Opinione scritta da Ale_
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filosofeggiare
All' inizio non avevo molta voglia di leggere questo libro. Avevo letto distrattamente la pagina iniziale del romanzo di Hesse, ritenendo la descrizione del grande albero del convento di Mariabronn troppo noiosa, e l' avevo accantonato dicendomi che “si, forse un giorno lo leggerò..”.
È stato così infatti, ho ripreso la lettura del romanzo e mi è piaciuto.
Narciso e Boccadoro sono la rappresentazione letteraria di una contrapposizione che affascina da sempre, quindi niente di nuovo dal punto di vista del cuore del romanzo, del perno su cui si regge l' intero libro.
Narciso è spirito, è logos e ragionamento che si oppone continuamente ma con equilibrio al suo opposto Boccadoro, che invece è governato da istinti quasi primitivi, è eros, è natura.
Pur essendo così distanti, pur affrontando la vita in modi così diversi Narciso e Boccadoro sono continuamente attratti l' uno verso l' altro. Hesse insiste in modo particolare su Boccadoro, sul suo modo personale di affrontare la vita cercando prima di emulare Narciso, poi accettando sempre con maggiore forza la sua vera natura.
Lo segue nei suoi vagabondaggi in giro per un' Europa medievale prima florida e poi tormentata dalla peste, mentre l' abate Narciso vive al sicuro tra le mura del suo convento.
I protagonisti di questo romanzo rimangono nella mente, non nel cuore. È un libro che apre le porte alla speculazione filosofica, solo superficialmente parla della vita e dell' amore di questi due grandi uomini.
Il difetto(o il pregio?) di Herman Hesse è che ogni parola ha un significato preciso. Non si può saltare nessuna frase, nessuna parola deve sfuggire al lettore perchè i dialoghi tra i due protagonisti, il filo stesso dei loro singoli pensieri è tutto un succedersi di ragionamenti e riflessioni di natura puramente speculativa. Nei romanzi di Hesse bisogna rimanere sempre sull' attenti perchè perdere una frase significa perdere una rivelazione a sé stessi e al mondo, non so se mi spiego.
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Matriosca
“mio caro e sfortunato successore, se questa lettera giungerà nelle tue mani, di sicuro io sarò in pericolo, forse morto, o peggio...”
E per peggio grazie al cielo il caro professor Rossi non intende riferirsi al fatto che, ogniqualvolta esposto alla luce solare, sbrilluccica di gioia.
Questo horror-thriller è per gli appassionati del genere vampiresco bramstokiano.
Il romanzo risulta complicato ad una prima lettura( personalmente mi è piaciuto molto quindi l' ho riletto varie volte nel corso degli anni) perchè Elizabeth Kostova non soltanto fa ampio uso di flashback; i ricordi che vengono evocati durante la narrazione non provengono dalla stessa persona che semplicemente racconta il suo passato, ma da una moltitudine di personaggi diversi che vivono anche in periodi storici differenti rispetto a quello della protagonista.
Il Discepolo sembra una matriosca di ricordi appartenenti a persone diverse ma legate da un nemico comune, che non svelo perchè non voglio rovinare il finale.
Mi è piaciuta molto la tecnica della scrittrice; è complicata è vero, ma la trama così concepita è un puzzle di informazioni che il lettore deve necessariamente organizzare per poter arrivare al fulcro della storia. E così la Kostova ci prepara piano piano, come se scendessimo lungo una scalinata. Possiamo solo intuire dove questa porti, ma siamo curiosi perchè sentiamo dei rumori in lontananza, e moriamo dalla voglia di sapere cosa o chi li produce.
Vale la pena fare questa sfacchinata? Assolutamente si.
La complessità della tecnica di Elizabeth Kostova non è di quel tipo irritante e saccente di uno scrittore che vuole dimostrare a tutti i costi quanto sia bravo, anzi. Rende il romanzo ancora più avvincente, lo trasforma in un giallo oltre che un thiller efficace(con un pizzico di genere horror)
La narrazione inizia con una donna che racconta di quella notte lontana in cui, curiosando nella biblioteca del padre, trova delle vecchie lettere; da qui in poi Il Discepolo cambia il titolo in “La Matriosca della Slovacchia”.
Armatevi di pazienza e di coraggio, ne varrà la pena.
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alla ricerca di sé
Non è un romanzo ne tanto meno un saggio; è la storia di una rivelazione.
È uno di quei libri che si decide di leggere perchè “bisogna farlo”. Cerco di spiegarmi meglio. La trama di Siddharta come romanzo non è avvincente, non ci sono colpi di scena, uccisioni o suspance di qualche tipo. In maniera molto poetica, mi piace pensare che quando si è pronti il libro viene a sé e solo in quel momento si sente il bisogno di leggerlo.
