli, grotteschi, e della Roma imperiale, deturpata da una corruzione senza limiti. Spiccano su tutti la terribile Livia, rappresentata come una specie di dea della morte, insensibile e spietata, capace di assassinare il proprio stesso sangue per mantenere saldo il potere, Tiberio, con la sua crudeltà fredda e calcolatrice, e Caligola, preda di una follia talmente grottesca e surreale da diventare il tiranno più spaventoso e ridicolo che sia mai esistito. Claudio giura solennemente, all'inizio del racconto, di non avere alcuna intenzione di alterare i fatti per celebrare se stesso. Dal puro e semplice racconto degli eventi, tuttavia, emerge l'evidenza della verità: che uno dei pochi frutti non bacati, in quella famiglia dissennata, in realtà è proprio lui, lo zoppo, balbuziente, impresentabile zio Claudio.
Intorno alle figure principali, poi, gravita una lunga serie di personaggi minori, tutti scolpiti alla perfezione nel modo di parlare, agire, comportarsi, dotati di pregi (ben pochi) e difetti (in gran quantità), oggetto, al pari dei protagonisti, di un'analisi psicologica minuziosissima e straordinaria: leggendo le loro parole si ha la sensazione di avvertire, ad esempio, la spacconaggine e la cupezza di Seiano, la pacata inflessibilità di Germanico, la sordida vacuità delle sorelle di Caligola, la giovanile sfrontatezza di Agrippa Postumo, l'intelligente e affettuosa ironia di Atenodoro (precettore del giovane Claudio), la dolce devozione di Cesonia (prostituta e amante di Claudio), l'orgoglio stizzoso di Tito Livio, il fermo coraggio e la nobiltà di Agrippina.
La capacità di rappresentazione efficace dei personaggi, senza perdersi in lunghe descrizioni ma facendoli semplicemente agire e parlare, è senza dubbio uno dei pregi maggiori del romanzo di Robert Graves e lo stesso Claudio, sebbene resti sullo sfondo degli eventi per la gran parte della narrazione, si rivela un personaggio divertente e multisfaccettato, ironico, acuto, intelligente e capace di sopravvivere a tutto e a tutti semplicemente passando per quello che non è, ovvero uno sciocco.
Certo, sulla veridicità del contenuto di questo romanzo ci sarebbe da discutere. Prima di iniziarne la stesura, Robert Graves traduce le "Vite dei Cesari" di Svetonio, che insieme a Tacito e a Plutarco è la fonte principale cui attinge. È risaputo che la storiografia di età classica ha trasmesso un pessimo ritratto degli imperatori Giulio-Claudii e a questa versione Graves si attiene scrupolosamente, ma è difficile stabilire quanto, in questi resoconti sulle personalità di Tiberio e di Caligola, ci sia di vero e quanto sia solo un eccesso nato dalla volontà, da parte degli storici di classe senatoria, di gettare discredito sui tiranni che hanno privato il Senato del suo ruolo autentico e originario, riducendolo a semplice cassa di risonanza della volontà dei Cesari.
Eppure, se anche nel romanzo di Graves non ci fosse neanche un briciolo di verità, cosa importerebbe? Un romanziere non è uno storico e lo stesso Graves sottolinea l'importanza della veridicità nelle opere storiografiche attraverso la discussione tra Atenodoro e Tito Livio. Nelle opere storiografiche, appunto, non nei romanzi, che hanno il privilegio di poter anche inventare di sana pianta. Resta in ogni caso il piacere di una lettura divertente, curata, ricca di uno humor sottile dal sapore molto british (Graves, dopotutto, è inglese) che riesce a far scoppiare a ridere di gusto anche nel bel mezzo delle manovre delle legioni di Germanico sul Reno. Dopo una seria riflessione, ad esempio, Claudio afferma di aver stabilito che non si preoccuperà in alcun modo del destino della sua autobiografia, perché sono molto più numerose le opere che si salvano per caso di quelle che si salvano per intenzione: se si pensa che l'imperatore Claudio (quello vero) scrisse effettivamente un'opera che raccontava la sua vita e i primi decenni dell'impero e che essa è andata perduta, come tutte le opere da lui composte, è evidente che la gustosa, talvolta amara ironia del racconto colpisce anche l'opera stessa.
"Io, Claudio" è un long-seller pietra miliare del romanzo storico, imperdibile per gli appassionati di questo genere letterario e soprattutto di storia romana. Non si può che dare ragione alla profezia della Sibilla: Claudio parla chiaro, anzi, chiarissimo.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    15 Febbraio, 2021
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Il mondo di Mirandolina

Composta nel 1753, considerata all’unanimità uno dei capolavori di Goldoni, "La locandiera" deve buona parte del successo e del fascino intatti ancora oggi alla sua protagonista, “la locandiera”, appunto, la seducente, vivace, civettuola, intelligente Mirandolina, frizzante e brillante come la commedia stessa. Se la locanda fiorentina che fa da sfondo all’intreccio è una sorta di microcosmo chiuso, lei ne è la stella centrale, il sole splendente che abbaglia tutti e tutti attrae a sé con le dolci promesse delle sue moine, corteggiata, ambita e desiderata da tutti i frequentatori della locanda. Intorno a lei gravitano il marchese di Forlipopoli, nobile spiantato e vanaglorioso che non ha il becco di un quattrino e si pregia di offrirle solo la sua protezione, il conte di Almafiorita, un arricchito che rimedia alla mancanza di lignaggio dispensando doni ricchi e vistosi, e infine l’umile cameriere Fabrizio, che il padre di Mirandolina ha scelto come futuro sposo della figlia prima di morire e che la donna si diverte a tenere sulla corda per garantirsi il suo aiuto e la sua fedeltà.
A differenza di come potrebbe sembrare, però, la nostra locandiera non è una sciocca, vanitosa civetta, ma una giovane donna in gamba, capace di attirare i suoi corteggiatori-clienti e di destreggiarsi tra loro con un’abilità pari a quella che mostra nella gestione degli affari. Senza preferire nessuno di loro in particolare, si assicura da ciascuno il massimo che può dare: regali dal conte, complimenti dal marchese, aiuto e collaborazione dal fedele Fabrizio.
Tutto cambia quando alla locanda arriva il cavaliere di Ripafratta, misogino senza speranza che ha giurato odio eterno al genere femminile e la tratta con freddezza e disprezzo. Basta poco perché Mirandolina decida di sfoderare le sue arti seduttive, farlo innamorare di sé e vendicarsi a nome di tutte le donne. Inizia così un gioco di puro divertimento per il lettore fatto di fraintendimenti, sospiri, svenimenti e sguardi languidi, fino a quando la donna, spaventata dalle possibili conseguenze per la sua reputazione, il suo onore e i suoi affari, capisce di essersi spinta troppo oltre e corre a cercare rifugio tra le braccia del suo pari Fabrizio. La commedia termina ristabilendo l'ordine e i valori che hanno sempre un ruolo fondamentale nel teatro goldoniano e che se nel gioco la Locandiera ha finto di voler trasgredire, nel concreto rispetta scrupolosamente.
Goldoni è un gran conoscitore ed estimatore delle donne, delle quali celebra le qualità morali e intellettuali e difende con forza il diritto alla libertà, al rispetto, all'istruzione. Mirandolina non è che il culmine di una lunga serie di protagoniste - per lo più servette, castalde e donne di governo - intelligenti, affascinanti, scaltre, abili nel portare avanti i loro progetti, intellettualmente lucide e spesso superiori ai personaggi maschili sotto molti punti di vista, capaci di sottometterli con la forza della mente e della parola, ma la morale goldoniana resta ben salda fino alla fine e si rivela più tradizionalista del previsto: una serva non può sposare un nobile, ogni donna ha bisogno di un marito e sposerà qualcuno che appartiene al suo stesso status sociale.
Un estimatore della donne, quindi, con i loro pregi e i loro difetti. Ed è proprio nella rappresentazione dei “vizi femminili” che Goldoni dà il meglio di sé. Sarà per questo che Mirandolina, vanitosa e ingannatrice, seduce il lettore come conquista il cavaliere e non può proprio fare a meno di essere amata, anche solo per la luce viva e brillante che getta sulla scena (o sulla pagina). La locanda, in fondo, non è altro che questo: una scena nella scena dove regna il teatro nel teatro. Tutti recitano: l’accorta Mirandolina per conquistare il cuore del cavaliere, le due comiche Ortensia e Dejanira per accattivarsi il favore degli avventori, il marchese, perfetta caricatura del nobile decaduto, ma borioso. Un mondo senza scrupoli e senza morale retto solo dalle convenzioni sociali, straordinariamente simile al mondo dell’autore, che egli ambisce a rappresentare, eppure così divertente e ben costruito che si vorrebbe non doverlo lasciare mai.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    21 Gennaio, 2021
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Bello, ma non brilla

Raccontare la Sicilia dell'800 dopo Giovanni Verga, Federico De Roberto, Tomasi di Lampedusa, è un'impresa azzardata che richiede una certa dose di coraggio o forse di inconsapevolezza. Il rischio di scimmiottare livelli irraggiungibili è altissimo. Ciò nonostante, del tutto inaspettatamente, il risultato ottenuto da Stefania Auci non è malaccio.
Le ragioni del grande successo dei "Leoni di Sicilia", ancora tra i libri più venduti in Italia a quasi due anni dalla pubblicazione, non sono difficili da indovinare. È una saga familiare, e si sa che le storie di famiglia piacciono sempre. È un romanzo storico, e si sa che il passato ha sempre il suo fascino, ma non è pesante: la storia, quella con la S maiuscola, resta sullo sfondo e in primo piano campeggiano i destini privati dei personaggi. In questi tempi di crisi, poi, leggere di una famiglia italiana, addirittura meridionale, che fonda un impero commerciale capace di affermarsi in Europa ha un certo valore consolatorio. I bei tempi che furono, chissà, possono sempre tornare. Visto che quando gli italiani ci si mettono sono migliori di tutti gli altri?
Anche lo stile certamente aiuta, semplicissimo, scorrevole, quasi elementare, adatto anche alle capacità di lettura di chi apre al massimo due libri all'anno, uno a Natale e uno sotto l'ombrellone.
Insomma, i motivi per cui "I leoni di Sicilia" è stato ed è ancora un enorme successo di pubblico e critica giunto alla ristampa nel giro di un anno sono evidenti, ma bastano a qualificarlo come un buon romanzo? Perché le due cose non necessariamente sono collegate.
Qualche perplessità c'è, a partire proprio dallo stile: leggero e scorrevole, sì, ma forse anche troppo, al punto da essere quasi telegrafico. Molti passaggi risultano frettolosi, abbozzati, come se l'autrice avesse timore di spendere troppe parole e annoiare il lettore, e talvolta il nesso tra due momenti o due episodi che si susseguono non è di comprensione immediata. La narrazione sembra impostata per scene, con tagli, stacchi e prospettive che evocano moltissimo gli episodi di una serie tv, come se il romanzo fosse stato scritto pensando a una trasposizione televisiva (che infatti è stata decisa già da tempo). Lo stile telegrafico-televisivo è abbastanza diffuso nella narrativa contemporanea, ma la ricchezza del racconto certamente ne risente. Un romanzo e una serie tv sono due forme d'arte ben diverse: perché privare una delle due della sua specificità per omologarla all'altra? Per rendere la lettura più semplice e accattivante, se non addirittura elementare?
Le descrizioni sono del tutto assenti (una grossa pecca in un romanzo storico, che dovrebbe innanzitutto saper ricreare l'atmosfera di un tempo lontano). Spesso ho avuto la sensazione che i personaggi si muovessero su un fondale bianco, senza un contorno vivido a fare da supporto. La Sicilia dell'800 potrebbe essere uno sfondo vivissimo, ma se non fosse stato per altre letture o film ambientati in quei luoghi e in quel periodo avrei potuto visualizzare ben poco intorno ai protagonisti. Lo stesso problema torna con i personaggi secondari, che siano amici o nemici dei Florio, privi di una vera caratterizzazione (addirittura tendevo spesso a confonderli o a dimenticarne l'esistenza): Ingham e Giachery, pur essendo molto presenti, sono poco più che nomi. In particolar modo la mancanza di personaggi negativi forti, che abbiano la loro storia, le loro caratteristiche e prendano vita dalla carta, si avverte con forza: ai Florio, di fatto, non esiste un contrappeso se non una lunga sfilata di nobili (che li disprezzano in quanto arricchiti) e commercianti (che li odiano perché invidiosi della ricchezza e del potere che hanno raggiunto), tutti ugualmente oscuri e quasi intercambiabili. Per giunta, a volte i personaggi secondari sono messi bruscamente da parte e scompaiono nel nulla, come Vittoria.
Le figure principali, invece, hanno una buona caratterizzazione e, pur non essendo particolarmente profonde, hanno qualcosa che resta impressa nella mente, come la dolce tenacia di Giulia o la ferrea determinazione di Vincenzo o l'amore paziente di Ignazio senior. I più riusciti, i più complessi e sfumati sono senz'altro Vincenzo e Giulia: su di loro si concentra la maggior parte del racconto e dispiace separarsene, alla fine.
Proprio nella rappresentazione dei Florio sta forse il maggior pregio di questo romanzo, aver scampato il rischio di farne degli eroi senza macchia, improbabili santini con cui il lettore è chiamato sempre e comunque a simpatizzare. Stare dalla loro parte è facile quando si tratta di lanciarsi in qualche azzardata innovazione che apre al futuro, inaugurando una nuova era dei commerci, o lottare contro aristocratici spocchiosi e mercanti invidiosi per farsi strada. In tutti gli altri casi non è affatto scontato. Da questo punto di vista, il personaggio migliore è proprio Vincenzo, con i suoi comportamenti (soprattutto verso Giulia e le figlie) spesso biasimevoli, ma realistici, adeguati a un uomo di quel tempo, di quella classe sociale, con quelle ambizioni e quella personalità.
Il risultato complessivo è un romanzo di buon livello, piacevole e di facile lettura, che per certi versi poteva essere scritto meglio, ma fa comunque bene il suo lavoro: intrattenere e assicurare mezz'ora di gradevole fuga dalla realtà. E per quanto riguarda il sequel, sì, la curiosità di scoprire come continueranno le avventure dei Florio c'è.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    06 Gennaio, 2021
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Niente è come sembra

Nel mondo del fantasy contemporaneo per ragazzi l'originalità è un concetto ormai poco conosciuto. Spesso quello che si legge o si trova in giro sembra irrimediabilmente influenzato dalla saga "Il trono di spade" di George Martin: universi pseudo medievali divisi in regni che lottano tra loro e un'eroina chiamata a salvare la situazione, di solito con l'aiuto della magia o animali fantastici. Ciascuna di queste letture può essere piacevole e interessante, ma non si può negare che si avverta il bisogno, ogni tanto, di qualcosa di diverso. In questo contesto la saga dell'Attraversaspecchi della francese Christelle Dabos sembra essere una vera e propria ventata di aria fresca. È vero che "Fidanzati dell'inverno" è solo il primo volume di una quadrilogia, ma se le premesse sono queste ci si può aspettare grandi cose nel proseguo della saga.
La vicenda ha inizio quando la giovane Ofelia, che lavora in un museo e vive sull'arca chiamata Anima (le arche, una sorta di pianeti galleggianti nello spazio, sono tutto ciò che resta del vecchio mondo unico e rotondo, la Terra, distrutta molto tempo prima a causa di una non meglio precisata catastrofe), scopre di essere stata destinata dalle anziane decane della sua arca a sposare uno straniero, un uomo che proviene da un'altra arca e in particolare dal Polo, un luogo che, stando alle descrizioni, è gelido e inospitale quanto promette il suo nome. Su Anima, dove tutti discendono da una stessa antenata e si sposano tra di loro, formando una sorta bizzarra famiglia allargata, è un evento a dir poco straordinario. Ofelia è una ragazza piuttosto ordinaria: gracile, pallida, goffa, freddolosa, con una certa tendenza a nascondersi dietro gli occhiali e a evitare il suo prossimo, si distingue solo per i suoi poteri (sulle arche, infatti, tutti hanno capacità particolari e quelle di Ofelia sono più sviluppate del consueto). La ragazza non sa spiegarsi il perché della strana decisione delle decane ed è convinta di non essere affatto la persona più adatta a vivere in un luogo così duro e inospitale. E il suo promesso sposo, Thorn, che sembra affascinante e simpatico quanto una zucca, è altrettanto scontento dell'unione che è stato costretto a siglare. Ofelia, però, non può sottrarsi alla decisione delle decane e si rassegna a seguire l'ombroso fidanzato, trovandosi catapultata in un mondo che non soltanto è completamente diverso dal suo, ma nel quale nulla è mai quello che sembra e anzi si rivela spesso il suo esatto opposto.
In parte a causa dei poteri di alcuni abitanti del Polo, capaci di creare strabilianti illusioni, un po' per l'ambiguità di coloro che la circondano e dei loro scopi, Ofelia non può fidarsi di nessuno se non della zia Roseline, che l'ha accompagnata, e di se stessa, circondata da inganni, menzogne, segreti e apparenze che si capovolgono completamente da un momento all'altro. Adagiarsi su una qualunque certezza, in questo romanzo, è impossibile. L'indecifrabilità dei personaggi e l'imprevedibilità della maggior parte degli eventi sono un indiscutibile punto di forza del racconto, scandito da un ritmo rapido e incalzante. I primi capitoli sono un po' più lenti, anche se mai noiosi, ma già da metà libro la situazione si ribalta (come sempre in "Fidanzati dell'inverno"), gli eventi si susseguono senza sosta e non si fa in tempo a girare la pagina che già si sono rimessi in moto.
Altre punte di diamante del mondo creato dalla Dabos sono il world building, il cui risultato è un universo ricco, elaborato, dalle caratteristiche originali e spesso del tutto inaspettate, e i personaggi. Tanto le figure principali quanto quelle secondarie sono complesse, stratificate, multisfaccettate, oltre che difficilmente prevedibili: ogni volta che si penserà di aver inquadrato qualcuno, subito accadrà qualcosa che costringerà a rimettere in discussione la propria idea e a trovare una nuova interpretazione. Nessuno è mai come sembra e per giunta nessuno è mai tutto bianco o tutto nero: egoismo e generosità, coraggio e paura, durezza e tenerezza, inganno e onestà, bontà e crudeltà possono convivere in una persona e mostrarsi a seconda del momento, della situazione, dei soggetti coinvolti, proprio come accade nella realtà, dove nessuno è un santo e nessuno è un mostro. Il risultato è particolarmente interessante e positivo nei due protagonisti, Thorn e Ofelia. Quando si tratta di young-adult (fantasy o meno) siamo spesso, tristemente abituati a leggere di eroine bellissime e piene di doti favolose, ma del tutto inconsapevoli di se stesse e convinte di essere brutte e indesiderabili finché non incontrano il principe azzurro di turno, solitamente il campione sexy e bellissimo di una mascolinità tossica o quanto meno discutibile.
Tanto per cominciare, Ofelia e Thorn non sono bellissimi, ma due persone nella norma, forse con più difetti (fisici e caratteriali) che pregi. Per chi è stufo di leggere di addominali scolpiti e curve giuste nei punti giusti è una autentica ventata di piacevole normalità. E soprattutto sono personaggi realistici, ben costruiti, che non cadono l'uno tra le braccia dell'altro al primo sguardo, ma imparano a conoscersi lentamente, giorno dopo giorno, tra discussioni, litigi, timori e imbarazzi. L'evoluzione futura del loro rapporto è forse l'unico aspetto più facilmente prevedibile di tutta la trama, ma in fondo l'importante non è tanto cosa succede: è come ci si arriva, è la strada verso la meta, la cura e l'attenzione nel costruire una storia che promette scintille. Da questo punto di vista Christelle Dabos ha vinto fin dalle prime pagine del suo romanzo.

