Opinione scritta da Gloria Zoroddu
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Un libro sulla bellezza e sulla solitudine
La storia comincia con una ragazza raggomitolata sul pavimento freddo di una vecchia cucina. A cullarla solo il ronzio di un vecchio frigo.
Mikage ha appena perso quel poco che le restava del suo tutto. La nonna è appena morta e nessuno che abbia il suo stesso sangue cammina più nel mondo.
Le sue notti senza fine vengono spazzate via dall’aiuto inaspettato che le offre il giovane Yuiki: va a vivere a casa sua e di sua madre, e si immerge in nuovi giorni in compagnia di una donna straordinaria, che vive di impulsi estremi, e cosa anche più assurda, sa come realizzarli.
E Mikage inizia a riprendere a vivere.
L’amore di questo libro è vissuto da anime che sono schiacciate da una solitudine perenne e da una tristezza cupa e inconsolabile. Sfugge agli slanci spontanei e azzurri delle anime felici e rinuncia ai suoi aspetti più effimeri e secolari.
Splende di una luce anche più accecante: è cresciuto nel terreno più arido e sopravvive nonostante tutto.
La natura si impone con la stessa solenne lucentezza. Anche nei momenti di disperazione Mikage non può non sentire il cuore spaurirsi davanti a cieli accecanti, venti gelidi, il chiacchiericcio della pioggia sulle finestre, il verde luminoso dei prati dei parchi in città, l’esile luccichio di miliardi e miliardi di stelle sopra un cielo nero e freddo.
Tutta questa bellezza delle volte aggiunge dolore. Altre volte lo toglie.
Il mondo narrativo di Banana Yoshimoto si fonda su un’emozionalità intensa e carica di tensione. Per nutrirla sacrifica anche caratteristiche narrative care al romanzo classico, che misura il suo livello di arguzia anche in base alla linearità logica e complessa della trama.
Eppure, se il libro dovesse essere un film finirebbe all’improvviso, in silenzio, con un ultimo fermo immagine che ritrae una scena semplice e ordinaria.
Questa ordinarietà, in un mondo regolato dalla forza paradossale delle emozioni e dal loro potere immobilizzante, appare straordinaria.
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L'ingenua, raffinata distorsione del mondo
"Il dolore si inabissava nel suo animo con un sibilo sottile, come fa il vento in inverno nei castelli abbandonati."
Quella di Emma Bovary è la storia di una donna infelice che vive nella Francia del XIX secolo. Tra le eroine più famose nel mondo della letteratura, Emma è avvolta perennemente nell'inquietudine, in una tensione verso l'infinito che nella sua ingenuità è incarnata nell'eleganza dell'altà società, nella cura dell'aspetto e nelle etichette. Emma infatti è prima di tutto una ragazza confusa, confusa al punto da costruire nella sua mente una realtà distorta che mai potrà soddisfare il suo animo inappagato. La piccola provincia normanna in cui la fanciulla è costretta a vivere è per lei alla stregua di una galera, per i suoi interminabili e ripetuti cicli, per le stesse persone ai suoi occhi mediocri, che si trascinano giorno dopo giorno nelle polverose strade del paese bagnate di sole. Conserva gelosamente nei suoi ricordi le immagini dei libri che leggeva in gioventù, immagini di donne che si spingevano ai confini del mondo, in compagnia di un amore nobile e gentile, che riempiva la loro anima in maniera totalizzante per l'eternità. Le conserva nell'attesa di un qualcosa di più grande, che tuttavia sembra non arrivare mai, e la spinge a crollare, declassarsi, commettere irreparabili errori fino a perdere se stessa. A condividere con la ragazza il tetto matrimoniale è l'ufficiale sanitario Charles, un uomo che sebbene Emma col tempo finisce per detestare, per la sua mediocre cultura e condizione sociale, egli amerà al di là dei limiti più provanti, manifestando una purezza d'animo che alla moglie Emma sfugge. La ama così tanto da non riuscire a cogliere i suoi difetti, le sue mancanze, a non comprendere il motivo reale della sua infelicità. La ama con un'abnegazione tale da sfiorare, talvolta, il ridicolo.
