Opinione scritta da BettiB

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BettiB Opinione inserita da BettiB    24 Gennaio, 2019
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Chissà cosa succede poi

E' la prima volta che leggo qualcosa di Carofiglio, quindi il mio giudizio si basa esclusivamente su questo unico libro.
Enrico ha quasi cinquant'anni e la sua carriera si è fermata un decennio prima con l'esordio del suo unico libro: un capolavoro, ai tempi, ma al quale non è mai seguito altro, e questo ha bloccato non solo la carriera ma tutta la vita di Enrico. Senza riuscire più a scrivere nulla, e avendo rinunciato anche solo a provarsi, l'uomo si è ridotto a fare il ghost-writer per personaggi di spicco, riscrivendo biografie impossibili delle quali non può dire nulla per contratto. La moglie l'ha lasciato per un collega più giovane, senza che lui abbia nemmeno mai provato a reagire. Vive da solo a Firenze dai tempi dell'università, avendo completamente chiuso dietro di sé la sua vita da adolescente a Bari.
Vita di cui riprenderà le fila quando un giorno improvvisamente legge un trafiletto sul giornale che parla di una rapina finita con un morto: un suo vecchio compagno di scuola. Questo lo spinge a prendere un treno il giorno stesso e con due cose buttate nello zaino raggiungere Bari. Il risultato sono 4 giorni di girovagare ripercorrendo vecchi episodi dei suoi anni di scuola, riscoprendo il ragazzino che era, il rapporto con Salvatore, compagno comunista già sotto la lente della polizia durante la scuola che ha poi passato la vita tra carcere e rapine. Riprende contatto con il fratello con cui non hai mai avuto un legame, con il suo scrittore interiore che di nuovo lo spinge a ricominciare a scrivere e non ultima con la sua supplente di filosofia di allora, Celeste, primo amore mai dimenticato.

La trama è, come potete immaginare, abbastanza interessante. Peccato che a parere mio sia sviluppata male e bruciata sul nascere. Bellissimo il ripercorrere la sua adolescenza, con passaggi fondamentali (il primo bacio), i rapporti del tempo (con il padre, il fratello, la migliore amica), le speranze e i primi amori che allora sembravano più importanti di tutto il resto... peccato che ciò non porti a nulla. Il "fuoco" della storia, l'amico comunista già concentrato sulla lotta armata poteva essere lo spunto per approfondimenti storici di rilievo, per risvolti narrativi e colpi di scena. Invece nulla. Il protagonista semplicemente si fa un giro nel passato e ritrova sé stesso e un vecchio amore. Punto. Mai visto un finale così bruciato, così tagliato al limite del non senso.
Persino la psicologia dei personaggi, i loro risvolti emotivi, sembrano stereotipati se non superficiali.

Parlando dello stile... è scritto bene, scorrevole, molto meglio di altro che mi è capitato di leggere. Non mi è piaciuto il doppio registro per i diversi capitoli dedicati al "presente" e al "passato". Prima persona al passato per i capitoli dedicati all'adolescenza di Enrico, ai ricordi visti attraverso gli occhi di un sedicenne (ed emozioni già più credibili, raccontate così), per passare poi alla seconda persona singolare per l'Enrico adulto, che quasi estraniandosi da sé stesso racconta la sua vita senza lode né infamia.
"Sei arrivato ... ti accorgi... ti ha fatto bene... ti sembra una buona idea..." tutto così, per raccontare di sé. Non so, mi è sembrato un espediente simile a quello di chi parla di sé stesso in terza persona, e insomma non l'ho adorato. Ma è gusto personale, perché non s può dire che fosse scritto male.

In sintesi direi che il libro aveva delle grandi potenzialità (titolo e copertina bellissimi, tanto per cominciare). Potevo anche passare sopra lo stile, se la trama avesse rispettato le promesse che i personaggi avevano messo in campo. Ma non è stato così. Peccato.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    31 Dicembre, 2018
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La Cina dell'aldilà

Il quarantunenne Yang Fei esce di casa, nel suo primo giorno da morto, e trova una fitta nebbia che gli impedisce di vedere chiaramente la strada per arrivare alla camera ardente dove sarà cremato. E' morto, ma ad aspettarlo non c'è nessun funerale né tomba in cui riposare in pace. Non ha sepoltura. Da questa prima scottante consapevolezza parte il suo viaggio "nell'aldilà", che ripercorre la sua vita "nell'aldiqua".

Nei sette giorni descritti da Yu Hua il protagonista ripercorre la sua vita, incrociando lungo il suo errare le persone a lui care come a dare l'ultimo e definitivo addio: la moglie, il padre, i vicini di casa; ma anche sconosciuti incrociati solo di passaggio, come la giovane coppia che ha vissuto accanto a lui per un breve periodo, i genitori di una scolara che l'avevano assunto per dare ripetizioni. Se il primo capitolo è dedicato alla presa di coscienza di Yang Fei circa il suo stato di morto, gli altri sono dedicati alle storie di questi personaggi che ne incrociano la vita.
Subito incontriamo la moglie e Fei ci racconta di come si sono conosciuti, di come si sono innamorati, della felicità di quei brevi anni di matrimonio, poi del divorzio e della solitudine vissuta da allora.
Uno dei miei capitoli preferiti è dedicato al padre, Yang Jinbiao: solo ventunenne trova un neonato piangente tra le rotaie e da quel giorno se ne fa carico, amandolo visceralmente, mettendolo prima di tutto e tutti.
Poi ancora i vicini di casa, che l'hanno cresciuto come un secondo figlio. Yang Fei ritrova tutti loro nell'aldilà, morti anche loro nel lasso di tempo subito precedente alla sua dipartita, e ha modo di confrontarsi con tutti loro su ciò che è stato fatto in vita. Viene a conoscenza anche delle storie di chi in vita non ha mai avvicinato, come una giovane coppia senza soldi che ha vissuto per un breve periodo accanto al suo appartamento, e che per l'anno successivo si era dovuta trasferire sottoterra, a vivere come topi.
Tantissime storie che si incrociano e come fili al vento si perdono nella "terra di chi non ha sepoltura" (condizione molto comune in Cina, a quanto pare). Pecca: il finale un po' bruciato e poco incisivo.

Forse soprattutto tramite questa coppia, ma a suo mondo attraverso tutti i personaggi e lo sguardo del protagonista, Yu Hua descrive la Cina contemporanea senza filtri: ne fa un ritratto dissacrante ed estremamente crudo, che a tratti fa sorridere di un sorriso amaro per l'ironia della realtà - a tratti fa rabbrividire. Una Cina povera, attaccata ai beni materiali più che a tutto il resto, con gente che vende reni per due soldi in più, con i pregiudizi della società, con i parenti lontani e la vita impossible da vivere. Una Cina in cui persino i nuovi morti, in attesa della cremazione, si vantano dell'esosità della sepoltura e del corredo funebre.

Lo stile è scarno e semplice, un po' freddo. Forse per consapevole scelta dell'autore manca un approfondimento sui sentimenti dei personaggi: ne vengono descritte le storie e i sentimenti più ovvi (tristezza, amarezza, malinconia) ma tutto mi è sembrato molto "semplificato", a beneficio di un'analisi antropologica molto puntuale.
Forse è solo che a me personalmente non piace molto la letteratura cinese, anche se leggere questo sguardo critico sulla Cina attuale è stato molto interessante, quasi surreale tanto è lontano dalla nostra realtà.

Consiglio comunque la lettura, sia per la bellezza di alcune delle storie (e il difficile passo dell'addio, della fine), sia per lo sguardo inedito sulla Cina vissuta dal basso.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    26 Dicembre, 2018
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Harmony ma con perfetta ricostruzione storica

Nutro sentimenti profondamente contrastanti verso questo libro e in generale verso questa saga.
Il mio lato irrazionale e "di pancia" si è profondamente affezionato a tutti i personaggi e alle loro vicende, fantasticandoci sopra e rileggendo spesso alcuni capitoli sparsi qua e là. La mia parte razionale e più critica nutre invece diverse riserve proprio sugli elementi portanti del libro: i personaggi, la trama, lo stile (mi chiedo ancora perché ho letto tutti i libri e non mi sono fermata a quando ha iniziato a degenerare in modo esagerato...)
Ma andiamo con ordine.

Outlander - La straniera, primo libro di questa immane saga, racconta di Claire, giovane neosposina e infermiera reduce dalla Seconda Guerra Mondiale che può finalmente ricongiungersi con il marito, storico di professione. I due tentano di rivivere una sorta di seconda luna di miele a Inverness, nelle Highlands scozzesi. Durante una delle sue passeggiate in solitaria alla ricerca di specie di piante e fiori curativi (passione di Claire), la ragazza capita in un antico luogo sacro, Craigh na Dun, e viene catapultata indietro di 200 anni. Totalmente spaesata comincia la sua avventura tra i clan scozzesi: prima tentando di fuggire disperatamente per tornare nella sua epoca e da suo marito Frank, poi iniziando a nutrire un'ardente passione che sfocia in amore verso Jaime, un giovane scozzese parte del clan che si trova costretta a sposare per sfuggire all'arresto da parte del generale inglese Randall che è 1. antenato di suo marito e 2. particolarmente accanito contro Jamie. A tutto ciò si intrecciano le vicende storiche di una Scozia in subbuglio, seguace di Bonnie Prince Charls, con i giacobiti che iniziano a far sentire la propria voce e che porterà poi al massacro di Culloden.

Questo il riassunto estremamente spicciolo della trama di questo primo libro. In realtà le vicende sono tantissime (davvero tantissime!), sembrano delle vere e proprie puntata di una serie tv - come se la scrittrice ben sapesse che il materiale poteva trasformarsi facilmente in un telefilm. E forse proprio qui cominciano le note dolenti.
Le vicende sono appunto degne di una serie tv... in modo esagerato. Succede di tutto, estremi pericoli e rischi di morte ad ogni angolo, una pagina dietro l'altra. Posso capire le difficoltà e gli ostacoli della vita del '700 nelle highlands, ma Claire e Jamie sono particolarmente sfortunati! Perseguitati, perennemente in viaggio, imprigionati più e più volte, torturati... ad ogni pagina! E' tutto un po' "too much" da credere, persino per quell'epoca.

Poi, i personaggi. Per quanto il mio inconscio perdutamente romantico adori il tipo alla Jamie Fraser - bellissimo, coraggioso, impavido, sempre giusto e rispettoso, aperto e comprensivo, sensibile, eccetera eccetera - avrete capito da voi da questa breve descrizione che è il tipico uomo perfetto in stile harmony. E Claire... la più bella di tutte, pure lei coraggiosissima, non si piega davanti a niente, passa sopra a tutto pur di averla vinta... altro personaggio TROPPO perfetto, troppo stereotipato, i cui "difetti" sono in realtà unanimemente apprezzabili. Per quanto riguarda la costruzione dei protagonisti direi che non ci siamo troppo. Decisamente troppo harmony.
Un pochino meglio forse i personaggi secondari, forse perché la Gabaldon ha potuto sbizzarrirsi un po' più con la fantasia, ma qui l'approfondimento è talmente lieve che non si può davvero dire.

Lo stile dell'autrice, Diana Gabaldon. Di lavoro la Gabaldon studia, e in questo caso la ricerca storica che ha fatto per la saga di Outlander è a dir poco impeccabile: descrive l'epoca con un senso di vicinanza incredibile, tanto da portarti a credere di conoscere a menadito usi e costumi delle Highlands (prima) e delle prime colonie americane (poi). Storicamente ineccepibile. Sia per quanto riguarda il lato storico quindi vicende, fatti, date, personaggi, risvolti storici ecc., che, soprattutto, per il modo di vivere e la quotidianità di uomini e donne della metà del '700. Come mangiavano e cosa, come si lavavano, vivevano, cucivano, dormivano...ma anche come si curavano (Claire è un medico) che è forse uno degli aspetti che mi è più piaciuto e mi ha più incuriosito dell'intero libro. Quindi questo ottimo!
Lo stile, d'altro canto, è molto semplice, elementare. Scorrevole, fluido, certo, ma veramente molto elementare. Dialoghi stereotipati quanto i personaggi (a volte decisamente fuori da ogni grazia: frasi che pure negli harmony suonerebbero non credibili, melense, esagerate!), nessuna grande perla - nemmeno quando si capisce benissimo che l'intento primario dell'autrice era proprio quello di piazzarti la perla di saggezza. Su questo a mio parere non ci siamo.

Capite quindi perché sono così combattuta. La mia "pancia" ha letto con piacere i primi libri, ha seguito le vicende dei piccioncini e soprattutto ha imparato un sacco di cose sulla storia scozzese e inglese. Ma la mia parte razionale da lettrice critica riconosce le falle evidenti che ci sono.

E soprattutto, come già detto prima di me: LA SAGA NO. Le vicende di molti personaggi potevano concludersi in modo lineare molti molti libri prima! Non capisco il senso di continuare a sfornare un libro dietro l'altro, quando diventa sempre più palesemente evidente il carattere "forzatamente seriale" delle vicende, che perdono ogni credibilità e diventano al pari di Beautiful!!! Bastavano i primi due, esageriamo, tre libri. Volendo strafare: ok fino all'America perché chiude una sorta di cerchio (SPOILER: si riuniscono, Jamie conosce la figlia, eccetera). Ma poi BASTA. Si è perso completamente il senso e ripeto: Beautiful versione scozzese, con dialoghi ancora più pessimi, scene originali ridotte a meno di zero. Peccato.

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Consiglio solo i primi libri, NON la saga!
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BettiB Opinione inserita da BettiB    26 Dicembre, 2018
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Zaritè e la storia di un popolo

E' il terzo libro di Isabel Allende che leggo e mi lascia un po' interdetta. Ho profondamente adorato il primo, "La figlia della fortuna", mentre la lettura del secondo, "La casa degli spiriti", è stata veramente ostica. Non so dirne il motivo, perché la scrittura della Allende è sempre molto pulita, semplice, altamente descrittiva. Forse, per una volta, la vera differenza la fa la trama.