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Narrativa per ragazzi
 
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Cathy Opinione inserita da Cathy    25 Dicembre, 2020
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Inizia la magia

Harry Potter è orfano e vive con i suoi terribili zii, Vernon e Petunia Dursley, e il loro orrido figlioletto Dudley. Non poteva andargli peggio: trattato alla stregua di un cane randagio, Harry è costretto a indossare vestiti smessi e occhiali rotti, schivare i pugni del cugino e della sua banda di bulli, dormire in un sottoscala e passare il tempo cercando di rendersi invisibile. Tutto cambia il giorno del suo undicesimo compleanno, quando riceve una strana lettera (proprio lui, che non ha nessuno al mondo a parte gli zii Dursley) scritta con un bizzarro inchiostro verde smeraldo e sigillata da uno stemma di ceralacca con un leone, un serpente, un corvo e un tasso.
Il resto della storia è così universalmente noto, anche solo per sentito dire, che riassumerlo sarebbe un inutile spreco di tempo. Tutti conoscono "Harry Potter", che abbiano letto i libri o visto i film che ne soni stati tratti o parlato con amici, parenti, conoscenti che hanno letto i libri o visto i film. Chi non lo conosce probabilmente o è molto vecchio o è molto giovane, oppure vive in una grotta. Il successo della saga pubblicata da J. K. Rowling nel lontano 1997 non conosce limiti di età, cultura, provenienza, gusti o estrazione sociale e attraversa indenne i decenni, al punto che si può ipotizzare che i romanzi di "Harry Potter" siano destinati a diventare un long seller, come "Orgoglio e pregiudizio" o "Il Signore degli anelli", che vendono oggi come vendevano 50, 100 o 150 anni fa. Impossibile non restare irrimediabilmente affascinati e catturati dalla rappresentazione realistica e accurata della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, tra fantasmi senza testa, quadri parlanti e scale che si muovono, dai personaggi perfettamente delineati con pregi, difetti, sfumature, così vivi e reali da dare l'impressione di conoscerli davvero, dallo stile vivace, brillante, straordinariamente evocativo, ma anche asciutto, capace di disegnare nella mente di chi legge ogni singola scena senza mai perdersi nel superfluo.
"La pietra filosofale" è il primo romanzo della saga e ha quindi una funzione soprattutto introduttiva al ricchissimo mondo magico creato dall'autrice: è qui che si impara a giocare a Quidditch, a far funzionare gli incantesimi, a conoscere le materie che si studiano a Hogwarts e le regole di base della vita di maghi e streghe. Quello della saga di "Harry Potter" è un universo ricco, complesso ed elaborato, perfettamente speculare al mondo reale, che l’autrice è stata capace di creare dal nulla. Il racconto, tuttavia, non è mai lento o noioso e le spiegazioni sono sempre perfettamente amalgamate all'azione. L'effetto "spiegone" con la Rowling non esiste: le informazioni che è necessario conoscere sono fornite un po' alla volta e il lettore scopre tutto insieme a Harry, entrambi neofiti del mondo magico, la cui descrizione si arricchirà di tasselli sempre nuovi fin quasi alle ultime pagine della saga. La sensazione è che Harry sia lì, accanto a te, vivo e reale, e che ti prenda per mano per condurti insieme a lui alla scoperta di un universo fantastico curato e compiuto in ogni sua parte, di personaggi straordinari, avventure mozzafiato e amici molto più preziosi della famigerata pietra filosofale. È l'inizio di una magia che vivrà per sempre nel cuore di chi vorrà accoglierla.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Cathy Opinione inserita da Cathy    11 Dicembre, 2020
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«Chi di noi?»

Poirot è in Siria alle prese con un caso di spionaggio, quando un dottore lo convoca a Tell Yarimjah, in Mesopotamia, per fare luce su un misterioso omicidio: la moglie del capo di una spedizione archeologica, la signora Leidner, è stata trovata morta nella sua stanza, uccisa da un colpo in testa. Nessun estraneo sarebbe potuto entrare o uscire non visto dalla casa che ospita l'eterogeneo gruppo di partecipanti agli scavi, tra i quali, dunque, l'assassino deve necessariamente nascondersi. Il caso si presenta da subito piuttosto complesso: la vittima riceveva da anni misteriose lettere anonime, era tormentata da inquietanti visioni (al punto da spingere suo marito ad assumere un'infermiera che si prendesse cura di lei) e i suoi strani atteggiamenti nei confronti del gruppo di studiosi, collaboratori e amici che partecipano alla missione rendono difficile tracciare un quadro chiaro della sua personalità. Fortuna che nessun omicidio resta a lungo insoluto quando nei paraggi c'è Hercule Poirot.
Uno degli aspetti forse più interessanti dei gialli di Agatha Christie è che nella maggior parte dei casi il grande Poirot (o la piccola, terribile Miss Marple) non ha nessun mezzo o "aiuto" concreto e materiale per fare chiarezza nel caos che un assassino crea volutamente intorno al delitto commesso, allo scopo di confondere le acque e proteggersi. Non soltanto mancano, come è naturale, gli strumenti più moderni, come computer o smartphone da analizzare, intercettazioni, riprese di videocamere di sicurezza o celle telefoniche da verificare, ma molto spesso perfino la semplice possibilità di raccogliere informazioni su qualcuno viene meno o è più difficile da mettere in pratica per le particolari condizioni di quei "luoghi chiusi" che ad Agatha Christie dovevano piacere proprio tanto e che sono l'ambientazione privilegiata dei suoi romanzi migliori. Negli anni Trenta del secolo scorso non era semplice come oggi accedere a tutte le informazioni di cui può aver bisogno un detective (ancora più particolare, poi, è la situazione di miss Marple, una semplice signora di campagna che difficilmente può accedere agli schedari di Scotland Yard) e a maggior ragione lo è ancora di meno se ci si trova nel vagone-letto di un treno bloccato e isolato dalla neve o su un battello in navigazione sul Nilo. "Non c'è più scampo" presenta la stessa impostazione dei grandi capolavori della scrittrice, un gruppo ristretto di personaggi, un luogo chiuso nel quale è difficile entrare o uscire, un omicidio, un assassino da ricercare tra pochi possibili colpevoli che si studiano a vicenda e sospettano l'uno dell'altro, chiedendosi di continuo: «Chi di noi?». Anche qui, come altrove, la risoluzione del caso è affidata quasi interamente all'attività delle celebri "celluline grigie" di Hercule Poirot, alla riflessione sui caratteri, alla finissima indagine psicologica, all'incrocio delle testimonianze, all'occhio attento che scorge una macchia o all'orecchio acuto che valuta se un grido possa essere sentito o meno da una stanza all'altra.
Un altro esempio (quasi) perfetto di giallo vecchio stile in cui solo ed esclusivamente il potere della ragione è un grado di riportare ordine nella realtà e ricondurre un mucchio caotico di episodi apparentemente scollegati tra loro a un'ordinata sequenza di cause e conseguenze. L'ambientazione orientale, poi conferisce sempre un tocco di fascino in più alla narrazione. L'infermiera Amy Leatheran, convocata dal professor Leidner per assistere sua moglie, mette per iscritto la singolare avventura vissuta a Tell Yarimjah con la mente lucida e analitica e lo spirito critico che fanno di lei un'ottima spalla per le indagini di Hercule Poirot. La narratrice descrive le nenie donne che lavano i panni in riva al fiume, il lento ondeggiare dei cammelli, le strade di nuda pietra, i colori intensi dei tramonti e i profumi esotici dell'aria, il riemergere dal fango dei relitti di antiche civiltà e nelle sue parole si avverte con chiarezza lo sguardo dell'autrice che visita quei luoghi lontani insieme al marito archeologo e ne subisce tutto il fascino e la nostalgia.
Peccato che il finale non si riveli pienamente all'altezza del resto del libro e che la soluzione del mistero appaia un po' debole rispetto alle vette dei capolavori della Christie, il solo difetto in un romanzo che per il resto è una lettura estremamente piacevole. I capolavori, dopotutto, sono rari e "Non c'è più scampo" non lo è, ma per chi ama la regina inglese del giallo è una lettura assolutamente consigliata.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    27 Novembre, 2020
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«La democrazia dell’ingegno»

Sebbene sia stato scritto nel lontano XIV secolo (in particolare tra il 1349 e il 1351) e sia considerato una delle espressioni più alte del così detto “autunno del Medioevo”, il "Decameron" è un’opera che stupisce per la sua grande modernità. Con esso non soltanto il genere della novella raggiunge la piena affermazione e trova un modello che manterrà intatta la sua validità nei secoli a venire, ma soprattutto nasce la narrativa moderna: cresce la complessità dei caratteri e delle situazioni e il racconto (forse è questo l’aspetto più rilevante) diventa del tutto autonomo, autosufficiente, non più semplice veicolo di contenuti morali, religiosi o pedagogici, ma strumento finalizzato a divertire e consolare. Per la prima volta nella storia della letteratura italiana si afferma l’importanza del piacere della lettura, del racconto per il racconto. Nel Proemio, infatti, Boccaccio indirizza la dedica alle donne, le quali, prive delle distrazioni offerte agli uomini dagli affari e dalla politica, potranno così passare piacevolmente il tempo, consolarsi dalle pene d’amore e imparare «cosa fuggire» e «cosa seguitare» per evitarle. Dopo «l’orrido cominciamento», la descrizione degli orrori e della disgregazione morale e civile causata dall’epidemia di peste (chi avrebbe mai detto che un simile argomento potesse tornare attuale nel 2020), seguiranno «la dolcezza» e «il piacere» delle novelle e se alcune di esse dovessero risultare troppo lunghe, be’, scrive l’autore nelle Conclusioni, «le donne oziose» hanno tutto il tempo per leggere.
Nel "Decameron" confluiscono i due aspetti fondamentali della cultura e della vita di Giovanni Boccaccio, ma anche della società di metà Trecento: il mondo borghese-mercantile da un lato e il mondo cortese-aristocratico dall’altro, rappresentati nelle novelle con accurato realismo di ambientazioni, personaggi, psicologie. All’interno di una struttura saldamente poggiata su questi due poli, l’autore accoglie l’intera gamma dei tipi sociali del Trecento: sovrani, nobili spiantati, piccoli borghesi, miserabili, principesse, frati, suore, commercianti, prostitute, usurai, imbroglioni di vario genere. Il risultato è una vasta, articolata commedia sociale che comprende ambienti e figure appartenenti a ogni ceto sociale, viva e brulicante come un affresco in movimento (d’altronde ben 80 novelle su 100 sono ambientate dopo il 1300 e quindi in un contesto praticamente contemporaneo all’autore). Tra i due poli fondamentali dell’opera, però, non c’è contraddizione, sebbene essi siano così lontani tra loro: Boccaccio vuole proporre una morale nuova che sappia conciliare gli antichi valori cortesi e cavallereschi della nobiltà con i costumi della borghesia mercantile. Il "Decameron" è stato definito da Vittore Branca «l’epopea dei mercanti» e indubbiamente Boccaccio celebra e legittima gli aspetti positivi della vita borghese: l’intraprendenza (soprattutto economica), la prontezza, l’ingegno, l’astuzia. Alla metà del Trecento, però, la borghesia è in piena crisi, a cominciare dal fallimento di alcune grandi famiglie di banchieri come i Bardi e i Peruzzi: venuta meno la spinta competitiva e accumulativa che ha determinato l’ascesa di questa classe sociale, la borghesia è sprofondata nell’avarizia e vive nel culto degli affari, dell’utile, del guadagno. La nobiltà, da parte sua, non è priva di aspetti positivi, come l’onestà, la gentilezza, la delicatezza del sentire, ma la tendenza a sperperare e la totale mancanza di spirito di iniziativa economica l’hanno ridotta alla fame. Boccaccio mette in scena glorie e miserie delle due classi sociali e propone di prendere il meglio da entrambe per fondare un nuovo sistema di valori che coniughi i principi cortesi con l’intraprendenza economica della borghesia. Tale sintesi ideale è perfettamente rappresentata dai dieci giovani novellatori, ma anche (un esempio tra tanti) da Federigo degli Alberighi, che da nobile scialacquatore si converte a «miglior massaio» dopo il matrimonio con una ricca borghese.
Lo scopo dell’opera, dunque, non è solo il puro piacere del racconto e neppure si limita agli ammaestramenti d’amore indirizzati alle donne. Boccaccio, però, non aspira a imporre un rigido sistema di regole comportamentali da seguire: la sua è una morale aperta, problematica, relativistica, malleabile a seconda delle situazioni che di volta in volta si presentano, fondata sul compromesso e sull’equilibrio tra ragione, onestà, esigenze sociali e rispetto di quelle forze naturali che è contro natura reprimere (a cominciare dall’eros, che tanta importanza ha nei racconti del "Decameron").
All’interno di questa nuova visione della vita un ruolo fondamentale spetta all’ingegno, forza capace di controllare la natura e il temperamento individuale, contrastare la cattiva sorte e approfittare della buona, in parte dono della natura e in parte frutto delle capacità del singolo: molte novelle propongono quella che Romano Luperini definisce una «democrazia dell’ingegno», che consente a un umile servitore di sfidare un re e uscirne vittorioso grazie alla propria astuzia, come nel racconto dello stalliere e del re Agilulfo, e alle donne di affrontare gli uomini alla pari, uscendo dalla loro condizione di inferiorità. Si arriva a provare un moto di simpatia perfino per quel ciarlatano di Frate Cipolla, salvato in extremis dalla sua intelligenza e dall’abilità nell’uso delle parole.
Nulla è mai definito una volta per tutte, nel "Decameron". La verità è relativa, ogni regola ha la sua eccezione, non esiste un ordine gerarchico o un disegno universale che, come nella "Commedia" dantesca, indirizzano l’uomo smarrito verso un unico percorso obbligato e un’unica, immutabile rivelazione. Solo un approccio problematico, aperto e consapevole dell’infinita varietà del reale può condurre alla soluzione e a una verità di volta in volta sempre nuova. In questo gran caos di mille diverse possibilità che è la vita umana ci si smarrisce davvero e non si dispone di alcuna guida fissa e stabile come il buon vecchio Virgilio. Ma è uno smarrimento che sa tanto di profonda, autentica, disarmante modernità.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    13 Novembre, 2020
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Riciclaggio

