Opinione scritta da Angela E81

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Angela E81 Opinione inserita da Angela E81    12 Settembre, 2013
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Echi caduti nel vuoto?


Sin dalle prime pagine mi è apparso piuttosto chiaro che non avrei trovato la stessa intensità che ho trovato qualche anno fa in Mille Splendidi Soli, altra opera di Hosseini al mio attivo. “E l’eco rispose” non può essere considerato un libro cattivo; è sicuramente gradevole, i contenuti non sono certo scarni o miseri ( semmai si eccede nella direzione opposta: è come una tavola fin troppo imbandita e piena di vivande); va decisamente bene come lettura di intrattenimento: è un’ epopea romantica e struggente, in cui il filo conduttore, a dire il vero un po’ seppellito sotto molta, troppa, varietà di vicende, sembra essere l’importanza delle scelte, cosa tenere per noi stessi e cosa concedere agli altri; partire, restare, accogliere, rinunciare, negarsi, donarsi: il peso delle nostre scelte personali sulle sorti degli altri, il sacrificio, le decisioni laceranti quanto necessarie.
Eppure qualcosa manca, forse appunto soffocato dalla sovrabbondanza di personaggi e situazioni. Ci si affeziona subito a Pari, ad Abdullah, persino a Parwana e a Sabur; poi a Nabi, a Sulemain, a Nila… Se non avessi letto il libro, avrei detto che sette personaggi, ( senza contare Pari “seconda” che appare nella parte finale del libro, e sua madre Sultana) tutti abbondantemente caratterizzati, sarebbero più che sufficienti a costruire un libro avvincente ad articolato. Ma ecco aggiungersi altre storie, a sé stanti, anche se ( a volte davvero minimamente) collegate alla storia principale. Non ci sarebbe nulla di strano o di male, nello scrivere un romanzo che funziona quasi come una raccolta di racconti; le storie dei due cugini Idris e Timur, del dottor Markos, della sua amica sfregiata Thalia, di Madaline e Odelia; di Adel e Gholam (l’unica, questa, ad essere davvero funzionale alla storia principale) sarebbero, in sé, dei racconti niente male. Il problema sorge nel momento in cui gli spazi dedicati ai vari personaggi sono talora eccessivi, talora stringati. Laddove ci si aspetterebbe una minuzia di particolari, si trovano vite intere compresse in una pagina e mezza; mentre ci si ritrova impazienti di superare un paragrafo o una parte a volte fastidiosamente prolissa.
L’eco del titolo, in realtà, di risposte è piuttosto avara, per quanto riguarda la vicenda che si erge tra le altre come principale; senza arroganza, azzarderei a dire che il finale poteva essere gestito meglio, magari avendo lasciato sparse alcune piccole tracce durante il corso del libro, che potevano essere riannodate alla fine, se non altro per pacificare l’animo del lettore che dopo 450 pagine si aspetta di più che una visione romantica e onirica, bella ma priva di una vera sostanza conclusiva.
Consigliato, non consigliato? Dipende. Leggetelo se vi piacciono le vicende piene di buoni sentimenti, se amate le storie commuoventi, che parlano di famiglia, di personaggi buoni e generosi. Non leggetelo se siete attenti alla costruzione, al ritmo e all’equilibrio di un libro, e se siete alla ricerca di quell’opera dopo la quale nulla sarà più come prima. Per quanto mi riguarda, un’avventura letteraria che non ripeterei.

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Angela E81 Opinione inserita da Angela E81    12 Settembre, 2013
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Un pezzo di preistoria in era moderna