L'isola sotto il mare è la storia di Zaritè, una schiava cresciuta in quella che oggi è Haiti, di proprietà di un ricco francese padrone di una piantagione da zucchero e numerosissimi altri schiavi.
Ma è anche la storia di Santo Domingo, della colonia e della rivoluzione che ha cambiato la storia di migliaia di persone, schiavi e proprietari terrieri. E' la storia di francesi, spagnoli e americani, di un'America in divenire, degli schiavi e delle loro esistenze. E' la storia della storia, di un popolo. E dentro a tutto ciò è la storia di tante vite che si intrecciano e crescono e, in alcuni casi, muoiono.
Zaritè viene prima acquistata da una bellissima mulatta che mantiene sé stessa e la fedele Loula grazie alla sua bellezza, poi venduta a Valmorain, con cui vivrà per la maggior parte della sua vita: con la prima moglie, accudendone i figli, innamorandosi di un suo schiavo, aiutandolo a fuggire quando i ribelli assaltano la piantagione, seguendolo a New Orleans e vedendolo ricostruire la sua vita con una nuova piantagione, una bella casa in città, una nuova moglie. Tenendo duro, con impressionante dignità ma mai sfacciataggine, Tetè riesce a conquistarsi la libertà, a vivere per sé stessa, sempre pensando però al prossimo prima che a sé stessa, sempre felice nonostante le atroci difficoltà che è chiamata ad affrontare.
Questa la storia a grandi linee: non scendo nei particolari perché 1. sarebbe impossibile riassumere fedelmente tutte le delicate storie che la Allende intreccia in questo romanzo e 2. non voglio rubare a nessuno il piacere di conoscere e seguire da vicino le avventure di tutti i personaggi di questo libro.

Perché non solo Tetè, ma Gambo, Tante Rose, Violette, Rosette, lo stesso Valmorain, e Maurice, e Sancho... tutti sono personaggi completi, vivi, che si muovono davanti agli occhi del lettore, hanno personalità e vita propria. Sono veri, credibili, realistici. Da questo punto di vista la Allende ha sempre avuto una capacità incredibile: tratteggiare un mondo e delle persone che ci vivono dentro tanto realistiche da sentirle accanto. Per questo seguirne le storie è un piacere: il romanzo non è che un grande sguardo sul tempo che scorre, su una famiglia che si crea e cresce e sopravvive in qualche modo.

Lo stile è fluido e scorrevole, linguaggio molto semplice. Forse unica pecca per la lettura le la narrazione in stile descrittivo dell'interno romanzo: pochi dialoghi ma molte pagine che raccontano i fatti per come si svolgono, rendendo appunto il libro un racconto in divenire ma molto "statico", manca di dinamicità, di azione, rendendo a me personalmente a volte la lettura un po' noiosa. I fatti sono lì, le emozioni stentano a trasparire perché solo "raccontati" e non propriamente vissuti in diretta dai personaggi.
La trama stessa, sempre a mio parere, non è nulla di veramente originale. Non dico che le vicende siano totalmente prevedibili, ma molte situazioni sono cliché che ho ritrovato in molti altri libri ambientati nello stesso periodo storico... La trattazione dei fatti rimane sulla traccia di tutta la letteratura di genere; la storia, per quanto intrinsecamente bella, non è niente di "sconvolgente": una schiava che nonostante tutto mantiene alta la sua dignità, porta sulle spalle una vita sfortunata e si batte fino all'ultimo per i propri figli. Non è niente di non visto, e forse proprio questo mi ha impedito di affezionarmi veramente alle storie di Tetè e i suoi compagni di "avventure".

Di contro bisogna ammettere che forse certi limiti sono stati dettati proprio dall'accuratezza con cui la Allende tratteggia il periodo storico e la vicenda di Haiti: senza excursus troppo approfonditi o rimandi troppo "storiografici", le vicende che compongono la storia dell'ex colonia e soprattutto i personaggi storici che ne sono i protagonisti sono romanzate tanto bene da diventare profondamente interessanti. Toussaint Louverture, il generale Leclerc, Dessalines... tutti personaggi storici che tra le righe de "L'isola sotto il mare" diventano veri e propri uomini, in carne ed ossa, con aspirazioni, sogni ed inclinazioni, e non semplici pagine e date vecchie di secoli. E questo è indubbiamente un grande pregio di questo libro e della Allende.

Personalmente ho capito di non amare questo genere di letteratura, ma i personaggi e la trattazione storica meritano una nota di merito. In generale direi che è un libro di facile lettura, forse un po' lento ma di compagnia.
Come piacevolezza avrei votato 3,5: piacevole, leggibile, niente di WOW ma molto, molto meglio di tanto altro.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    16 Dicembre, 2018
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Poesia intramontabile

Temo che "Sogno di una notte di mezza estate" sia la tipica opera di un mostro della letteratura di cui tutti parlano (perché vista a teatro, al cinema, perché ispirazione di qualcosa'altro, ecc.) ma pochi hanno realmente letto. A torto, perché in realtà è piacevolissima da leggere, è facile da approcciare e sempre attuale.

La commedia si svolge ad Atene e nel bosco vicino. In scena si intrecciano le storie di due coppie di amanti (lui ama lei, che lo ricambia, ma è promessa in sposa all'altro, amato dall'altra), tutti riuniti alla corte del loro signore che sta a sua volta per sposarsi. In onore di queste nozze un gruppo di artigiani fa le prove per una "tragedia" da mettere in scena la sera del matrimonio. A corona di tutto ciò il signore delle fate è alle prese con i dispetti alla signora delle fate, aiutato dallo spiritello Puk, che ne combina di ogni e crea non poco scompiglio tra gli amanti stessi.
Da riassumere pare anche semplice, ma in realtà la commedia è ricca di sfumature, ciascuna per ogni personaggio, e di avventure che sono chiamati ad affrontare.

I grandi temi che ricordo di aver studiato essere ricorrenti nella poetica di Shakespeare tornano tutti: l'amore spesso ostacolato, la follia, il teatro nel teatro, e soprattutto i giochi di parole sopraffini ed argutissimi.
Benché la trama sia spassosa ed estremamente attuale - non sorprende possa diventare materiale adattabile ad un film moderno - forse proprio il linguaggio è la cosa che mi è piaciuta di più dell'opera.
Ho sempre pensato che Shakespeare da leggere fosse ostico, se non addirittura noioso. Che errore! Mi sono divertita molto, è stata una lettura piacevole, e trovare certe espressioni e paragoni tra le righe di uno dei più grandi autori del mondo mi ha fatto capire quanto a sfavore giochino a volte i pregiudizi.

Darne un giudizio numerico è veramente difficile: come si può giudicare un'opera di tale portata storica?
Io ci provo e metto del mio, ma sottolineo che andrebbe letta da chiunque, così da potersene 1. fare una propria opinione ma soprattutto 2. ricredersi ed aprirsi alla letteratura originale a cui tutti si ispirano ancora oggi!

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BettiB Opinione inserita da BettiB    09 Dicembre, 2018
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Ci vediamo a Quinnipak

CONTIENE SPOILER!

"E lui diceva 'Ho fatto un salto a Quinnipak'. E' una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c'è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi, e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po', l'hai fregato."

Questo è Quinnipak: un bellissimo tableaux vivants. Un quadro ricco e coloratissimo con tanti personaggi e le loro improbabili vite che si intrecciano e scorrono, scorrono, scorrono. Lo si capisce solo alla fine, il colpo di scena che proprio non t'aspetti: Quinnipak è la fantasia che corre, si inventa particolari, emozioni, suoni - soprattutto suoni - e costruisce delle vite impossibili, impreparate alla vita, bellissime e tremendamente tragiche - per estraniarsi da qualcosa di ancora più tragico: la realtà.

Ci sono il signor Rail, la signora Rail - Jun, bellissima, con il destino stretto al petto che trattiene il respiro da anni, ma che prima o poi deve ricominciare a respirare... Ci sono Pehnt che sarà uomo quando la giacca nera che indossa gli andrà perfetta ("Chissà qual è l'attimo in cui una giacca diventa perfetta"), e il buon vecchio Pekisch, caro amico, capace di suonare e sentire tutte le note del mondo, anche quelle invisibili, ma che una nota sua non ce l'ha, e morirà quando la musica gli esplode in testa.
E Mormy, sopraffatto dalla meraviglia, e Horeau e i suoi sogni di vetro, che solo Andersson poteva realizzare. E poi la vedova Abegg, e poi Elizabeth, la locomotiva-relitto in mezzo ai campi.
A legare insieme tutti loro c'è il destino. Il destino come un proiettile - "Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere." Il destino come un treno in corsa, perché "ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no". "Il destino fa fuoco con la legna che c'è... fa fuoco anche con una pagliuzza, se non c'è altro..."

Sono questi i grandi temi del primo libro di narrativa di Baricco, che poi torneranno anche in tutti i suoi libri seguenti. Il destino, che corre inesorabile, già scritto eppure tutto da scoprire. La vita, che brucia vigliacca ma magnifica. La morte, che arriva per tutti, ma c'è chi la affronta meglio di altri.
Lo stile di Baricco, più che mai in questa sua prima opera, è manieristico, pieno di periodi e sottoperiodi e frasi e altre frasi... fino a riempire intere pagine, senza pause, un discorso unico che scorre come acqua e si ferma solo al punto del capitolo. Forse troppo manieristico, un po' pesante, tanto che a volte copre la trama e diventa puro esercizio di stile. E' una cosa che a mio parere poi nei libri successivi ha imparato a stemperare: esce sempre prepotente l'estro artistico, ma convive meglio con la storia e fa respirare i personaggi. Qua un po' manca quest'aria.
Ma forse è solo una naturale conseguenza di tutta questa ricchezza: di personaggi, di particolari, di sentimenti, di profondità, di fantasia. Soprattutto fantasia.
Baricco si è inventato, ci ha inventato, Quinnipak: rifugio fantastico per i momenti che ti stritolano, per i momenti "quando hai lo schifo addosso". A Quinnipak ci si va per salvarsi, un po', per ora.

Questo libro, benché a primo impatto mi fosse risultato più ostico che altri suoi, alla fine mi ha profondamente commosso e sento che non riuscirò a rendergli la giustizia che merita con questa recensione.
Posso solo dirvi: leggetelo. Affezionatevi ai personaggi, ridete delle loro imprese e piangete delle loro sventure. E poi fatevi commuovere dalla fantasia di una donna che scappa dalla sua vita - dal suo destino? - e si inventa tutto un altro mondo, dove le persone non se la cavano meglio, ma sono persone e sfuggono allo schifo della vita proprio come lei.
Leggetelo, salvatevi.

"Mi guardò e mi disse due cose: Tu sei troppo bella per tutto questo. E poi: Ci vediamo a Quinnipak."

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BettiB Opinione inserita da BettiB    25 Novembre, 2018
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La balena del colore della luna

Più che una favola mi è sembrato di leggere una delicatissima poesia.
Questo racconto breve di Sepulveda parla della grande balena bianca, il capodoglio color della luna. Il capodoglio racconta la vita nel profondo del mare, racconta delle altre creature che vi abitano, della vita che scorre con un equilibrio esatto e pacifico. Racconta degli usi che le balene e le altre specie hanno per coesistere tutti insieme nella grande distesa blu. Racconta delle storie che i capodogli bianchi si sono tramandati nel tempo, fino a giungere a lui, che ora ha il compito di proteggere questo equilibrio. Un equilibrio raggiunto anche con i lafkenche, gli uomini del mare, che abitano l'isola Mocha e convivono con il mare, lo venerano e lo rispettano.
Ma poi una specie diversa inizia ad arrischiarsi in mare, prima su assi di legno, poi su vere e proprie navi. Avidi e carichi di odio, sono gli uomini: l'unica specie che si attacca a vicenda. Solcano il mare, sempre più a largo, a caccia delle balene e dell'oro grasso. Arpionano e torturano e squartano senza pietà.
Il grande capodoglio si avvicina piano per conoscerli, per capirli, per imparare da loro. Quando impara che tutto quell'odio non ha fondo, quando le grandi navi degli uomini solcano il mare sempre più numerose e sempre più agguerrite, il capodoglio capisce che deve agire.
Lui ha il compito di proteggere il viaggio delle 4 vecchie balene che trasportano i corpi dei lafkenche morti sull'Isola in cui riposeranno in eterno, e quando anche l'ultimo lafkenche sarà morto e la sua anima trasportata sull'isola, allora tutte le creature del mare potranno compiere l'ultima grande traversata, guidati dagli uomini del mare, fino all'isola dove l'equilibrio del mare è ancora intatto e la furia degli uomini non potrà mai raggiungerli.
Ma una sera di tempesta la Essex, una poderosa baleniera, attacca le 4 vecchie e le uccide. Mocha Dick, cieco dalla furia, distrugge la nave e specie sul fondo del mare tutti gli uomini a bordo, consacrando la sua leggenda. Ma il compito è fallito, non si può proteggere il mare dall'uomo.
La leggenda della Essex ha dato vita a Moby Dick.
L'inizio del racconto - una balena bianca riversa a riva, morta - allla Storia di una Balena bianca raccontata da lei stessa.

Parlo di poesia, perché lo stile è tanto delicato e "leggero" da sembrare appunto poesia. Il racconto scorre come il mare, lieve, senza opinioni di sorta o giudizi. E' una storia: una storia di pace interrotta dall'avidità di una specie che distrugge e uccide chi vive in questo mondo da molto prima di lui.
Non vi è morale, giudizio o recriminazione nelle parole di Sepulveda, solo i fatti, raccontati con un carico di malinconia dolcissima. Una storia che sembra venire da lontano, che riprende i fili delle antiche tradizioni e leggende degli uomini del mare, del rispetto per un passato indigeno e profondo che affonda le radici nell'acqua salata.

Un punto di vista diverso, che per la sua leggerezza ben si adatta anche alla lettura dei più piccoli, secondo me. Anche se è ai grandi che dovrebbe far scendere una lacrimuccia, se non di pena almeno di colpevolezza.

Bellissima favola, da tenere nel cuore ogni volta che si guarda il mare.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    05 Novembre, 2018
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Perchè era lui, perchè ero io

!! ATTENZIONE CONTIENE SPOILER !!

Ho letto molte recensioni in cui questo libro viene definito "una grande storia d'amore". Sicuramente vero, ma la parola "amore" non compare praticamente mai, e io non la definirei così. Non una storia "d'amore" ma di ricerca di sé stessi attraverso l'altro, di appartenenza totale, di fuoco che brucia per anni.
E' la storia di Elio, diciassettenne ebreo che ogni anno passa l'estate nella grande villa di famiglia in Riviera. Il padre è uno stimato professore e la casa è quotidianamente frequentata da intellettuali, artisti, giornalisti e studiosi. Ogni estate la famiglia di Elio seleziona un candidato, uno studioso in procinto di pubblicare un libro, una tesi, un saggio, e lo ospita per quasi due mesi durante i quali il ragazzo può lavorare sui suoi studi.
L'estate che cambia per sempre la vita di Elio il prescelto è Oliver. Americano, biondo, apparentemente perfetto, sicuro di sé, stile da "muvistar". Da subito Elio ne è attratto, sempre più visceralmente.
"Chissà, forse è iniziato tutto in quel preciso istante [...] L'ospite dell'estate. L'ennesima scocciatura."