Di solito in un brutto libro c’è (quasi) sempre qualcosa da salvare.
Non è questo il caso.
"Le stanze dello scirocco" di Cristina Cassar Scalia è un romanzetto Harmony della peggior specie travestito da romanzo storico-sociale sulla Sicilia degli anni Sessanta. La trama è una di quelle che si indovinano fin nei minimi dettagli anche solo leggendo il retro di copertina, così scontata, prevedibile e piena di vuoto melodramma da far concorrenza alle telenovele sudamericane: il bel (ovviamente) tenebroso dal carattere autoritario e un oscuro passato incontra la bellissima (ovviamente) fanciulla dotata di qualsiasi virtù e poi... Indovinate voi. Aggravano il tutto pesanti tocchi di lacrimevole, talmente tirato per le lunghe che perfino gli aspetti davvero toccanti finiscono con il diventare intollerabili e ridicoli.
Tra amori contrastati, suicidi o presunti tali, manicomi e storie di guerra si ha la sensazione, fin dalle prime pagine, di avere tra le mani un polpettone degno dei peggiori feuilleton, eppure c'è un piccolo problema da considerare: i feuilleton di solito sono scritti bene o almeno abbastanza bene da catturare e tenere viva l'attenzione, la curiosità di chi legge per molte, molte pagine. "Le stanze dello scirocco" non soltanto ha una trama che al massimo potrebbe piacere a qualche nostalgica degli anni Sessanta o appassionata delle suddette telenovele, ma fallisce anche dal punto di vista stilistico: la scrittura è esasperatamente lenta (lentissima), ridicolmente enfatica, inutilmente ripetitiva e dannatamente prolissa. Qualcuno dovrebbe spiegare a Cristina Cassar Scalia che se scrivi un libro di 400 e passa pagine devi avere qualcosa di veramente importante o interessante da dire, altrimenti è meglio tagliare corto.
Non si salvano nemmeno i personaggi, praticamente dei cliché fatti e finiti: il protagonista sexy, tormentato e dispotico in perfetto stile Christian Grey (ma no, non è un pazzo fuori controllo che ringhia se un altro uomo guarda la sua donna, è solo che nel suo passato ha sofferto tanto e così...), la protagonista bellissima e determinata che sa fare bene qualsiasi cosa, "l'altra donna" dai facili costumi (appositamente confezionata per far risaltare la virtuosa protagonista), l'amico "fimminaro", l'amica carina e svampita e quella bruttina ma buona, lo zio prete bacchettone (giuro), la zia triste dal passato misterioso e compromettente.
A coronare il tutto l'odiosa abitudine dell'autrice di offendere un personaggio femminile, Sara, sfottendolo per la sua "stazza" (cito alla lettera) e la sua mancanza di bellezza in confronto alla splendida protagonista, della quale viene sottolineato in continuazione quanto sia bella e soprattutto magra, tant'è che alcuni personaggi la giudicano addirittura "troppo magra"... Troppo magra, forse, ma comunque perfetta, mentre chi ha le curve può soltanto fare schifo. Evidentemente per Cristina Cassar Scalia l'unico ideale di bellezza femminile accettabile è quello che rientra nella taglia 42. "Le stanze dello scirocco" è il primo romanzo di questa autrice, in seguito passata a scrivere gialli, l'ultimo dei quali figurava ad agosto 2020 tra i primi venti libri più venduti in Italia. Con il tempo, magari, lo stile di scrittura può migliorare. Le idee stupide, però, è molto più difficile che cambino.
Ci sono in particolare un paio di passaggi che meritano di essere citati per l'altissimo valore letterario e umano che rappresentano (in corsivo sono evidenziati gli aspetti più rivoltanti). Il primo passo racconta il momento in cui la protagonista rivede per la prima volta la sua "grassa" amica.
«Vicki non vedeva quelle ragazze da quando erano bambine, se le avesse incontrate per strada non le avrebbe riconosciute. Mentre ricambiava il saluto non poté fare a meno di notare la stazza giunonica di Sara, la sua ex compagna di giochi. Elisa, di due anni più piccola, era invece piuttosto graziosa. Anche Annina, che non poteva avere più di sedici anni, si avviava allegramente verso l’obesità. […] “Sara si sposa”, annunciò subito Annina. […] Vicki represse un sorriso divertito quando Sara le disse che lo sposo era Gaetano Urso, che ricordava come un ragazzo goffo, bruttino e con spessi occhiali».
Il secondo passo si riferisce al matrimonio della ragazza di “stazza giunonica”.
«Sara arrivò avvolta nella nuvola bianca di pizzo e tulle che la migliore sartoria di Palermo aveva confezionato come lei […] aveva richiesto. Senza tenere conto delle dovute differenze di stazza e di altezza, su erano ispirati all’abito della principessa Grace di Monaco. Il risultato, indosso alla povera Sara, non dava il giusto risalto al buon nome della sartoria».
E quello di Sara non è l’unico caso in cui i personaggi (e l’autrice attraverso loro, dato che non mostra mai, neanche per mezza riga, di condannare questo modo di pensare) tirano fuori commenti a dir poco disgustosi sulle donne e il loro corpo: ad esempio, si afferma che fino a quando una ragazza resta “troppo vestita” è impossibile capire se sia o meno “il tipo” di un uomo, come se si trattasse di un pezzo di carne esposto nella vetrina di un macellaio e non di un essere umano dotato di cervello e sentimenti.
Insomma, la protagonista sorride pensando a un ragazzo poco affascinante e a una ragazza in sovrappeso che si sposano, qualcun altro invece sorride pensando che alla Sperling & Kupfer dovevano essere ubriachi quando hanno mandato in stampa questa roba, buona soltanto per il riciclaggio della carta.
Non c'è bisogno di aggiungere altro.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    02 Novembre, 2020
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«Rachel, il mio tormento»

L'impulso alla conoscenza, il desiderio di capire, di comprendere ciò che resta fuori dal cono di luce della chiarezza, dell'evidenza, della razionalità, appartiene a tutti gli esseri umani. A risvegliare questo istinto sopito nel giovane, ingenuo Philip Ashley è l'incontro con la moglie dello zio Ambrose, che per anni lo ha allevato da solo, dopo la morte dei genitori, amandolo come un figlio e senza il bisogno di altri affetti finché, all'improvviso, durante un viaggio in Italia, decide di prendere moglie. Proprio lui, che ha sempre ostentato dubbi, scherno e disprezzo nei confronti della condizione coniugale. Stregato da una lontana parente vedova incontrata per caso, l'affascinante cugina Rachel, fa appena in tempo a sposarla prima di sviluppare una misteriosa, fatale malattia che lo porta in breve tempo alla morte.
E così il giovane Philip, rimasto in Cornovaglia ad amministrare la tenuta di famiglia, si trova a dover fronteggiare ben due misteri: capire cosa è successo al suo amato cugino-padre, in Italia, e sciogliere l'enigma-Rachel, graziosa, intelligente, navigata e assolutamente indecifrabile. La situazione si complica quando Philip, inizialmente deciso a detestarla con tutte le sue forze e addirittura convinto che sia responsabile della morte del cugino («Rachel, il mio tormento» scrive di lei Ambrose nelle ultime lettere che invia a Philip prima di morire, forse in preda al delirio o forse più lucido che mai), finisce con il perdere la testa per la vedova. Philip è un giovane uomo semplice cresciuto in un mondo semplice, campagnolo, scandito dall'avvicendarsi delle stagioni e dei lavori agricoli, dalle domeniche in chiesa, da piccoli eventi sociali. Il suo unico contatto di rilievo con l'universo femminile si riduce all'amica di infanzia Louise, che considera pressappoco una sorella, e alla moglie e alle figlie del pastore. Prima che arrivasse Rachel, sotto l'antico tetto degli Ashley non dormiva nessuna donna da quando Ambrose cacciò la balia del suo pupillo per tirarlo su da solo. In tutta la sua tranquilla, sonnolenta esistenza il giovane Philip non ha mai incontrato niente e nessuno che si avvicini anche solo vagamente alla seduzione sottile, all'ironia tagliente e al lieve fascino esotico di sua cugina Rachel e non può fare altro che soccombere al desiderio che prova. Ma il bisogno di capirla e svelare il mistero che avvolge lei, la sua vita, il suo matrimonio, la morte di Ambrose lo tormenta in ugual maniera.
Chi è davvero la cugina Rachel? È la carnefice che ha assassinato suo marito per ereditarne i beni? È la vittima dei pregiudizi e della malattia del marito? È entrambe le cose o nessuna di tutte e due? La realtà è troppo complessa e sfumata per essere inquadrata in un unico schema?
L'enigma-Rachel è destinato a restare insoluto e a tormentare Philip per il resto della sua vita, sfuggendo perfino a un facile inquadramento da parte di chi legge. Forse l'unica immagine autentica di Rachel che emerge dalla carta è quella di una donna forte, amante della propria indipendenza e determinata a conservarla, sottraendosi ai desideri e alle pretese di due uomini che hanno cercato, pur senza averne consapevolezza, di intrappolarla con il loro amore, una brama di possesso simile a una gabbia, e non ci sono riusciti.
Forse, però, come sempre nei romanzi di Daphne du Maurier, quello che conta di più non è tanto scoprire la verità, quanto godersi la bellissima scrittura, ricca, descrittiva, evocativa, le accurate costruzioni psicologiche e le ambientazioni suggestive e magistralmente delineate, a un livello pari o forse anche leggermente superiore rispetto al celeberrimo "Rebecca". A unire come un filo rosso i due romanzi c’è una femme fatale sulla quale incombe un destino minaccioso, quasi una sorta di punizione per la libertà che ha osato rivendicare e che sarà inflitta, naturalmente, da un uomo, ma anche il tema di fondo essenziale per comprendere la scrittura della du Maurier, qui portato alle estreme conseguenze: l’inevitabile, profonda ambiguità del reale e la difficoltà di rintracciare la verità al di sotto del velo ingannevole delle apparenze.
"Mia cugina Rachel" è un romanzo raffinato, complesso, forte e delicato al tempo stesso. Un mistero senza soluzioni sul quale il lettore, come Philip, resterà a interrogarsi a lungo, in cerca di una risposta che potrà essere soltanto relativa, personale, soggettiva, e che forse, in fondo, nemmeno esiste.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    17 Ottobre, 2020
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Vanitas vanitatum

Jane Austen ha lasciato un'immagine piuttosto idilliaca del periodo regency: serene dimore aristocratiche, graziose cittadine, tè pomeridiani, balli settimanali, pettegolezzi, qualche piccolo scandalo. «Tre o quattro famiglie in un villaggio di campagna», come scrive in una lettera alla sorella, riassumendo perfettamente la propria poetica. Un acquerello dai toni morbidi e delicati, insomma, e se c'è qualche tocco fuori posto, qualche nota stonata che emerge da sotto i colori pastello, finisce sempre con l'essere assorbita dall'armonia generale. Thackeray ci restituisce una visione ben diversa dello stesso periodo storico, un grande affresco a tinte forti che comprende praticamente tutti i colori della tavolozza, da quelli più intensi e vivaci ai toni più cupi, e nessuno armonizza con gli altri, ma tutti fanno allegramente a pugni tra loro.
Nel grandioso dipinto di Thackeray non manca nessuno dei numerosi tipi che compongono la variegata umanità: arrampicatori sociali, scialacquatori, fanatici religiosi (finti o autentici), nobili spiantati e parassiti che vorrebbero vivere come i ricchi borghesi, borghesi che cercano di passare per nobili, tutti a caccia qualcosa: denaro, posizione sociale, titoli nobiliari. Se proprio si volesse trovare un'armonia in questo quadro, sarebbe da ricercare nella comune tendenza a pensare solo a se stessi e a soddisfare la vanità che accomuna praticamente quasi tutti i personaggi, perfino l'angelica Amelia (vivere nel culto del marito defunto, sacrificando al suo ricordo qualsiasi cosa, non è forse un modo come un altro di coltivare la vanità personale?).
Thackeray mette in scena un carrozzone vivace e divertente, la fiera della vita, rivela i meccanismi che muovono le sue «marionette» (così l’autore-narratore definisce i propri personaggi) con il tono di chi se la sta spassando un mondo a farle correre di qua e di là e sfoggia con malcelata soddisfazione tutta la sapiente abilità con cui, pubblicando un romanzo a puntate, riesce a tenere viva la curiosità dei lettori per mesi e mesi, arrivando a capovolgere un'intera situazione nelle ultime due righe di un capitolo.
Eppure con quei personaggi tra le mani non ci sarebbe neanche bisogno di grandi colpi di scena per catturare l'attenzione. Basta la sapiente costruzione dei caratteri a far venire voglia di girare le pagine una dopo l'altra per scoprire cosa ne sarà della piccola, astuta, intelligente Becky, della dolce Emmy, dell'incrollabile Dobbin (l’unica figura che si salvi davvero in questo caos di brutti soggetti che è la fiera della vanità), dell'innamorato e ingenuo Rawdon, dell'irreprensibile Pitt Crawley, della sua terribile zia, la signorina Crawley, che passa la vita a muovere gli altri come marionette (anche lei, proprio come l'autore) con la promessa-minaccia di lasciare o non lasciare la propria eredità. Thackeray, dopotutto, era celebre per i ritratti satirici delle figure del bel mondo che pubblicava sulle riviste utilizzando pseudonimi. Si palpita, si desidera, si soffre, si ride con loro, ma soprattutto si ride di loro, dei nomi improbabili che Thackeray si diverte ad appioppargli e che svelano tutta la vacuità e l'inconsistenza di questi campioni della fiera umana, da Lord e Lady Mango a Malloy Mallony, da Malony di Ballymalony a Ofelia Sully di Oyetherstown, da Lady Jane Sheepshank ("costole di montone") alla contessa Southdown ("Dune meridionali", nome di una razza di pecore inglesi), dalla principessa Amelia di Humburg-Schlippenschloppen a Sua Trasparenza il duca di Pumpernickel. L'ironia dissacrante (e massacrante) dell'autore colpisce con la precisione di un proiettile scagliato da un cecchino professionista e non risparmia niente e nessuno, riportando alla mente il "Tristram Shandy" di Laurence Sterne, che però si diverte a disfare completamente la forma romanzesca. Nella "Fiera della vanità", invece, essa è rispettata nei suoi aspetti principali, sebbene l'autore si compiaccia di mettere a nudo i trucchi e i meccanismi che ne consentono il funzionamento, e dunque la lettura risulta molto più godibile.
Tra i protagonisti della fiera della vita, insomma, non si salva proprio nessuno. Si ride delle loro ossessioni, delle piccole manie, delle debolezze, delle pose studiate, dei loro folli progetti, dei loro piccoli, grandi, sciocchi desideri. Tutto si rivela infine così vano, così vuoto, così disperatamente insensato che l'ultima risata somiglia di più a una smorfia. Vanitas vanitatum...

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Lawrence Sterne, "La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo".
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Cathy Opinione inserita da Cathy    28 Settembre, 2020
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Prima di "Piccole donne"

Louisa May Alcott scrive "L’eredità", il suo primo romanzo, a soli diciassette anni. Ha ancora molta strada da fare per diventare la scrittrice che con le sue "piccole donne" avrebbe appassionato intere generazioni di bambine e ragazze. La storia di Edith Adelon, giovane orfana italiana dalle origini misteriose accolta nella dimora di una famiglia nobile inglese, gli Hamilton, dove diventa istitutrice e amica della piccola Amy finché un incontro fortuito svela il mistero della sua nascita, mostra tutta l’ingenuità della giovanissima autrice nello stile, nello sviluppo della trama, nella costruzione dei personaggi. Basta pensare alla serie di coincidenze fortuite e poco probabili che portano prima all’ingresso della protagonista nella famiglia Hamilton e poi alla scoperta delle sue origini e che strappano inevitabilmente un sorriso. I personaggi sono per lo più o bianchi o neri, o buoni come angeli o capaci di crudeltà machiavelliche con una brusca redenzione finale e ben poche sfumature: ad esempio Lady Ida, che complotta ai danni di Edith per l’intero romanzo, sembra a volte vergognarsi del proprio comportamento, mentre nella pretesa di Amy che Edith esegua ogni sua richiesta, nonostante la sua dolcezza infantile e le sue buone intenzioni, si percepisce l’atteggiamento inconsapevolmente tirannico delle persone buone, ma viziate. A spiccare su tutti per la totale assenza di sfumature è la protagonista, completamente priva di difetti e dotata di ogni pregio possibile e immaginabile: bellezza fuori dal comune, bontà, onestà e generosità illimitata perfino verso i propri nemici, totale disinteresse per la ricchezza e il rango sociale. Una perfezione così asettica da far rimpiangere la testarda e iraconda Jo, la vanitosa Meg, la capricciosa e ambiziosa Amy, così imperfette eppure così vere.
Tuttavia l’edizione Jo March, molto carina e ben fatta, presenta una prefazione ricca di interessanti spunti di riflessione. Bronson Alcott, padre dell’autrice, pensatore, insegnante e pedagogo, è un seguace del Trascendentalismo, corrente filosofica che si sviluppa negli stati americani del nord nei primi decenni dell’Ottocento e che predica il raggiungimento di ciò che è puro, autentico, spirituale, il culto assoluto dell’arte e della bellezza, l’armonia con la natura. Mentre Bronson Alcott tenta con scarso successo di applicare questi principi in ambito educativo, probabilmente la giovane Louisa, amante della scrittura, li concretizza in questo libretto di appena cento pagine. Le eccezionali doti caratteriali della protagonista, dunque, possono forse essere interpretate non soltanto come proiezione dell’ingenua visione del mondo della Alcott, che immagina le cose come dovrebbero essere e non come sono nella realtà, ma anche come frutto delle riflessioni che respira intorno a sé. Non a caso i termini "bellezza", "purezza" e "verità", che incarnano il cuore del pensiero trascendentalista, ricorrono con frequenza nel testo in riferimento a Edith e spesso nei momenti cruciali.
Un’eroina inimitabile. Un cavaliere senza macchia. Amici e aiutanti da un lato, crudeli oppositori dall’altro. Una dimora aristocratica che sembra un castello incantato. Uno stile talvolta eccessivamente enfatico, ma levigato, elegante e puro come la stessa Edith. Un lieto fine che sana ogni dissidio, riconcilia tutti e concede ai "buoni" il meritato premio. Il risultato è un racconto che ha il sapore di una fiaba, un mondo che è quello dell’infanzia e dell’innocenza, lo stesso in cui ancora vive la sua creatrice e che è destinato a dissolversi come un sogno delicato quando Louisa crescerà e costruirà per le sue piccole donne un mondo ben diverso, ricco di amore e di gioia, ma anche segnato dal lutto, dalle delusioni, dall’amarezza di diventare adulti e affrontare la vita. Un mondo meno idilliaco e perfetto, dove un lieto fine assoluto non esiste e il dolore vive accanto alla gioia, e proprio per questo molto più reale e autentico. Prima, però, c’era una favola ed è così che "L’eredità" deve essere considerato.

