Opinione scritta da paolo migliaro

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Religione e spiritualità
 
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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    30 Agosto, 2013
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L'agonia esistenziale

L'illustrissimo Carlo Bo, all'età di 34 anni, già ordinario della Facoltà in Letteratura in lingua francese e spagnola all'Università di Urbino (poi Rettore dal 1947 fino al 2001), rifugiato a Valbrona vicino al lago di Como, durante gli ultimi mesi della seconda guerra, nel febbraio 1945, finì di scrivere la postfazione al libro di Miguel De Unamuno, "L'agonia del Cristianesimo", di cui riporto un giudizio esplicito:
"...La lezione che possiamo aspettarci da uno spirito come il suo ha soltanto valore negativo, a nessuno verrà più in mente di riprendere le sue soluzioni per proprio conto: è impossibile usare della sua sostanza come elemento se non di nutrimento, almeno di collaborazione."

Ma poi cosa capiterà al grande Rettore dell'Università di Urbino con il trascorrere delle esperienze e della lenta penetrazione dentro un'opera altrui, non ancora sua e dunque da incarnare, da soffrire nelle sue contraddizioni, da esaminare meglio e da scoprire in un eureka? "Perchè nessuna cosa che possieda verosimiglianza, veridicità o verità e che sia letta o ascoltata è mai nostra fintanto che non la incarniamo e questo è il motivo del perchè diventiamo saggi solo con il passare degli anni" .

Ecco cosa dirà Carlo Bo in una intervista, molti anni dopo, nel 1984, insieme al rammarico di aver sempre scritto, letto e studiato e fatto null'altro per realizzare la sua piena umanità, cosa che solo uno spirito grande come era il suo poteva ben raccogliere, nel senso che solo un grande spirito si arrende all'evidenza riscontrata di molta miseria e nonostante la mole prodotta - mole infinitesimale, detto pascalianamente - e mole non ripagata da tante altre esplicazioni mai avventurate:

"...Ricordo oggi il suo diario poetico e la ricerca di una bellezza pensata e scolpita, il suo amore per il Leopardi della Ginestra e la sua 'Agonia del cristianesimo', dove agonia è frazione attiva di morte, lotta eterna, confronto tra parola e silenzio. Rileggo i suoi piccoli versi e mi percuote ancora, mi sento denudato, sono dentro di lui, parla anche per me. Questo credere che anche noi possiamo sbagliare, che nella storia degli uomini c’è sempre un’incognita, una X che non dipende da noi e che è il frutto della lenta costruzione di una filosofia superiore…L’ importanza di Unamuno, di Gide, era qui, nel fatto che si opponevano alle certezze, alle violenze, a una vita quotidiana e pubblica vissuta con fede inerte, negativa. Pensiamo al clima di quegli anni, a quel sospetto e quell’odio."

Se un uomo di fede come Bo, che studiò al liceo classico dai gesuiti, che fu un genio molto prolifico anche nella critica letteraria, che contestò con asprezza in 18 pagine argute e chirurgiche l'opera più famosa di Unamuno (1924) ventuno anni dopo la sua edizione, ebbene, qualcosa in lui dovette cambiare. Aumentò la saggezza. (Quella che assolutamente non può avere oggi un Renzi o un Grillo qualsiasi, che vogliono dimostrare di avere la chiave della risoluzione dei problemi, e quella che non hanno quelli che ancora non sanno che la conoscenza va sedimentata, strato su strato, e che una capacità si misura dalla solidità di molte conoscenze, non da chiacchere e incursioni televisive o con convegni parolai).

Non conosco minutamente la problematica che soccorse Bo rendendolo molto più saggio, ma credo che egli debba aver sofferto considerando le contraddizioni storiche ed anche filosofiche di quella sua parte affettiva, emozionale, che sento anche mia, poichè lì sono le mie radici e l'impulso alla ricerca.

Superata la necessità dell'esempio dimostrativo, ecco alcuni dei passi più critici, se ancora non avete letto il libro, di qualche tratto de L'Agonia:

"Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere" , non bisogna ridere nè piangere nè destestare, ma capire. Intelligere, capire? No, ma conoscere nel senso biblico, amare...sed amare. Spinoza parlava di "amore intellettuale", ma Spinoza è stato come Kant uno scapolo e forse è morto vergine. Spinoza, Kant e Pascal erano scapoli: sembra non siano stati scapoli: sembra non siano stati padri, ma non furono neppure monaci nel senso cristiano.

