Opinione scritta da Todaoda

110 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2 3
 
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    24 Settembre, 2022
Top 100 Opinionisti  -  

Pensatori ossessivi

Quattro personaggi “ipercaratterizzati”, due diverse generazioni, quattro storie che si intrecciano in un contesto che, almeno per una volta, sia ringraziato il cielo, non è quello famigliare, tanto caro a Franzen, bensì quello lavorativo. Pip, la ragazza, la figura centrale è la giovane – non giovanissima alle prime – non primissime esperienze che si porta dietro un bagaglio di dubbi, paure, frustrazione, rancore e speranze da far rabbrividire un’intera generazione di suoi coetanei; poi abbiamo l’enigmatico Andreas Wolf, l'irraggiungibile (e forse è un bene) “sciupafemmine” con un passato da Cortina di Ferro che sarebbe meglio non conoscere; e gli altri due: i redattori/giornalisti per cui lavora la ragazza, classica coppia più scoppiata che scoppiettante che rimane unita grazie allo spago dell’abitudine, della mutua necessità e di una passione ormai freddata dal preponderante individualismo a cui ti costringe la società moderna, specie se vivi e lavori in un certo tipo d’ambiente. Pip entra nelle loro vite, gli altri entrano nella vita di Pip e il gioco è fatto. Il romanzo è servito.
Ora se questa può apparire una banalizzazione di una trama sui generis ascrivibile ad una gran quantità di romanzi, be… il problema è che è proprio così. Non si fraintenda, non è che in Purity manchino spunti interessanti o prospettive (storiche e non) affascinanti, si veda per esempio tutta la parte dedicata allo sciupafemmine della Berlino est il cui lirismo caratteriale a tratti ha dei romantici rimandi a Charles Manson, ma il resto, ahimè, ahinoi, tutto già visto, già letto, già sentito: la vicenda del singolo che si fa archetipo dell’immagine di una società corrotta e corruttrice, il problema individuale che diventa universale ecc. ecc. Si ok ambienti nuovi, personaggi nuovi, problemi nuovi, purtroppo però, caro Franzen, variando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.
Il “Nostro”, checché Lui detesti questo cliché, è un “character writer”, uno scrittore di personaggi, parte da loro per creare la storia, se però lui stesso, mal ispirato, non crede troppo nei suoi personaggi, la storia diventa scialba, le sue considerazioni sulla vita ecc. ridondanti, e così via.
È evidente insomma come in Purity l’autore si senta quasi in obbligo di dover dire, e dare, qualcosa, creare quel senso di trascendentale e universale dal quotidiano vivere che ci si aspetta leggendo questo genere di narrativa realista, ma senza la “giusta causa”, senza quella sentita spinta morale che obbliga lo scrittore a scrivere, soffrire e lamentarsi, ciò che si crea viene pervaso da un che di artificioso e distaccato, sopportabile grazie soltanto a qualche interessante prospettiva storica e svolazzo letterario.
Il “GRANDE ROMANZO AMERICANO”, visto che di Franzen si dice sia sempre in procinto di scriverlo, potrebbe esser definito SOPPORTABILE?
No.