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Altri romanzi di Louisa May Alcott.
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Cathy Opinione inserita da Cathy    15 Settembre, 2020
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Gli occhiali del diavolo

Come nel "Giorno della civetta", anche in "Todo Modo" Leonardo Sciascia utilizza l'impostazione apparente di un romanzo giallo per scrivere qualcosa che con i gialli non ha nulla a che fare. Un famoso pittore si ritrova per caso in un eremo trasformato in albergo di lusso, dove politici e uomini d'affari si incontrano periodicamente per dedicarsi a "esercizi spirituali" sotto la guida dell'enigmatico don Gaetano. Incuriosito, il pittore decide di fermarsi ad assistere e si ritrova suo malgrado spettatore di una serie di omicidi. L'assassino non sarà mai svelato, così come le fitte trame che uniscono Chiesa, politica e affari.
Se il pensiero e l'attività di Sciascia sono caratterizzati da una profonda volontà di ricerca della verità, anche a prezzo di un'immersione totale nei torbidi intrecci della vita politica, sociale ed ecclesiastica, alla scoperta di trame occulte, rapporti tra politica e criminalità organizzata, corruzione, questo romanzo può essere senz'altro considerato uno dei più rappresentativi del pensiero dell'autore. "Todo modo" traccia un disegno crudo e spietato del potere democristiano e un quadro nettamente negativo della società italiana del tempo (il quale, tuttavia, è così attuale che potrebbe benissimo essere una rappresentazione accurata anche dell'età presente).
A differenza del "Giorno della civetta", nel quale tutto è pervaso da una chiarezza e una luminosità cristalline, specchio dell'esigenza di razionalità che si riflette anche sullo stile, "Todo modo" è un romanzo immerso nel buio, come gli intrecci illeciti che racconta o tenta di raccontare e che al tempo stesso non scopre fino in fondo. Non a caso l'assassino, contrariamente alle regole del giallo, non è svelato, a dimostrazione del pessimismo dell'autore. Il vero mistero è il mistero della realtà, che non può essere svelato. Carlo Emilio Gadda, nel suo "Pasticciaccio", fa qualcosa di simile: un presunto giallo, il genere letterario che risolve misteri per eccellenza, che si chiude senza soluzione certa, perché non esiste soluzione al groviglio inestricabile che è la realtà umana e lo scrittore che tenta di sbrogliarlo può solo arrendersi e posare la penna. Dopo "Il giorno della civetta", in "Todo Modo" la fiducia nell'affermazione della verità, della giustizia e dell'onestà che aveva spinto il capitano Bellodi a restare in Sicilia nonostante tutto è entrata in crisi e la razionalità umana si rivela impotente di fronte alla realtà. Lo stesso stile si fa oscuro, difficile, intricato, intessuto di allusioni vaghe e misteriose, di frasi sospese, di interrogativi senza risposta. L'unica certezza è che il denaro, l'interesse privato, è il solo dio di chi è pronto a uccidere per ottenerlo. "Todo modo para buscar la voluntad divina", "Ogni mezzo per cercare la volontà divina", scrive Sant'Ignazio di Loyola nei suoi "Esercizi spirituali". Ogni mezzo per fare il proprio interesse, deve aver pensato Sciascia quando ha scelto il titolo per il suo romanzo, sarebbe un motto più adeguato.
Nella cappella dell'eremo di Zafer c'è un dipinto che rappresenta un eremita "trasformato" in santo da un erudito locale, Zafer, appunto, (sono gli uomini, sembra voler dire Leonardo Sciascia, che fanno e sfanno qualunque cosa, perfino i santi), accompagnato da un diavolo con gli occhiali. Secondo la leggenda che don Gaetano racconta al pittore, il santo non vede più bene e il diavolo gli offre gli occhiali, ma a un prezzo malefico, perché se Zafer li indosserà, non potrà più leggere le sacre scritture, ma solo il "Corano". Il santo, intuito l'inganno, rifiuta.
L'unico modo per capire, per fare luce nel buio del degrado umano, morale e civile, potrebbe essere indossare gli occhiali del diavolo. Non a caso, gli occhiali di don Gaetano sono identici a quelli del diavolo nel dipinto. Don Gaetano, forse, è il solo che veda davvero nell'oscurità, della quale probabilmente è complice insospettabile. Gli stessi occhiali che deve aver indossato Sciascia per scrivere questo romanzo e che il lettore stesso dovrebbe utilizzare per leggerlo "davvero", in profondità, senza dimenticare che c'è un prezzo da pagare. Una volta che si è visto il male, non si potrà più evitare di scorgerlo ovunque.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    02 Settembre, 2020
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Amori e intrighi a Baghdad

Victoria Jones è una ragazza come tante. Più o meno. Sveglia, graziosa, intelligente, impegnata senza troppo entusiasmo nel lavoro di dattilografa, fantasiosa e bramosa di avventure, abilissima a inventare le storie più incredibili per tirarsi fuori dalle situazioni difficili in cui si va a cacciare. Più di ogni altra cosa, Victoria vorrebbe uscire dal grigiore londinese e dalla noia della quotidianità per vivere una storia avventurosa come quelle che sogna dalla mattina alla sera.
L’occasione ideale si presenta quando, dopo essere stata licenziata a causa di una fin troppo riuscita imitazione della moglie del suo capo, incontra un bel ragazzo, affascinante e simpatico. Peccato che Edward – questo il nome del principe azzurro piovuto dal cielo – stia per trasferirsi a Baghdad per lavoro ed è quindi costretto a salutare malinconicamente Victoria, convinto che non si rivedranno mai più. Edward non sa che la sua nuova amica è una ragazza piena di risorse e che ha già deciso che loro due saranno i Romeo e Giulietta del XX secolo: senza indugi Victoria fa i bagagli e lo segue a Baghdad, determinata a non lasciarsi scappare l’amore della sua vita e magari, chissà, ad approfittare dell’occasione per vivere qualche avventura esotica. Sarà accontentata e anche al di là dei suoi desideri, ritrovandosi catapultata in un’intricata vicenda di spionaggio internazionale, tra omicidi, agenti segreti, messaggi in codice e scambi di identità.
Il risultato è una spy story divertente e abbastanza avvincente, con un tocco di romanticismo e una bella dose di ironia che investe la stessa protagonista e le sue tragicomiche avventure e rende la lettura fresca, leggera e piacevole. L’ambientazione in Medio Oriente risente dei viaggi compiuti dall’autrice insieme al marito archeologo (forse è proprio a lui che pensava Agatha Christie quando ha tracciato il buffo ritratto dell’archeologo Pauncefoot Jones, talmente preso dall’esame di cocci e tombe millenarie da dimenticare perfino l’esistenza di sua moglie) e conferisce, come sempre, un’aggiunta affascinante alle avventure create dalla giallista inglese. Peccato per alcune situazioni ai limiti del realismo e della credibilità e l’assoluta sconsideratezza della protagonista, che a volte fa proprio venir voglia di darle una bella scrollata e farla tornare a ragionare. Sicuramente "Il mondo è in pericolo" non è alla pari dei romanzi migliori della Christie, ma resta una lettura gradevole, leggera e coinvolgente, perfetta da portare sotto l’ombrellone.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    22 Agosto, 2020
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Una statua di neve

La giovane Lucy Snowe si ritrova povera e sola al mondo dopo un misterioso disastro familiare. Costretta a provvedere a se stessa, prima trova lavoro come dama di compagnia di un’anziana e malata signora, poi, alla morte di quest’ultima, parte all’avventura per l’immaginario paese francofono del Labassecour. Qui diventa insegnante di inglese in un collegio femminile e tra la difficoltà di ambientarsi, la solitudine e il passato che torna a bussare alla porta, Lucy incontra l’amore.
Se la trama di "Villette" suona familiare a un lettore di Charlotte Brontë è perché ricalca quasi alla perfezione le vicende di altri due romanzi dell’autrice, "Il professore" e "Jane Eyre". Il primo è generalmente considerato un romanzo d’esordio e nulla più, con tutti i limiti e le pecche del caso, e pare che costituisca l’embrione dal quale, anni dopo, Charlotte avrebbe tratto il “meglio riuscito” "Villette", che, a dispetto del successo senza tempo di "Jane Eyre", è considerato da molti critici il suo vero capolavoro per la maturità stilistica che lo contraddistingue. Le similitudini tra "Il professore" e "Villette" sono in effetti numerose e di una certa rilevanza, al punto che l’unica vera differenza tra essi è il sesso del personaggio principale. I due protagonisti compiono un percorso praticamente identico: entrambi poveri e senza famiglia, entrambi impiegati in un collegio del continente dove sono destinati a trovare l’amore e, nonostante gli ostacoli che gli oppositori pongono sulla loro strada, riescono infine a conquistarlo.
"Jane Eyre", dal canto suo, dovrebbe essere un’opera del tutto autonoma da "Villette" e non una sorta di bozza preparatoria come "Il professore", eppure tornano le solite analogie: una giovane donna priva di mezzi e di sostegno, bruttina, modesta e con una morale d’acciaio che farebbe invidia al più severo degli asceti medievali, si innamora, sorprendentemente ricambiata, di un eroe maschile che sotto le apparenze burbere e scontrose nasconde un cuore d’oro, sconfigge le odiose rivali, tutte più belle e più ricche di lei, e convola infine a giuste nozze (o almeno ci prova, nel caso della più sfortunata signorina Snowe).
Sembra proprio che Charlotte Brontë avesse un problema di originalità. Leggere una sola di queste opere, o anche due, può andare bene, ma trovarsi davanti il terzo romanzo che ricalca quasi alla perfezione sempre lo stesso schema è esasperante. Anche qui, come in "Jane Eyre", la protagonista sviene, trovandosi in condizioni drammatiche, ed è soccorsa da persone che in un primo momento sembrano estranee per poi rivelare uno stretto legame con lei, e anche qui, come in "Jane Eyre", abbiamo un tocco di gotico, un mistero in apparenza sovrannaturale che si rivela poi decisamente prosaico.
Eppure in "Villette" c’è qualcosa di peggio della totale mancanza di originalità ed è la sua insopportabile protagonista. Gelida quando il cognome che porta, Lucy Snowe è una puritana arida e bacchettona che dall’alto della sua purissima fede protestante osserva l’umanità intera con malcelata riprovazione e su tutti emette il suo insindacabile giudizio mentale, neanche fosse il Minosse dantesco che indirizza i dannati verso il girone nel quale espieranno le loro colpe. Tra una sentenza e l’altra, miss Snowe convoca e fa dialogare tra loro entità astratte come Ragione, Immaginazione, Speranza, Virtù, e assiste alle inquietanti apparizioni del fantasma di una MONACA, citata sempre in maiuscolo per dare il giusto risalto drammatico al momento, ammesso che il lettore riesca a non scoppiare a ridere.
I bersagli preferiti della rigida signorina Snowe sono gli stranieri e i cattolici e poiché nel regno del Labassecour la povera Lucy è circondata da stranieri cattolici si può intuire quanto duramente sia messa alla prova. Gli stranieri sembrano avere ai suoi occhi un’unica colpa principale, quella di non essere inglesi. Da qui discende una lunga serie di intollerabili difetti e barbarici costumi, come avere una fisionomia continentale, ridacchiare in classe durante le lezioni e indossare abiti troppo ricercati. Le accuse a carico dei cattolici, poi, sono così numerose che la nostra Lucy ci potrebbe riempire un’enciclopedia: falsi, bugiardi, avidi, privi di saldi principi morali, subdoli, ingannatori, corrotti e capaci di architettare gli stratagemmi più astuti per insinuarsi nei cuori dei protestanti e indurli alla conversione. Anche i migliori tra loro non sfuggono a questi difetti, che per la signorina Snowe sembrano essere emanati direttamente da Roma, citata di continuo come una sorta di minacciosa entità che controlla tutti i propri adepti, con l’unica parziale eccezione del love interest della protagonista. Peccato che anche lui tenti di convertirla, mostrando così di non essere del tutto immune al malefico influsso di Roma. Per sua fortuna, la nostra eroina è così ferma e salda nei suoi principi morali e religiosi da resistere serenamente a ogni assalto e sorridere con soave disprezzo degli orrori che la insidiano da ogni dove.
A onor del vero, bisogna ammettere che la povera Lucy non ha proprio tutti i torti e che tra le sue conoscenze non si salva nessuno: Madame Beck è un’ipocrita impicciona, Ginevra Fanshawe una civetta senza cervello, Graham Bretton un bambolotto ingenuo e superficiale, Paul Emanuel un piccolo dispotico maschilista e prevaricatore, Paulina de Bassompierre una ragazzina sciocca e infantile. Non sarà che tutti gli altri personaggi sono stati resi in modo così poco lusinghiero allo scopro preciso di far risaltare la moralità, l’integrità, la virtù e la perfezione di Lucy? Forse sì, ma la protagonista si rende così detestabile che, pur con tutto il suo carico di sofferenze e difficoltà, non riesce comunque a far pesare il bilancio in suo favore e anzi si è quasi portati ad avere più simpatia per la vivace, capricciosa e vanesia Ginevra, molto più umana, divertente e realistica di quella statua di neve (di nome e di fatto) che è Lucy Snowe.

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Gli altri romanzi di Charlotte Brontë e vuole avere un quadro completo della sua produzione, anche se chi ha già letto "Il professore" o "Jane Eyre" potrebbe farne tranquillamente a meno.
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Cathy Opinione inserita da Cathy    15 Giugno, 2020
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Che fare?

I "cafoni", scrive Ignazio Silone, sono asini che ragionano. A forza di seguire questa brutta abitudine, hanno capito alcune cose: che c'è sempre da pagare, innanzitutto; che dove non si paga c'è imbroglio; che quando c'è la guerra si paga di più. La cosa più importante che hanno capito è che i padroni cambiano e cambiano i governi, ma il giogo, per loro, per i poveri cafoni, è sempre lo stesso. Le prepotenze dei fascisti avranno un colore diverso da quelle dei piemontesi, che a loro volta hanno un colore diverso da quelle dei Borbone, ma sempre prepotenze rimangono. Tutto cambia, tutto resta uguale in un mondo scandito dalla fatica sempre uguale, dalle stagioni sempre uguali, dai lavori dei campi sempre uguali, dalle giornate sempre uguali tra casa, bestiale fatica, quattro chiacchiere all'osteria per capire qualcosa di cose che resteranno per sempre avvolte nel buio misterioso della legge, della politica, dell'economia e che lasciano i cafoni sempre e comunque poveri, disperati, ingannati, sfruttati. Vittime, prima che dei padroni, di un'ignoranza così profonda da renderli del tutto inconsapevoli dei meccanismi che determinano la loro condizione, e così diventano, per assurdo, quasi complici di coloro che li ingannano e li opprimono. I cafoni sanno bene cosa siano la povertà e lo sfruttamento, la fame è tutto ciò che conoscono e mai conosceranno, ma parole come governo, elezioni, dittatura, democrazia non sono altro che questo, parole. L'unico significato che possono avere è il solo che i poveri cafoni sanno dare alle cose: che per loro la speranza non esiste.
I cafoni sono giunti dalla prospettiva opposta alla stessa conclusione del Tancredi di Tomasi di Lampedusa: se i potenti fanno in modo che le cose cambino nel modo giusto, quando non si può più evitare che cambino, tutto resterà uguale e loro continueranno a imbrogliare, arricchirsi e comandare mentre i cafoni continueranno a piangere sangue nelle loro misere case simili a grotte, nelle strade polverose, nei campi riarsi bruciati dal sole. La prospettiva non è quella di una futura classe dirigente, certo, ma il concetto non cambia, proprio come non cambierà la magra esistenza dei cafoni: da una vita di disperazione non esiste riscatto. E se qualcuno, più coraggioso, più disperato o più pazzo degli altri prova a ribellarsi, a reclamare il diritto al lavoro, alla terra, alla vita, che succede? Le bandiere fasciste, nere e con i teschi, il colore e il simbolo della morte, annunciano la risposta.
Che fare, allora, se sembra che non esista speranza? "Che fare?", come il nome del giornale che i fontamaresi si mettono in testa di stampare (e forse non a caso è anche il titolo di un celebre saggio di Tolstoj proprio sulla povertà e lo sfruttamento delle masse umili), firmando così una condanna a morte, per denunciare i soprusi del governo fascista, una creatura misteriosa che li ha posti davanti a qualcosa di completamente nuovo? Perché anche prima c'erano i ladri, gli assassini e gli stupratori, ma questa volta agiscono nel nome della legge e del governo, che li ha accolti tra le proprie fila. E allora davvero non può più esserci nessuna speranza. Che fare, dunque, quando tutto è inutile? Che fare?