E in stretto collegamento, un altro:

Kant chiedeva, come regola suprema della morale, che prendessimo il nostro prossimo per fine in se stesso, non come mezzo. Era il suo modo di tradurre 'ama il tuo prossimo come te stesso' . Ma Kant era uno scapolo, un monaco laico, un avaro. Un cristiano? e forse prendeva se stesso come un fine in sè. Il genere umano finiva con lui.

Credo si intuisca bene, da questi brevi pensieri, che c'è sempre chi propone logiche di un tipo o di un altro, con molta abbondanza di termini e di antologia, bibliografia, ma senza avere presente le proprie contraddizioni, che spesso ben nascoste, ci negano quel che hanno detto. La logica dell'amore, della paternità e della maternità per Unamuno sono dei necessari assoluti per capire se stessi, il mondo, la stessa fede in profondità, la vera pietà e non il falso atteggiamento consolatorio e sentimentale devozionistico; la logica sapienziale, quella autentica è la sola liberante. E' una logica che però ha bisogno di tempo, di saggezza, come nel caso di Carlo Bo. Perchè non è importante la verità in se stessa, la verità per essere capita deve essere incarnata. Questo è il discorso complessivo di quest'opera.

E' quella verità fatta di lealtà innanzitutto verso se stessi. Tra noi invece, tanti vi sono e che continuano, che per imbrogliare finiscono per imbrogliarsi e non riconoscere più chi realmente sono. Imbrogliati così l'uno e gli altri insieme. Come nella storia patria degli ultimi nostri vent'anni...

Quella lealtà che sorge, ed è compresa così bene, in queste altre parole del libro, che svelano il segreto percorso dell'incarnare il pensiero altrui:
"Qual'è stato il Socrate storico, quello di Senofonte, quello di Platone, quello di Aristofane? Il Socrate storico, l'immortale, non è stato l'uomo di carne e ossa e sangue che è vissuto in tale epoca a Atene, ma è stato quello che ha vissuto in ognuno di quelli che l'hanno udito, e da tutti questi si formò quello che ha lasciato la sua anima all'umanità. E lui, Socrate, vive in questa umanità".

Occorre esistere, ex-sistere, e questo esercizio deve essere fatto fuori dalla nostra educazione e dalle nostre certezze, fuori dai capricci, dalla presunzione, dall'ignoranza che ci sovrasta e che non ci fa affrontare il dubbio, per abbandonare la virilità della volontà e affidarci al desiderio della grazia. L'autenticità è dovuta alla semplicità dell'essere. Questa è la lezione che ci offre Miguel Unamuno. Attualissimo e provocante su molti fronti anche oggi.

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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    21 Agosto, 2013
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Il riccio dischiuso

L'essere umano che abita questa civiltà è insincero e rinchiuso come un riccio nelle sue paure e malgrado indossi le maschere di tutti i giorni egli non riesce ugualmente a sanare le sue angosce, le sue depressioni, come accade per il personaggio della mamma dell’argutissima giovane protagonista.

Si dischiude davanti alla nostra mente la presenza della portinaia - parallelamente alla vita della bambina, della mamma e della sua famiglia socialmente altolocata - che svolge il servizio nell’androne del prestigioso palazzo; una semplice donna di mezza età, non troppo carina, amante dei gatti e che ha nel suo riposto di lavoro, in un piccolo e angusto retro, una biblioteca piena zeppa di libri che lei legge non appena ha un attimo di inattività e in cui distende la sua serena occupazione al pari di come si nutre senza alcuna avidità di quella cioccolata che non le manca mai...

In quei libri c’è il suo tempo migliore, ci sono i suoi sogni e il suo bisogno di esplorare il mondo dei pensieri. Renèe salva se stessa in quell'apertura; le sue letture e le sue segrete riflessioni non ingenerano isolamento, ma attenzione intorno a sè. Da quell’antro nascosto alla notorietà riesce a comprendere il mondo. Lo capiamo a riguardo di un amico, un uomo di mezz’età, perdigiorno e solitamente ubriaco che ogni tanto la va a salutare per due chiacchere, e verso cui non ostenta alcun moralismo, ma solo raccomandazioni amorevoli. Non ostenta nessuna carità pelosa, ma una semplice, naturale compagnia umanizzata ed umanizzante.

L’incontro con il ricco signore giapponese che cerca l’acquisto di un appartamento nel prestigioso condominio inizia con uno scambio glabro di battute dinanzi al finestrino della sua guardiola; è lui, che incuriosito dal guizzo intellettivo della portinaia con una pertinente, penetrante citazione sul libro di Tolstoj, Anna Karenina, ha interesse ad una reciproca conoscenza... E sarà un incontro che porterà alla condivisione della sorte umana e ad un medesimo linguaggio interpretativo della storia.