Il libro, suddiviso in 4 parti, comincia con "Se non dopo, quando?". In questa prima parte Elio si sente attratto da Oliver, da subito, anche se non capisce fino in fondo la portata del suo interesse. Analizza questo nuovo arrivato, si ritrova a desiderare di piacergli, a costruire un personaggio per dimostrarsi alla sua altezza.
"Il tuffo al cuore che provavo nel vederlo quando non me lo aspettavo, mi terrorizzava e mi eccitava al tempo stesso."
Elio si sente sempre più sventurato, vittima di qualcosa che non conosce, di una forza che lo spinge verso chi lo tratta con indifferenza e freddezza, perché questo fa Oliver: lancia sguardi di ghiaccio, sparisce per ore intere senza dire dov'è e con chi. E Elio ne soffre, combattuto tra il desiderio e la voglia di sfuggirgli.
"Odiavo me stesso perché mi sentivo così sventurato, completamente invisibile, afflitto, immaturo."

La seconda parte, "La collina di Monet" si concentra su un luogo speciale. Non solo "la collina di Monet" - ovvero una collina cara a Elio in cui le cose tra lui e Oliver finalmente si sbloccano, sbocciano, vengono a galla - ma soprattutto il luogo dell'anima che Elio scopre grazie a Oliver.
Elio, a corto di speranze e con le idee sempre più confuse, si rivela a Oliver: "Non mi era rimasta più nemmeno una speranza. E forse ricambiai il suo sguardo perché ormai non avevo nulla da perdere. Lo guardai con uno sguardo saccente che diceva 'Baciami se hai coraggio', come se volessi sfidarlo e fuggire via allo stesso tempo.
E sulla "collina di Monet" i due giovani si baciano, goffi, consci che da quel bacio, dal legame che stavano instaurando, non ci sarebbe più stato scampo. Titubanti, perché nessuno dei due riesce ad ammettere le cose a voce alta.
Ma non è più attrazione, è voglia di entrate nella pelle dell'altro, di essere l'altro. Lottando contro le proprie insicurezze e vergogne, andando sempre più a fondo nella conoscenza di sé stesso.
"Voglio conoscerti e, attraverso te, voglio conoscere me stesso".
E' questo che succede quando i due stanno finalmente insieme, quando Elio capisce per la prima volta chi è. "[...] era come tornare a casa, come chiedersi: Dove sono stato finora?".
"Lui era il passaggio segreto che mi conduceva a me stesso".
Sul finire di questa parte, per la prima - e mi pare unica - volta Elio fa riferimento a Oliver come "amante". ma il sentimento è totalizzante, è un chiodo che lo tiene insieme, è lo specchio di sé stesso in un altro uomo. E' chiamare Oliver con il proprio nome, Elio, e riconoscersi perfettamente in lui.

La terza parte, "La sindrome di San Clemente", è dedicata al viaggio di Elio e Oliver a Roma. Un paio di giorni da soli nella città eterna, lontani dalla "vita reale", immersi in persone che invidiano la felicità che i due non riescono a nascondere. Perché Elio e Oliver abbandonano tutti i sotterfugi, la vergogna, i dubbi. Vogliono solo stare insieme, amarsi, baciarsi tra le ombre delle vie di Roma, dimenticarsi che ormai il loro tempo è agli sgoccioli, che ne hanno sprecato tanto ignorandosi e cercando di ignorare il sentimento che cresceva tra i due.
Elio viene a patti con sé stesso, con la potenza del legame che ha con Oliver, che forse non troverà mai più con nessun altro. "Chi altro sarei mai riuscito a chiamare col mio nome?".

"I luoghi dello spirito", quarta e ultima parte, riporta Elio alla vita di tutti i giorni, soprattutto alla vita senza Oliver, tornato in America al termine del suo soggiorno in Riviera. Perché le favole non durano, perché la vita vince sempre. Il dolore della perdita è acuto e profondo, e accompagnerà per sempre Elio.
Elio che cresce, con Oliver sempre presente: a volte agli angoli della sua testa, a volte in carne ed ossa tornato a casa dei suoi genitori per una visita. Oliver che si sposa, che ha dei figli; Elio che divide la sua vita in "prima di Oliver/dopo di Oliver", pur incasellando altri amori, altri insostituibili.
Gli anni passano, ne passano venti, tutto cambia, ma niente cambia davvero:
"Vent'anni sono ieri, e ieri è stamattina presto, e stamattina sembra lontana anni luce."
Il sentimento di appartenenza, la fiamma, è ancora lì, e brucia come e più di prima. Solo in una "vita parallela", che non può essere vissuta, ma c'è, gelosamente custodita negli angoli di privata felicità.
"Avevamo trovato le stelle, tu e io. E questo capita una volta sola nella vita."


Con una scrittura semplice e disarmante André Aciman alterna paragrafi di estrema dolcezza a descrizioni crude e quasi brutali. Il ritmo, seppur morbido e languido, srotola la storia in modo fluido che accompagna la lettura in modo naturale. A mio parere Aciman ha saputo indagare nel profondo i sentimenti tormentati di un'adolescente che scopre sé stesso, il proprio corpo e il proprio cuore con uno stile veramente degno di nota.
Il racconto non è cronologico, ma viaggia sull'onda delle sensazioni, dei ricordi, dei momenti chiave di un rapporto che è prima di tutto scoperta e poi appartenenza, pur dando gran concretezza ad ogni cosa grazie a particolari semplici e puntuali: la pesca, il costume, la camicia... tutti rimandi a sensazioni totalizzanti.

L'ho trovato un libro bellissimo, sicuramente non per tutti, viscerale, "nudo". Perfetto connubio tra carne e spirito. Qualcosa che va oltre l'amore, oltre il tempo.

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Romanzi autobiografici
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    21 Ottobre, 2018
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Gradisci un Bartleby?

"Non è semplice diventare uno spettatore" scrive Daniel Pennac nel suo ultimo libro, "Mio fratello". Pennac si riferisce al teatro, ma forse implicitamente anche alla vita: non è facile stare a guardare la vita, nel su bene e nel suo male.

"Mio fratello" è un brillante racconto divisi in tre macrotemi perfettamente alternati:
1. L'adattamento teatrale che Pennac ha portato in scena, pochi mesi dopo la morte del fratello Bernard, del "Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street" di Melville: opera riadattata in una lettura per un singolo interprete - Pennac stesso - e raccontata seguendo il flusso di pensieri del notaio che assume il famoso Bartleby.
2. Le "reazioni" del pubblico in sala. Dall'inizio alla fine, seguendo il ritmo della storia, Pennac analizza e sorride ai suoi spettatori: è uno spaccato molto bello dell'atmosfera che si respira a teatro, del pubblico che si immerge a tal punto nella storia da non riuscire a staccarcisi una volta usciti dallo spettacolo.
3. I ricordi, "che erano sensazioni", del fratello Bernard, della vita passata insieme, soprattutto delle cose dette - pochissime - e delle cose non dette - talmente tante da chiedersi "chi ho perso?".

Il filo rosso che unisce queste anime è proprio il personaggio di Bartleby, tanto particolare quanto impossibile da non amare: protagonista della piece teatrale, il preferito dai fratelli Pennac, tanto simile proprio a Bernard e quindi idea da portare in scena per una sorta di "continuità": portando in scena Bartleby Pennac sta ancora parlando con il fratello. La somiglianza tra i due appare sempre più chiara man mano si prosegue la lettura, e arrivarci così piano, accarezzando quasi i due uomini, penso sia la perla più bella dell'autore.
Soprattutto perché Pennac riconosce di parlare di un fratello che conosceva ma forse no: del quale ricorda alla perfezione gesti e sfumature, ma con cui non ha mai condiviso segreti, confessioni. Un fratello che ha vissuto la propria solitudine in silenzio, senza disturbare, lasciandosi dare l'etichetta più comoda per gli altri.

Devo ammettere che mi sono avvicinata a questo libro, per la sua peculiare composizione, un po' scettica. Nel giro di poche pagine mi sono ricreduta: lo stile brillante e al contempo delicato di Daniel Pennac trasporta in una storia di profondo amore tra fratelli, mai pienamente espresso. E insieme la storia dell'"umanità", con gli schemi e le domande e le curiosità da soddisfare sempre.
Mentre a volte "fin dall'inizio non succede quasi niente e non succederà più niente fino alla fine." E questa è la vita.

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Letteratura rosa
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    11 Ottobre, 2018
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"Piangere forte e poi essere molto felice"

Serena - nome che in tutto il libro comparirà forse 3 o 4 volte - si racconta in modo tanto oggettivo da fare male. Si guarda da fuori, appunto, e descrive ciò che vede. Descrive anche ciò che sente, ma in modo quasi scientifico, con frasi secche e pensieri smozzicati, messi lì come a dire "io sono così, punto."

Serena si sta per laureare, e si sta per trasferire nella casa del nonno, da sola. Sta per crescere, per cominciare la sua vita. Tutto questo lo si capisce pagina dopo pagina in sottofondo alla storia vera, che gira tutta attorno al Chiosco e ai personaggi che lo abitano. Serena sembra quasi esistere solo in funzione del Chiosco, un baretto di Milano dove si incontrano e vivono i ragazzi di oggi.
Tra questi Valerio, il capitano del Chiosco, che fa del posto quasi una religione con tanto di riti e cambiamento interiore, che prende le ragazze che ci lavorano sotto la sua ala, a volte in modo anche ambiguo. E poi Cri, e Vivi, e Angelica, con la quale Serena instaura un rapporto sempre più stretto che poi diventa amicizia. E Leonardo, amore rabbioso e arrabbiato, amore inadeguato ma che ci prova con le unghie e con i denti, con le urla e con gli insulti, a volte con le lacrime e gli abbracci. Ma troppo poco.
Serena cerca di darsi l forma di questo amore tormentato, spesso soffermandosi sui perché e i percome interiori ma senza mai agire di conseguenza. Dice spesso quello che vuole (qualcuno che la porti lontano, e la ami come vuole essere amata, e che sia arrabbiata come lei senza chiedere perché, e che abbracci il suo mostro interiore e lo tenga a bada), ma lo dice sempre e solo a sé stessa.
Serena le cose ad alta voce non le dice mai, non mostra chi è davvero, e quindi le cose nella sua vita non accadono mai.

Un libro che ho amato tantissimo per lo stile di scrittura e le frasi perfette da sottolineare e tenere in testa a lungo, più che per la trama in sé, di fatto spiccia e per nulla originale.
Quello che fa di questo libro una perla secondo me è il viaggio tutto interiore tra i pensieri, speranze, paure e desideri di una ragazza come tante: li sviscera fino a farceli capire in modo chiaro e quasi crudo.
E poi merita una nota di merito anche la descrizione della "gente di Milano" che frequenta il Chiosco: spaccati di vita vera dei milanesi che ci provano, si fanno vedere, ma che sotto sotto hanno paura come tutti gli altri.

Parlo di viaggio perché per me questo è stato: dalla Serena "sulle sue", concentrata sulla sua vita fatta di niente, sempre fuori luogo ("Io sono esattamente dove sono, ma ho l'impressione di non essere dove dovrei"), con nessuna gioia a scaldarla, fino alla Serena dell'ultima pagina, che sente la felicità salire dentro, pronta a cominciare davvero la sua vita con intenzione, sapendo dov'è il suo posto, dove i suoi sentimenti. Il tutto in sordina, senza gesti eclatanti o cambi di rotta annunciati: semplicemente vivendo.

Un libro che secondo me parla tantissimo di amore, ma quello per sé stessi.

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Mi ha ricordato molto la Carcasi.
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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    11 Ottobre, 2018
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Charlie and Me: 421 Miles From Home

Martin ha 13 anni e ha pianificato tutto nei minimi dettagli. O almeno è quello che pensa la mattina in cui scappa di casa e intraprende un rocambolesco viaggio che passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, treno dopo treno, lo porterà su una spiaggia della Cornovaglia. Una spiaggia speciale: la spiaggia dove l'anno prima i genitori hanno portato lui e il fratello per una speciale vacanza di famiglia e insieme avevano avvistato un delfino che tornava ogni giorno e saltava per loro.
Con lui in questo suo viaggio assurdo e importantissimo c'è Charlie, il fratellino minore. Charlie è un bambino speciale: nato prematuro ha subito numerose operazioni per consentirgli di vivere, che gli hanno lasciato il fiato corto e "l'occhio pigro". La vita per lui è necessariamente puntellata di attenzioni, controlli medici, restrizioni, divieti, per mantenerlo sano e al sicuro. Ma Charlie è speciale anche perché è magico, fa discorsi e ragionamenti tutti suoi. Ed è speciale soprattutto per Martin, che lo adora e fa della sua protezione la sua ragione di vita.
Charlie da quella vacanza in Cornovaglia non ha fatto altro che parlare dell'oceano e di quel delfino, e Martin vuole fargli una sorpresa.
Il viaggio è calcolato e pianificato nel dettaglio per non avere sorprese, per arrivare a destinazione in tempo per vedere saltare il delfino con l'alta marea, e per tornare indietro come se niente fosse, senza allertare mamma e papà. Sarà proprio Charlie a destabilizzare tutto, a sconvolgere i piani, a costringere Martin ad uscire dal suo tracciato e ha trasformare il suo viaggio in un'avventura. Dentro di sé tanto quanto sulla strada per la Cornovaglia, perché il colpo di scena è dietro l'angolo.

Lowery parte con il racconto in modo leggero, quasi fosse un libro per ragazzi: due fratelli che decidono di scappare di casa ed intraprendere un viaggio lunghissimo da soli. Devo ammettere che temevo di essermi imbattuta nell'ennesimo libro scontato e spinto per puri interessi commerciali.
Ma i pensieri e le delicatissime poesie di Martin, le situazioni che è costretto a vivere e le reazioni che gli provocano, nascondono uno spessore di valore, ben oltre un ragazzino di tredici anni.
La storia procede spedita e fluida grazie allo stile semplice e chiaro, ma sempre con una delicatezza che ti fa perdere di vista la trama in sè. Perché il colpo di scena, appunto, è quasi preannunciato ad ogni pagina, e il lettore quando ci arriva sa benissimo cosa aspettarsi: solo non è pronto. La carica emotiva si alza, tanto da commuovere.
Come Martin lascia le briciole ai genitori a casa perché arrivino in Cornovaglia, lo trovino e condividano con lui la fine di quel suo viaggio e ritrovino il senso di famiglia, così Lowery ci ha lasciato le briciole lungo il racconto per farci capire di cosa stiamo parlando, di quanto questo viaggio significhi davvero.
E a parere mio lo fa magistralmente, con una caratterizzazione del personaggio di Martin da ottimo!

Un libro che non ti aspetti, che parte quasi scontato e fin troppo leggero e si rivela profondo, con la morale e tanta commozione.

! Unica piccola pecca: la traduzione italiana del titolo, che a parere mio non vuol dire proprio niente.
Titolo originale: "Charlie and Me: 421 Miles From Home".

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Racconti
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    10 Ottobre, 2018
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La vita, che spettacolo!

"Perché tutto quel che vedevo, intorno, mi sembrava un grande spettacolo di clown, domatori e acrobati: e mi piaceva l'idea di provare a raccontarlo, un po' alla volta, così come veniva."