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Cathy Opinione inserita da Cathy    09 Mag, 2020
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La cometa di sangue

«Al gioco del trono o si vince o si muore, non esistono terre di nessuno», afferma Cersei Lannister, regina dei Sette Regni, e ora il gioco del trono si è scatenato. Dopo la morte di re Robert Baratheon, ad Approdo del re la corona poggia sui riccioli biondi del suo primogenito, Joffrey delle case Baratheon e Lannister, ma potrebbe essergli strappata via molto presto. I fratelli di Robert, Stannis e Renly, rivendicano per sé il trono di spade, mentre Robb Stark, proclamato re del Nord dai suoi nobili condottieri, conduce a Sud l’esercito di Grande Inverno in una marcia trionfale contro i Lannister, responsabili della morte di suo padre. L’anziano Balon Greyjoy, intanto, reclama la corona di re delle Isole di Ferro e dichiara guerra agli Stark, che anni prima hanno aiutato Robert Baratheon a sottometterlo.
Mentre divampa la Guerra dei Cinque Re, nel cielo dei Sette Regni compare una cometa rossa come il sangue che inonda le terre d’occidente, un segno nel quale ciascun contendente vede il presagio della propria vittoria, e ad est, al di là del mare, a quella stessa cometa volge lo sguardo Daenerys Targaryen, ultima sopravvissuta della sua dinastia, che con i suoi tre draghi appena nati al fianco cerca un esercito e una flotta che possano restituirle la sua eredità, il trono di spade.
Le ambizioni e la cupidigia di lord, re e regine non sono però l’unica minaccia per la pace dei Sette Regni: oltre la Barriera i Bruti e gli Estranei sono un pericolo sempre più incombente e tuttavia pressoché ignorato dai signori di Westeros, troppo occupati a conquistare castelli e ricchezze per preoccuparsi delle lande gelide e desolate nelle quali un manipolo di Guardiani della Notte, tra cui il bastardo di Ned Stark, Jon Snow, lotta per proteggere gli uomini d’occidente da pericoli così terribili da non poter essere neanche immaginati. Per i Guardiani della Notte, ormai rimasti in pochi e lasciati a combattere da soli, la cometa di sangue significa soltanto una cosa: l’inverno sta arrivando, come recita il motto di casa Stark, e spazzerà via chiunque sarà tanto folle o stupido da non rendersene conto.
In questo secondo volume la saga delle "Cronache del ghiaccio e del fuoco" si conferma il miglior fantasy contemporaneo, originale e innovativo, a cominciare dal fatto che gli elementi fantasy veri e propri – l’ambientazione in una terra inesistente, creature mitologiche, il protrarsi delle stagioni per anni, gli Estranei – non sono una presenza invasiva e si limitano ad arricchire il mondo pseudo medievale creato da Martin e delineato con tale precisione e accuratezza in tutti i suoi aspetti da dare al lettore l’impressione di avere tra le mani un romanzo storico vero e proprio. Il risultato è un’opera fantasy dai toni sobri che si rivolge a un pubblico di adulti o "giovani adulti", una narrazione cruda e realistica che non tace gli aspetti più orribili della guerra, dei giochi politici, della morte, della vita stessa. Quello del "Trono di spade" è un mondo duro e ben poco "fantastico", con pochissimi tocchi di umanità o bontà disinteressata, un mondo nel quale i nostri tempi possono rispecchiarsi e che cattura inesorabilmente il lettore proprio per il suo essere allo stesso tempo così vicino e così lontano da noi.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    27 Aprile, 2020
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Era proprio necessario?

Come ormai tutti sappiamo, Harper Lee, autrice del celeberrimo e splendido "Il buio oltre la siepe", iniziò la sua carriera letteraria scrivendo un altro romanzo: "Va’, metti una sentinella", che raccontava le vicende della ventiseienne Scout Finch. Su consiglio di Truman Capote, che leggeva i suoi scritti, preferì poi modificare il progetto e scrisse "Il buio oltre la siepe", con la stessa protagonista più giovane di vent’anni. "Va’, metti una sentinella" è stato dimenticato per decenni, fino al 2015, quando viene improvvisamente pubblicato. La versione ufficiale è che il manoscritto sia stato rinvenuto "per caso" in una cassetta di sicurezza dall’avvocato di Harper Lee e pubblicato con il benestare dell’autrice, che nel 2015 ha ben 89 anni e muore l’anno successivo. Dopo la perplessa lettura di questo romanzo, tuttavia, si fa strada nella mente un’altra possibilità e cioè che tale obbrobrio sia stato tirato fuori dagli eredi della scrittrice, i quali, approfittando della sua tarda età, hanno preso una decisione nel nome del denaro che probabilmente Harper Lee non avrebbe mai preso in autonomia e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. O almeno, voglio sperare che non l’avrebbe mai presa.
Definire "Va’, metti una sentinella" il sequel del "Buio oltre la siepe" è un’autentica offesa a quello che per stile, personaggi e valori trasmessi può essere considerato uno dei migliori romanzi del Novecento. Sciatto, noioso, privo di qualsiasi avvenimento degno di essere definito tale, zeppo di dialoghi spesso oscuri, quasi sempre snervanti e inconcludenti, e allusioni a fatti mai ben chiariti, come la questione dell’Anpg, continuamente tirata in ballo senza mai offrire una spiegazione compiuta degli eventi. Molto, troppo è lasciato all’intuito di chi legge e alle conoscenze già possedute sul clima politico, economico e sociale degli Stati Uniti negli anni Cinquanta. La stessa Scout adulta è deludente, forzata, petulante, lontana anni luce dalla bambina vivace e divertente che ricordiamo.
Molte persone non hanno apprezzato, e a ragione, la dolorosa snaturazione del personaggio di Atticus Finch, che da paladino della giustizia si trasforma in un seguace del Klu Klux Klan. È comprensibile che il lettore appassionato si senta tradito davanti a una simile involuzione di una figura tanto amata, anche se bisognerebbe ricordare che "Va’, metti una sentinella", pur essendo un sequel, è nato prima del "Buio oltre la siepe" e insieme a esso è nato per primo anche questo Atticus oscuro ed enigmatico che non ha quasi più nulla della figura paterna ideale di cui era diventato il vero e proprio emblema. Il problema maggiore, tuttavia, non è tanto il cambiamento di Atticus, quanto piuttosto la mancanza di una solida spiegazione di tale cambiamento, e il semplice timore che la popolazione nera sia impreparata socialmente e culturalmente a sostenere l’incremento dei propri diritti e doveri e vada di conseguenza "bloccata" a uno stato di infanzia perenne non è molto convincente. Il vecchio Atticus non si fermava davanti a nessun ostacolo se sapeva che era giusto scavalcarlo e non si riesce davvero a capire nel profondo perché abbia improvvisamente deciso che questo ostacolo, stavolta, era troppo alto per lui.
Forse perfino la terribile trasformazione di Atticus avrebbe potuto essere accettabile o quanto meno comprensibile se il contesto e le motivazioni fossero state sviluppate di più. Al di là di ogni difetto e mancanza, "Va’, metti una sentinella" ha un problema di base ed è la sua sostanziale incompiutezza: si avverte a ogni pagina che non si tratta di un romanzo rifinito, completo e curato in ogni sua parte e in fondo se la scrittrice aveva deciso di chiuderlo in un cassetto per più di cinquant’anni un motivo c’era. Tutto sommato, sarebbe stato più saggio, da parte dell’intraprendente avvocato di Harper Lee, lasciare il manoscritto dov’era e lasciare a noi intatta la magia e la perfezione del "Buio oltre la siepe".

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Cathy Opinione inserita da Cathy    11 Aprile, 2020
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Un gioco di luce

Pubblicato a Milano nel 1891 con scarso successo di pubblico e critica, "L’illusione" è il secondo romanzo composto da De Roberto e inaugura il ciclo degli Uzeda, principi di Francalanza e antichi Viceré di Sicilia per conto dei sovrani spagnoli. L’opera segue dall’infanzia alla maturità le vicende di Teresa, figlia del conte Raimondo Uzeda e dell’infelice nobildonna Matilde Palmi, che torneranno di lì a poco nei "Viceré". La loro storia, o meglio quella della loro figlia, nei "Viceré" si riduce a uno squarcio, eppure il progetto del ciclo derobertiano nasce proprio con "L’illusione", sebbene la storia di Teresa sia cronologicamente posteriore a quella dei "Viceré" e più o meno contemporanea a quella dell’ "Imperio", il terzo e ultimo elemento del trittico letterario.
Se "I Viceré" indaga la corruzione e il disfacimento della vecchia classe aristocratica siciliana e "L’imperio" porta alla ribalta fasti e miserie della politica post-unitaria, "L’illusione" si incentra totalmente sul tema dell’amore sentimentale e sulla vita della protagonista, che, dopo un’infanzia e un’adolescenza segnate da aspettative del tutto illusorie, è costretta ad accettare, con l’avanzare degli anni, che la realtà è ben diversa da quella che sognava e che l’intera esistenza umana si riduce, in fin dei conti, a un’illusione.
Anche Teresa, estroversa, vivace e appassionata, come molti altri personaggi del romanzo ottocentesco vede la realtà attraverso un velo, le fantasie di amori cavallereschi, avventure galanti, passioni travolgenti, grandezza aristocratica che ha assimilato da bambina leggendo Scott, Dumas, Sue, Hugo, Prati, Aleardi, Tasso, Leopardi, Balzac, Manzoni, ascoltando fiabe e romanze, guardando opere teatrali che hanno finito con il «guastarla», come profetizzava la zia di Teresa, perché non è stata capace di separarle dalla realtà. Da qui discende la lunga, triste trafila di errori, inganni e rimpianti che costellano e scandiscono la sua esistenza, negativamente influenzata, forse, non soltanto da una fantasia troppo accesa e troppo coltivata, ma anche dalla profonda solitudine a cui Teresa è condannata fin da bambina a causa di gravissime perdite familiari e personali. Il nonno, un uomo vecchio stampo, sinceramente interessato al suo bene, ma burbero e insensibile, e la presenza occasionale degli zii, affettuosi, ma pronti a voltarle le spalle se dovesse uscire dal cammino tracciato per lei, non bastano a riempire una vita che appare desolatamente vuota, priva degli affetti più solidi e naturali. Passando da un amante all’altro, da una distrazione all’altra, da un corteggiatore all’altro, la giovane Teresa cerca disperatamente di riempire un vuoto incolmabile.
Tale vuoto convive, dentro di lei, con una scissione profonda e insanabile che la fa sentire «rotta in due» per tutta la vita: Teresa è infatti costantemente divisa tra il modello di rassegnazione e sopportazione rappresentato dalla madre, il cui amaro destino di moglie infelice prefigura quello della figlia, e il modello di sregolatezza e orgoglio aristocratico di suo padre, il libertino conte Raimondo, come se gli errori dei genitori fossero geneticamente, inesorabilmente scritti nel sangue dei figli. Teresa sembra cedere all’esempio paterno e sceglie un cammino molto diverso da quello di Matilde, sua madre, e della sua omonima cugina (la Teresa Uzeda dei "Viceré", sorella di Consalvo), cercando conforto negli amanti e nella vita mondana e sostenendo con passione il diritto delle donne di godere degli stessi privilegi degli uomini, eppure non sarà più felice di loro. Nessuna delle due scelte sembra essere quella giusta.
L’illusione che qui investe l’amore e i desideri giovanili colpisce nei "Viceré" il sangue aristocratico e nell’ "Imperio" il mondo della politica e del governo. Non a caso un fitto intreccio di echi e richiami lega i tre romanzi che costituiscono il ciclo degli Uzeda: la vicenda di Matilde e Raimondo è un filo rosso che unisce "I Viceré" e "L’illusione" e in quest’ultimo è citato di sfuggita il principe Consalvo, deputato a Roma e futuro protagonista del terzo volume; la figura dell’onorevole Arconti introduce nell’ "Illusione" la dimensione della politica, dei dibattiti parlamentari, delle questioni di governo che saranno il nucleo centrale dell’ "Imperio". Addirittura è stato osservato che l’infanzia turbolenta del figlio di Teresa ricorda quella del principino Consalvo. Le storie si ripetono, identiche, ancora.
Palese è il richiamo a "Madame Bovary" (infatti De Roberto conosce bene e ammira moltissimo Flaubert), ma anche a "Giacinta" di Luigi Capuana. Il bovarismo di Teresa, con la sua profonda insofferenza per la vita di provincia a Milazzo, insieme all’eccitazione della fantasia causata dalle letture romanzesche e cavalleresche e alla smania di far parte del bel mondo, è evidente e avvicina moltissimo l’eroina siciliana a quella francese. Rispetto ad Emma Bovary, però, Teresa appare dotata di una capacità di riflessione e analisi di se stessa e della realtà più profonda. Teresa, inoltre, si colloca in un contesto sociale più elevato, quello dell’aristocrazia, e ciò rende forse, per contrasto, ancora più amare le sue disillusioni. Altro legame importante è quello individuato con "La duchessa di Leyra", il romanzo incompiuto di Verga che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto colpire proprio le ambizioni aristocratiche e arricchire di un altro tassello il ciclo dei vinti. Il progetto verghiano non sarà mai portato a termine e L’illusione, riallacciandosi alla "Duchessa di Leyra", sembra esserne la prosecuzione ideale.
In fondo anche Teresa, come i personaggi verghiani, può essere definita una “vinta”. "L’illusione" presenta una struttura accuratamente simmetrica, divisa in tre parti: la prima inizia con l’infanzia e termina con il matrimonio e la partenza per la luna di miele; la seconda si apre sul viaggio di nozze, segue la difficile convivenza con il marito e si conclude con una nuova partenza per una seconda luna di miele; la terza e ultima parte racconta il tempo delle ultime illusioni, della maturità e del disinganno totale. Questo armonioso equilibrio strutturale, però, contrasta con il ritratto di un’esistenza dominata da incertezze, confusione, errori, ravvedimenti, ricadute, tutto osservato attraverso lo sguardo malinconico di Teresa. Sebbene il racconto sia in terza persona, l’autore fa un uso ampio e sempre più frequente da un capitolo all’altro del discorso indiretto libero e del monologo interiore: il risultato è una densissima analisi psicologica, un racconto introspettivo che si cala costantemente e profondamente nella psiche tormentata della protagonista, tra paure, desideri, capricci, speranze. De Roberto, infatti, definisce questo romanzo «un monologo di 450 pagine». Nella terza parte del romanzo Teresa si ripiega sempre più su stessa, impegnata ad analizzare criticamente il passato, a immaginare tristemente il futuro, a interrogarsi su ogni singola scelta che l’ha condotta verso l’infelicità e la solitudine, sedotta da «un vano giuoco di luce» che per tutta la vita si è ostinata a credere autentico.
«Nel credersi diversa dagli altri come s’era ingannata! La sua storia era la storia d’ognuno! Come tutti, aveva apprezzato le cose prima di ottenerle o quando erano svanite. […] E sul punto di chiudere gli occhi per sempre, la vita che prima di essere vissuta era piena di tante promesse, non si riduceva a un mero sogno, a una grande illusione, tutta? E poi? E dopo la vita?».
«Tutto è finzione» esclama l’onorevole Arconti, personaggio che riallaccia "L’illusione" al tema politico del romanzo successivo, "L’imperio". L’esistenza umana è un gioco di maschere su un palcoscenico. Tutto cambia, tutto passa, tutto finisce. Nulla è per sempre, neanche l’amore più puro e intenso, i sogni più dolci, le speranze più tenaci. Cosa resta, allora? L’uomo, qualunque scelta compia, è condannato per la sua stessa natura alla sconfitta, all’amarezza, al rimpianto, alla crudele disillusione, senza via d’uscita?
Forse sì, sembra rispondere Federico De Roberto.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    22 Marzo, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

«Una piccola casa sbilenca»