Emma Bovary è un'eroina difficile da amare, e a molti appare semplicemente egoista e superficilale, ma c'è molto di più. Certi comportamenti nei riguardi delle persone più vicine a lei sono imperdonabili. Ma la sua frustrazione da un lato dimostra la sensibilità artistica da cui deriva il suo tormento, inesprimibile per la sua condizione sociale e per il solo fatto di essere donna; dall'altro lato questa frustrazione condanna implicitamente coloro che la circondano e la opprimono, i membri della media-borghesia, che non a caso Flaubert stesso aveva in odio. Di loro lo scrittore condannava proprio la vuotezza interiore, l'attaccamento ai beni materiali e la cultura di basso livello.
E' un libro intenso e stilisticamente scorrevole, che nonostante i contenuti interessanti ti trascina nella lettura senza difficoltà. Per la particolarità della protagonista, in sospeso tra mille contraddizioni, porta il lettore a riflettere a fondo, per capire, qualora sia possibile, da che parte schierarsi. Le descrizioni paesaggistiche sono incantevoli, forse tra le più belle che abbia mai letto.
"Tutto era silenzio; qualcosa di dolce sembrava emanare dagli alberi; sentiva i battiti del suo cuore ricominciare e il sangue circolare nella carne come un fiume di latte. Allora udì in lontananza, al di là del bosco, sulle altre colline un grido vago e prolungato, una voce strascicata, e la ascoltò in silenzio, mescolarsi come musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi scossi."
:) A pieno merito inserito nella tradizione dei classici.
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Il libro degli esclusi
Questo commento non vuole essere una recensione dell'ultimo libro di Harry Potter. Vorrei semplicemente mettere in evidenza, senza troppi fronzoli e eccessi di retorica un po' furbacchioni uno dei motivi per cui andrebbe letto e ciò che a mio avviso lo rende speciale.
Quella di Harry Potter è una saga che se ci si apre con la necessaria semplicità e purezza può accogliere uomini e donne di ogni età. Già il fatto che la Rowling riesca a fare arrivare contenuti di indiscutibile spessore, come la dualità tra il bene e il male e la nebbia che separa e confonde i loro confini, l'amore come elemento che conserva l'ordine delle cose, l'instabilità morale del sistema politico di ogni realtà, già questo conferisce ai libri del maghetto notevole valore. Ma questo probabilmente è già noto.
Vorrei soffermarmi su un altro punto.
Se mi chiedessero di definire la saga di Harry Potter con poche parole risponderei che è il libro degli esclusi: Harry ha trascorso un'infanzia tormentata da emarginazione e solitudine; Ron è membro di una famiglia povera in cui il padre svolge un lavoro di bassa considerazione al ministero; Hermione è una mezzo sangue, Lupin un reietto, Sirius un uomo calpestato e dimenticato dalla legge. Gli esempi potrebbero essere tanti altri.
Quello che colpisce è questo: gli eroi della Rowling non sono convenzionali. Come accade nella società reale subiscono le etichette che la gente ti appiccica,ed è attraverso quest'etichetta che manifestano la loro vera forza: non si fanno sporcare dalla cattiveria del mondo e dalla sua ipocrisia, la loro purezza anno dopo anno rimane immutata; allo stesso modo persistono le loro fragilità e le loro contraddizioni, che li rendono personaggi da poter ammirare senza che siano troppo lontani da noi.
I lettori di Harry Potter sono tanti, di ogni età, estrazione, nazionalità. Ma il lettore che mi immagino io ha dodici-tredici anni e per la prima volta si sta affacciando al mondo, si sta scontrando con le prime maschere e falsità, e sta conoscendo i primissimi dolori. Il lettore che immagino nella mia mente sta subendo anche le prime emarginazioni. Ma ha Harry Potter sotto braccio e legge i suoi libri tutti d'un fiato, uno dopo l'altro. Non sa perché gli piace così tanto, e non può capire, nella sua tenera età, che in quell'oceano di ipocrisia il libro è uno strumento semplice ma di grande potere, a cui si può aggrappare per conservare la sua purezza. Perché si, qui è tutto sbagliato, ma Harry, Ron e Hermione non hanno mollato, e se ce la possono fare loro ce la può fare anche lui.