Questo è Barnum, il grande show del mondo, e il suo perché: raccontarlo un'editoriale alla volta.
Questo felice esperimento giornalistico - anche se dare del giornalista a Baricco è quasi un insulto - è iniziato nell'aprile del '95 sulle pagine de La Stampa, e dopo "Barnum", prima raccolta degli articoli scritti durante la sua collaborazione fino ad allora, sono stati pubblicati anche "Barnum 2", con gli articoli de La Stampa e di Repubblica usciti dal '95 al '98, e recentemente "Il Nuovo Barnum".

I temi sono tanti e diversi tra loro: da recensioni di importanti concerti pianistici alla poesia di un pugile sul ring, dall'analisi senza filtri della politica, società e cultura del tempo (i comizi di Bossi, i programmi tv e la nascente docu-fiction made in Mediaset, vedi "Stranamore") alla traduzione, anzi, spiegazione dell'arte vista dagli occhi di un artista. Quando uscivano la mattina sul giornale, questi articoli, erano degli spaccati di realtà riletta, erano l'interpretazione del tutto personale di un autore che vede i fatti all'ordine del giorno e li rielabora in chiave poetica, ma mai lontana dal vero.
E dopo più di vent'anni dalla loro pubblicazione, quando l'attualità è lontana e la verità importa poco, ne rimangono dei bellissimi racconti caratteristici, con perle sempreverdi.

L'apertura del Louvre, ma ci pensate che oggi quelle due piramidi specchiate sono scontate, già viste, e allora erano "la grande novità"? E lui era lì, e l'ha raccontato, e l'ha visto, e solo lui poteva vederlo e raccontarlo ed essere lì così.
E la musica, tanta musica: il jazz, i geni del pianoforte, l'opera lirica e i millemodi di farla e vederla e sentirla; le mostre (Walt Disney e il suo Topolino, la mostra sul "vero west"); e ancora lo sport: il pugilato grande amore, il tennis, ma anche la bellezza degli sport minori (hockey su ghiaccio, il pallone elastico).

Due racconti mi hanno fatto venire i brividi: il giudizio di Baricco di Jovanotti (era il '95!), e diceva:"Jovanotti è più di un prodotto commerciale che funziona." Dite che ci ha preso?
E la prima visione di Schindler's List di Spielberg. Oggi per noi classicone visto in aula a scuola, lui lo vedeva per la prima volta e già aveva capito che "I fatti diventano tuoi [...] quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa. Che vuol dire anche: raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da un'anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l'informazione, ti rende padrone della tua storia".

Sarà lo stile di Baricco a dare lunga vita a fatti di cui non si ricorda più nessuno?
Sarà che la storia è ciclica e alla fine il filo rosso è sempre quello?
Non lo so, fatto sta che queste pagine sono delle chicche da godersi in un pomeriggio di pace, un passatempo leggero che senza saperlo ti lascia dentro ricordi e insegnamenti e una certa nostalgia del passato.
Baricco sempre mozzafiato.

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Narrativa per ragazzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    10 Ottobre, 2018
Top 500 Opinionisti  -  

Quante cose diventano belle se le guardi da vicino

"Il fatto è che nessuno te lo dice. Non è che ti svegli con una brutta sensazione nella pancia. Non vedi ombre dove non ne dovresti vedere. Non ricordi di dire ai tuoi che gli vuoi bene, anzi, magari, com'è successo a me, non riesci neanche a salutarli. [...] Se sei come me, il tuo ultimo giorno inizia così."

Sam è la tipica adolescente americana a cui la vita sorride e ha sempre sorriso. E' bella e alla moda, fa parte di quelli "popolari" a scuola, ha un gruppo di amiche fidate, esce con il ragazzo più ambito, a scuola va bene senza troppo impegno - e anche grazie a qualche trucchetto! -, ha una famiglia unita di cui sottovaluta il valore. Come tutti i ragazzini americani "popolari" non si risparmia scherzi e battute acide a discapito degli "sfigati", gli esclusi perché "diversi". E anche quando non è lei ad accanirsi in prima persona, resta a guardare, sempre dalla parte delle sue amiche, dalla parte "giusta". Senza mai chiedersi perché, senza mai guardare veramente la sua vita.
Ci vuole la morte per aprirle gli occhi.
Sam muore in un incidente d'auto, una notte di ritorno da una festa con le amiche.
Poi si sveglia la mattina, e non è un "dopo". Per quanto strano assurdo e impensabile, Sam capisce di essere bloccata in un loop temporale, di essere destinata a rivivere per sempre la stessa giornata - ma quanto dura "per sempre"?, di essere destinata a morire ogni notte.
Solo allora inizia a vedere davvero la sua vita, i fili che la legano alle persone attorno, le relazioni causa-effetto di ogni sua azione, piccola e grande che sia, e delle conseguenze che ha sugli altri. Si può quasi dire che solo con la morte Sam capisce come funziona la vita.
Inizia a vedere davvero le cose, le persone che la circondano, e per la prima volta ne riconosce il valore.
Capisce che il per sempre non è scontato, che ha ancora tanto da fare, subito, non domani, perché forse il domani non c'è. Da ragazzina popolare e, diciamocelo, superficiale Sam si guarda dentro, decide di agire e non restare a guardare, perché ogni cosa, anche la sua morte, abbia un lascito.

Per quanto i personaggi possano sembrare leggermente stereotipati e forse poco sviluppati (fin troppo americani...) la trama è ben sviluppata ed essendo rivolto ad un pubblico di cosiddetti giovani adulti trovo che i temi siano affrontati con il giusto tono. Sono temi delicati e profondi, che la Oliver riesce perfettamente a portare nell'immaginario adolescenziale senza risultare pesante né scontata, che probabilmente era il maggior rischio.
Lo stile poi rende la lettura scorrevole e semplice, tiene incollato alle pagine e anche quando sai già cosa aspettarti leggi con piacere per il gusto di rimanere ancora sul filo dei pensieri di Sam.

L'ho trovato un bel libro, delicato e pure commovente, niente di dirompente ma sicuramente meritevole!

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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    08 Ottobre, 2018
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Stereotipi e clichè - ma stile sempre impeccabile

Premetto che io adoro lo stile di Gramellini, leggevo con piacere i suoi interventi su La Stampa e lo leggo con piacere sul Corriere. Persino le risposte che da su Vanity Fair mi strappano un sorriso, perché lo stile è innegabile.
Peccato che in questo libro ci sia solo questo: lo stile.

Il protagonista, Tomàs, è una persona apatica che guarda la vita da spettatore, è allergico alle relazioni umane, si autocensura in nome di un trauma vissuto da piccolo che gli ha reso impossibile diventare adulto. Per smuovere la sua situazione, Gramellini gli fa fare un viaggio onirico? fantastico? "da favola". Ma è una favola strana, dove gli insegnamenti morali sono travestiti da parodie, la comicità forzata è all'ordine del giorno, i personaggi che si incontrano per strada stereotipi fatti e finiti.
E anche a volerla leggere con leggerezza, a non volergli attribuire più valore di quello che vuole avere - una tavoletta per raccontare il viaggio interiore di un uomo verso la sua redenzione/guarigione sentimentale - io mi chiedo: perché?
Perché le forzature poetiche?Il protagonista è ironico e realistico, ma il viaggio è fin troppo spirituale e introspettivo, i due mischiati fanno un macello. Non sono riuscita a capire se l'intento era quello di farCI fare un viaggio interiore ma con il sorriso o se era tutta una presa in giro e "l'amore, il tu, il noi, il galleggiamo insieme e sosteniamoci" una parodia dei guru e santoni del nuovo millennio.

Salvo solo poche frasi, totalmente estrapolate dal contesto.
A parere mio manca di trama, il viaggio è totalmente sconclusionato, e il cliché dell'uomo allergico all'amore per paura delle delusioni passate è fin troppo usato e abusato.

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A chi si sente spiritualista e legge volentieri i saggi travestiti da romanzi.
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BettiB Opinione inserita da BettiB    18 Marzo, 2018
Top 500 Opinionisti  -  

L'eroina dei sex-toys

Torno a leggere Palahniuk dopo ben 4 anni di stop, e forse ho sbagliato libro per ricominciare. Dopo i bellissimi ricordi legati a Invisible monster, Soffocare e Rabbia, Beautiful You mi ha un po' delusa, sembrando una storia tenuta insieme solo da satira e tagliente ironia.

Questa volta il vecchio Chuck si cimenta nella storia di una moderna Cenerentola, Penny Harrigan. Con le fattezze della tipica eroina, la giovane 25enne sogna un destino che la renda famosa in tutto il mondo, la figura a cui tutte le donne del futuro possano guardare con riconoscenza. E già qui trovo - o sono solo io? - la prima satira a tutto il filone delle giovani donne dello young-adult e movimento femminista annesso (che per fortuna nel 2015 non era nemmeno così ruggente).
Penny, con l'esame da avvocato mancato e quindi relegata a stagista ma nello studio più in voga della città, viene improvvisamente invitata a cena dal miliardario più famoso del mondo, C. Linus Maxwell (Max), dopo una rovinosa figuraccia. La giovane Cenerentola e il suo "principe nerd".
A partire dalla cena e per praticamente tutta la prima metà del libro la storia si snoda secondo uno schema ben preciso: lui, freddo e cinico studioso, si dedica giorno e notte a provocarle orgasmi multipli, supportato da una quantità impressionante di sex-toys, lubrificanti e giocattoli erotici inventati da lui dopo anni e anni di studio. Lei, tra un orgasmo debilitante e l'altro, passa le giornate a letto a farsi massaggiare, bere champagne e vestire griffato. Seconda satira nemmeno troppo celata: 50 sfumature vi dice qualcosa?
I personaggi accessori sono frutto di studiatissimi - e volutissimi - cliché.

Per fortuna nella seconda parte lo stile e la tagliente ironia di Palahniuk emergono un po' più naturalmente, dipanando una storia assurda, dai tratti complottistici-erotici e con un personaggio oggettivamente pensato benissimo (Baba Barbagrigia). Non vi anticipo nulla di grosso, se non che il fine ultimo del malvagio - si era capito?- Maxwell è di controllare tutte le donne attraverso aggeggi erotici che donano orgasmi che creano dipendenze peggiori dell'eroina.
In equilibrio tra il demenziale e l'impossibile, almeno la storia acquista di ritmo e humour.

Comunque non ho apprezzato i continui rimandi alla tendenza di compare lo stesso prodotto in massa, come pecore. Capisco che sia un problema della nostra società, ma dal rimando alla "saga di vampiri innamorati che tutte leggono" alle scarpe, la cosa è diventata un po' pesante, e da satira sembrava quasi un'accusa.

Di libri di Palahniuk ne ho letti di migliori.

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Gang bang, sempre di Palahniuk.
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BettiB Opinione inserita da BettiB    09 Settembre, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Il profumo del sopravvalutato

E' questo l'aggettivo che secondo me calza meglio a questo libro: sopravvalutato. Non riesco proprio a capire come possa essere diventato un caso editoriale e aver vinto tutti i premi che ha vinto, per non parlare delle ottime recensioni ottenute dalle riviste spagnole. Si parla di "amicizia, amore, vendetta, odio (...) un libro sorprendente, che ti rimane dentro!". Mah.
La trama è anche ben pensata, l'argomento non scontato e soprattutto affrontato una volta tanto da un'angolazione originale: Juliàn, un sopravvissuto di Mauthausen che è riuscito in qualche modo a farsi una vita dopo la liberazione dal campo, riceve una lettera da Salva, suo vecchio amico, compagno di prigionia prima e compagno di caccia ai nazisti poi. I due infatti hanno passato la loro vita a dare la caccia ai nazisti sfuggiti ai processi degli anni '50. La lettera lo invita in Spagna e gli promette una grossa scoperta: la presenza di una vecchia coppia di nazisti che vive indisturbata i suoi ultimi anni circondati dal lusso e dalla quiete. Juliàn parte sapendo di stare per vivere la sua ultima grande avventura. Sulla sua strada incontra Sandra, incinta e sola, trasferitasi nel paesino per cercare di dare ordine alla sua vita e capire cosa fare di sé stessa. La giovane viene accolta dalla coppia di anziani come una nipote, ma la conoscenza di Juliàn le aprirà gli occhi e la porterà dritta al centro di una bufera iniziata nel passato e destinata a non finire mai davvero.
Come detto, la trama è interessante e c'è un continuo "voler sapere di più", è come un infinito preludio all'evento finale, alla giustizia, alla risoluzione.
Peccato che non accada niente del genere.
I personaggi sono incoerenti e spesso insensati. Azioni e dialoghi mi sembrano forzati e superficiali, artificiali. Incoerenti, soprattutto. Dicono una cosa e poi fanno l'altra, pensano una cosa e nel capitolo dopo fanno tutt'altro. Non ho capito se era un modo per renderli più umani e veri, a me sono sembrati solo buttati lì a casaccio. Non sono riuscita a provare empatia né con Sandra né con Juliàn, e il cambio di narratore così frequente senza un filo temporale logico e ordinato a volte mi ha scombussolato un po'.
Lo stile di scrittura è molto elementare, con pensieri personali esplicitati e poi smontati come se il personaggio dovesse giustificarsi con il lettore - tecnica che non mi è piaciuta per niente, anzi. "Riuscivo a resistere alla smania di comandare di K., anche se a volte cedevo." Parafrasato, ma il concetto è questo. In generale sembra scritto da una scrittrice abbastanza immatura che aspira a vette più alte.
Certi passaggi (pensieri di Sandra, soprattutto) mi sono sembrati addirittura meschini e fuori luogo (appena conosciuti gli anziani lei pensa subito all'eredità che potrebbero lasciarle, ma l'autrice vuole farla passare per una giovane allegra e spensierata).
Per non parlare di alcune vicende che sfociano nell'irreale. Una giovane incinta che si mette in motorino sotto il diluvio per andare a fare un saluto ai due vecchietti che nemmeno le hanno detto dove abitano? Sandra passa più tempo a lamentarsi della compagnia degli anziani che a preoccuparsi di suo figlio - cosa che le donne incinte di solito fanno fin troppo. Ci sta, se prediamo per buono il voler romanzare eccessivamente tutto ad ogni costo, ma questo non concorda con il finale fin troppo realistico e "amaro" che la Sanchez ha voluto mettere in scena - fuori dallo stile generale direi- , liquidandolo per di più in poche pagine, quando invece ne ha dedicate molte di più per descrizioni di oggetti che non aggiungevano proprio nulla alla trama.
In generale non capisco come possa essere piaciuto così tanto. Sì, una lettura passa tempo da ombrellone, qualcosa da leggere sovrappensiero per poi non tornarci più.
Ultimo ma non meno importante: che diavolo c'entra il titolo del libro con il libro?!