Charles e Sophia, due giovani inglesi in servizio al Ministero degli Esteri, si sono conosciuti in Egitto, durante la Seconda Guerra Mondiale, e hanno deciso di sposarsi. I loro progetti, già rallentati dal conflitto, incontrano un nuovo ostacolo: la morte improvvisa del nonno di Sophia, Aristide Leonides, un greco emigrato in Inghilterra, dove si è costruito dal nulla un’immensa fortuna con mezzi spesso ai limiti della legalità. Sebbene fosse anziano e malato, la polizia e il medico legale sospettano che la causa del decesso – overdose di un farmaco che il vecchio assumeva abitualmente per curarsi – sia tutt’altro che naturale e che uno dei membri della famiglia, i soli ad avere accesso al farmaco e alle sue stanze, lo abbia volutamente tolto di mezzo. Sfortunatamente, nell’abitazione fuori Londra dei Leonides – un cottage, la dimora inglese per eccellenza, ma alquanto bizzarro, perché insolitamente lussuoso e spazioso, per sbandierare ai quattro venti la ricchezza della famiglia – tutti avrebbero avuto l’occasione materiale di commettere il delitto, ma nessuno sembra avere un movente. Uniche eccezioni, forse, Brenda e Laurence, la giovanissima seconda moglie del defunto e l’istitutore dei suoi nipoti. L’intera famiglia punta il dito contro di loro e li accusa di avere una relazione, ma quanto è facile convincersi che i colpevoli siano gli unici due abitanti della casa privi di legame di sangue con il clan dei Leonides?
L’intera situazione getta un’ombra cupa sul matrimonio di Charles e Sophia e la ragazza, intelligente, lucida e razionale, rifiuta di unire Charles alla propria famiglia senza prima essere certa che non lo trascinerà nel disonore e nello scandalo. Charles, però, è legato a doppio filo alla morte di Aristide Leonides: suo padre è il commissario di Scotland Yard incaricato di seguire il caso e quando gli propone di collaborare ufficiosamente alle indagini, sfruttando la sua posizione interna alla famiglia, Charles non esita ad accettare e ad imbarcarsi in questa singolare avventura. Si ritrova così a destreggiarsi tra i numerosi componenti del clan, personalità complesse, a volte indecifrabili, ma tutte dotate, come sostiene Sophia, di una vena di crudeltà ereditata dal vecchio Leonides, un omino storto e rinsecchito con occhietti neri, lucidi, spietati, una mente brillante e una personalità imponente, che per tutta la vita ha tenuto figli, nuore e nipoti sotto un’ala protettrice e al tempo stesso, forse, soffocante. Spicca su tutti la sorella minore di Sophia, la piccola Josephine, che ha ereditato dal nonno tanto l’aspetto sgradevole quanto l’intelligenza e la durezza di carattere e che, passando le giornate a origliare le conversazioni degli altri, sostiene di aver scoperto, fra tresche amorose e disastri economici, il segreto più grande di tutti: chi ha ucciso il nonno.
Il titolo originale del romanzo, "The Crooked House", è tratto da una filastrocca per bambini. L’aggettivo “crooked” significa “bizzarro, distorto, sbilenco”, sia in senso concreto sia in senso morale e metaforico, e forse è proprio il significato ambivalente di questa parola che cela la sconcertante soluzione al mistero della morte di Aristide Leonides, un piccolo uomo sbilenco dalla morale sbilenca, con una piccola-grande casa sbilenca – come recita la filastrocca – e una famiglia sbilenca nella quale si nasconde un assassino freddo, spietato e insospettabile. Per lo stile asciutto e preciso, il raffinato gioco a incastri della trama e le psicologie fini e accuratamente scolpite, "È un problema" si colloca senza dubbio tra i romanzi più riusciti della Christie.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    14 Marzo, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Tra luci e ombre

«A differenza che nei racconti, la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza, ma sull’oscurità».
"Storia della bambina perduta", come l’intera quadrilogia dell’Amica geniale, oscilla costantemente tra luci e ombre, tra momenti in cui sembra di cogliere un barlume di quella grandezza tanto celebrata da critici e lettori e momenti in cui proprio non si riesce più a vederla. I difetti che affliggono questo romanzo conclusivo sono gli stessi già incontrati nella lettura dei volumi precedenti: la noia delle molte pagine superflue, il “riempitivo” che si trascina (ne sono un esempio perfetto le pagine dedicate alla storia di Napoli, strano sfoggio di aneddoti storico-artistici che appare del tutto slegato dal contesto della narrazione e dunque superfluo), l’ambiguità alienante del rapporto tra Elena e Lila che, giunte ormai alla piena maturità, continuano a ripetere gli errori di sempre, vicende a metà strada tra una telenovela e una fiction per casalinghe, intrecci infiniti di matrimoni, mariti, figli, amanti, con qualche accenno un po’ superficiale alla Storia, senza dubbio non abbastanza per affermare che la saga della Ferrante racconta cinquant’anni di vicende storiche italiane, come si legge spesso. La detestabilità del personaggio di Elena non viene meno e tocca il culmine in due momenti precisi, il primo quando cade nuovamente nella trappola di Nino Sarratore, come se avesse ancora sedici anni e non fosse (almeno in teoria) una donna adulta e matura, e il secondo alla fine, quando calpesta la promessa fatta a Lila di non scrivere mai nulla di lei e mostra la più totale mancanza di rispetto per la tragedia della sua amica solo per pubblicare un altro libro. Fa quasi rabbia che alla fine l’unica a uscirne quasi indenne, con una bella vita, un bel lavoro, una bella casa, tre figlie, sia proprio lei, che ha mostrato al lettore i suoi lati peggiori per quattro libri e infine esce di scena commettendo un tradimento così grave.
Eppure, ancora più dei comportamenti superficiali ed egoisti di Elena, a infastidire in questo romanzo sono le numerose zone d’ombra, tutto il non detto, il non visto, il lasciato in sospeso, dalla scomparsa della “bambina perduta”, un evento che resta lì come un filo che si smarrisce nel buio, all’enigmatica ricomparsa finale delle bambole, suscettibile, come la sparizione della bambina, di mille possibili interpretazioni diverse che lasciano il lettore deluso e frustrato. L’eccesso di chiarezza non è necessariamente un bene, perché lasciare qualcosa alla sola fantasia di chi legge può avere un potere suggestivo notevole, ma anche l’eccesso di buio è negativo.
Rispetto ai due romanzi precedenti, "Storia della bambina perduta" sembra soffrire un po’ meno di questi difetti e soprattutto paga meno lo scotto della necessità di allungare il brodo per riempire ben quattro volumi: se l’inizio e la fine dei romanzi della Ferrante sono sempre la parte migliore, perché si va dritto al sodo, mentre nel mezzo si dà ampio spazio al riempitivo, lo stesso discorso vale per la parte iniziale e la parte finale dell’intera saga. A confronto con "L’amica geniale", però, l’ultimo romanzo non ha il fascino del primo, il solo che, tra tutti e quattro i libri, meriti una lode piena.
Nel complesso, la saga dell’Amica geniale sembra avere più ombre che luci, un po’ come la vita stessa, ed è per questo che in fondo il giudizio non può essere così negativo. Se la vita umana è una giostra di follie, insensatezze, incomprensioni, rimpianti, errori e illusioni, allora questi quattro romanzi la rappresentano molto bene. Scrive ancora Elena Ferrante, parlando attraverso Lila, che «solo nei romanzi brutti la gente pensa sempre la cosa giusta, dice sempre la cosa giusta, ogni effetto ha la sua causa, ci sono quelli simpatici e quelli antipatici, quelli buoni e quelli cattivi, tutto alla fine ti consola». Una riflessione indubbiamente autoreferenziale, eppure innegabile. I “romanzi brutti”, quelli che raccontano un mondo ideale, dove le distinzioni sono nette, tutto è chiaro e definito e il bene trionfa non possono rappresentare la realtà dell’esistenza umana, con le sue scosse, le fermate improvvise, gli scontri, i passi indietro. La saga dell’Amica geniale la rappresenta, è vero, anche fin troppo bene, senza indorare la pillola in alcun modo e lasciando a stento una fievole traccia di speranza. Ma rappresentare la vita per ciò che è, invece, è sufficiente a scrivere “un romanzo bello”? Purtroppo no, e neppure lodarsi da soli.

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I volumi precedenti della saga.
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Cathy Opinione inserita da Cathy    28 Febbraio, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

«Se domani fa bel tempo»

"Gita al faro" di Virginia Woolf è una lettura tutt’altro che semplice, piacevole o scorrevole. Per la maggior parte del tempo è incredibilmente complessa, confusa e sfuggente. La trama, esilissima, lascia spazio (anche troppo) alla minuziosa introspezione psicologica dei personaggi. Il flusso di coscienza ininterrotto che mette a nudo ogni singolo pensiero è difficile da seguire e in un attimo si perde il filo e ci si ritrova smarriti in riflessioni che appaiono senza né capo né coda. La lentezza estrema della narrazione, poi, non aiuta a tenerne le fila, ma anzi appesantisce la lettura e favorisce la distrazione.
Per il virtuosismo stilistico, una prosa che quasi sfiora il lirismo della poesia, la struttura sperimentale che riduce al minimo la trama e lascia spazio al mondo interiore dei personaggi, "Gita al faro" è senza dubbio un classico di importanza innegabile per la storia della letteratura, travagliato frutto delle fatiche di una dei più grandi autori del XX secolo che proietta le vicende della propria infanzia nella vacanza alle Isole Ebridi della famiglia Ramsey. La scrittura è raffinatissima nel tracciare quasi con commozione il ritratto dei coniugi Ramsey, specchio dei genitori dell’autrice: lui un intellettuale debole, egoista, vanitoso, che nega una gita al faro al figlio bambino con la scusa del tempo, lei madre dolce, amorevole, attenta ai bisogni di tutti («Sì, certo, se domani fa bel tempo» promette al piccolo James, che chiede ansiosamente se l'indomani potrà vedere il faro), una figura statuaria, seducente, dalle mille sfaccettature, vero perno della narrazione che lascia dietro di sé un vuoto desolato quando svanisce, forse incarnazione del senso classico del racconto che il romanzo novecentesco sta ormai perdendo a favore dell’esplorazione di nuove strade.
Intorno ai Ramsey, nella loro casa delle vacanze, ruotano diversi personaggi secondari tra i quali spiccano Charles Tansley, piccolo studioso discepolo del signor Ramsey, convinto che le donne non sappiano eccellere in nessuna forma d’arte e costantemente impegnato ad autocelebrare se stesso per essersi "fatto da solo", forse portavoce di convinzioni maschili che Virginia Woolf deve aver ascoltato più volte nel suo percorso di scrittrice e intellettuale, e la giovane e tormentata pittrice Lily Brascoe, personificazione dell’autrice e testimone di quanto il travaglio che genera la creazione artistica possa essere difficile e avvilente. L’immersione nelle loro menti è altrettanto faticosa, pesante, farraginosa, e tuttavia il risultato è arte. In questo romanzo Virginia Woolf mostra la capacità straordinaria, come tutti i "grandi", di scandagliare l’animo umano fin nelle pieghe più sottili e nascoste, portando alla luce tormenti, desideri, paure, amarezze, inquietudini, tutta la banalità di quella massa viva e pulsante che è l’esistenza umana. "Gita al faro" non sarà una lettura piacevole e scorrevole, dunque. Non sarà il romanzo ideale se si cercano divertimento, evasione e vicende appassionanti. Ma un capolavoro che scava l’anima, questo sì, lo è.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    06 Gennaio, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Il passato "non" è una terra straniera

Cosa accomuna i Bellasis, conti di Brokenhurst, antica stirpe appartenente alla migliore aristocrazia britannica, e i Trenchard, l’oscura famiglia di un costruttore che proviene dal commercio e ha edificato il famoso Belgravia, il quartiere più alla moda nella Londra del primo Ottocento? A unirli un filo tanto sottile quanto possono diventarlo le ferree convenzioni sociali quando c’è di mezzo un importante segreto da proteggere. Un segreto che, se rivelato, ha il potere di precipitare nella polvere e innalzare alla gloria la vita di molte persone.
Fra piccoli e grandi intrighi, amori ostacolati, fraintendimenti, scalate sociali, Julian Fellowes, il premio Oscar autore della celebre serie tv "Downton Abbey", traccia con mano felice, leggera e sicura un’opera che è un ibrido perfetto tra il feuilleton ottocentesco, il romanzo storico e la commedia degli equivoci. La penna dello sceneggiatore di "Downton Abbey" si riconosce nello stile curatissimo, nella deliziosa e delicata ironia, nei dialoghi tanto garbati quanto acuti e frizzanti, nei personaggi articolati e multi sfaccettati, mai tutti bianchi o tutti neri, nell’intreccio basato su una fitta serie di intrighi e rimandi dialettici tra upstairs e downstairs, tra il mondo dei padroni, più o meno ricchi, più o meno aristocratici, più o meno amati, ma pur sempre padroni, e i ranghi dei domestici (ancora più serrati di quelli della buona società), a volte fedeli servitori, a volte quasi amici devoti, a volte arrivisti pronti a tradire e ricattare per ottenere denaro o una promozione.
Se il mondo downstairs costituisce l’altra faccia del mondo upstairs, a fare da contrappeso agli aristocratici Brockenhurst sono invece i Trenchard, il cui capofamiglia, James, è tenacemente impegnato fin da giovane in un’ardua scalata sociale, tanto goffo e imbranato nei salotti londinesi quanto capace, spregiudicato e determinato negli affari. Ben diversa è la moglie Anne, tranquilla, riservata, ancorata alla sobria realtà, eppure rassegnata sostenitrice degli irrealistici sogni di gloria del marito. Ancora diversi sono gli anziani coniugi Brockenhurst – abile e determinata lei, apatico e distratto lui – che hanno perso a Waterloo il loro unico figlio ed erede diretto e vivono quello che gli rimane con l’amara consapevolezza che nulla resterà del loro passaggio sulla Terra quando l’avranno lasciata. Tutti loro sono legati dal mistero che ruota intorno a Charles Pope, giovane borghese di belle speranze, serio, lavoratore e affidabile, esattamente l’opposto di John Bellasis, nipote ed erede dei Brockenhurst, un gaudente scapestrato che vive solo per divertirsi e sperperare denaro mentre attende di entrare in possesso dell’eredità degli zii, ammesso che qualcuno non riesca a portargliela via. Un sottile gioco di equilibri, quello su cui "Belgravia" si regge con spontanea, elegante perfezione e che ha permesso a un enorme segreto di restare nascosto per venticinque anni fino alla comparsa improvvisa di Charles Pope. È il suo arrivo sulla scena di Belgravia, tra i salotti e i ricevimenti dell’alta società londinese, a mettere in moto una catena di eventi, equivoci e fraintendimenti che, nonostante la prevedibilità del finale, è uno spasso dalla prima all’ultima pagina.
Il passato è una terra straniera, scrive Julian Fellowes rifacendosi a un vecchio modo di dire, un mondo lontano, diverso dal nostro e ormai dissolto nelle nebbie del tempo, anche se in fondo gli uomini e le donne, con i loro sentimenti, i loro desideri, le loro paure, le loro ambizioni, sono sempre gli stessi. Per i Bellasis e i Trenchard, però, la situazione è ben diversa e quello che credevano morto e sepolto è ancora drammaticamente vivo, pronto a bussare alla porta, alterare gli equilibri e sparigliare le carte in tavola, mostrando tutta l’assoluta, beffarda imprevedibilità del destino. Il passato, dopotutto, non è affatto una terra straniera.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    24 Dicembre, 2019
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Natale al Castello

Un lussuoso albergo di montagna sulle Alpi svizzere, immerso nelle neve e nella natura. La praticante annuale Fanny Funke, diciassette anni, di Achim presso Brema, che cerca disperatamente di cavarsela tra bambini impossibili, capi terrificanti, macchie di cioccolato, colleghe odiose, un cliente bellissimo e misterioso e il dolce figlio del proprietario dell’hotel. Sparizioni improvvise, gioielli favolosi, ospiti tanto ricchi quanto difficili da accontentare, problemi di cuore, ladri e società segrete. Aggiungete una deliziosa atmosfera natalizia, un po’ di "romance", una bella dose di ironia, qualche episodio tragicomico, un tocco di thriller, shakerate bene il tutto e "Il Castello tra le nuvole" è pronto per essere letto e gustato dalla prima all’ultima pagina.
Meglio conosciuta dai suoi lettori per la trilogia delle gemme, Kerstin Gier mette da parte il fantasy e apre le porte del Castello tra le nuvole, un incantevole, vecchio albergo in stile Belle Époque che deve il proprio nome alla posizione sulla vetta del mondo e dove Fanny, che ha deciso di prendersi una pausa dagli studi, finisce a occuparsi dei terribili, viziati, adorabili bambini degli ospiti dell’hotel. Mentre cerca la sua strada, Fanny si scontra con Tristan, ospite affascinante ed enigmatico, si prende una cotta enorme per Ben, figlio di Roman Monfort detto "l’irascibile" e nipote di Rudi Monfort detto "lo smidollato", proprietari del Castello tra le nuvole, subisce pazientemente i rimbrotti della signorina Müller, la governante, si ritrova coinvolta nei piani di una misteriosa società segreta ed è costretta a fronteggiare pericolosi criminali internazionali, anche se niente è peggio del dover sopportare le quattro colleghe stagiste che la guardano dall’alto in basso e le giocano scherzi odiosi. A parte forse il diabolico Don, figlio di uno degli ospiti più importanti e facoltosi dell’hotel, che si diverte a spadroneggiare indisturbato e a tiranneggiare la baby-sitter. Nulla a che vedere con la piccola Dasha, figlia di un oligarca russo, dolce e allegra come un uccellino.
Fortuna che, a parte Ben, la nostra eroina ha anche altri aiutanti: ad esempio Monsieur Rocher, il "concierge" storico dell’albergo, saggio, gentile e affettuoso, o Pavel, responsabile della lavanderia, che a vederlo sembra un brutto ceffo appena uscito di prigione, muscoloso, rasato e tatuato, e invece è buono come i dolci di Madame Cléo, la pasticcera, canta arie d’opera tutto il giorno e beve in compagnia del vecchissimo Stucky, custode dell’albergo da tempo immemore, che parla un dialetto incomprensibile e manda giù grappa alle pere come se fosse acqua fresca. Tutti loro e molti altri ruotano intorno a Fanny, una carrellata di personaggi perfettamente scolpiti, comici, odiosi, subdoli, misteriosi, inquietanti, che danno vita a un racconto quasi corale, sebbene il centro della narrazione vivace e brillante sia sempre saldamente occupato da miss Funke.
Forse, però, il vero protagonista è proprio il Castello tra le nuvole ammantato dalla neve, con la sua atmosfera d’altri tempi e l’incantevole veste natalizia, la biblioteca, il centro benessere, la sala da ballo, la scuderia, la giostra con i cavalli: una volta varcata insieme a Fanny la porta girevole che conduce al foyer non vorrete più abbandonarlo. È garantito.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    12 Dicembre, 2019
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Agatha Christie inciampa