E' il potere dei libri ed è il potere di Harry Potter: un messaggio positivo che rifulge di luce in mezzo al buio e può essere di grande aiuto, soprattutto per i più piccoli e per i più fragili.
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Il male che diventa normalità
Un uomo brillante mi disse, qualche tempo fa, che ci sono diversi modi per imparare la storia. Il più ovvio di tutti è procurarsi un buon manuale e memorizzare date su date, nomi impronunciabili di generali e posti lontani. Un lavoro non sempre piacevole, ma utile e necessario. Ma i romanzi, mi disse, hanno un potere straordinario. Ti restituiscono la stessa disperazione, o gioia o confusione che l’umanità ha provato in quel determinato periodo. Per un attimo ci sentiamo simili a loro. Siamo loro. E’ questo il potere della letteratura. A quell’uomo brillante vorrei dire, dopo aver letto La Ciociara di Alberto Moravia, che ho capito cosa voleva dire. Lo scrittore romano ci consegna, con la sua consueta durezza un aspro dipinto della seconda guerra mondiale, filtrata attraverso gli occhi di una semplice contadina del Lazio, Cesira, trasferitasi a Roma dopo il matrimonio. La donna e sua figlia, come quasi tutto il popolo italiano, ignorano i reali motivi che scatenano la guerra e gli eventi successivi. Affidandosi al suo intuito decide di passare un po’ di tempo in campagna, a casa dei suoi genitori, ma ad attenderla troverà solitudine e devastazione, e passerà molti interminabili mesi nascosta tra le macere, in una valle, con gli altri sfollati. La sua confusione, il suo dolore, la sua logorante attesa, la sua rabbia, i suoi mille punti interrogativi sono gli stessi degli italiani di quegli anni. Italiani che vedono avvicinarsi alle loro porte un mostro pericoloso e violento. Ma non sanno chi è. Non sanno che nome abbia. Non sanno che bandiera porti. La ciociara come gli sfollati, come i contadini spiegano tutto questo con considerazioni inutili e ingenue. Solo il pungente sguardo di Michele, un giovane intellettuale dissidente, ha una visione delle cose più profonda. Ma nessuno, o quasi nessuno lo capisce, per cui spesso tiene le sue riflessioni per se stesso, arrabbiandosi con il mondo. Giorno dopo giorno la protagonista del romanzo assiste alla continua sparizione di persone con cui pochi momenti prima condivideva pasti e chiacchierate. Diventa normale non lavarsi, mangiare cibo raffermo, odiare senza un perché. Sopra i punti interrogativi di queste semplici persone si muovono, come farfalle in una interminabile primavera, i cacciabombardieri, che rompono i loro pasti, fanno tremare le ossa, abituano gli uomini al rombo dell’inferno come se fosse una cosa normale. Per Alberto Moravia guerra significa prima di tutto abituarsi al male. Gli equilibri del mondo non vengono solo sconvolti ma capovolti e il senso della pietà, conservatrice per eccellenza dell’equilibrio sociale, diventa un lontano ricordo. E tutto questo orrore prende vita in un posto bellissimo: le campagne italiane. Lo scrittore si ferma a più riprese a descrivere il bianco candore della neve invernale, l’acqua cristallina dei tanti ruscelli sparsi qua e la, la macchia mediterranea. Ma è una bellezza che in mezzo a quella turpe violenza appare finta, fuori luogo, canzonatoria. Non si è più liberi nemmeno di ammirare il bello. Moravia della guerra ci dice questo. E' una belva che inquina di nero le vene di tutti, italiani, inglesi e tedeschi. Prima di ogni cosa quest’inutile bestia ti cambia per sempre. La ciociara e la dolce figlia Rosetta sono il paradigma di questo avvenuto cambiamento e ci racconta la loro tragica esperienza.
Questo romanzo non può essere spiegato in poche righe perché è dotato di una ricchezza contenutistica particolare. La linea tra buoni e cattivi è labile, e solo fino a un certo punto si sa chi sia la vera vittima del conflitto. La sguardo ammonitore di Moravia colpisce tutti, senza esclusioni: i tedeschi che sembrano essere dotati di una natura animalesca; gli sfollati con la loro ottusa superbia e il loro attaccamento al cibo. l’ignoranza che condanna tutti eccetto Michele.