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BettiB Opinione inserita da BettiB    30 Luglio, 2014
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Bene ma non benissimo

Ho letto quasi tutti del buon vecchio Chuck, me ne mancano giusto due o tre e uno di questi era proprio Dannazione così, dopo aver sentito che per di più è prevista l'uscita di due sequel, me lo sono comprata e mi sono messa a leggerlo, dopo quasi un annetto che non toccavo Palahniuk.

La trama è semplice e spiccia: Madison Spencer, 13 anni, morte per overdose di marijuana, si "risveglia" all'inferno, chiusa in una sudicia gabbia lercia e infestata da vecchi dolciumi rancidi. Basta. Non c'è un evento trascinante, non c'è un punto culminante, niente da scoprire né da raggiungere. In questo libro a parer mio manca proprio l'elemento trainante che in tutti gli altri libri di Palahniuk ti tiene incollato alle pagine: qualcosa da risolvere. In Invisible Monsters l'intera identità della protagonista era un'enorme punto di domanda, in Soffocare tanta carne veniva messa sul fuoco e il lettore voleva - pretendeva - di analizzare tutto, in Rabbia le mille voci ricostruivano una storia sensazionale, persino in Senza veli c'era qualcosa che non tornava, per non parlare di Diary, che solo alla fine "ricompone i pezzi". Qui non succede niente di tutto questo.

Nei primi capitoli la piccola Maddy - che si rivela estremamente sagace e perspicace per la sua età, secondo me pure troppo, ma altrimenti non sarebbe un personaggio di Palahniuk - descrive l'ambiente infernale, che a lei non fa alcun effetto se non "meglio della vita vera". Quindi si passa ad alcuni flashback della sua vita sulla Terra, poi alcune avventure in quel dell'inferno e, alla fine, quello che dovrebbe essere il punto culminante - ma che invece risulta un'accozzaglia di idee mal esposte e bruciate sui tempi.

Lo stile di Palahniuk c'è, magari smorzato, meno ripetizioni, meno frasi-effetto e certamente meno moralismi, però, anche se più inquadrato, c'è ancora. Le idee... bah. Forse partiva già con l'idea di estendere il tutto in tre volumi (anche se Palahniuk mi pare tutto meno che da più volumi) quindi ha solo introdotto l'opera generale. Non so.

Ammetto di aver fatto fatica a finirlo. Arrivata a metà mi chiedevo "E quindi?". Non trovavo niente che mi spingesse a continuare, niente suspance e niente curiosità. Anzi, una curiosità ce l'avevo: mi avevano parlato di una scena sensazionale in cui la bambina strappa i baffi di Hitler. A dirla così sembra davvero una cosa sensazionale. Beh, alla fine non lo è. Veloce, con poco clamore, sottotono.
Ecco, sottotono è l'aggettivo che mi viene meglio per descrivere questo libro. Bene ma non benissimo.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    24 Marzo, 2014
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Un'acustica leggera

“Il dolore è insensato. Come l’amore”. E’ la frase (presa dal libro) che meglio lo rappresenta, lo identifica. Secca, di poche parole. Dolore e amore assimilati senza possibili fraintendimenti, entrambi irrazionali.

E’ di questo che ci parla la Bignardi: di un amore irrazionale e doloroso che prevale sulla ragione e la certezza di una vita piatta e programmata. Arno e Sara sono sposati da tredici anni e hanno tre figli. Hanno deciso di sposarsi dopo solo tre mesi. Si erano amati da ragazzini, poi si erano persi di vista per dieci anni e quando il destino li ha fatti riunire l’amore ha trionfato. O così pensavano tutti: i genitori, i parenti, gli amici. Ma l’amore non può vincere il grigio del dolore, inquinato come Milano. Sara scappa, pochi giorni prima di Natale, senza dire niente se non due frasi su un biglietto: “Devo partire, devo farlo per forza”. Dallo stupore misto a rabbia per lo scherzo – sì perché Arno è convinto sia uno dei soliti scherzi di pessimo gusto della moglie mezza pazza – comincia una ricerca nel passato e, man mano passano i mesi e Sara non torna, tra la nuova organizzazione in casa e lo scoprire com'è esserci davvero e stare con i figli, Arno capirà come ha vissuto quei tredici anni di matrimonio. Quanto di sé stesso ha dato, quanto non ha saputo dare, vedere, ascoltare. Scopre il passato della donna che ama, una donna che a quanto pare non conosce per nulla, che ha giudicato troppo in fretta e troppo sommariamente, che nasconde dolore e tenerezza. Ha aperto gli occhi e regalato nuove possibilità. Nonostante tutte le premesse la storia finisce bene: “Ho sentito il dolore, sì, e l’ho messo in quello che amo”.

Lo stile è scorrevole. Si è rivelato un libro velocissimo da leggere, facile, senza intoppi – benché io abbia trovato certe frasi troppo artificiose, il linguaggio poco omogeneo (dal tono placido e pacato a imprecazioni colorite e fervide, che forse cozzano tra loro) e un tantino ridondante. Quindi, una volta ripulito dalla patina linguistica la storia scorre. Peccato che il tema centrale (immagino), la musica, non abbia un vero ruolo centrale. Non c’è uno filo conduttore, come invece credo fosse nelle intenzioni dell’autrice. Ci sono flashback e ricordi, supposizioni e viaggi mentali, dialoghi e spaccati di vita. Un percorso veloce (quasi superficiale), poco spazio per le vere sensazioni che un abbandono dovrebbe suscitare, senza contare che i personaggi caratterizzati si contano sulle dita di una mano: Arno, Sara (per vie traverse e attraverso la ricostruzione che è il fulcro del libro), Maria, Massimo, Rino (parzialmente). Tutti gli altri sono personaggi sullo sfondo, alcuni labilmente dipinti, altri totalmente muti – per esempio i figli. Insomma, pure immagini statiche.

In sintesi: un libro carino, con una gran bella idea di fondo, bella la ricerca della donna amata attraverso il suo passato, peccato averla sviluppata in modo così scarno e veloce. Consigliato a chiunque volesse un libro leggero ma non inutile, un po’ di compagnia non invadente.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    13 Marzo, 2014
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Non siamo morti stanotte.

Questo libro è un'opera d'arte, non lo dico mai e questa volta non ho paura a dirlo. E' fantastico, una fotografia fluida dell'uomo, della donna, dell'umanità e di tutti i sentimenti che ci stanno in mezzo. E' vero, è crudo, è dolce, è la vita.

Parla di Gemma, giovane 29enne, in viaggio a Sarajevo per una ricerca universitaria, durante le olimpiadi invernali del 1984, quando la città era pulita, in festa, una scoperta. E poi parla di Gemma vent'anni dopo, che torna nella stessa città, ora con un figlio e un peso nel cuore che Sarajevo le porta a galla, con le sue rovine e il dolore che traspira dai muri dilaniati e dalle rose in memoria delle vittime. Della sua guerra, che lei stessa ha vissuto lì. Anche lei vittima. Vittime della guerra che dal '92 al '96 ha spezzato la Bosnia e i Sarajeviti, una guerra che i nostri genitori guardavano dall'altra parte del mare, in tv; una guerra vicina e per questo curiosa, una guerra che alla Mazzantini è rimasta tanto dentro da sentire il bisogno di ridarle vita con questo libro. L'autrice ha creato personaggi veri, vivi, che potremmo incontrare ogni giorno, che pensiamo di conoscere, a cui ci affezioniamo, che vorremmo coccolare e consolare. Aiutare. Per questo ci rende partecipi di tutto. Non ci sono cattivi o buoni, solo vittime e carnefici. Ma ogni personaggio si fa odiare e voler bene a proprio modo.
Gemma che si innamora di Diego, la loro vita insieme, una coppia fantastica, di quelle su cui scommetteresti tutto, perché sono fatti l'uno per l'altro e niente può separarli.

"Eravamo una di quelle coppie strampalate, su cui nessuno avrebbe scommesso un’unghia. Di quelle destinate a una manciata di mesi superbi e poi ad afflosciarsi di botto. Eravamo così diversi. Lui dinoccolato, io sempre un po’ rigida, con le borse sotto gli occhi, il cappottino austero. Invece i mesi passavano, le nostre mani erano sempre l’una nell'altra per strada, i nostri corpi dormivano vicini senza darsi noia come due feti nello stesso sacco."

Poi i figli che non vengono, il dolore e la frustrazione, la ricerca infinita. "I figli che devono venire vengono" dice Diego. Ed è vero, ma la sterilità assomiglia esattamente alla stessa guerra bosniaca, solo che i cecchini sparano dall'interno e feriscono a morte.
La guerra che scoppia nella città che li ha visti nascere, il desiderio di non abbandonarla a sé stessa, il dolore di rimanere, ma ancora di più di andarsene. E Aska, il figlio della guerra, le priorità, la vita che si fa largo tra la morte, una dolcezza vista attraverso il disumano... e soprattutto un finale che ti risarcisce.
Ti risarcisce di tutte le lacrime versate prima - che non sono poche -, tutto quel pensare alla crudeltà e all'ingiustizia che si scioglie in un dolce-amaro che ti avvolge.

Perché questo non è un libro che puoi chiudere e lasciare sul comodino per passare oltre. A metà del libro ho dovuto chiudere e respirare per un po', il libro ti trascina troppo dentro la storia e finisci per soffrirne anche tu. E comunque continui a pensarci. A me è nata la voglia di sapere, di informarmi, di sapere di più di questa guerra, del fotografo di pozzanghere - che esiste davvero, e soprattutto
esistono le sue fantastiche fotografie -, delle giovani dal futuro spezzato...

"La gente camminava tranquilla, quella mattina, donne con i foulard, uomini con la cravatta. Bisognava mostrare il pugno chiuso con il medio fuori a quelli lassù, al club delle tre dita cetniche. E' un messaggio per loro, infilatevi nel culo i vostri fucili di precisione. Quei foulard, quei passi ordinati, stavano lì a dire quello. A testimoniare che la vita continuava. [...] Sul muro sotto casa era apparsa una scritta: NON SIAMO MORTI STANOTTE."

E le parole, le frasi... Frasi che sono poesia, frasi forte ma dolci, che mi farei tatuare su tutto il corpo perché rendono davvero. Migliore, non lo so, ma rendono. E' un libro che mi ha preso e non credo mi lascerà mai andare.Lo consiglio a tutti, con un po' di pazienza. A me fa ancora battere il cuore.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    13 Febbraio, 2014
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Solo uomini

Non avevo mai letto un libro concentrato sui militari, su veri militari, e aver iniziato con questo credo sia stata un'ottima mossa, soprattutto perché mi ha fatto venire voglia di saperne di più della vita che gli uomini che si prendono questo incarico conducono nelle basi, sperse in Paesi lontani e pericolosi. E' di questo che parla il libro: una compagnia di militari assegnati all'Afghanistan e le loro vite sospese, scelte mancate, i pensieri più intimi di ognuno di loro, perché dopotutto sono solo uomini!

L'ho capito solo dopo parecchie pagine, ma Giordano ha srotolato un filo conduttore dalla prima all'ultima pagina: un collegamento tra l'uomo e il suo corpo, le sensazioni e le conseguenti reazioni del corpo umano. Molto sottile, ma caratteristico.
Un'altra particolarità è che all'inizio i personaggi sono identificati solo con i cognomi, rendendoli impersonali, distaccati, semplici unità di plotone. Con l'avanzare della storia invece cominciano a diventare nomi, persone con delle storie alle spalle, un proprio carattere, propri pensieri... e inizi a conoscerli davvero, e a volergli bene.

Lo stile è molto maschile, con un linguaggio misurato e chirurgico, preciso e quasi schematico. Si sente che a raccontare è un uomo, che parla di uomini e (forse) per uomini. Inoltre il cliché sulla donna sensibile, cedevole di sentimenti, un po' incapace e finta dura è stato un colpo basso; mi aspettavo un po' più di imparzialità.

Non lo rileggerei volentieri più e più volte, ma è stata una bella storia, seria e importante, e sono felice di averlo letto con così costanza da interessarmi davvero alla vita nelle basi. Lo consiglio a chiunque volesse addentrarsi in una lettura seria ma non troppo pesante.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    10 Febbraio, 2014
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Manca il senso

Io non ho capito. E' quello che mi viene da dire su questo libro. Un commento onesto e privo di qualsivoglia malizia, perché tutti gli altri libri della Carcasi per me sono stati amore puro. Ma questo no. Perché non l'ho proprio capito. E non credo a chi mi dice “Forse è uno di quei libri che per essere capito va riletto più volte”. No. Continua a non avere senso.

E' la storia di Diego, uomo metodico e super organizzato, che vede il mondo attraverso schemi e categorie lessicali. E' la storia di sua madre che si dimentica le cose, di lui che la accudisce senza nessun tipo di sentimento in mezzo – non per mancanza di umanità, ma per mancanza di parole dell'autrice. Diego conosce Antonia, che smorza un po' la meccanicità della sua vita e penetra nella coltre di regressione infantile della madre. Anche per questo rapporto la Carcasi non spende parole.
Ho tanto amato le belle frasi poetiche e le metafore delicate ma perfette dei suoi libri, che qui mancano del tutto. La visione meccanica e fredda di Diego anestetizza tutto, e non ci sono parole per spiegare i sentimenti o le situazioni. Viene tutto lasciato all'intuizione del lettore, ma l'effetto è artificioso, superficiale, finto. Diego sembra anaffettivo, non si riesce a prenderlo in simpatia, né con tenerezza. Né altro. Non si afferra, non si capisce. Non c'è un bisogno primario, non c'è uno svolgimento coerente, non c'è una vera storia. C'è un incontro, una vita che scorre, dei sentimenti inespressi. Boh.

La fine, soprattutto, non ha né capo né coda. Bruciato sui tempi, liquidato in poche pagine, senza il minimo senso logico, sconnesso dal resto. Manca addirittura la “morale” tipica della fine delle storie della Carcasi. Il lettore rimane lì, con ancora l'ultima pagina aperta, cercando di capirci qualcosa... ma niente. Come se avessimo guidato tranquilli beati a 50km all'ora su una strada dritta, tutto liscio come l'olio, al limite della noia ma con la promessa di una meta mozzafiato alla fine della strada e invece... BUM. Un muro di cemento insensato e brutto. Sono rimasta delusa.
Io non ho capito.

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Meglio di molte cose che si trovano in libreria al giorno d'oggi, ma sicuramente non il migliore dell'autrice.
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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    10 Febbraio, 2014
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I cuori delle donne

"Ma vedi, nella storia di ogni persona c'è una diga. Da una parte, l'acqua che cresce e scalcia ed è energia. Oltre lo sbarramento, la terraferma. Tu di me sai la terraferma. E allora ti racconto l'acqua che non hai mai visto." cit.