Agatha Christie non delude (quasi) mai e questa, per un fan della maestra del giallo, è una delle poche certezze su cui poter contare. Forse qualcuno penserà che la forma del racconto non sia sufficiente a sviluppare misteri abbastanza intriganti e ricchi di dettagli e in effetti non è la complessità ciò che va cercato e apprezzato in questa raccolta di brevi storie, bensì proprio il suo opposto: la semplicità, lo sfrondamento totale del superfluo e la capacità di catturare e incuriosire il lettore nello spazio che, forse, ad altri scrittori basterebbe appena a introdurre i personaggi.
L’abile, sicura penna dell’autrice passa con levità e disinvoltura da un racconto all’altro e dà il meglio di sé – per quanto riguarda tale raccolta – nella storia che apre il volume e gli dà il titolo, "Tre topolini ciechi", la celebre, inquietante vicenda di otto persone rimaste intrappolate dalla neve in una pensione. Tra loro, naturalmente, si nasconde uno spietato assassino che però non riuscirà a farla franca. Un lungo racconto o breve romanzo che per la costruzione efficace dei personaggi e l’atmosfera da brividi (non solo di freddo) può essere annoverato tra le opere più riuscite della Christie, nonostante la sua brevità.
Il “quasi”, invece, si riferisce purtroppo all’ultimo racconto del volume, "Gli investigatori dell’amore", nel quale l’autrice delude e non poco, in quanto “ricicla” perfettamente parte della trama del più celebre romanzo "La morte nel villaggio", pubblicato per la prima volta nel 1930. La raccolta "Tre topolini ciechi" esce nel 1950, ma non si può escludere che il racconto incriminato (quando c’è di mezzo la regina del giallo, perfino le sue stesse opere nascondono un mistero da svelare) sia stato redatto e magari anche diffuso anni prima. Quindi è difficile stabilire con assoluta certezza quale opera sia quella originaria, ma in ogni caso leggere una delle due inevitabilmente svela il finale dell’altra. Forse il racconto è solo una bozza del romanzo, che sviluppa gli eventi in modo ben più articolato e profondo, ma in tal caso la Christie non avrebbe dovuto consentirne la circolazione dopo l’uscita di "La morte nel villaggio". Se invece è il contrario e il romanzo è stato scritto per primo… Be’, perché mai “restringere” la vicenda di un romanzo per tirarne fuori un racconto che risulterà inevitabilmente più povero e riduttivo?
Un vero peccato che la raccolta, per il resto ben scritta e molto piacevole, si chiuda con questa nota stonata. Tutti possono cadere, in fondo, e per una volta inciampa anche Agatha Christie.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    03 Dicembre, 2019
Top 100 Opinionisti  -  

Un romanzo sociale?

Nel 1811 le guerre napoleoniche infuriano in Europa e la parrocchia di Briarfield, nello Yorkshire, come molte altre cittadine inglesi è dilaniata dai conflitti sociali: da un lato gli imprenditori, che cercano disperatamente di resistere ai blocchi e ai contro blocchi navali che hanno paralizzato il commercio, dall’altro gli operai, che vedono ridursi sempre di più i posti di lavoro e muoiono letteralmente di fame. A peggiorare la situazione c’è il progresso che avanza nella forma di nuovi macchinari che riducono ulteriormente la manodopera necessaria.
Il giovane Robert Moore è l’ultimo discendente di una stirpe di imprenditori tessili e vorrebbe lavare dal proprio nome l’onta del fallimento di suo padre, che ha condotto la famiglia quasi alla rovina, ma ora quest’ombra incombe anche su di lui. Nel clima di violenza e instabilità che si è generato, tra omicidi, rivolte e assalti alle fabbriche, Robert, coraggioso, serio, intraprendente e non privo di una certa durezza, è determinato a sopravvivere e a risollevarsi ed è pronto a calpestare tutto e tutti pur di riuscirci, compreso il proprio cuore.
Caroline Helstone ha diciassette anni ed è la nipote del rettore di Briarfield. Legata a Robert da una parentela acquisita e da un’intensa frequentazione, si è resa conto che il suo tenero sentimento d’amicizia si è trasformato in qualcosa di più e che Robert potrebbe forse ricambiarla. Le difficoltà economiche del giovane, però, gli impongono di sposare una donna ricca e la dolce Caroline, sebbene non sia povera, non possiede una dote sufficiente a salvare la sua fabbrica.
Ben diversa, invece, è la situazione economica di una cara amica di Caroline, la bella Shirley Keldar, ereditiera del luogo che al possesso di un ingente patrimonio unisce un carattere vivace, brillante e ricco di fascino. È a lei che Robert Moore chiederà la mano, nella speranza di portare a compimento il proprio progetto?
Nell’incipit del romanzo l’autrice avverte il lettore di non aspettarsi una storia romantica e inizia subito ad addentrarsi nelle movimentate vicende delle fabbriche di Briarfield, inducendo così a credere di avere tra le mani un romanzo sociale incentrato sulle lotte operaie e i conflitti di classe. Il proseguo della lettura, però, smentisce tanto le prime impressioni quanto la dichiarazione della Brontë e svela una trama per lo più basata su un triangolo sentimentale che si trasforma a mano a mano in un quadrato dall’esito piuttosto scontato e sui piccoli drammi privati dei personaggi. La questione economico-sociale è molto presente nel romanzo, ma sviluppata in modo elementare e risolta con lo stesso prevedibile lieto fine del triangolo romantico.
Sebbene porti il nome di uno dei suoi personaggi principali, "Shirley" è in realtà un romanzo corale, ricco di figure che fanno il loro ingresso un po’ alla volta e subito si impongono all’attenzione del lettore con caratteristiche e particolarità ben definite. Il vivace coro delle voci che si intrecciano, insieme all’accurata rappresentazione della tranquilla vita di provincia e della compagna inglese che affronta la modernità, è forse uno degli aspetti più riusciti del romanzo. Un ruolo non secondario, inoltre, è svolto dalla riflessione sulla problematica condizione della donna nell’Ottocento condotta attraverso i due personaggi femminili principali, che in modo diverso a seconda del carattere e della posizione sociale (Caroline dolce e riservata, Shirley energica, ironica e combattiva) danno voce alle opinioni della scrittrice, contestando i limiti e le restrizioni che affliggono l’esistenza delle giovani donne e rivendicando il diritto di scegliere in piena libertà il proprio compagno.
D’altro canto, però, la narrazione è spesso prolissa e trascina per pagine e pagine eventi dall’esito facilmente intuibile, sfociando nella noia. Fortuna che di tanto in tanto intervengono a salvare la situazione toni sterniani da romanzo umoristico (i titoli bizzarri dei capitoli, l’ammiccare confidenziale al lettore per coinvolgerlo nella narrazione, riflessioni metanarrative sull’utilità di questo o quel capitolo che forse il lettore farebbe meglio a saltare, personaggi buffi e dominati da un tratto caratteriale, una mania o un’ossessione) che alleggeriscono la lettura, rendendola un po’ più vivace.
Nel complesso, però, "Shirley" non è certamente il più riuscito tra i romanzi di Charlotte Brontë. Il risultato sarebbe stato senz’altro migliore se l’autrice avesse tagliato un centinaio di pagine decisamente superflue e sviluppato la questione sociale in modo più problematico, se la trama fosse stata un po’ meno scontata e banale e soprattutto se l’annuncio iniziale, poi del tutto disatteso, non traesse il lettore in inganno, portandolo ad aspettarsi una pagina dopo l’altra qualcosa di ben diverso da quello che sta leggendo e che non arriverà mai. Peccato.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    18 Novembre, 2019
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Il mondo dietro "Jane Eyre"

In "Jane Eyre", il romanzo considerato all’unanimità il capolavoro di Charlotte Brontë, c’è un personaggio, la balia di origine francese che si occupa della piccola protetta del signor Rochester, Adèle, che appare pochissime volte, non parla praticamente mai e non ha il minimo rilievo nelle vicende di Thornfield. Bianca Pitzorno prende per mano la piccola, trasparente, insignificante bambinaia francese di "Jane Eyre" e la trasforma nella protagonista di una storia straordinaria, così ricca di vicende e personaggi da sembrare che sia sempre stata lì, dietro le pagine di Jane Eyre, e che Bianca Pitzorno l’abbia solo portata alla luce.
Nel 1832, a Parigi, Sophie Gravillon – “sassolino di fiume”, è questo il significato del suo cognome – ha nove anni e da quando ha perso suo padre sulle barricate nel luglio del 1830 vive in una squallida soffitta di Monmartre con la madre malata, Fantine, una povera sarta che riesce appena a guadagnarsi di che vivere. Céline Varens, acclamata ballerina dell’Opéra di Parigi, ha fatto una promessa a sua madre, molti anni prima: se avesse trovato sulla propria strada una bambina in difficoltà avrebbe fatto qualunque cosa per aiutarla. E quando Sophie, stremata dal freddo e dalla fame, bussa alla porta della sua casa ricca ed elegante, sui boulevardes, per consegnarle le camicie che Fantine ha cucito per lei, Céline capisce che è giunto il momento di mantenere la promessa. Così la accoglie nella sua casa e in cambio di una dimora confortevole, una nuova famiglia, affetto e perfino un’istruzione di primo livello grazie al Cittadino Marchese, un aristocratico sostenitore dei principi rivoluzionari, Sophie deve solo aiutare la bambinaia a prendersi cura della piccola Adèle, figlia di madame Céline e di suo marito, un nobile inglese freddo, arrogante, burbero e scontroso. E qualche anno dopo, quando madame Céline cade in disgrazia a causa dell’avidità e della crudeltà altrui, sarà Sophie, ormai cresciuta, a dover mantenere una promessa: prendersi cura di Adèle come se fosse sua figlia, anche quando sarà costretta a recitare la parte della bambinaia per seguire in Inghilterra lei e suo padre, il marito di Céline… Edward Rochester.
"La bambinaia francese", dunque, è una riscrittura parziale di "Jane Eyre" che parte da fatti e personaggi ideati da Charlotte Brontë per costruire un intero mondo a sé stante e si rivolge principalmente a un pubblico di giovani lettrici. Un libro per bambine, allora? Assolutamente no, o meglio, non solo un libro per bambine. Non c’è dubbio che la lettura, grazie allo stile leggero, semplice e lineare, sia particolarmente adatta a coloro che dopo l’infanzia si avvicinano per la prima volta a testi più complessi e possa costituire un ponte tra gli ingenui libri dell’infanzia e la letteratura, ma allo stesso tempo sa essere appassionante e attrattiva anche per il pubblico adulto grazie a un quadro d’insieme straordinariamente ricco e vivace, animato da personaggi vivi e pulsanti, ambienti ben modellati, un’accuratissima documentazione sulla vita del tempo e una gran quantità di riferimenti storici, culturali, artistici, letterari (Rousseau, Victor Hugo, la famiglia Taglioni, Delacroix, Jane Austen, Rossini) che svelano l’ampio bagaglio culturale dell’autrice. Tutti questi elementi conferiscono alla narrazione uno spessore insolito per un libro destinato ai più giovani e la capacità di catturare e incuriosire anche un pubblico più smaliziato.
Il fatto di appoggiarsi a un classico della letteratura inglese, dunque, non sminuisce in alcun modo il valore di "La bambinaia francese", che si presenta alla lettura come un’opera completa, a tutto tondo e quasi perfettamente autonoma per gran parte della narrazione. Solo nella seconda metà del libro, quando la vicenda si sposta a Thornfield Hall, la dimora del signor Rochester, il legame con "Jane Eyre" si fa inevitabilmente più stretto, ma il finale nasconde non poche sorprese e il vasto, ricco mondo creato dalla Pitzorno è sempre lì, dietro la ben nota vicenda di Jane, e si impone al lettore con tanta forza, efficacia e naturalezza che tornando al romanzo di Charlotte Brontë, dopo aver letto "La bambinaia francese", se ne avverte ancora la presenza.
Rispetto al romanzo della Brontë, Bianca Pitzorno si pone con mente aperta e spirito critico, interrogandosi sulla vera natura delle cose, dando voce ai punti di vista inascoltati e mostrando una prospettiva alternativa da cui osservare gli eventi, arrivando talvolta a capovolgere le idee e le convinzioni che potrebbero appartenere a un fan sfegatato della storia d’amore tra Jane e Rochester e probabilmente è per questo che "La bambinaia francese" ha suscitato a volte reazioni negative tra i lettori più fedeli e appassionati di "Jane Eyre". Ma l’obiettivo dell’autrice, forse, è proprio questo: mente aperta e spirito critico, disponibilità a dare spazio a punti di vista giudicati secondari e ad accogliere possibili verità inaspettate sono qualità indispensabili per la lettura di questo romanzo e che dunque esso si propone di stimolare nei propri lettori, più o meno giovani che siano, insieme all’amore per la conoscenza, alla generosità verso il prossimo, al disprezzo dei pregiudizi.
Sophie, che grazie a madame Varens e al suo singolare padrino, il Cittadino Marchese, ha ricevuto un’ottima educazione, sebbene a Thornfield sia costretta a fingersi addirittura analfabeta per indagare in tranquillità sulle intenzioni del signor Rochester e proteggere Adèle, è appassionata lettrice di un romanzo straordinario, "Northanger Abbey" di Jane Austen, nel quale le disavventure della protagonista, Catherine, invitano a non lasciarsi condizionare eccessivamente dalla letteratura, soprattutto quella gotica, sensazionale e irrealistica di moda alla fine del Settecento, e a guardare la realtà per quello che davvero è, con i suoi “mostri” e le sue brutture ben più prosaiche, banali e quotidiane. Forse con "La bambinaia francese", in cui sono numerosi i riferimenti a "Northanger Abbey", Bianca Pitzorno si propone di rivolgere lo stesso invito ai suoi lettori e in particolare ai fan di "Jane Eyre": imparare a guardare ogni cosa, anche ciò che più si ama e si crede di conoscere alla perfezione, con mente lucida e sgombra. E ne saremo arricchiti.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    07 Novembre, 2019
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Giallo vittoriano