E' un libro da cui si possono ricavare informazioni dolorose ma vere. A volte nella lettura il romanzo risulta pesante. Ma forse deve essere così, perché si parla di un’esperienza statica, priva di movimento e questa pesantezza rende l’idea dell’attesa sfiancante a cui la protagonista è condannata.
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Una lettura spensierata.... forse anche troppo
Il mercante di libri maledetti narra la storia di un venditore ambulante di reliquie indotto da un misterioso e sfuggente amico a cercare il cosiddetto libro degli angeli, che si sussurra possa conferire poteri straordinari. Ad accompagnarlo il fedelissimo guerriero francese Willalme, dal passato oscuro e un giovane brillante ragazzino, Uberto. La vicenda si svolge in Italia, Francia e Spagna, nel medioevo, tra villaggi polverosi, monasteri e città caotiche. A movimentare il racconto, la presenza di una violenta setta di fanatici, sempre all’inseguimento dei tre, e disposti ad ottenere il libro ad ogni costo.
La copertina del romanzo recava una serie di elogi strabilianti, che arrivavano a definire l’autore “il nuovo Umberto Eco”. Mi sono sembrati subito fuori luogo e spropositati. Io da grande superficiale giudico quasi sempre il libro dalla copertina. Penso che se un’opera sia grande e seria al punto giusto non abbia bisogno e non ritenga corretto servirsi di questi strumenti un pochino furbi.
Il Mercante di libri maledetti si legge in modo scorrevole e leggero. Forse anche troppo. Ho letto il romanzo in una settimana di fuoco, con tre grossi esami sulle spalle, senza il minimo sforzo mentale. Questo può significare solo due cose: o lo scrittore è un nuovo genio del nostro tempo, di quelli capaci di sintetizzare contenuti di notevole spessore in una storia agevolissima…. Oppure il libro è decisamente troppo leggero, sotto ogni punto di vista. Propendo più per la seconda.
La storia non è brutta, ma secondo me banale. Sembra la copia mal riuscita dei romanzi di Dan Brown. I personaggi hanno i loro caratteri, che vengono però enfatizzati all’eccesso, originando non persone vere, ma stereotipi. E’ difficile affezionarsi a loro e dunque al romanzo.
Ignazio de Toledo è il tipico intellettuale misterioso e eversivo, osserva il mondo dai suoi profondi occhi azzurrini. Un’idea carina se vogliamo, a cui l’autore non è riuscito a dare la giusta veridicità.
Segue Willalme, eroe forte e vigoroso, banale nel suo passato misterioso.
Il personaggio secondo me più ben riuscito e Uberto il giovanissimo della combriccola. Pur sforzandosi si riesce a percepire la fragilità della sua giovane età e tutti i suoi sogni.
Nel Mercante di libri maledetti sono presenti due cattivi di cui non posso rivelare il nome. Uno di questi, la cui posizione è potente e temibile non fa affatto paura e probabilmente dovrebbe.
Il romanzo è scritto sicuramente bene. Ho trovato piacevoli le descrizioni paesaggistiche. Però anche nella scrittura, ahimè, ho qualcosa da ridire. Nelle primissime pagine si percepiva lo sforzo dello scrittore, che in esse ha concentrato descrizioni poetiche e suggestive e quant’altro, come se dovesse riempire il vaso di pandora. Ha cesellato ogni particolare. Poche pagine dopo, quasi come un palloncino sgonfiato, il tutto si è abbassato di tono. Lo stacco era troppo evidente. Non so voi, ma queste cose un lettore non le dovrebbe notare, è stato un errore un po’ da dilettanti.
DUNQUE COME CONCLUDERE? Non mi sento di dire che è un libro brutto. Semplicemente, dopo la lettura non ti da nulla: niente di buono né di cattivo. L’ho dimenticato davvero troppo in fretta.