Hesse racconta della vita dell' uomo Siddharta, del suo percorso alla ricerca della verità che comincia per lui da promettente monaco che ripete ripete ripete a memoria le preghiere che altri monaci illustri prima di lui gli hanno insegnato. Siddharta in un primo momento è convinto che questa sia la Verità, che non ci sia niente altro da capire, anche se.. anche se sente sempre qualcosa, una sensazione di disagio, di insofferenza che in qualche modo lo spinge a cercare.
Incontriamo allora il Buddha, l' Illuminato.
A questo punto del libro sono rimasta affascinata dalla capacità di Hesse nel descrivere le diverse strade che Siddharta e Govinda, suo compagno di viaggio, prendono, senza per questo leggere tra le righe una sorta di indulgenza da parte dell' autore nei confronti del giovane che “si ferma” a metà percorso.
In realtà il messaggio di Hesse tra queste pagine è: “Let it be”. Si è la canzone dei Beatles, ma la frase è significativa perchè esprime ciò che voglio dire.
In Siddharta, Hesse ci chiede di lasciare che ognuno trovi la sua verità, poco importa che questa provenga da una dottrina già esistente o se invece appaia senza preavviso tra le onde di un fiume, dopo una vita passata a sperimentare.
In un certo senso mi ha fatta pensare alla continua insofferenza di Orazio, autore delle Odi. Il collegamento può sembrare azzardato in effetti, ma l' ansia di ricerca, l' instancabilità con la quale Siddharta cerca una tranquillità dell' animo che trova solo con la piena maturità mi hanno ricordato Orazio, che seppur con modalità differenti passa una vita intera a rincorrere sé stesso.
Unico appunto è la ricercatezza della sintassi; in un romanzo nel quale la speculazione filosofica è il fulcro della trama, avrei apprezzato un linguaggio più essenziale.
Bisogna però rendersi conto che il libro è stato scritto in un tedesco nel 1922, e la traduzione (immortale) di Massimo Mila è del 1945, dunque una certa difficoltà di comprensione bisogna metterla in conto.
È un libro che fa riflettere. Una volta chiuso, si rimane immobili per qualche minuto sul letto, sulla sedia o anche alla fermata dell' autobus, con gli occhi persi del vuoto a chiedersi quale sia il senso della vita.
Siddharta è nella top ten dei dieci libri che bisogna leggere nell' arco della vita.
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un riccio acculturato
L' eleganza del riccio.
Bisogna mettere in chiaro prima di tutto che questo romanzo non è per tutti. O meglio, non può essere apprezzato senza una buona, buonissima base di conoscenze letterarie data la mole di riferimenti più o meno velati che si ritrovano tra le pagine del libro. È un romanzo complesso. Bisogna prendersi del tempo, sedersi comodamente sul letto o su un divano, magari di sera, e iniziare a leggere attentamente capitolo per capitolo, come ho detto senza fretta. Perchè niente nell' eleganza del riccio è lasciato al caso. Tutte le parole, dalle congiunzioni alla punteggiatura, hanno un significato intrinseco che si rivela ad ogni nuova rilettura. Almeno questa è la mia esperienza personale.
La trama procede seguendo i pensieri, le esperienze e in generale la vita delle due protagoniste: Reneè, portinaia di un palazzo privato abitato da ricche famiglie parigine, e Paloma, ragazzina di 12 anni che della sua età ha solo l' aspetto, figlia minore di una delle famiglie che vivono nel palazzo parigino “sorvegliato” da Reneè.
Il punto di vista cambia frequentemente( la narrazione è sempre in prima persona) ma non crea mai confusione.
Le pagine di Paloma sono delle vere e proprie riflessioni filosofiche che interessano gli argomenti più vari, mentre i pensieri di Reneè sono quelli di una donna che vive per la letteratura, nutre la sua anima di romanzi.
L' ho apprezzato molto; è scritto con ricercatezza che però non diventa ampollosità, la forma rimane semplice nonostante si trattino argomenti assolutamente non convenzionali.
Un difetto: troppi riferimenti letterari. Le parole di Reneè mi sarebbero sembrate degli sproloqui senza senso di una gattara misantropa se non avessi letto Anna Karenina qualche tempo fa. Ci sono riferimenti precisi al romanzo di Tolstoj; non solo per quanto riguarda i personaggi; Muriel Barbery paragona in alcuni casi i sentimenti della sua protagonista alle emozioni provate dai protagonisti del romanzo russo, e questo in parte mi ha lasciata sorpresa perchè una persona che non ha letto Anna Karenina come fa a capire di cosa si sta parlando?
E non parlo solo del romanzo russo, ma anche della letteratura e cinematografia giapponese che viene citata molto, molto spesso. Alcuni punti delle riflessioni di Reneè mi sono risultati addirittura oscuri perchè non capivo esattamente di cosa stessimo parlando, e l' idea di dover andare a cercare i singoli riferimenti(magari anche solo su internet) mi pareva impensabile.
Detto questo: consiglio di leggere il libro? Si.