Della Carcasi ho letto tutto: ho cominciato parecchi anni fa con “Ma le stelle quante sono?” e finisco ora con “Perché si dice addio”, dopo aver letto d'un fiato e in un'unica settimana sia “Io sono di legno” e “Tutto torna”. Ho deciso di recensire Io sono di legno perché è quello che mi è rimasto più nel cuore, che mi ha dato di più e che sicuramente non dimenticherò. Perché?

Sebbene la storia sia molto semplice e lineare – rapporto conflittuale tra madre e figlia, la storia di una, la storia dell'altra, segreti, passato, futuro, progetti – la Carcasi è riuscita a renderla vicina e personale per il lettore. Mi sono trovata coinvolta. Non il tipo di coinvolgimento che ti fa sentire amico il personaggio (i suoi libri sono talmente brevi e i personaggi talmente generici da renderli impossibili in altre circostanze, o forse talmente possibili da essere persone fin troppo comuni), ma quella sensazione di appartenenza, come a dire: Questo potrebbe succedere anche a me, Questo lo penso anche io, Questo lo vivo anche io. Perché è della vita di tutti i giorni che si parla, di donne che affrontano la vita come possono, affidandosi a loro stesse. Siamo tutte madri e tutte figlie, tutte Mia e tutte desiderose di avere una figlia che porti questo nome. E' questa la magia dell'autrice, renderci protagoniste delle sue storie. Semplici storie.

Non ricordo moltissimo del suo primo libro, e Tutto torna non mi è piaciuto tanto quanto gli altri, perché mancava la componente secondo me fondamentale dei libri di Giulia: la donna. In Tutto torna il protagonista è un uomo, e la donna è vista attraverso i suoi occhi, quindi rimodellata. In Io sono di legno la donna è la protagonista indiscussa: che sia vecchia e rassegnata, madre in cerca di comunicazione o figlia ribelle, è la donna in tutte le sue qualità e difetti ad emergere e stupire. Come acqua che rompe la diga di ogni persona, dentro, si riversano parole e ricordi e storie che travolgono tutti quelli che incontrano sul loro passaggio, li sommergono...

Lo stile, bisogna dirlo, è fantastico. Personalmente adoro le metafore, le immagini che la Carcasi riesce ad evocare tramite frasi piazzate come poesia, brevi ma intense, sempre azzeccate. Uno stile che sfiora veramente la poesia, niente a che vedere con la secchezza giornalistica che mi aspettavo.
E' un libro da leggere perché è il dipanarsi di storie intrecciate, scelte sofferte, donne di vita – e vite di donne. Un libro che insegna, lascia un seme dentro chi legge e pian piano germoglia.

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Romanzi erotici
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    25 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Le due facce del maschio

Per la prima volta mi trovo pienamente concorde sulla scelta del titolo del libro. Separazione del maschio, infatti di questo si tratta: di un maschio, un essere maschile che ragiona secondo impostazioni mentale dettategli dalle convenzioni sociali che al maschio s'adattano, quasi si impongono: provarci con una bella donna come dovere maschile, affermare il proprio spazio vitale e difenderlo fino alla morte, perseguire egoisticamente sempre e solo i propri piaceri. E della sua “separazione”, quasi vitale. Da una parte un padre amorevole e protettivo, innamorato perso di sua figlia e con tutta l'intenzione di starle accanto nella crescita; dall'altra un uomo carnale, senza il mino senso di colpa -da sua stessa ammissione- che si barcamena tra molteplici relazioni ed enormi segreti, provando addirittura un adrenalinico piacere da questo terrore di perdere tutto in seguito alla scoperta e caduta del suo castello di carte.

E' un libro molto mentale. Nel presente non succede nulla o quasi: di fatto il tempo e le azioni sono molto limitate. Il vero sugo del libro sono tutti i ricordi, le riflessioni, le spiegazioni che l'uomo, padre, marito, amante compie; senza una chiara scansione cronologica né tematica. Forse un po' buttati alla rinfusa, ma per questo molto d'effetto.

“Mi si è aperto il mondo maschile”, ho letto nelle recensioni sopra, ed effettivamente è stato così anche per me. Credo che il 95% di uomini ragionino, a linee generali, secondo gli stessi stereotipi mentali. Certo con un po' di senso di colpa in più, SPERO!
Mi sono tanto tanto arrabbiata più volte durante la lettura, per la veridicità crudele e cruda di ciò che Piccolo racconta: fatti quotidiani che conosciamo e ci passano sotto il naso ma che difficilmente ammetteremmo di conoscere. Il solo arrabbiarmi così spesso dimostra la bravura dell'autore nel mettere in scena e raccontare senza freni e senza bugie la psicologia maschile.

L'unica cosa che non ho proprio apprezzato sono le scene di sesso – presenti ma nemmeno troppo. Forzate, esagerate, superflue. In un libro tanto mentale credo che certe scene intere potessero essere tagliate. Okay i particolari della fissa del culo femminile, o la descrizione dei corpi femminili delle donne che ama, ma le scene di sesso senza spiegazione né senso intrinseco mi hanno disturbato molto. Non per la morale (dopotutto io leggo Bukowski!) ma per il senso di “fuori tema” che danno.

In generale credo sia un libro-perla che ogni coppia – LUI E LEI – debba leggere per conoscersi (e accettarsi) meglio!

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Classici
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    06 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Ogni arte è immorale

- Un'idea che non è pericolosa è indegna di chiamarsi idea.

Wilde riesce, negli Aforismi meglio ancora che nelle altre sue opere, ad esprimere sé stesso e a concentrare tutto il suo pensiero e la sua eccentrica personalità in brevi aforismi, frasette cariche di significato ma apparentemente leggere.

Si scaglia a volte contro, a volte a favore delle donne:

- Le donne sono un sesso affascinante e caparbio. Ogni donna è una ribelle; di solito insorge violentemente contro sé stessa.

contro e a favore della bellezza, dell'intelletto, della società mondana tanto odiata quant'è agognata la sua approvazione.

Nel cinismo e nella piccata ironia di Wilde si nasconde una profonda sensibilità e un radicato senso del gusto estetico, una morale ferrea che l'artista cerca in tutti i modi di screditare e di coprire con “immoralità, libertà, individualismo”, anche se è chiaro che dei paletti morali lui stesso se li sia sempre dati.
Che dire? Un genio. Come sostiene Bruno Elpis, gli aforismi parlano per lui.

- L'uomo è tanto meno sé stesso quanto più parla in persona propria; dategli una maschera e vi dirà la verità.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.3
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4.0
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BettiB Opinione inserita da BettiB    06 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La descrizione del soprannaturale

Avevo già sentito parlare di Lovecraft, ovviamente, ma non avevo mai letto nulla di suo. Mi era stato descritto come un brillante scrittore d'altri tempi, maestro dell'horror e delle storie originali.
Ora che ho letto “La casa stregata” e “L'orrore a Red Hook” posso dire che sì, è stato uno scrittore originale nel suo campo tematico, ma forse chiamarlo “maestro dell'horror” mi pare esagerato.

Premetto che a me questo genere non piace, ma ho deciso di prendere e leggere questo libro per poter conoscere prima di giudicare, e comunque un famoso classico non fa mai male.
“La casa stregata” è un racconto breve ambientato nell'amata Providence di Lovecraft, cittadina in cui ha vissuto fino alla morte. Lì una casa fatiscente e abbandonata ispira da generazioni paure e superstizioni che passano di bocca in bocca finché il nostro eroe-scienziato non decide di andare al fondo della questione.
Il secondo racconto, “L'orrore a Red Hook” è forse un po' più “urbano” e moderno, probabilmente il vero tratto d'originalità di cui si parlava a proposito di Lovecraft. Un vecchio quartiere urbano pullulante di immigrati asiatici, delinquenti e la peggior feccia umana ospita terribili spettacoli satanici e sette diaboliche che appestano la città. Un ispettore della polizia si troverà al centro di uno strano “colpo di stato” da parte delle forze oscure.

Entrambi i racconti sono molto brevi e hanno in sé tutti gli elementi del soprannaturale-horror che si richiedono al genere: leggi naturali inspiegabilmente invertite, esseri deformi o senza forma aleggianti come nuvole di terrore, luoghi abbandonati di cui nessuno vuole parlare, suprstizioni e timori fondati su vecchie leggende o dicerie.
Però. Però nel primo racconto non ho trovato nulla di particolarmente innovativo: la casa stregata, l'essere che perseguita gli inquilini, la spaventosa scoperta del nostro ricercatore. Nel secondo l'innovazione è ambientare riti satanici nei bassifondi urbani di una città perfettamente riconoscibile in una città del XXI secolo. Ma nulla di più.

Ho apprezzato tantissimo l'abbellimento dello sfondo delle storie: viene descritto nei particolari il passato dei luoghi presi in considerazione (anno di costruzione, proprietario, vendite o affitti), viene fatto un accurato approfondimento dei personaggi (dove è nato, che studi ha fatto, cosa l'ha portato lì) ecc, ma le descrizioni troppo lunghe e dettagliate rendono i racconti quasi interamente descrittivi, privi di movimento e forzatamente superficiali, come se i temi “scottanti”, le vere entità soprannaturali, venissero solo accennate e mai propriamente trattate.

Ritengo che Lovecraft sia ben lontano dai racconti horror-thriller dei giorni nostri, ma come primi tentativi del XX secolo possiamo accontentarci.

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Racconti
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    14 Settembre, 2013
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I cani hanno le pulci, gli uomini un sacco di guai

Altra raccolta di racconti brevi del grande Bukowski. Devo dire che questo, in confronto a tutti gli altri suoi libri (e ormai ne ho letti parecchi), mi è parso un po' sotto tono, quasi forzato. I racconti sono presi da sue esperienze di vita o dalla sua fervida immaginazione, a volte vedono lui (Chinaski) come protagonista, altre personaggi al limite dell'ordinario. Ovunque le pagine di Hank abbondano di ubriaconi violenti, sesso, mal di vivere e scappatoie contro la noia – per esempio le corse.
I racconti mi sono sembrati più “morali” (o forse sono io che ho letto un messaggio implicito alla fine di ogni racconto?), meno calcati di mano riguardo a sesso e parolacce, forse più realistici. Di nuovo compaiono figure di rilievo, Hemingway e vecchi idoli letterari.
Comunque sempre in linea con lo stile crudo e senza fronzoli di Bukowski. Meno “commerciale” di Storie di ordinaria follia o Musica per organi caldi, un piccolo tesoretto.

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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    12 Settembre, 2013
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Scopri quello di cui hai più paura e vacci a viver

Questo è il primissimo libro di Palahniuk che ho letto -anni fa- e sicuramente uno dei miei libri preferiti ancora oggi. La trama è lineare e allo stesso tempo impossibile da riassumere: a grandi linee posso dire che Shannon, bellissima modella dalla vita apparentemente perfetta, rimane sfigurata in seguito ad un colpo di fucile che la raggiunge nella sua auto. Si sottopone a numerosi interventi chirurgici per salvare parte della faccia, ma ormai la sua vita per come la ricordava è finita. In clinica conosce “la Principessa” Brandy Alexander: eccentrica, cinica e Donna, pur non essendolo ancora del tutto – le manca un solo intervento.
Con l'aiuto di Brandy Alexander Shannon si rimette in piedi, decisa a rovinare il grande giorno dell'acerrima nemica/modella Eve e farla pagare al suo ex. Ma, meglio ancora, con l'aiuto di Brandy, Shannon ritrova sé stessa e una specie di pace interiore mai avuta prima.

“”Ecco come ho incontrato Brandy Alexander. Ecco come ho trovato la forza per non andare avanti con la mia vita precedente. Ecco come ho trovato il coraggio di non raccogliere gli stessi vecchi cocci.””

Quello che mi è piaciuto subito tantissimo è l'uso di flashback e salti temporali che Palahniuk fa sapientemente. Shannon passa dal raccontare episodi della sua infanzia, della sua vita precedente da modella, a sprazzi di vita “presente” con Brandy Alexander, il tutto senza apparenti indicazioni esplicite. I salti sono talmente repentini da provocare un momentaneo disorientamento, una sorta di souspance che ho adorato. Incentivata poi dal fatto che, ad ogni “presente” corrispondeva un “passato” ricco di spiegazioni. Geniale.
Il linguaggio è semplicissimo, la lettura è scorrevole. Ci sono spesso frasi ad effetto più volte ripetute, quasi slogan, molti dei quali mi sono rimasti impressi in testa ancora oggi.

“”Quand'è che il futuro è passato da essere una promessa a essere una minaccia?””;
“”Saremo ricordati più per quello che distruggiamo che per quello che creiamo.””

Alla fine è un libro “di vita”. Scopri di voler bene a tutti i personaggi alla fine, perché ognuno nascondeva qualcosa, qualche sentimento, tutti si sono messi in gioco. Mi sono ritrovata ad esclamare “Noooo!” sorpresa: i colpi di scena sono assicurati.
Si alternano scene di comicità pura a profondi -e decisamente schizzati, lasciatemelo dire- dialoghi più o meno filosofici.

“'Ma non capisci? Perché siamo stati educati a vivere la vita nel modo giusto. A non fare errori' Brandy dice: 'Mi dico che più grande sembra l'errore, e migliori possibilità avrò di essere libera e di vivere una vita vera'”

Credo che in ognuno di noi ci sia “un mostro invisibile, incapace di amare”, basta solo trovare il motivo giusto per cambiare le cose.

“”Desidero che tutto il mondo possa accettare quello che odia. Scopri quello di cui hai più paura e vacci a vivere.””

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BettiB Opinione inserita da BettiB    11 Settembre, 2013
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Deludente Zafòn, magica Barcellona

Zafòn mi aveva conquistato con “L'ombra del vento” un paio di anni fa, che avevo letteralmente amato, tanto da spingermi a rileggerlo una seconda volta anche in spagnolo. Affascinata dallo stile gotico e studiato dello spagnolo, avevo proseguito la bibliografia con “Il palazzo della mezzanotte”, “Marina”e “Le luci di settembre”. Mi sono molto piaciuti anche questi, alcuni più (Marina), altri meno. Cominciai a leggere “Il gioco dell'angelo”, ma lo abbandonai a metà... troppo cupo, quasi macabro, in un modo che non riesco a spiegare mi aveva inquietato e così smisi di leggere Zafòn definitivamente. Un mese fa ho organizzato un viaggio a Barcellona così, per rientrare un po' nel clima arabeggiante e magicamente misterioso di questa fantastica città ho deciso di cominciare la lettura de “Il prigioniero del cielo”. (Sì, senza finire di leggere Il gioco dell'angelo, grande errore).