Ogni cultura è una lettura diversa delle medesime cose in cui l’uomo esiste, ma l’incontro può avvenire sempre dentro un linguaggio interiore nei luoghi accarezzati dove ciascuno trova la propria vitalità esistenziale ed anche la propria consolazione. L'incontro è in fondo solo una questione di sincerità e del coraggio nel dimostrare sè stessi. Di schiudere il riccio con chi merita. Una possibilità che è data unicamente agli spiriti maturi della capacità di relazione, della misurazione dei propri progressi, della disponibilità ad apprendere, nella generosità del farsi conoscere anche nei propri limiti.

Una consolazione che diventerà vicendevole negli incontri successivi tra gesti di cordialità, degustazioni di bevande, pasticcini e discorsi fatti di considerazioni dotte, e da una scena di due giovani giapponesi che camminano insieme verso un orizzonte che viene vista e goduta da entrambi su uno schermo televisivo e che emblematicamente li unisce come se loro due appartenessero ad un unico destino, come è vero che anche noi lo abbiamo insieme a tutti gli uomini.

L’epilogo di Renèe è sicuramente triste, ma reale, reale come è la morte, evento che fa parte del destino umano. In un atto fatale dovuto all' amore spontaneo, senza cautela e risparmio: la colta portinaia muore salvando l'amico che attraversa imprudentemente la strada. Come nel sacrificio cristiano...e il pensiero ricorre al ricordo delle emozioni fortissime di quanto sia stato duro accettare che tanto spirito, soprattutto quello che troviamo nelle persone che amiamo e stimiamo profondamente, non ci parli più...

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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    21 Agosto, 2013
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Come uomo lavorato dalla sofferenza

"Come sasso nella corrente" è il penultimo libro di Mauro Corona.

I suoi libri sono vissuti e lavorati meglio delle sue sculture, delle sue scalate o delle sue bevute, e ci rendono partecipi del travaglio dell'esistenza umana. Dentro le sue storie c'è sangue, sudore, sofferenza, rabbia, dolore, fatica, delusione, sogni, spettri, inferno, morte e desolazione, ma anche pace, saggezza, orgoglio, speranza e disillusione, desiderio inappagato di fraternità e condivisione umana. C'è tutta la vitalità umana del superare i problemi, del sopportare le afflizioni e del comprendere il mondo circostante in una dinamica discorsiva e spirituale messa a nudo in modo sincero con contrasti di spavalderia, vanità, e a tratti con una delicatezza e una sensibilità poetica inusuali.

In "Come sasso nella corrente" capiamo precisamente da donde viene, chi è, come gli riesca di scrivere così bene di montagne, di foreste, galli cedroni, di pietre e fiumi, di piante e fiori, dove tragga la sua prosa con il sostegno di frasi o riferimenti ad autori come Checov, Ibsen, Cervantes, e a decine di altri. A dispetto del suo esibizionismo, dell'immagine selvatica e della rozzezza apparente, l'autore è secondo me il vero intellettuale. Perchè egli ricerca interiormente quello che scrive. Come un vero artigiano del pensiero lavora le proposizioni con l'intelletto come usa la scorbia per scolpire, e mi stupisce. Stupirà ovviamente di più tutti quelli che come lui hanno affinato la stessa sensibilità al dolore esistenziale.

Non mi stupisce invece che possa essere disprezzato dai gelosi e dagli invidiosi che destituiscono la sua bravura criticandolo nel suo lato grottesco, o che lo diminuiscono imputandogli una semplice fortuna editoriale dovuta all'interesse del pubblico per le storie naturalistiche, che poi di naturalistico hanno unicamente lo sfondo. In esse infatti primeggia l'uomo e il suo lavorio culturale che ha il compito nell'arduo tentativo di trovare i significati, la pace e la conciliazione fraterna, addirittura quella cosmica. Non mi stupisce che sia osteggiato anche dalla elite di chi ha ricevuto gli effetti granitici di studi tranquilli, di genitori e nonni sereni che li hanno vezzeggiati e che in loro hanno riposto la prosperità futura, gli equilibri sentimentali ed emotivi, con l'unica mira di perpetuarsi il vanto, l'onore, la casata, la professione. Non certo il respiro dello spirito. Questi sono come dei nemici naturali, esseri inconciliabili.