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Le inversioni di rotta e l'equilibrio precario
1Q84 è il romanzo del cambiamento e dell’equilibrio precario. Nella storia si susseguono puntualmente una serie di rivelazioni che inducono i personaggi non proprio a cambiare, piuttosto a riscoprirsi davvero per la prima volta. Queste improvvise inversioni di rotta si riproducono in una realtà ben più vasta dell’anima delle persone. L’intero mondo sembra aver imboccato una direzione senza ritorno, la cui comprensione è difficile quanto inquietante. Le anime di Murakami sono perennemente in bilico: tra ciò che sono e ciò che vogliono sembrare, tra mondi vecchi e nuovi, tra sogno e realtà.
Iniziando a leggere il romanzo, nelle primissime pagine, ho avuto l’impressione di entrare in un universo letterario nuovo. Lo stile dello scrittore è particolare, i dialoghi dei personaggi si fissano nella mente senza il minimo sforzo, perché sanno di vero.
Più che su carta, sembrano incisi nella pietra. La sensazione durante la lettura è appagante, perché nel momento in cui i personaggi pronunciano le loro parole sembra che ne abbiano la piena coscienza, un senso della verità che nei discorsi quotidiani, informali e non, spesso e purtroppo manca.
I personaggi, chi più chi meno, sono originali e veri. Come non restare affascinati dalla magnetica Aomame? Una donna in apparenza disfattista e nichilista, che sembra abbia costruito il suo equilibrio sulla più fredda razionalità. E invece ad alimentare ogni suo movimento e respiro, giorno dopo giorno, è un amore immenso, che nel suo nascere si è nutrito di pochissimo. E Murakami è riuscito a rendere l’intensità di questo sentimento senza ricorrere a eccessi poetici e romantici. Forse è per questo che l’amore di Aomame, che potrebbe davvero risultare inconcepibile lo si percepisce come vero, inequivocabilmente.
E come non restare colpiti dalla splendida Fukaeri? Dai suoi silenzi significativi, e dalla sua profonda essenzialità?
A mio parere i protagonisti femminili hanno una forza particolare, di gran lunga superiore a quella dei personaggi maschili. Anche se Tengo, “il gigante buono” fragile ed emotivo non può non essere nominato.
La struttura narrativa è ingegnosa, anche se non sempre efficace. Si alternano, capitolo dopo capitolo, le vicende dei due protagonisti principali, Aomame e Tengo, che consentono, nel momento di maggiore suspense, di spezzare il racconto tenendo i lettori attaccati al libro. Uno strumento usato forse in modo un po’ esasperato, che ( a me personalmente) ha rovinato il piacere nella lettura del finale.
Le digressioni sono in gran quantità, per cui a volte il ritmo della narrazione è rallentato. Spesso accade che si tratti (ahimè!) di ripetizioni più che digressioni. Tendo comunque a spezzare una lancia in favore di queste ripetizioni perché l’intreccio narrativo è davvero complesso, per qui i resoconti che i personaggi ogni tanto si fanno servono a chiarire anche ai lettori la situzione.
Inoltre ho notato che Murakami ha un grande controllo della storia, nelle sue complessità e nei suoi mille dettagli. Con evidente consapevolezza sparge qua e la dubbi e questioni irrisolte, di cui non si dimentica, e che spiega nel momento opportuno.
IN SINTESI è un libro che consiglio, in quanto sorprendente nella trama, originale nella costruzione dei personaggi, speciale nello stile. Le lungaggini e le ripetizioni rallentano un po’ il tutto, ma ne vale la pena!
P.S. La descrizione della routine dei personaggi e della cucina è davvero piacevole e profonda nella sua semplicità. Mi ha rilassata.
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Anna Karenina, il romanzo di tutti
(IL TESTO CONTIENE SPOILER)
Anna Karenina è considerato un monumento della letteratura mondiale, uno di
quei libri che se ci si vuole inoltrare nella foresta della letteratura
bisogna assolutamente conoscere.