Il libro di Doris Lessing, Il quinto figlio, viaggia attraverso una netta dualità di atmosfera. All’inizio, la vicenda neo-romantica di David ed Harriet, sembra quasi scritta in uno stile faceto, ottimo accompagnamento per tè e pasticcini. Il clima è disteso, idilliaco. Il sogno di una casa enorme piena di bambini prende forma,quattro figli arrivano a breve distanza l’uno dall’altro, la famiglia allargata, sempre unita e numerosa, sembra un’oasi fin troppo spensierata.
Ed ecco Ben, il quinto figlio, che già durante la gravidanza si preannuncia diverso, violento, aggressivo, quasi come un virus malefico che avvelena il grembo che gli sta dando la vita. Ed ecco anche il brusco cambiamento di atmosfera del libro, che piomba in una tetraggine inquietante e sottile.
Il bambino, nascendo, rivelerà fattezze elfiche, anzi, neandertaliane; una forza e un appetito sovrumani, oltre a una preoccupante inclinazione alla violenza. Prende corpo nella mente dei genitori l’idea che possa essere non solo uno scherzo dei loro geni, ma una vera e propria creatura di un remoto passato, sfuggita a secoli di evoluzione e trapiantatasi nell’era moderna.
Il sogno della famiglia numerosa e felice è distrutto, i quattro precedenti bambini si costituiscono in una corporazione impenetrabile che li porterà ad allontanarsi il prima possibile dalla casa dei genitori, lontani dall’intruso, dall’alieno, dal diverso. Harriet, la madre, è lacerata da un senso di colpa inestinguibile, sia per non riuscire ad amare quel figlio inspiegabile e anaffettivo, sia per averlo messo al mondo; colpa questa, che tacitamente tutti sembrano attribuirle, così come quella di essere l’unica che, interessandosi delle sorti del figlio “diverso”, causa lo sfilacciamento progressivo della famiglia e dell’intesa coniugale.
Ben non è cattivo, pur nella sua violenza. È una forma di vita semplice, senza le sovrastrutture dell’evoluzione. Intorno a lui e ad Harriet, che pure non riesce ad amarlo fino in fondo, la terra diventa bruciata. La famiglia, persino il padre, David, tutti prendono le distanze, medici ed insegnanti rifiutano di pronunciarsi, lasciando Harriet sempre più sola e sgomenta; la posizione netta di chi crede di essere nel giusto solo perché è nato “normale” e bene inserito in un contesto sociale, diventa sempre più aspra, sempre meno disposta alla comprensione. Durante la lettura, ci si trova a provare sentimenti contrapposti nei confronti dei protagonisti: essi destano talvolta pena, talvolta biasimo. L’autrice non concede sconti a nessuno, e rappresenta le persone con in tutto il realismo necessari in una simile storia, anche quando si sfiora la crudeltà.
Non è un caso se Ben diventa ben accetto e addirittura leader presso le fasce più abiette della società, quelle più simili a forme di branco, di clan; lì, la natura primitiva del bambino fattosi ragazzo trova il suo habitat naturale, la sua spontanea inclinazione alla violenza è la caratteristica che lo porterà a primeggiare tra gli ultimi.
Eppure la società, fatta di nonni, fratelli, zii e cugini che circonda Ben e sua madre Harriet, non è molto diversa, per logica, da un clan primitivo; la consapevole volontà di emarginare, di escludere, di abbandonare il diverso al suo destino, di allontanare la mela marcia dal cesto, non è forse dettata da un atavico istinto alla sopravvivenza? Non è un’allontanarsi dall’ideale manifesto di famiglia unita e felice, in favore di un individualismo autoconservativo?
L’autrice ha portato avanti un’idea di fondo relativamente semplice, quella di considerare la diversità delle persone a seconda dei contesti, e ci è riuscita, alimentando nell’animo del lettore ulteriori interrogativi, tutti molto pesanti e impossibili da ignorare.
Sconsiglio la lettura a donne in attesa o che stanno pianificando arrivo di altri bambini, perché la vicenda potrebbe turbare gli animi sensibili.

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Angela E81 Opinione inserita da Angela E81    10 Settembre, 2013
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Passioni incomplete

David Lurie è un uomo che, nella vita, si colloca in tutto quello che fa in una zona grigia, mediocre. Professore senza talento e senza passione, svolge la professione per pura necessità; così come per pura necessità fa sesso. Che siano mogli, prostitute o donne incontrate per caso, che pure non lo attraggono affatto, non è per lui molto importante, ciò che conta è “risolvere il problema”.
Fin dall’inizio della storia, Lurie è passivamente afflitto da un male di vivere che sembra causato dalla mezza età ma che ha chiaramente radici ben più antiche.
Anche nella passione per la sua giovane studentessa, che lo porterà a cadere in disgrazia (“Disgrace” infatti, è il titolo originale dell’opera) Lurie è semplicemente trasportato, senza un effettivo potere decisionale nemmeno sulle proprie stesse azioni. Accusato di molestie, rifiuterà persino di difendersi, salvo poi un tardivo tentativo presso la famiglia della giovane, dove si azzarderà a dire che anche nel suo ardore c’è sempre qualcosa di incompleto, il suo fuoco non brucia mai fino in fondo: sembra rendersi conto, Lurie, che probabilmente la sua colpa più grave è proprio questa.
Così come non sarà in grado di andare fino in fondo nel suo ruolo di padre, pur essendo sinceramente legato alla figlia Lucy. La giovane, alla presenza impotente del padre, subirà una violenza, figlia dell’apartheid, ad opera di individui che sfogano sulla colona bianca la frustrazione di anni di schiavitù in terra propria. Sarà forse un senso della giustizia esacerbato che spingerà la giovane ad accettare l’atto di violenza fin nelle sue più estreme conseguenze, lontana dalla comprensione di David, e dai suoi goffi tentativi di protezione paterna.
Rifugiandosi nell’arte, e nella composizione di un’opera lirica alla quale non riuscirà ad imprimere forza e bellezza, Lurie subirà l’ennesimo fallimento, e non gli resterà che farsi psicopompo di poveri cani, che arrivano alla clinica veterinaria dove egli presta aiuto per affrontare il trapasso degli indesiderati. La scena finale, che non svelo, sottolinea l’incapacità del protagonista a costruire legami affettivi, e tutta la fredda e algida disperazione insita nella condizione di disgrazia affettiva ed emotiva.

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