Non mi stupisce nemmeno che l'autore venga attaccato perchè poi non vive coerentemente i suoi ideali. Cosa dovrebbe fare? Ritirarsi come un folletto nei boschi e mai più comparire? Non scrivere più libri perchè diventati un vero fenomeno editoriale, quindi rinunciare a quella fortuna economica? Indipendentemente da come poi usi quei soldi, questione che non ci è dato sapere (certamente non gira con l'autista come Bossi junior, nè si compra lauree o auto sportive) l'opera di Mauro Corona è ugualmente catartica perchè egli non è mai ignaro delle sue contraddizioni. E' lui stesso a dirci che il benessere ci ha impoverito, ha abbacinato il nostro pensiero che non riesce ad essere più fertile perchè ricerca se stesso, si morde la coda, non si autentica nella prassi; è finto, cerca la fama, cerca la notorietà, viene esplicato in una falsa cultura.

Questa è la vera causa della crisi morale del Paese! Di tutto il sistema di pensiero fatto di espressioni verbali con solidi ed enciclopedici convincimenti che non si sono mai dati pena della carità, ma solo della verità. Come nei catechismi, nei credi filosofici, nelle elaborazioni politiche e sociali. Tutto un parolaio immenso purtroppo dimostratosi fuorviante, male indirizzato, incapace di incontrare la persona, ciascuna, e innalzarla. Un parolaio che colto nel raffronto con le sue finalità mai raggiunte non risparmia nessuna Istituzione.

E allora, qual'è il punto di risoluzione di tutto? E' nella sofferenza. Nel giustificarla, nel renderla purificante, nel farne un elemento principale di cultura. E' lì che si rinnova il senso delle cose perchè è lì che tutti ci riconosciamo. Con l'amore l'altro elemento identificativo dell'umanità; due faccie della stessa medaglia 'uomo'. Ecce homo. Averla ripudiata, mascherata, rinchiusa, travestita, bandita, avversata, insultata, è stato l'errore più macroscopico della modernità. E' come essersi negata la possibilità di una resurrezione spirituale; l'essere si eleva sempre considerando la sua bassezza. Togli la coscienza della bassezza e avrai un super-uomo, scemo, presuntuoso e cretino anche con un sacco di parole in testa.

Il concetto redentivo della sofferenza, sta in molte elaborazioni del ricchissimo pensiero passato, e in particolare in questi sotto:

"Noi non abbiamo forse valore se non per le nostre sofferenze. C'è tanta gente la cui gioia è così immonda, il cui ideale è così meschino, che noi dobbiamo benedire la nostra disgrazia se ci fa più degni". Gustave Flaubert

"Chi non ha sofferto, non sa niente: non conosce né il bene né il male, non conosce gli uomini, non conosce sé stesso". François de Salignac de La Mothe-Fénelon
"La sofferenza è l'elemento positivo di questo mondo, è anzi l'unico legame fra questo mondo e il positivo". Franz Kafka

"Chi non ha sofferto non è un essere: tutt'al più un individuo". Emil Cioran



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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    21 Agosto, 2013
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La questione italiana

"La questione morale" nell'Italia è da sempre stata dibattuta dagli intellettuali più critici.
Il De Sanctis nella sua Storia della Letteratura cita il Guicciardini e il Macchiavelli come gli iniziatori di una coscienza slegata dalla morale perchè "ciò che è nella tua mente e nella coscienza non può essere regola della tua vita" e " vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo". All'apice di quella nuova mentalità che si affermava fu Pietro Aretino, definito dall' Ariosto il "flagello dei Principi", per i suoi libelli, le sue argute e spietate calunnie e vituperi nei confronti dei nemici dei suoi signori e nobili padroni che lo pagavano profumatamente facendolo ricchissimo.

L'italiano che si è formato nei secoli da lì in poi, dal "Franza o Spagna purchè se magna", locuzione derivata nel periodo del famoso 'sacco di Roma', è in discretissima parte rimasto nella mentalità popolare e borghese del "tenersi bene con tutti (...) di stare con chi vince perchè ne viene parte di lode e di merito", "nell'avere appetito della roba e un buon nome che vale più di molte ricchezze, nell'essere schietti perchè in caso di simulazione si è maggiormente creduti" (!)

Abbiamo quindi il quadro della ipocrisia e dell'italico dualismo sfacciato tra la coscienza e la morale, non certo una coscienza morale, che ci consente dunque la potenza di un confronto dialettico vincente in grado di far soccombere l'avversario, ma che poi non consegue mai ad un qualsiasi progresso. Credo che si possa dire ancora oggi, come lo scriveva il De Sanctis alla fine dell'ottocento, che è presente nella mentalità italiana l'armamentario di quel codice della borghesia tranquilla, scettica, scaltra e positiva, in special modo aumentato dopo la diffusione televisiva. Anche le persone più semplici che non si possono blasonare di qualche titolo nel settore economico, imprenditoriale, politico-istituzionale, vogliono il loro apparire, esigono il loro momento di notorietà e agiatezza sociale. Ma a nessuno interessa la verità di alcunchè, l'importante è che ciò produca il proprio benessere e un vantaggio sugli altri.