Quando l’anziano baronetto Sir Michael Audley, proprietario della splendida Audley Court nel villaggio di Audley, nella campagna inglese, perde la testa per la giovanissima istitutrice delle figlie del medico del villaggio, Lucy Graham, e la sposa, non coglie di sorpresa nessuno tra i suoi conoscenti. Nel villaggio tutti hanno notato da tempo l’espressione adorante con cui la segue durante le funzioni in chiesa e in fondo Miss Graham, povera e sola al mondo, possiede tutti i doni necessari ad affascinare un uomo di tale levatura sociale: una bellezza adolescenziale fuori dal comune, un carattere amabile e dolce, uno spirito vivace. Chiunque la incontri non può che restare incantato dalla deliziosa Lucy Graham, con i suoi riccioli d’oro da dipinto rinascimentale, gli occhi color del cielo e il visino perfetto e biasimare il destino amaro che l’ha condannata a essere una serva in casa d’altri. Ora che il matrimonio l’ha trasformata nella ricca, potente, adulata Lady Audley, la sua storia ha assunto il tono di una fiaba a lieto fine. Neanche l’ostilità sotterranea di Alicia, figlia del precedente matrimonio di Sir Michael e costretta a cedere con rammarico il ruolo di padrona di casa, può intaccare l’immagine di perfetta felicità che Lucy Graham rappresenta.
Tutto cambia quando al castello giunge in visita il nipote di Sir Michael, Robert, portando con sé l’amico George Talboys. Nel corso della sua oziosa esistenza, il giovane Robert non ha mai pensato che ci fosse qualcosa per quale valesse la pena di darsi da fare in alcun modo. Avvocato a tempo perso, indolente, apatico, non ha mai seguito una causa, vive di rendita e la sua unica ambizione è condurre una vita il più possibile comoda e tranquilla. Ha rivisto per caso George Talboys dopo alcuni anni e per aiutarlo a riprendersi dalla recente perdita della moglie lo ha invitato ad accompagnarlo a casa dello zio. Durante il soggiorno a Audley, però, si verificano una serie di strani eventi finché George Talboys scompare letteralmente nel nulla. Per la prima volta nella sua esistenza Robert, addolorato e sconvolto, avverte l’impulso di agire e si lancia in una lunga indagine che lo porta a convogliare i propri sospetti verso un’unica, sconcertante direzione.
"Il segreto di Lady Audley" è un mystery, un giallo vittoriano dalle atmosfere gotiche considerato una delle massime espressioni del sensation novel: questo genere narrativo fiorisce in Inghilterra tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dell’Ottocento ed è caratterizzato da uno stile “sensazionale”, omicidi, follia, intrighi, fantasmi, misteri e tutti quegli elementi ad alto tasso di spettacolarità che garantiscono una facile presa sull’attenzione e la curiosità dei lettori di età vittoriana, avidi consumatori di riviste e periodici che pubblicano questi romanzi a puntate. Le opere del celebre Wilkie Collins incarnano questo filone letterario alla perfezione e non a caso Mary Elizabeth Braddon è considerata la sua unica vera rivale tra gli scrittori che scelgono la strada dei romanzi a tinte forti. Eppure, per essere un giallo "Il segreto di Lady Audley" presenta un difetto singolare, una buona dose di prevedibilità: quasi ogni svolta della trama può essere indovinata con scarso margine di errore diverse pagine prima che si verifichi e c’è ben poco di sorprendente o inaspettato, soprattutto per un lettore contemporaneo, che tra libri, film e serie tv di ogni genere tende a essere piuttosto smaliziato. Forse soltanto il colpo di scena finale, che si condensa nelle ultime dieci pagine, è più difficile da prevedere e lascia effettivamente a bocca aperta, ma fino a quel punto "Il segreto di Lady Audley" è un romanzo che presenta pochissime sorprese.
Tuttavia la prevedibilità, che per un giallo è forse il maggior indice di fallimento, non intacca minimamente il delizioso piacere della lettura. I segreti della misteriosa Lady Audley, certo, non possono essere svelati, ma il segreto di questo romanzo sì ed è la sua meravigliosa scrittura. Ricca, sontuosa, elaborata, magnetica, eccezionalmente evocativa nella descrizione di personaggi, stanze, abiti, giardini, boschi, capace di mescolare alla perfezione ironia e dramma, azione e descrizioni, pathos e leggerezza. Il sensation novel, in fondo, si basa proprio sulla prevedibilità della scoperta, un meccanismo rassicurante che soddisfa il desiderio inconscio del lettore di vedere realizzato proprio ciò che si aspetta e che desidera. Tutto ciò che è toccato dalla penna dell’autrice acquista la concretezza della realtà, di cose che si possono vedere e toccare, e al tempo stesso sembra avvolto da un alone di magia: i prati di Audley, la locanda nel bosco, le sontuose stanze del Castello, le pieghe dei ricchi abiti della signora e il suo splendido boudoir con le porcellane finissime, i dipinti antichi, i cofanetti colmi di gioielli, le stoffe preziose, le coppe intarsiate d’oro e d’avorio che circondano come una regina lei, Lady Audley, una bellezza angelica che ha sepolto dentro di sé segreti terribili. Figura dominante e vera protagonista del racconto, sebbene buona parte della narrazione sia condotta attraverso lo sguardo di Robert, Lucy è l’antieroina per eccellenza del sensation novel, una donna bellissima e pericolosa che calpesta tutti i rigidi valori morali della benpensante società vittoriana, mettendone a nudo la fragilità, e distrugge la pace e la serenità della vita domestica che in quanto donna, secondo il pensiero del tempo, dovrebbe invece custodire e preservare. Mentre si partecipa alle indagini di Robert, si gioisce a ogni vittoria e si impreca a ogni sconfitta, si palpita per il suo amore, si soffre per la sua perdita, si ride della sua indolenza, le sue debolezze e i suoi monologhi interiori contro le arti seduttive femminili, la vera luce del racconto è proprio Lady Audley (il suo nome di battesimo, Lucy, è significativo), una giovane donna che ha tentato con ogni mezzo di plasmare il proprio destino in una società che consentiva alle donne ben pochi modi onorevoli per farlo. Per quante parole di biasimo possano esserle dedicate, non si riesce a mettere a tacere il sospetto che l’autrice, almeno un poco, parteggi segretamente per la sua sventurata eroina. Una figura quasi diabolica dalla quale non si può che restare soggiogati, come davanti alla terribile bellezza di una tempesta distruttrice.

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I romanzi di Wilkie Collins.
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Cathy Opinione inserita da Cathy    21 Ottobre, 2019
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L’ambiguità e l’inafferrabilità del reale

Molti critici hanno osservato che il "Giulio Cesare" è una tragedia senza protagonista: Cesare muore all’inizio del terzo atto, pronuncia meno del sei per cento delle parole del dramma ed è presente in scena per poco più di un decimo della durata dell’azione. Più che la figura di Cesare, al centro del dramma ci sono la morte di Cesare, non come protagonista della vicenda, ma in quanto sovrano che va eliminato prima che diventi un tiranno, e il sangue di Cesare, anche se, per ironia della sorte, egli si dimostrerà più pericoloso da morto che da vivo. A Filippi, davanti ai corpi degli amici Cassio e Titinio, morti suicidi perché erroneamente convinti della disfatta, Bruto esclama: «O Giulio Cesare, sei ancora potente!/Il tuo spirito cammina, e pianta le nostre spade/Nelle nostre stesse viscere». I veri protagonisti dell’opera sono i suoi uccisori e i loro avversari, due schieramenti che incarnano quindi la contrapposizione tra regime repubblicano e regime monarchico.
Eppure nessuno di loro è un eroe. Lungi dall’evidenziarne le qualità eccezionali, Shakespeare ne sottolinea invece gli aspetti umani, a cominciare dal personaggio di Cesare, che, come scrive Agostino Lombardo, è oggetto di una vera e propria demitizzazione e diventa un uomo che quasi annega nel Tevere, grida come una ragazzina quando è in preda alla febbre e sviene tra la folla per il mal caduco, un uomo che è sordo dall’orecchio sinistro, è preda delle superstizioni, si lascia spaventare da segni e presagi, ama essere adulato e definisce «un pazzo» o «un sognatore» chi tenta di avvertirlo del pericolo.
Tale processo di demitizzazione non coinvolge soltanto Cesare, ma tutti i personaggi, presentati non come statue, ma come uomini, e in quanto tali essi svelano una vasta gamma di sentimenti, debolezze, paure, preoccupazioni. Commettono errori, bramano l’oro e il potere, sono deboli e irresoluti, hanno incubi, paure, allucinazioni.
Perfino Bruto compie, tra gli altri, due errori fondamentali. Il primo consiste nel lasciar vivere Antonio, nonostante il parere contrario di Cassio, che è la mente e l’anima della congiura, il primo a mostrare tutta la durezza della politica e che una rivoluzione, anche se nobile, libera inevitabilmente gli istinti più oscuri. Poi, subito dopo l’uccisione di Cesare, Bruto acconsente alla richiesta di Antonio di parlare al funerale, ancora una volta non ascoltando Cassio, che lo mette in guardia a ragione sul rischio che lo scaltro Antonio rappresenta per tutti loro.
Scopo del "Giulio Cesare" è mostrare l’umanità dei personaggi, offrire un’immagine della fragilità umana, della mutevolezza del mondo, della relatività del reale. Se non ci sono eroi, è perché non esistono certezze né valori assoluti. Tutto cambia, si trasforma e si muove incessantemente. I miti non sono statue di pietra, ma sono fatti di carne e sangue: nascono, crescono, muoiono e sono sostituiti da altri miti che a loro volta, un domani, tramonteranno. La realtà, scrive Lombardo, è inafferrabile, sfuggente, osservabile da mille punti di vista come un’opera manieristica, oggetto di mille interpretazioni. La ricorrente immagine del fuoco e della Terra che «si muove come una cosa malferma», i congiurati che non riescono a trovare i punti cardinali, la morte del poeta Cinna scambiato per l’omonimo congiurato e brutalmente ucciso dalla plebe impazzita al funerale di Cesare, la stessa volubilità della folla, quella «marmaglia» la cui natura «vile» e volubile viene sottolineata fin dalla prima scena del dramma, sono dimostrazioni emblematiche dell’instabilità e della mutevolezza del reale. Durante la battaglia di Filippi, poi, si moltiplicano i fraintendimenti con conseguenze talvolta disastrose.
Secondo Giorgio Melchiori, Shakespeare racconta un episodio della storia romana, ma al tempo stesso porta sulla scena alcuni nodi cruciali della condizione contemporanea. La Roma del "Giulio Cesare" è specchio dell’Inghilterra subito prima della morte di Elisabetta. I protagonisti, proprio come l’uomo sulle soglie dell’età moderna, si scontrano con un mondo oscuro, sfuggente, problematico, incoerente. Un mondo che l’uomo del Rinascimento deve affrontare con le proprie forze, tentando di dargli un significato senza potersi appoggiare alle certezze dell’universo medievale. Il personaggio di Bruto è una delle maggiori incarnazioni della crisi elisabettiana: se da un lato è rivolto al passato, alla tradizione, all’autorità, come dimostra il suo attaccamento per Cesare, dall’altro è proiettato verso il futuro, con il suo desiderio di libertà e il suo rifiuto del potere assolutistico. La sua esitazione, come quella di Amleto, non nasce dalla viltà, ma dal dibattito interiore dell’uomo moderno, diventato responsabile del proprio destino. Bruto è un intellettuale, definito dai critici il primo vero intellettuale che si incontra nel corpus shakespeariano, un uomo schivo, più bravo a leggere il proprio animo che di quello altrui (e la sua incapacità di comprendere e indirizzare l’umore della folla lo dimostra), consapevole della nuova, difficile realtà che si presenta all’uomo quando l’ordine tradizionale scompare, così come scompare Cesare, e impegnato nello sforzo di decifrarla e chiarirla tanto a se stesso quanto agli altri anche per mezzo del teatro, esaltato attraverso le sue parole e quelle di Cassio subito dopo l’uccisione di Cesare. E ciò che più di ogni altra cosa rende Bruto così emblematico della modernità a cui appartiene è che gli elementi in conflitto dentro di lui non trovano una ricomposizione armonica: il dubbio di Bruto, non si risolve o si risolve solo in superficie.
Il "Giulio Cesare", redatto da Shakespeare mentre compone l’"Enrico V", ha una posizione chiave nella produzione shakespeariana: da un lato sviluppa e conclude il tema della legittimità della deposizione e dell’uccisione di un sovrano, filo conduttore del precedente ciclo di opere (da "Riccardo II" a "Enrico V") dedicate alla storia inglese, dall’altro prepara la grande stagione tragica aperta dall’"Amleto", che riprende questo tema per esplorarlo ad un livello più profondo. Già le "Vite" di Plutarco (fonte principale del "Giulio Cesare") affrontano il problema dell’uccisione del sovrano e delle sue conseguenze da diversi punti di vista: se da un lato il tirannicidio è giustificato, dall’altro né Cassio né Bruto si salvano da quello che Enrico IV morente definisce “il fango” dell’impresa. Il motivo della sconfitta dei cesaricidi sta qui, ma il riscatto sta nella forma della loro morte, il suicidio, considerato un atto di romana fermezza e nobiltà. In età elisabettiana, infatti, l’aggettivo “romano” si associa alla nobiltà d’animo, ma anche al suicidio, la più elevata espressione di tale nobiltà. È chiara ancora una volta l’importanza del "Giulio Cesare" per l’"Amleto": i dubbi e le esitazioni del principe danese culminano nel più celebre dei suoi soliloqui, una meditazione sul suicidio che diventa il nucleo delle sue interrogazioni senza risposta.
Secondo la leggenda, in fondo, gli inglesi discendono da un pronipote di Enea, Bruto. Gli elisabettiani, quindi, avvertono uno stretto legame con il mondo romano: romani e britanni discendono dalla stessa stirpe e condividono gli stessi alti ideali di onore, nobiltà, risolutezza, lealtà, coraggio. Se per gli spettatori del Cinquecento l’antica Roma è una sorta di controparte ideale del loro mondo, i drammi classici sono una vera e propria storicizzazione del presente. Nelle opere romane di Shakespeare la riflessione sulla storia si proietta nella dimensione della Roma antica, liberandosi dai vincoli politici imposti dalla rappresentazione di episodi della storia nazionale recente, e affronta temi che il drammaturgo non avrebbe potuto trattare apertamente nei drammi di storia inglese senza incorrere nella censura.
Attraverso episodi e personaggi della storia romana, Shakespeare riflette sulla natura e sul comportamento umano. Nei discorsi di Bruto l’uccisione di Cesare è presentata sia come un atto necessario e preventivo, finalizzato ad evitare che in futuro egli si lasci trascinare dall’ambizione e diventi un tiranno, sia come un sacrificio, un dono agli dei, eppure Bruto sembra non rendersi conto del fatto che il loro sarà un sacrificio umano, un’azione terribile che contrasta con il proposito da lui espresso di essere «sacrificatori», non «macellai». Il personaggio di Bruto si mostra così perfettamente in accordo con l’intera opera: la stessa forma del Giulio Cesare è una costruzione solo apparentemente solida, lineare, perfetta, insomma, “romana”. Appena sotto questa superficie fremono le spinte che la disgregheranno.
Nell’"Amleto" la domanda di Bruto, solo davanti al problema dell’uccisione di Cesare, è posta al centro del dramma e ad essa cercano di rispondere le tragedie successive, conducendo una riflessione a tutto tondo sulla condizione umana e tentando di costruire un mondo adatto ad accogliere l’uomo moderno. Tale tentativo ha inizio proprio con il "Giulio Cesare", che apre così la massima stagione dell’arte di Shakespeare.



Le citazioni sono tratte da:
W. SHAKESPEARE, Giulio Cesare, a cura di A. LOMBARDO, Feltrinelli, Milano, 2014.

Testi di riferimento:
A. LOMBARDO, L’eroe tragico moderno. Faust, Amleto, Otello, Donzelli, Roma, 2005; S. MANFERLOTTI, Rosso elisabettiano. Saggi su Shakespeare, Liguori, Napoli, 2017; S. MANFERLOTTI, Shakespeare, Salerno Editrice, Roma, 2010; G. MELCHIORI, Shakespeare. Genesi e struttura delle opere, Laterza, Roma, 2005.

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Cathy Opinione inserita da Cathy    09 Ottobre, 2019
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Il male di vivere

"Storia di chi fugge e di chi resta" è uno strano romanzo. Non è privo di problemi, anzi. È lento, lentissimo. Non succede praticamente nulla. Pagine e pagine di nulla o meglio di tormenti interiori di Elena, scontenta di tutto ciò che esiste al mondo, e solo ogni tanto uno sprazzo di eventi che mettono in moto la trama. Di tutto quello che succede a Elena in trecentottantadue pagine non c’è nulla che le piaccia, le vada bene o la renda davvero felice: il matrimonio zoppica, le figlie la sfiancano, la madre è invadente, la scrittura non va, i suoceri la fanno sentire eternamente debitrice, Lila la provoca, Nino non si fa vedere. Una nebbia di angoscia e insoddisfazione si solleva fitta dalle pagine e si fa fatica a liberarsene anche quando si chiude il libro. Eppure non si può dire che questa spiacevole sensazione sia dovuta alla particolare bravura della Ferrante nel far uscire il racconto dalle pagine, perché è semplicemente un elenco, una lunga serie di guai e psicodrammi di vario genere che lasciano addosso un male di vivere che neanche il cavallo stramazzato e la foglia accartocciata di Montale. Si arriva a un punto in cui non se ne può più di questo libro e lo si mette da parte per un po’, ma se poi capita di riprenderlo in mano, di aprirlo e leggere qualche riga, si deve continuare e non si riesce a metterlo giù, anche solo per la voglia di avvicinarsi alla parola fine e scoprire dove va a parare. È contraddittorio? Forse, ma è così. Poi arriverà un altro momento in cui non se ne può più e la trafila ricomincia, fino all’ultima pagina.
Quasi tutti i personaggi diventano ancora più intollerabili di prima, a cominciare da Elena, che si lamenta di tutto e tutti senza mai fare nulla di concreto e utile per migliorare quello che non le piace e poiché la narrazione, a differenza dei due romanzi precedenti, si concentra molto di più su lei che su Lila, il risultato è che viene voglia di dargliele una volta sì e l’altra pure. I personaggi che non peggiorano restano così come sono, da Lila, che inizia a guardare male suo figlio quando capisce che è di Stefano e non di Nino, allo stesso Nino, che mette in scena con Elena lo stesso, identico, squallido copione usato con Lila, ma lei è troppo impegnata a saltellargli intorno e non se ne accorge, credendo che finalmente sia arrivato il vero amore e di essersi presa una rivincita su Lila, perché lo Scemo (ovvero Nino) ha scelto lei e non l’amica. Questo sì che è femminismo.
Pietro è l’unico per il quale si può provare, a tratti, un po’ di vera solidarietà, perché almeno, nonostante i suoi errori, ha un progetto di vita e cerca di metterlo in pratica con impegno e serietà. E poi già il fatto che sopporti Elena e le sue lagne senza fine va a suo merito. Peccato che alla fine del libro la sua reazione alla separazione dalla moglie sia tale da far precipitare anche lui e quindi, a conti fatti, non si salva nessuno, a parte quel santo di Enzo Scanno che rimane l’unico personaggio decente di questa storia e che meriterebbe molto più spazio. Onore a Enzo.
Eppure, come si diceva all’inizio, questo è uno strano romanzo e nonostante tutto a fine libro si è ancora lì a pensare "Andiamo avanti, vediamo come va a finire". La Ferrante non sarà una grandissima scrittrice, però ha questa misteriosa capacità di spingere a continuare anche se non si riesce nemmeno a capire perché. Anche questo è un talento, in fondo.

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La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele
La compagnia degli enigmisti
Il mio assassino
L'età sperimentale