Ma la condizione assolutamente preliminare per poter veramente apprezzare l' opera di Muriel Barbery è:
a) conoscere Tolstoj
b)conoscere l' opera magna del regista giapponese Ozu( qualcuno di voi si sta chiedendo chi sia? Anche io.)
Edito dalla casa editrice e/o, 12,90 euro.
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Immortale
Cime Tempestose. E basterebbe solo il titolo per suscitare reazioni agli antipodi.
Il romanzo della vendetta dicono, il romanzo di un amore che non è amore ma malattia, ossessione.
Cime Tempestose è entrato nella storia della letteratura mondiale con l' irruenza di Heathcliff, la pazzia di Catherine prendendosi di diritto un posto nel cuore di ogni uomo o donna che abbia avuto il coraggio di leggerlo.
Ambientato in un epoca vittoriana perfettamente descritta nella famiglia Linton e altrettanto perfettamente rifiutata dalla famiglia Earnshaw, Cime Tempestose è il romanzo dell' odio.
Heathcliff e Catherine si odiano nella stessa misura in cui si amano e questo secondo me è qualcosa di nuovo. Non tanto nei sentimenti; di amanti che si amano e si odiamo si possono trovare un po' ovunque. È il realismo con cui questi sentimenti vengono espressi che mi ha affascinata dal primo momento. Catherine odia con ogni fibra del suo corpo Heathcliff perchè con lui vicino lei si abbrutisce, emerge dalla sua anima la seconda identità che ha sempre cercato di nascondere, anche a sé stessa. Perchè non va bene, non è ciò che ci si aspetta da lei in un' epoca, quella vittoriana, dove ogni passione deve essere soffocata. Allo stesso tempo è legata a lui in un modo che in alcuni momenti ho trovato difficile definire “amore”.
Heathcliff è il personaggio attorno al quale ruota tutto il romanzo. Il suo amore per Catherine prima corrisposto e poi sempre reciproco ma costretto al silenzio, l' assenza e poi il ritorno, la vendetta. Vendetta che è il fulcro, è la colonna portante della complessissima trama che si snoda attraverso due generazioni e che ha il suo lieto fine solo con la morte del Male, di Heathcliff.
Il romanzo ha una trama complessa, e per la storia e per i punti di vista che cambiano frequentemente. Una volta entrati nella brughiera però difficilmente ci si perde perchè i personaggi rimangono sempre ben presenti a loro stessi. Una caratteristica molto interessante che ho apprezzato è il “non cambiare” di tutti coloro che ruotano intorno alle vicende di queste cime continuamente scosse dai venti. A differenza della maggior parte dei romanzi, all' interno dei quali troviamo dei protagonisti (che rimangono comunque indimenticabili s' intende)che evolvono con l' evolversi delle vicende, che cambiano in positivo o in negativo, in Cime Tempestose questo non succede. Gli stessi tratti di personalità che distinguono un Heathcliff bambino da un giovane Edgar Linton rimarranno gli stessi una volta che questi personaggi saranno diventati adulti.
Lasciando nella brughiera per un momento gli spiritelli che ogni tanto fanno capolino nel romanzo, l' impatto che ho avuto una volta finito il libro è stato di realismo.
Realtà da parte di Emily Brontë nel descrivere personaggi immortali che non sono mai del tutto positivi, anzi. Perchè se esaminiamo con attenzione il caro buon Edgar Linton, in lui troviamo una vena di servilismo e pateticità che ci disgusta.
Il messaggio che questo romanzo mi ha lasciato?
Le persone non cambiano, l' amore non è sempre un sentimento positivo, anzi. Si possono amare due persone contemporaneamente, ma in modo diverso. Sembra retorico e scontato, ma leggendo questo libro ho capito veramente quando le persone si dicono che “il confine tra odio e amore è impercettibile”.
Ma soprattutto mai lasciare aperte le finestre durante la pioggia altrimenti mi entrano in casa gli spiriti dei bambini morti.
Informazioni tecniche: “vivere” un romanzo nella sua lingua originale è ovviamente un' emozione irripetibile nella sua versione tradotta, ma per chi non è un esperto di inglese vittoriano pieno di Sir e Mylady(come me) la traduzione di Gemma De Sanctis è bellissima, non ci sono altri aggettivi per descriverla. Lo stile è chiaro, brillante, ed è una caratteristica importante in un romanzo la cui trama è tutt' altro che semplice.
Citazione immortale: “il mio amore per Linton è simile alle foglie dei boschi. So che il tempo lo muterà, come l' inverno muta gli alberi...ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sotto di noi... una sorgente di gioia poco visibile, ma necessaria. Nelly, io sono Heathcliff... lui è sempre, sempre nella mia mente... non come un piacere, non più di quanto io sia un piacere per me stessa, ma come il mio stesso essere, perciò non parlarmi più di separazione...è impossibile, è...”
Da leggere? nel caso in cui non si fosse capito, assolutamente si.
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