La morale qui nel nostro beneamato Paese, e soprattutto per coloro che non sopportano limitazioni alla libido e alla avidità di danaro, potere, celebrità, supponenza, protagonismo, vanità, sussiego, prosopopea, aplomb, etc...è diventata una parola odiosa che ha smarrito molto del suo significato ermeneutico e fa particolarmente impressione vedere nelle ultime vicende scandalistiche dei personaggi politici vicino alla morale cattolica così disposti a tutto da non essere presi da alcuna riprovazione, da alcun conato, e addirittura molta ne fa ancora nel vederli scagliati contro il moralismo; come dire, vedono il marcio, ma non ne sentono affatto la puzza nauseabonda.

Questo libro, lungi dal moralismo scontato e banale, è importante perché aiuta a capire il punto di vista culturale della morale che è molto più ampio e complesso del 'non è bene fare questo e quello'. La moralità ha a che fare con la verità di se stessi, non con l’apparenza; perciò ogni cosa, ugualmente quelle nascoste, traspaiono nelle virtù e inevitabilmente anche nelle mancate virtù. Essere morali è essere generosi senza chiedere nulla in cambio, è essere giusti nel fare il bene degli altri, è aiutare gli altri a diminuire il loro dolore o a rincorrere le loro attese e speranze. La serie di queste azioni presuppone un’etica profonda. La finzione morale invece prima o poi si palesa fuoriuscendo come il percolato dei rifiuti di Napoli; al di sotto dell'immondizia, alligna e avvelena, uccide e soffoca il diritto alla felicità.

Il libro della De Monticelli aiuta a capire il problema della Questione Morale ed è utile a ricostituire la fiducia per una Filosofia della Persona, per un diverso Paese, sollecitando tutti ad agire, ad essere individualmente tutti protagonisti nel proprio ambito, con tutti i mezzi. Anche con questo. Una morale e un’etica che sia capace di realizzare i nostri sogni è possibile solo se ognuno comincia da se stesso.

L'etica è il dovuto da ciascuno a tutti.

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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    19 Agosto, 2013
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I fantasmi italiani

Nella struttura di "Fantasmi di pietra", autore Mauro Corona, non c'è la sola descrizione del paese di Erto nel trascorrere del tempo attuale durante le quattro stagioni, c'è qualcosa di molto di più e lo scriverò dopo. Erto, per chi ancora non lo sa, giace in altitudine, irto, dunque come vuole il suo nome è appoggiato tuttora solatio con poche anime che lo abitano su una sponda collinare sul fianco destro del Vajont, il fiume che negli anni '60 si trasformò in un lungo lago per via dell'invaso d'acqua e della famosa diga che ancora oggi si vede intatta giungendo a Longarone. Raggiunto il paese dalla strada inerpicata a tornanti che sale da Longarone, superato il paese di Cassio, esso appare nel pianoro e invita quasi ad entrare. Gettando la vista verso la montagna dinanzi si scorge ancora chiara e vasta l'impronta a "M" del distacco della frana sul monte Toc e a valle l'enorme quantità di rocce, pietrami e terra che in un unico balzo portò via, con un'onda che si sollevò sino a 200 metri di altezza, il 9 ottobre 1963, un centinaio di morti tra le frazioni di Erto e Cassio, ed altre 1900 e più sotto nella cittadina di Longarone e località limitrofe. La scorrevolezza e la semplicità della scrittura di Mauro Corona ci consente di abitare quei luoghi e quei paesaggi fatati, incantati, dolenti e austeri, ma a tratti anche felici, gaudenti, epici e gloriosi di gesta umane, affaticate nell'allevamento degli animali, nell'essere boscaioli di grande tempra, ci consente di immaginare ad occhi aperti le mirabili arti dei falegnami, dei fabbri, degli scultori in legno. Corona è un perfetto epigono dei suoi conterranei e ha imparato ecellentemente tutto quel che va raccontando, ma è per noi qui anche un narratore fantastico di altrettante storie fantastiche, un prodigioso scrittore della montagna aspra e solitaria, ma dispensatrice di purezza estetica attraverso l'opera intellettuale cesellata di chi sa scandagliare in se stesso, sa trarre da se con le lettere quest'altra arte che è la scrittura. Mauro Corona non racconta però solo della sua Erto fisica, inurbana, e non ci ammalia, in particolare in questo libro, solo con l'estro narrativo e poetico sui suoni e sui movimenti della natura che con grande maestria sa quasi dipingere con le parole, o per i sentimenti e i pensieri che animano stupefacentemente i suoi personaggi, ma riesce con singolare capacità filosofica e morale a convincerci di ciò che accade realmente nella vita di tutti noi e sebbene noi viviamo in città o paesi popolosi. Lui non indugia alla prolissità del giudizio, è essenziale nello scritto quanto nella vita egli è deciso e pregno di volontà. Traggo da alcune frasi che riporto da "Fantasmi di pietra" il tenore dei vari livelli interpretativi che sono stati per me di grande interesse e spero lo siano anche per voi:

"I legni per diventare buoni dovevano guardare il tramonto, verso dove finiva la strada, diceva mio nonno. Solo così risultavano migliori, meno tenaci, meno aggressivi. La consapevolezza della fine toglieva loro irruenza e resistenza." In questa frase possiamo apprezzare la saggezza antica di innumerevoli vite vissute e perciò meglio comprese dall'esperienza e ci accorgiamo subito perciò che queste non sono considerazioni fatte a tavolino. Ritroviamo qui una vera filosofia della vita dove tutto è presente alla persona; anche le cose partecipano universalmente ad un movimento eterno, anche i legni, allo stesso modo che l'uomo traguarda al suo tramonto, sono messi a guardare verso il finito e perciò essi stessi migliorano acquistando una maggiore lavorabilità. Sarà questa anche una deduzione empirica, ma è spiegazione. è comunque una filosofia della natura, un distillato di sapienza che è stata accuratamente ereditata da generazioni. Oggi non produciamo più questi tesori culturali. Il rischio attuale della società post-moderna o post-teconologica è nella smemoratezza dei patrimoni morali a favore di altri pensatori che hanno teorizzato altre verità a tavolino producendo un deserto della ragione, perciò sradicata da questo ricco umanesimo dell'esperienza. Ecco un altro brano:

"Non tutte quelle pietre vanno d'accordo tra loro, ma per il bene della strada restano unite. Gli abitanti del vecchio paese non hanno avuto questa tenacia. Dopo la tragedia (del Vajont) si sono disgregati, hanno aperto vuoti nel mosaico sociale. Negli interstizi s'è infilata l'acqua dell'assenza diventata ghiaccio che ha divelto, scardinato l'unità delle tessere. La forza generata dello stare uno accanto all'altro è andata distrutta". Questa immagine di Erto che si attaglia a queste pietre che divelte hanno perso l'unità delle tessere è anche del nostro Paese. Ricordiamoci però che non sono teorie nuove, si trovano anche nelle descrizioni antiche dei resoconti del Guicciardini, del Leopardi, o del De Sanctis, anche di quel periodo dei secoli scorsi quando la nostra Nazione politica ancora non esisteva, ma esisteva comunque una certa identità popolare, territoriale, che sempre più veniva ricercata con l'uso e l'aumento di una lingua volgare comune e voluta come unita, intera, nel Risorgimento. Esisteva già un giudizio preciso sul cinismo, sullo scetticismo e sull'individualismo che hanno da sempre caratterizzato l'Italia. Gli interessi delle parti, della Chiesa che ha per troppo lungo tempo badato al suo potere temporale, degli Imperi che qui si combattevano e facevano incetta dei nostri territori, delle varie Corporazioni che dal costituirsi dei comuni hanno avuto un chiaro scopo nel loro arricchimento e non certo per la pubblica utilità del cittadino; queste realtà tutte insieme hanno da sempre bloccato il compimento dell'unione delle nostre tessere locali e oggi non di meno per la democrazia sembra che questo processo continui imperterrito. Oggi gli stessi interessi della finanza, delle imprese, delle professioni, della stessa politica, non perseguono ancora la crescita della civiltà e anche se vi sono da tempo le carte del diritto con enunciate le loro chiare e nobili ispirazioni! La politica attuale somiglia veramente a quell' acciotolato sconnesso di Erto dove il paesano, l'italiano, non sa dove mettere i piedi, rischiando di rompersi l'osso del collo in una miriade di problemi ancora non risolti e in ulteriore aggravamento. Oppure ancora:
"La bontà è un conservante speciale, mantiene giovani, fa rimanere bambini, tiene in piedi l'entusiasmo, la fiducia e il buonumore ". Anche L'Italia avrebbe bisogno di grandi esempi di bontà che coinvolgessero ed unissero. Occorrerebbe diventare capaci di discutere e di rispettarsi nella diversità delle proprie posizioni senza dover essere nemici. Ma la bontà non può che seguire dalla verità. Per questo credo non si possa non essere daccordo con la prof. De Monticelli quando afferma che la politica, per la questione morale, dovrebbe riprendere la via di Socrate. Nella raffigurazione della società ertana, Corona ha saputo esprimere nei suoi racconti una profonda saggezza che lui vorrebbe fosse anche un pò la nostra. Per questo scrive. Ognuno in quel caro luogo dei ricordi passati porta i suoi fardelli, i suoi diffetti, ma lì le persone si affrontano, si dichiarano per quello che davvero sono, si interpellano coraggiose, discutono e litigano, ma tutto si risolve nell'essere trasparenti. Questo è il carattere limpido della moralità, altro invece è quello che oggi spacciamo per saper vivere, ovvero la doppiezza, la furbizia, la prudenza mascherata da vigliaccheria.