Ahinoi qui sembra si faccia addirittura un passo indietro rispetto ad altre sue opere, lontani infatti sono i tempi de Le Correzioni, in cui si percepiva l’autenticità della rabbia, del disgusto e della disillusione covata a quei tempi dall’autore per vicende personali e non, allora l’unica cosa che si poteva rimproverargli era l’eccessivo autocompiacimento circa il suo intellettualismo. Quest’ultimo neppure in Purity manca, per carità, non sia mai, anzi ormai viene il sospetto sia un tratto distintivo della sua scrittura e del suo carattere, ma tanta è ancora la strada che il Nostro Autore deve fare per render credibili delle cause di cui, Lui stesso a tratti, dall’alto della sua prosopopea, sembra disinteressarsi.
Dov’è l’autenticità narrativa, l’onestà osservativa, in tutto questo caotico cerebralismo macchinoso? Sì c’è, forse a ben guardare da qualche parte la si trova ma che fatica! E il plot, la trama, che sgrossata e ben levigata sarebbe anche interessante, per carità regge, ma più che leggerla la si affronta armati di virtuosa pazienza fin troppo consapevoli che si tratta sempre di un pretesto per raccontarci la mente dei suoi personaggi, per parlarci in fin dei conti di sé. E dunque, di nuovo, che fatica!
Forse prima di imbarcarsi in avventure che non sente sue Franzen dovrebbe andarsi a leggere qualcuna delle opere minori del suo tanto odiato Philip Roth, poiché vero che anche il compianto autore in suddette opere non sempre brillava per autenticità, non sempre faceva sue le cause di cui raccontava, ma la qualità della prosa, la forza espressiva e il ritmo narrativo sopperivano abbondantemente alle inevitabili lacune.
E’ bene ripeterlo comunque, Purity non è un libro da gettare via, al contrario va letto con ardimento e coraggio, poiché se non ci si fa sconfiggere dalle parole, i pensieri e l’ossessivo ragionare si colgono quelle che sono le priorità della vita dei protagonisti e di riflesso si riflette sulle proprie, quindi a suo modo anche questo, come ogni buon romanzo è catartico, ma per l’ultima volta… che fatica!
Franzen è un autore brillante e una persona estremamente colta, raffinata e intelligente, ma se da libero sfogo a queste sue qualità rischia di perdersi in se stesso creando un immagine complessiva della sua opera sterile, difficile da cogliere nella sua totalità e addirittura controproducente; è significativo come uno dei personaggi degli ultimi capitoli (il padre str… della compagna str… di uno dei protagonisti) che nell’ “ottica Franzeniana” dovrebbe risultare il più odioso di tutti, poiché intriso di quei dogmi sistemici contro cui Lui e tutti i suoi “attori” combattono, a livello di pancia al lettore risulti invece il più simpatico, genuino e, Dio sia lodato, semplice.
Johnathan, sei bravo, sei intelligente e scrivi bene, ma davvero (davvero!), non impegnarti troppo. Tra un paragrafo e l’altro, ogni tanto, spegni quel meraviglioso cervello che hai e ridi, piangi, arrabbiati, innamorati, lamentati, fatti schifo e sentiti felice, scrivi di pancia, scrivi coi piedi, scrivi a naso, insomma sii spontaneo.