Questo successo si deve a tanti fattori. Lev Tolstoj non ha una penna
qualunque, e nemmeno degli occhi qualunque. Ha una profondità tale che
riesce a penetrare tutte le pieghe dell’anima, descrivendo con chiarezza le
contraddizioni, le luci e le innumerevoli ombre della mente umana. Egli
comprende la follia, rendendola un qualcosa di non poi così lontano anche
dalle nostre vite. Agli occhi di chi legge persino la pazzia, diventa così
chiara e trasparente che s’inizia a pensare che niente poteva andare
diversamente.
La protagonista del romanzo è una gran dama della Russia innevata dell’800,
una creatura fragile e affascinante, bella e infelice. E’ una donna che pur
avendo dentro di se una vitalità forse rara, la reprime diligentemente, come
vuole la società, incanalando tutte le sue energie nella cura del figlio, e
sopportando a testa china le angustie del suo matrimonio arido.
Tuttavia nella mente umana si può insabbiare tutto ma mai cancellare nulla.
Perciò, in una delle tante feste mondane, Anna perde il controllo e inciampa
negli azzurri occhi di Vronski. I due, dimenticandosi delle regole imposte
dall’aristocrazia russa, che accetta di buon grado un tradimento, ma mai l’amore
vero, fuggono insieme, annullando completamente il loro precedente passato.
Il mondo di cui parla Tolstoj è ipocrita. In esso è concesso (quasi
incoraggiato) tradire ma senza amare. E’ un mondo falso, svuotato dalle vere
emozioni. Per questo Anna e il suo amante decidono di tirarsi fuori. Ma a
quale prezzo? Davvero l’amore può compensare la perdita di un figlio? L’esclusione
dalla società? Lo sfumare di tutti i sogni e le ambizioni? In Vronski, che
per la donna ha buttato via una brillante carriera militare, inizia a
serpeggiare quel male di vivere che per il precursore dell’esistenzialismo
moderno, Seneca, è la maledizione per eccellenza: la noia. E forse niente
più della noia può uccidere anche l’amore più forte. La giovane donna, a cui
la vita è sfuggita completamente, è ossessionata dall’idea che l’amante la
abbandoni, e lo tormenta con insensate crisi di gelosia: egli è tutto ciò
che le rimane e non può permettersi di perderlo. La situazione, giunge a una
soluzione finale catastrofica: in preda a una delle tante paranoie
nevrotiche, riflettendo sulla bruttezza del mondo e sull’inutile falsità di
tutte le cose, in una stazione si butta tra le rotaie di un treno, dopo
essersi fatta il segno della croce. La fine della storia di Anna è di una
tragicità dolorosa, che non lascia al lettore nemmeno un piccolo appiglio su
cui potersi aggrappare. E’ struggente la dinamica del suicidio poiché Anna,
pochi secondi dopo l’aver compreso la stupidità di quel gesto tenta di
alzarsi, ma l’impatto violentissimo con il treno le impedisce di farlo. .
Volle alzarsi, rigettarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di spietato,
la colpì alla testa e la trascinò.
Dunque, la risposta è chiara. Non si può scappare. Non si deve scappare. Un
albero non ha vita se privato delle sue radici.
Non a caso i severi occhi di Tolstoj offrono ai lettori, parallelamente, l’esempio
di un amore giusto e sano: la storia della dolce Kitty e di Lev, l’alter ego
dello scrittore. E’ un amore lontano dal peccato, riconosciuto dallo stato e
soprattutto da Dio. Proprio in Dio, secondo Lev, si può trovare l’unico
conforto sicuro alle atrocità della vita.
Anche quello di Stiva e Dolly, seppur esasperato dai ripetuti tradimenti del
marito, è un matrimonio che non conduce alla perdita di se stessi.
Anna Karenina è il libro delle madri, degli amanti, dei traditi, dei
traditori, degli eremiti, degli uomini in carriera, dei poveri, dei ricchi.
E’ il libro della tenerezza e della violenza, della razionalità e della
follia. E’ il libro di tutti. Per le sue innumerevoli ma probabilmente
necessarie digressioni la lettura non sempre è scorrevolissima. Ma ne vale
la pena. Aggiungo che per la sua complessità è un libro da RI-leggere. Una
lettura dopo l’altra si colgono più dettagli, riflessioni che prima ci erano
sfuggite e il disegno di Tolstoj si fa più chiaro, da ogni angolazione.
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