In questo ultimo (ne siamo sicuri?) libro che completa la trilogia ideata da Zafòn il protagonista è Fermìn, fedelissimo amico del caro Daniel Sempere, che viene coinvolto in un oscuro mistero, all'inseguimento di un altrettanto oscuro e misterioso personaggio riemerso dal suo passato sepolto. Con un lungo racconto-flashback ci viene svelata la vita avventurosa di Fermìn, ciò che dovette affrontare e cosa ancora lo tormenta (non aggiungo per non cadere nello spoiler).
Alcune parti (soprattutto verso la fine) sono state un po' confusionarie, ma ammetto che la colpa è esclusivamente mia, non avendo completato la lettura del prequel. Di fatto “Il prigioniero del cielo” potrebbe essere tranquillamente letto autonomamente.

Scorrevole, un po' lento e forzato all'inizio, ma una volta entrati nel mistero si prosegue con curiosità. Certamente, in confronto ai suoi passati successi, è molto molto MENO. Mi aspettavo di più da un autore che avevo tanto amato. Questo suo ultimo libro mi è sembrato pieno di cliché, scene forzatamente gotiche o costruite cercando di fare paura – senza successo.
Lo stile è sempre arzigogolato e pienamente barocco, apprezzabile a gusti. La trama poteva essere forse sviluppata meglio (magari con qualche scena meno “cinematografica”, più spontanea, sembravano tutte scritte apposta per un film...), ma i personaggi a mio parere sono ben caratterizzati e la crescita di Daniel (da ragazzino ne “L'ombra del vento” a uomo sposato qui) è evidente e pienamente apprezzata.
Lascia molti (moltissimi) interrogativi nel finale, per questo non sono poi così sicura che sia effettivamente l'ultimo della trilogia... Vedremo!

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Gli altri libri di Zafòn
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BettiB Opinione inserita da BettiB    10 Settembre, 2013
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Paure Kafkiane a nudo

Non mi era mai capitato di sentirmi tanto vicina ad un autore durante la lettura della sua opera come durante la lettura di questa Lettera. Intima, combattuta, commovente... Una lettura veloce e -nonostante lo stile un poco astruso di Kafka- scorrevole.
Kafka trova il coraggio di mettere nero su bianco tutti i malintesi e i punti in sospeso tra lui e il padre, figura piena di interrogativi della sua infanzia e crescita. La paura del padre e del suo giudizio, delle critiche riguardo alle scelte di Franz: dagli studi alle donne. Il paragone con il differente tipo d'uomo in cui si è trasformato con il nipote, un padre affettuoso e giocoso come non è mai stato con il figlio.
Vengono riportati in vita ricordi e situazioni famigliari più o meno care all'autore, giochi e paure di bambino, immagini che arricchiscono e approfondiscono a tal punto la psiche di Kafka che in seguito, leggendo altre sue opere, tutto sembra dire: “Certo, con un carattere così!”. Mi è sembrato di conoscere Kafka tanto personalmente da poterlo consolare o rassicurare.
E' inevitabile entrare in empatia con l'autore, provare il suo sconvolgimento e i suoi timori, grazie alle frasi lunghe e spezzate da incertezze. Il rapporto tra Franz e il padre è una sorta di amore/odio che una frase della lettera stessa sottolinea e simboleggia al meglio: "...come in quel gioco infantile in cui uno prende la mano dell'altro, la tiene stretta e continua a dire: «Ma vattene insomma, vattene, perché non te ne vai?»." Franz teneva stretto e per quanto desiderasse che il padre se ne andasse, non credo abbia mai mollato davvero. Questa lettera ne è la prova.

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BettiB Opinione inserita da BettiB    08 Settembre, 2013
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Adulti si nasce, bambini si diventa

“Immaginazione non significa menzogna”. Così il libro comincia, e così il libro finisce... e questo gioco di “chiudere il cerchio” qui funziona a meraviglia, ha un significato e ti rimane nel cuore.
Frizzante, irriverente, comico, ma anche toccante, coinvolgente, commovente. Prima di iniziare la lettura di questo libro (qualche anno fa, lo ammetto) non avrei scommesso un euro sulla sua piacevolezza. E invece. E invece l'ho adorato, perché è leggero e scorrevole, ma con uno stile tanto semplice e diretto dipana argomenti delicati e scene amarognole tanto da far salire le lacrime agli occhi. Un piccolo libro di crescita perfetto per qualsiasi adolescente – e non solo!

Il romanzo inizia in un'aula delle medie, dove tre ragazzini di dodici anni, Igor, Joseph e Nourdine, se la ridono guardando la caricatura buffamente disegnata del loro cattivissimo professore di francese, Monsieur Craistang. E' il tipico professore scorbutico e arcigno, con pretese troppo grandi agli occhi dei suoi poveri alunni, spaventati a morte. Quando Craistang trova la caricatura assegna un compito di punizione ai tre allievi: un tema in cui si ipotizza che durante la notte i ragazzini siano diventati adulti, mentre l'adulto più vicino a loro sia regredito a bambino di sette, otto anni. Ovviamente i tre lazzaroni decidono di non fare il compito. I problemi nascono quando, la mattina dopo, la traccia del tema diventa realtà! Da qui partono avventure e disavventure, problemi e soluzioni “infantili”... immaginate tre ragazzini costretti a dover affrontare le incombenze della vita quotidiana: gestire i bambini, capire cos'è successo loro, scorrazzare per la città in posti molto poco raccomandabili in cerca del professore – che nel frattempo è stato trasformato lui stesso in bambino.
Non vi dico altro, se non che il finale è ricco di commozione e lascia un grosso sorriso in faccia.

Ciò che ho adorato più di tutto è la crescita dei personaggi. All'inizio ci troviamo dei perfetti stereotipi: il professore cattivo, i due amici monelli, il ragazzino straniero. Ma durante le loro avventure la vita dei quattro viene a galla, si scoprono retroscena tristi e difficili da mandar giù, situazioni pesanti persino per un adulto. Lo stesso professore nasconde molto più di quello che potrebbe sembrare e alla fine l'alone di terrore che lo circonda da generazioni tra i suoi alunni scema via. Tutta la vicenda viene raccontata dal padre di Igor (morto per un'errata trasfusione di sangue), che altri non è che un fantasma con cui il bambino parla al cimitero, forse per sentirsi meno solo. E' proprio la storia di Igor, suo padre e la sua povera madre quella che mi ha toccato di più. Un bambino già troppo grande costretto a guardare la madre piangere e distruggersi per la morte del marito – che comunque si dimostra iperpresente, e alla fine capirete perché!

Un libro dolce e profondo, un velocissimo racconto di scuola con un sacco di sfumature fin troppo realistiche. Pennac ha creato davvero un capolavoro.

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Racconti di viaggio
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    07 Settembre, 2013
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Piccato viaggio attraverso Bukowski

L'edizione Universale Economica Feltrinelli di “Shakespeare non l'ha mai fatto” ha una cosa molto importante e a mio parere molto bella, all'inizio: l'introduzione di Enrico Franceschini. A vent'anni, questo giovane sognatore e futuro scrittore, giornalista a reporter si avventura nel miglior stile della beat generation (viaggia solo in auto-stop) per raggiungere il mito, Bukowski, e ottenere un'intervista. Il suo breve ma significativo racconto è perfettamete in linea con il resto del libro, lo stile lo richiama molto e veste lo stesso carattere disincantato e crudo della realtà. Come introduzione io l'ho adorata.
Il resto del libro, autobiografia di un pezzo di vita del grande Bukowski, racconta dei suoi viaggi in Europa con la futura moglie Linda: le interviste, i paparazzi, le partecipazioni burrascose ai talk show (guardate su youtube il video della sua partecipazione ad un noto programma francese, con altri scrittori “importanti”, e poi leggetene la sua versione in questo libro!), spezzoni di vita con Linda (ancora nominalmente scambiata per la ex – cosa che lo fa infuriare) e la sua famiglia, le sue origini. In Germania scrive “”E' bello essere di nuovo qui.” Mi ci erano voluti 54 anni”.
Troviamo un Bukowski alle prese con i viaggi, gli spostamenti, i posti nuovi o già famigliari, ma anche uno scrittore alle prese con i primi veri episodi di popolarità, la prima traccia della futura grande fama che gli sarebbe toccata (a Los Angeles, come sottolinea anche Franceschini, nessuno lo conosceva come scrittore, total più come ubriacone).
Alla fine, nel prologo, un paio di poesie dedicate ai suoi viaggi dipingono una versione più irriverentemente immediata dello scorretto sarcasmo dell'autore. Forse non divertente e piccato come le altre raccolte di racconti, ma vero e reale al 100%. Mi è sembrato di essere accanto a lui, di viaggiare con lui e di vederne il meglio e il peggio, di conoscerlo un po' di più e sicuramente apprezzarlo ancora meglio!

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Gli altri libri di Bukowski, Kerouac (forse).
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Gialli, Thriller, Horror
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    05 Settembre, 2013
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Un mondo rosa di zucchero: o lo odi o lo ami.

Premettendo che sono una ragazza. Una ragazza piuttosto romantica. Non smielata, ma romantica: apprezzo le belle storie d'amore, sono empatica e capisco i sentimenti altrui, seppur descritti su carta. In conclusione non sono proprio una zitella acida e indispettita dalle coppie che si sbaciucchiano. Però. C'è un però. Però questo libro ha passato ogni limite umano di sopportazione di zucchero e miele mischiati assieme a chili di fiori e cliché. Probabilmente i critici del “New Yorker”, “Cosmopolitan” e “Guardian” che l'hanno definito ""Intrattenimento puro, emozionante e divertente"" hanno letto un libro diverso dal mio.
Il libro è incentrato su Emma, giovane donna che con le sue tre migliori amiche ha fondato un'agenzia di organizzazione di eventi, soprattutto matrimoni. Lei si occupa di decorazioni e passa letteralmente 20ore della sua giornata media immersa tra i fiori. E' bellissima, sempre circondata di uomini (che lei prontamente sbologna a conoscenti a cui poi organizzerà il matrimonio), ha una famiglia perfetta (due genitori che sembrano innamorati come liceali), tre migliori amiche che la adorano ed è la persona più buona del mondo (non si arrabbia MAI, non fa MAI una critica, vede sempre il lato buono delle cose). Non so voi, ma a me una così – se esistesse – irriterebbe da matti.
Comunque ad un certo punto, non si sa perché, si rende conto di essere sempre stata innamorata dell'amico Jack con cui lei e le migliori amiche sono cresciute da dieci anni a questa parte. Dopo una prima (debolissima) riluttanza i due finiscono insieme.
E poi? E poi basta. Questa storia manca di tensione, non c'è nessun ostacolo da superare, nessun vero movente, nessun obbiettivo. Gli unici “problemi” sono quelli che la stessa protagonista si crea da sola: capricci da adolescente innamorata li chiamerei io. E' invadente e pretenziosa verso un uomo che frequenta da nemmeno due mesi.
In generale a parere mio la storia manca di solide basi realistiche: il rapporto di Emma è idilliaco con TUTTI, non c'è una sola persona con cui non vada d'accordo. Le quattro migliori amiche sono perfette e incredibilmente uguali, l'unica cosa che le caratterizza è il loro lavoro. L'unico approfondimento della stessa protagonista è il suo infinito romanticismo smielato ed insopportabile.
Il finale è un cliché montato a dismisura, pompato ed esagerato.
Non sto dicendo che questo libro è “il male”. E' un harmony leggerissimo che presuppone un prequel (credo ci sia) e che delinea in modo fastidiosamente lampante il seguito e le future storie d'amore che si svilupperanno al di là degli ostacoli (???). E' scorrevole, leggero e tiene compagnia nei momenti di noia. E' un sogno zuccherato dai colori confetto. O lo odi o lo ami.

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A chi è estremamente romantico.
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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    01 Settembre, 2013
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Per sempre giovani

Niente a che vedere con “Middlesex”, altro romanzo molto più scorrevole ed omogeneo di Eugenides, con personaggi reali e coinvolgenti – molto più coinvolgenti che in questa sua opera. Però merita. “Le vergini suicide” ha un qualcosa di bizzarro, come una critica implicita, una corsa contro il tempo e i ricordi. Assistere inevitabilmente alla fine. Premeditata, aspettata, poi ricordata come “il mito della gioventù”.
Un gruppo di adolescenti che diventano grandi, conoscono le delusioni della vita e si rendono conto che l'unica cosa che può tenerli a galla è ricordare, magari cercare di svelare ancora una volta, il mistero che ha segnato per sempre la loro adolescenza. Mischiando balli scolastici e lezioni saltate, i primi amori e le prime delusioni – un'adolescenza in pieno stile americano, “normale” e lineare – viene ricordato come gli stessi ragazzi spiavano furtivamente, da fuori, la vita delle 5 belle sorelle Lisbon, che di vita normale non ne sapevano proprio nulla: ragazze giovani, misteriose, costrette in casa dai genitori apprensivi e ossessivi, addobbate con abiti di tre taglie più grandi per non lasciar intravedere nulla, vietati qualsiasi rapporti con “il mondo esterno”, rinchiuse nel loro mondo fatto di favole, sogni, speranze... speranze che loro stesse si tolgono – o portano al culmine, decidendo di morire e lasciare una volta per tutte quella prigione casalinga.
Estremamente d'effetto il particolare del “viaggio” come ultimo tema in vita delle sorelle: le valigie, la partenza improvvisata, il passaggio chiesto ai ragazzi con cui erano riuscite miracolosamente a stabilire un contatto. Ma i ragazzi, come i lettori, hanno frainteso tutto... il loro viaggio, l'ultimo viaggio, le avrebbe portate verso una libertà diversa.
Personalmente ho faticato un po' a seguirne il filo. Pensieri slegati e sconclusionati, dovuti anche alla molteplicità delle voci e soprattutto al punto di vista esterno (le sorelle Lisbon restano sempre “creature oscure” che ancora vent'anni dopo i ragazzi studiano come cavie da laboratorio, con tanto di referti, ricordi messi in comune, congetture e ipotesi senza fondo). Linguaggio a volte profondo e maturo, altre più gergale.
Purtroppo i personaggi non sono stati molto approfonditi e, insieme alla confusione della “trama”, credo sia stata la pecca maggiore. Le Lisbon meritavano più caratterizzazione, più introspezione, mentre l'unica ad avere una degna parte a tutto tondo è Lux, la più esuberante delle ragazze, per così dire. Mi rendo anche conto, però, che è difficile dare carattere a chi osservi solo da lontano.
Sono arrivata all'ultima pagina con una storia in testa, con un'idea dei personaggi ma senza quel senso di “abbandono” tipico di quando finisco un libro che mi ha personalmente coinvolto. Peccato.