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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    19 Agosto, 2013
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Il mare aperto della ricerca di senso

Come Odisseo per l'alto mare aperto nella ricognizione dell'ampiezza dello spirito umano, Scalfari, accompagnato da Diderot, come lo fu Virgilio per Dante, va alla scoperta di Montaigne, per poi seguire tutta una serie di considerazioni sul pensiero di personaggi come Proust, Baudelaire e gli scrittori maledetti, poi Leopardi, Goethe, Kafka, Kant, Hegel,Tolstoi, Dostowjesky, Nietzsche, Rilke, Calvino e Montale, tanto per citare i più importanti. Egli considera quello che per lui è ormai il tempo lento, ma progressivo, della fine della metafisica che iniziò con Platone 2500 anni fa nel nostro Occidente. Il grande giornalista ed intellettuale, esperto di economia, cultura classica e letteratura, filosofia e storia, non ha torto. Vediamo ogni giorno intorno a noi e dalle cronache echi e atti che ribadiscono la fine dell'assoluto e delle certezze. Il relativismo ed il nichilismo stanno permeando, a parte qualche enclave religiosa, molta parte delle nostre società, anche di quella che apparentemente sembra devota, ma che non è poi affatto profondamente credente. Le idee politiche, ma anche la fede religiosa ed il culto con i suoi rituali sono molto spesso solo fini a se stessi per una identità coltivata e per un piacere personale mancando di quella sollevazione di spirito che dovrebbe consentire sempre una fraternità e l'abbattimento di ogni antipatia, la conciliazione ed il confronto sereno per addivenire a qualche cosa che condiviso insieme provochi il percorso verso quel valore assoluto che è Dio o che sia semplicemente il progresso umano e civile per il quale anche gli animi diversi si uniscono nell'impresa. Scalfari è uomo che non crede in Dio, ma non si picca, non si esagita a dimostrarne l'inesistenza, egli ha un atteggiamento invece piuttosto accentuato e incline in questo libro all'agnosticismo che pone Dio in un posto dove Lui anche se ci fosse sarebbe di tale natura spirituale da non interagire nel destino personale e nel mondo ed interpreta nello scorrere della cultura di questi ultimi quattro secoli una nascente e progressiva rivincita dell'intelligenza umana che non può - e poichè la struttura del pensiero cresce, è robusta e sussiste in se stessa - e non deve essere illuminata dalla Rivelazione, e l'intelligenza, lo spirito dell'uomo moderno trova lì il suo conforto, le sue estasi poetiche, la sua scanzonata disillusione su un destino che non ha un senso escatologico, ma solo quello del momento vissuto e la coscienza di dover lasciare agli altri un futuro migliore. Scalfari vede in questo movimento intellettuale della modernità una razionale e quanto mai serena dimostrazione che l'uomo può niccianamente coesistere con un pensiero autonomo e forte, diventando egli stesso misura delle cose, poichè come diceva Eraclito, tutto scorre e nessuna cosa è uguale sempre a se stessa, e come insegnava Montaigne, ogni pensiero affermato può essere smontato, rimontato e dimostrato nel suo contrario...e questo accadeva ancor prima che nella dialettica hegeliana. Nietzsche chiude la modernità nel novecento e prosegue ancor ora efficacemente a dispensare con le sue opere la rappresentazione e l'interpretazione di un mondo dove l'uomo è solo, e non a caso viene narrato da Scalfari come il pensatore che aveva sempre accanto a se il suo libro fondamentale, gli Essais di Montaigne, del pensatore così caro anche a Pascal. Troviamo in "Per l'alto mare aperto" anche dei passaggi su Dostowjesky e su Pascal, ma evidentemente questi personaggi pur essendo grandi autori del pensiero e della letteratura, verso i quali c'è per Scafari la dovuta reverenza, non risultano per lui così interessanti da rispecchiarvi la sua medesima distensione sul relativismo dove il grande giornalista ed intellettuale si ristora senza alcun timore. Il mio giudizio sul libro, dalla mia posizione di credente, è molto favorevole perchè induce, obbliga a immedesimare il lettore, pena l'incomprensione totale, sulla trama logica delle sequenze e dei legami storicistici e letterali tra i pensatori e con andirivieni molto interessanti. Ogni alterità da noi stessi che viene spesso rintracciata nello scorrimento del libro ci aiuta a vedere chi realmente siamo, misura la nostra capacità di comprensione d'essere e d'esistere in questo mondo. Noi tutti potremmo contrastare questi pensieri con un'altro nostro, di pari o superiore efficacia, se ne fossimo capaci, o magari facendocelo imprestare da altri pensatori che stanno nella parte avversa a Nietzsche. Ma per i credenti resta un fatto, che il mondo occidentale ed occidentalizzato sta rovesciando a rotta di collo su questo versante e l'argine auspicabile al nichilismo non è la condanna esecrabile e la proclamazione dei valori eterni, ma la testimonianza dei valori, e nelle situazioni più difficili, con le persone più ostili che hanno più bisogno di toccare con mano che il mondo davvero non finisce qui. Questo è il punto critico per coloro che si professano credenti. Questo sarebbe il preciso dovere della testimonianza per coloro che professano di credere in Dio.