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Classici
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    30 Agosto, 2013
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Le notti finiscono al mattino

“Era una notte incantevole, una di quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani”, recita l'incipit di questo delicato racconto breve – uno degli incipit migliori della letteratura, a mio parere.
In quattro notti (e un mattino) Dostoevskij mette in scena passioni e risentimenti giovanili: la fugacità dell'amore, la facilità con cui si cade nel tranello dell'infatuazione e l'altrettanta volubilità con cui si cambia idea.
Il tempo, inteso come condizioni meteorologiche, accompagnano e sottolineano le condizioni interiori del protagonista, questo sognatore senza nome né volto, ma con una vita in testa tanto vasta e sorprendente da eguagliare (e sorpassare di molte misure) la vita reale – alla quale comunque lui si tiene lontano.
La prima notte, dopo una giornata meravigliosamente soleggiata, in cui il sognatore s'è sentito felice come non mai e partecipe alle bellezze della primavera pietroburghese, egli incontra Nasten'ka, una giovane donna che piange tra sé, disperata per il suo amore perduto. Grazie al caso e all'improvviso coraggio il nostro sognatore le si avvicina, la consola e instaura subito un particolare legame.
La notte seguente i due si rincontrano, sempre lì dove si sono scontrati per caso la prima volta e, seduti su una panchina, da soli e al sicuro dal mondo, di raccontano e si conoscono. Il sognatore è per definizione un uomo solitario, che vive della e nella sua fantasia. Fugge ai contatti umani e della città conosce solo palazzi – con i quali intrattiene legami che sostituiscono quelli umani che non ha proprio. Sta bene da sé e festeggia da solo i suoi sentimenti. La giovanissima Nasten'ka è uno spirito romantico, innamorata da un anno di un uomo che ha conosciuto durante fugaci sguardi o incontri, “l'inquilino”. Costretta a vivere con l'anziana nonna, sogna una fuga, un modo di vivere amata e sicura, soprattutto libera, e “l'inquilino” è la possibilità ideale di realizzare tutto ciò. Prima di andarsene da Mosca egli le promise un matrimonio e ora, tornato in città, lui non s'è presentato per mantenere fede alla promessa.
I sentimenti del sognatore si fanno sempre più chiari, finché egli stesso non dichiara il suo amore alla giovane. Nonostante ciò, la aiuterà a ritrovare un legame con il suo amato. La vedrà realizzare la sua felicità e, dal fondo della sua angoscia, sarà felice per lei.
Con un linguaggio alto e propriamente da monologo russo, Dostoevskij ha dipinto un quadro che fonde malinconia e speranza, amore e rifiuto. L'incontro “beato” seppur breve di un amica destinata a rimanere sola con una grande romantica. Delicato e piacevole, profondo e sempre contemporaneo. Bello.

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Racconti
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    26 Agosto, 2013
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Poesia alcolica

“Non riesci più a stupirli, questi giovani. Sono diventati una razza superiore.”, recita Bukowski in uno dei 42 racconti brevi inseriti in questa famosissima raccolta. A parere mio Charles Bukowski è uno degli scrittori ancora in grado di stupire davvero la gente. Certo, o lo si ama o lo si odia. Ma se finisci nel primo gruppo, tra quelli che lo amano, allora capirai di cosa sto parlando.
Ammetto che Storie di ordinaria follia non sia una lettura facile, soprattutto se è il primo approccio al mondo di Bukowski. Io stessa non l'avevo apprezzato adeguatamente all'inizio, ne ho colto l'essenza solo dopo aver gustato anche un romanzo (Donne) e una carrellata di video-interviste e soprattutto poesie.
In questa raccolta di racconti il vecchio Bukowski inserisce molti spunti autobiografici, spezzoni di vita quotidiana al limite dell'assurdo, trip mentali guidati dal fumo e dall'alcol, donne discutibili e una valanga di verbi ancora più discutibili (bere, scopare, pisciare, bere, scrivere, morire).
Ripeto: non è facile da comprendere. Ma, se ci si impegna un po', è facile scorgere quell'inoppugnabile realtà dietro al cinismo, quell'insofferenza verso una società marcia e corrotta. Sarà anche considerato riprovevole scopare, bere e lasciarsi andare (fisicamente e moralmente), ma se è l'unico modo per un vecchio sognatore di sopravvivere in questo mondo, ben venga dico io!
Non si potrà mai comprendere Bukowski se ci si limita a questi racconti sparsi. Io credo sia necessaria, fondamentale, una lettura a qualche romanzo lungo e, ancora meglio, la visione delle sue interviste... basta ascoltarlo recitare una poesia, rispondere alle domande puntenti dei giornalisti per capire che “...cela una estrema sensibilità sotto una scorza di indifferenza...” (citazione presa da un altro racconto breve della medesima raccolta). Bukowski era un uomo fragile, un sognatore dostoevskijano, non voleva far altro che scrivere, stare con la sua donna e bere per sopravvivere a tutto il resto. Raccontare la sua vita, nello stile più disincantato e sincero possibile, condito da parolacce, massime da quattro soldi o “perle ai porci” credo sia stato per lui la miglior terapia possibile. Successo meritatissimo. Un attimo di riflessione in più prima di giudicarlo “un vecchio porco ubriacone pieno di parolacce, senza poesia”. Di poesia ce n'è, eccome.

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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    25 Agosto, 2013
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Meccanica malfunzionante

“Intriso di atmosfere che ricordano il miglior cinema di Tim Burton, ritmato da avventure di sapore cavalleresco […] è al tempo stesso una coinvolgente favola e un romanzo di formazione, in cui l'autore […] traccia un'indimenticabile metafora sul sentimento amoroso.”
Così recita la Feltrinelli nella conclusione della descrizione de “La meccanica del cuore”. Beh, dopo averlo letto quasi tutto d'un fiato direi... sì e no.
Atmosfere da Tim Burton? Anche solo ipotizzarlo mi sembra una grande sopravvalutazione del libro. Certo, lo stile è arzigogolato e curato quasi a voler imitare il barocco più oscuro e opulento, le immagini suggerite sono macabre e sanguinolente, lo 'strano' e il 'terrorizzante' passano come 'normale' e vi è un continuo riferimento agli animali associati alle persone (l'amata un usignolo, il nemico un corvo, ecc.), ma Tim Burton sta parecchi gradini sopra a questo disparato tentativo di spaventare gratuitamente (Jack lo squartatore inserito così, nonsense, senza capo ne coda?!).
Avventure dal sapore cavalleresco? Mah. In quest'Europa dell'ottocento tra sobborghi cittadini e personaggi al limite del credibile io di cavalleresco ci vedo ben poco. Certo, gli ingredienti per una “coinvolgente favola” ci sono tutti: il nostro piccolo eroe dotato di grandi sentimenti, la bella damigella vana e (a parer mio) inconsistente, il cattivo terrorizzante della situazione.
Jack nasce nella notte più fredda del mondo sulla collina di Edimburgo. Abbandonato dalla madre troppo giovane, viene allevato da colei che l'ha fatto nascere e gli ha riparato il cuore con un orologio di legno per assicurargli la possibilità di vivere, una levatrice-maga che lo accoglie come un figlio proprio. Jack cresce e inizia a chiedersi cosa c'è sotto la collina, così a 10 anni Madeleine (la dottoressa-levatrice-maga) acconsente a portarlo in città. Qui il bimbo si innamora di una piccola cantante (“la voce di un usignolo, solo con le parole”). Gli ingranaggi del suo cuore, però, non possono sopportare un tale sentimento – lo mette in guardia Madeleine. “Mai toccare le lancette, mai arrabbiarti e soprattutto mai innamorarti”. Jack, da bravo adolescente anzitempo, disubbidisce. Comincia così la sua disperata ricerca per l'Europa dell'innamorata, dopo anni passati sotto il giogo del cattivo nemico-amante della piccola cantante. Non svelo altro se non che Jack trova Miss Acacia (la cantante) e riesce a conquistarla, prima di dover fare i conti con i suoi sentimenti, e il suo passato (compreso il rivale).
Benché la trama sia un po' rivisitata e, lo ammetto, non manchi di originalità, la trovo ugualmente una favola sciupata. Romanzo di formazione? Sì, direi di sì e, per una volta d'accordo, “traccia una metafora del sentimento amoroso”. Anche se lo si comprende appieno solo nell'ultimo capitolo, in cui un monologo interiore mette a nudo la capacità di un ragazzino di amare incondizionatamente, a differenza di un cuore maturo e adulto che si trattiene molto più.
Il protagonista è veramente la storia di una crescita, e questo è da apprezzare. Anche il nemico ha un suo perché. La giovane amata, invece, è un concentrato di incoerenza e indecisione: una scelta sbagliata dietro l'altra e l'incapacità di rimediare, di ascoltare. A parere mio, certo. Sarà che a me piace sentire empatia con il personaggio femminile di turno, immedesimarmi in lei per provare più a fondo le emozioni che l'autore vuol far passare. A me non è arrivato proprio niente.
Mi ci è voluto tempo per sentirmi un minimo coinvolta nella storia: ricordo di aver storto il naso per tutta la prima metà del libro (linguaggio incoerente per il personaggio, frasi scontate, scene inutili); sono riuscita ad addolcirmi un po' solo alla comparsa di Méliès, più per gusto personale verso questo geniale uomo storico che per la capacità effettiva di Malzieu.
Insomma, carino se piacciono i libri strettamente metaforici. A mio parere un po' forzato. Trovo sinceramente bella la metafora del cuore di legno, la meccanica da scoprire di ognuno di noi e il salto alla maturità, ma non è onestamente un libro che porterò nel cuore.

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La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (non ho letto il libro, ho visto il film e forse verrà apprezzato da coloro a cui è piaciuto).
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Romanzi
 
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4.8
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BettiB Opinione inserita da BettiB    22 Agosto, 2013
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Un libro di crescita

E' difficile tracciare una linea omogenea di questo romanzo senza anticipare niente che non possa rovinare una prima lettura. Ho letto commenti inclementi e sinceramente poco carini verso questo libro, e mi chiedo in tutta oggettività come non lo si possa adorare: oltre ad essere una storia collettiva (di società diverse, di un'America che si evolve, della convivenza con chi è diverso) è la storia di una famiglia, attraversata da tre diverse generazioni, è una storia d'amore e di segreti mai svelati. Lo stile è scorrevole, curato, coinvolgente, quasi musicale. Mi sono sentita cullata per tutta la durata del romanzo, e credo sia una prova difficilissima per un autore che decide di pubblicare un libro così corposo (qualcosa come 600 pagine). E' un romanzo di formazione, una storia di crescita e, soprattutto, di scelta: la scelta di un(a) giovane adulto(a) e di ciò che vuole essere.

Qualcuno una volta ha detto: “Non sei altro che la tua storia”. E così Callie/Cal, pragmatico narratore che di sé stesso non dice niente fino agli ultimi capitoli, si racconta attraverso la “sua” storia. “Sua”, ma che comincia molto, molto tempo prima della sua nascita. Comincia in un piccolo paesino greco, minacciato dalla guerra e dai suoi orrori. Desdemona, fantastico personaggio complesso e ricco (una giovane innamorata, una donna tutta d'un pezzo e infine una nonna amorevole e un po' magica) e Lefty sono costretti a scappare da questa minaccia ed intraprendere un faticoso e pericoloso viaggio. Attraverso avventure, persone e sentimenti approdano in America, dove costruiranno insieme una famiglia, una nuova vita, una nuova storia, al passo con un'America che cresce e si evolve, un novecento ricco di cambiamenti, un dipinto yankee realistico e oggettivo. Alla base di questa nuova felicità c'è un intimo segreto, qualcosa di tanto personale che Desdemona sentirà il bisogno di seppellirlo infondo al cuore fino al suo ultimo giorno di vita.

Le generazioni si susseguono, Desdemona diventa mamma e davanti ai nostri occhi vediamo questa giovane donna maturare, impariamo ad affrontare con lei i problemi di crescere un figlio, la preoccupazione di vederlo lontano e poi di vederlo diventare genitore a sua volta. Il punto di vista cambia, Callie smette di riportare le memorie della nonna e prende in mano “il microfono”. Ci racconta della sua infanzia, del razzismo americano, di un'ulteriore crescita della società e del mondo. Diventa adolescente ed è costretta ad affrontare i problemi di ogni suo coetaneo: la scoperta di sé stessi e del proprio corpo, con la sola differenza che Callie scopre, quasi per caso, di essere diversa. Diversa in ogni modo possibile: è un raro ermafrodito e da allora è costretta a vivere come cavia da laboratorio, sotto gli occhi avidi e curiosi dei medici e genetisti.
“Uno scherzo della natura, un gene nascosto nel DNA della sua famiglia da molti, moltissimi anni, che ha deciso di manifestarsi nella sua persona”, così descrive la sua particolarità. Il romanzo si conclude con la scelta personale, sentita, individualistica di Callie/Cal. Chi ha detto che la natura ci debba formare? Siamo noi stessi a creare noi stessi.
Non siamo altro che la nostra storia... e ciò che scegliamo di essere.

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Romanzi
 
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BettiB Opinione inserita da BettiB    22 Agosto, 2013
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Vite segnate intrecciate

Oskar, un particolare ed introverso bambino di 9 anni, perde il padre nell'attacco terroristico dell'11 settembre. Il padre non era solo un genitore, per lui, era il suo migliore amico e la persona a cui teneva di più al mondo - come lui stesso rivela nel corso della narrazione.
Oskar non riesce ad accettare la morte del padre: sostiene che la vita sia inutile, pesante e che non vi sia scampo alla sofferenza che vivere comporta. Fino a che, frugando tra le cose del padre, non scopre una chiave e un nome, "Black". Da lì partirà la sua ricerca, che si estenderà su tutta New York. Oskar incrocerà centinaia di persone diverse nel tentativo di fare chiarezza, ognuno con una sua storia, ognuno con qualcosa da dare - a livello emotivo. La ricerca materiale che ha lo scopo di svelare il "mistero" della chiave cela la più personale ricerca di un padre che non c'è più.
Parallelamente scorre la storia di due personaggi secondari, ma nemmeno troppo: la nonna di Oskar, a cui il bambino è molto affezionato e con cui passa più tempo, e "l'inquilino", un misterioso individuo che vive a casa della nonna. Senza svelare troppo posso dire che questa (seconda) storia è la storia di un figlio perduto, un amore mancato e le difficoltà di voler essere ed accettare di essere felici.

A parere mio Foer ha composto un piccolo capolavoro moderno. Con uno stile scorrevole ma non semplicistico, con frasi degne di nota e poetiche tanto da poter essere riutilizzate come citazioni con vita propria, ha saputo dipingere una storia metropolitana che si svolte sì nelle strade di una New York devastata dal terribile attacco, ma anche e soprattutto nel profondo di ciascun personaggio. Personaggi, oserei dire, vivi. Realistici e a tutto tondo, umani e capacissimi di sbagliare, fallire, non essere all'altezza e allo stesso tempo amare, aver paura d'essere amati, desiderare la felicità e razionalizzarla fino a fuggirla.

Una storia commovente, coinvolgente, a tratti umoristica, a tratti amara. Va in scena la storia di un uomo spaventato, una donna che ama troppo, e un bambino che cresce con un terribile peso "nelle scarpe". Fantastica.

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