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paolo migliaro Opinione inserita da paolo migliaro    19 Agosto, 2013
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Il viaggio interiore del lupo

Il romanzo coincide con la crisi del cinquantenne Hesse, quando nel 1927, a cavallo tra le due guerre, già si presentiva nella società dell'epoca che il mondo si sarebbe avvilluppato in un'altra assurda carneficina che poi non tardò molto ad arrivare. Sono nel sottofondo de 'Il lupo nella steppa' i due sistemi prevalenti e contrastanti che si combattevano tra loro, l'americanismo e il bolscevismo, la pervasiva e allignante morale ipocrita che ritroviamo finemente descritta anche nel romanzo di Tolstoj, 'La morte di Ivan Ilic' , e la fede nelle facoltà intellettuali. Ne ho avvertito una sorprendente modernità. Se allora entrambe le ideologie riducevano l'esistenza a qualcosa di stupido, trascurando sia l'una che l'altra negli aspetti più essenziali, oggi l'instupidimento è addirittura multinazionalizzato. Siamo in pieno conformismo; ogni gruppo umano, piccolo o grande che sia, ha in esso una forma quasi religiosa di consenso e di anestetizzazione e consegna totale della coscienza. Ne segue l'incapacità e l'impossibilità di andare al fondo delle questioni e di essere con coraggio, e con un sincero amore verso l'altro, per davvero se stessi. Anche ora si crede e si tende ad ascoltare ritenendo autorevole chiunque abbia titolo, pure se sproloquia. Harry, il protagonista, è uomo di scienza, è lo stesso Hesse, poeta, romanziere, giornalista, esperto di musica e di arte, che sa perfettamente quanto sia importante la conoscenza. Ma scopre che questa deve essere messa in relazione alla ricerca della semplicità e ai tanti personaggi che abitano la nostra singola anima umana. Solo sperimentando noi stessi nell'incontro con il diverso e con le tante parti diverse e inesplorate che ci abitano inconsapevolmente, solo con l'esperienza riusciamo a conoscere in profondità cosa sia l'altro, il mondo e il sè. Non c'è dunque opposizione tra intelligenza e cuore, tra scienza e amore; solo se sono insieme producono reale sapienza e potenza vitale. La condizione dell'uomo che cresce umanamente, alla quale Harry aspira, non può essere quella del conformista, ma di chi si lascia interrogare, di chi si avventura. Di chi capisce che ha bisogno della sofferenza, non come un cilicio, ma come condizione consapevole, necessaria, indispensabile. E l'esistenza stessa se meditata, se messa in relazione al dolore del mondo, se sentita nelle nostre colpe, contraddizioni e miserie, non può che renderci sensibili ad essa. San Francesco come Mozart sono rappresentati da Hesse come le facce della stessa medaglia. Il romanzo già a suo tempo suscitò polemiche e interpretazioni distorte. C'è dunque il solito problema della corretta lettura per chi conosce poco e male la scienza e la funzione psicanalitica, ma anche da parte di chi avesse una forma mentis bigotta che si scandalizza guardando al dito della trasgressione anzicchè alla luna di un percorso molto umano che affronta la natura in un processo di liberazione. Chiudo qui con una citazione augurandovi di prendere in mano questo libro non semplice: " Se è vero, come afferma Renan, che al mondo di infinito non c'è che la stupidità umana, quale sentimento può invadere l'animo mio se non la tristezza? A Paolo VI, si narra, qualcuno osò chiedere perchè non ridesse mai. Egli rispose semplicemente: e di che cosa? (Benvenuto Goria)"

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