Un’ ultima parentesi, che non vuole essere l’ennesima critica nei confronti di un autore (che in realtà stimo al pari di quanto odio) di alcune (altre) grandi opere, bensì una curiosa osservazione:

è, per mancanza di un termine migliore, addirittura POETICO, ma solo come può esserlo la giustizia o il contrappasso dantesco, il modo in cui un autore dal fine intelletto, la sagacia e l’intima iperconsapevolezza per le relazioni umane, ignori totalmente che il 90% della popolazione non condivida la sua passione per il birdwatching e continui dunque ad affliggere i lettori dei resoconti dei suoi mirabolanti avvistamenti di variopinti volatili. E’ assolutamente poetico come abbia l’acutezza di analizzare cosa pensa una ragazza trentenne, neurone per neurone, ogni istante di una lite d’amor non corrisposto, e poi non si renda conto che, chiunque non provi diletto naturalistico ad osservare pennuti e piumati di varia foggia e fattura, leggerne la descrizione, ancor più che rimanere per ore ad attenderne la comparsa, sia quanto mai esasperante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    08 Dicembre, 2021
Top 100 Opinionisti  -  

Genuinità ad ogni costo

Il libro ideale da leggere nel momento del bisogno. Poi sta ad ognuno capire quale sia quel momento e quale quel bisogno. E anche se forse scade un po' nella seconda parte, quando (diciamo) quel bell'ometto dell'autore incomincia a fare i suoi primi milioncini (e il suo raccontare si fa via via più "self-centered" e banale), la filosofia e l'approccio nei confronti della vita che si leggono in questa autobiografia fuori dalle righe sono a dir poco rinfrescanti.
È un messaggio quello di McConaughey di individualismo puro: non conta se fai del bene o del male, ma che tu sia onesto con te stesso, che ti senta in pace col tuo io; se t’accordi con quel che sei il bene sorgerà (ed emanerà) da solo.
Un messaggio coraggioso e forse addirittura originale considerato il pietismo e l’altruismo tanto social quanto ipocrita di oggigiorno, e poco conta che questo coraggio si fondi in realtà su un idealismo vagamente ingenuo (quando McConaughey racconta che sente il bisogno di andare a nuotare nudo nel Rio delle Amazzoni il paragone con “l’Alex Super Tramp” di Into the Wild sorge spontaneo) poiché l’uomo, l'attore, il sex-symbol, ha un carisma prepotente e la sua storia, con onestà ed insperata agilità, scivola inframezzata di riflessioni, appunti, disegnini e originali scarabocchi, che rendono il tutto estremamente accattivante.
Leggi ma non leggi insomma: è Lui che ti parla direttamente, senti la sua voce, il suo accento strascicato da Long Horn, e ti dice le cose senza peli sulla lingua. Esatto è come se Lui fosse li davanti a te, un amico di lunga data che ti conosce bene, ma non uno di quegli amici che son sempre pronti a consolarti, piuttosto uno di quelli che per il tuo bene ti sbatte in faccia la realtà delle cose che non vuoi vedere e ti mostra le opzioni a tua disposizione con limpida lucidità. "We all step in shit from time to time (...) is inevitable, so let’s either see it as good luck, or figure out how to do it less often." (.cit)
Tutti noi pestiamo una merda di tanto in tanto, è inevitabile, quindi o lo vediamo come un segno di buona fortuna oppure troviamo un modo perché ci accada meno spesso... più chiaro di così.
Credo che questa sia la perfetta sintesi del McConaughey pensiero, la silver lining di Greenlights e in buona sostanza della nostra vita.
Un' autobiografia che trova un significato e un risvolto positivo non solo alla vita del soggetto narrante/narrato ma anche a quella del lettore non può che essere un' opera di trascendentale importanza. Certo magari agli intellettualoidi più puntigliosi non si rivelerà particolarmente profonda, magari neppure particolarmente acuta, (alla Sua filosofia perennemente scissa tra green light e red light, ovvero bene e male, verrebbe da anteporgli la celebre frase di un altro saggio da grande schermo quale Obi Wan Kenobi “solo un sith vive di assoluti, Anak….” Ehm scusate McConaughey) ma poco conta quanto dicano quegli arcigni permalosoni invidiosi, qui siamo al cospetto di un’ opera dall’anima semplice e genuina, tanto quanto sembra essere quella dell’autore stesso.
Leggi ma non leggi: in realtà quello che fai è assimilare buon umore.
Ad essere sinceri non mi aveva mai fatto impazzire il lavoro di Matt, specie le stereotipate interpretazioni giovanili; dopo aver conosciuto attraverso il testo il suo Essere e il Suo stile comprendo in ultimo perché abbia tutto questo seguito.
Un ottimo libro, in sostanza, come è difficile trovarne sugli scaffali di un supermercato, un libro da rileggere di tanto in tanto, più volte nel corso della vita, magari quando sempre di tanto in tanto si pestano quelle inevitabili m....

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
….qualunque altra cosa, ma non troppo.
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    08 Settembre, 2021
Top 100 Opinionisti  -  

Old style comics

Avete mai letto i fumetti? I noir o quelli di una volta disegnati a china, in bianco e nero. Quelli dove capivi che era notte perché i due protagonisti, con i loro marcati contorni, erano circondati dal buio, da pennellate scure vagamente tratteggiate? Vi ricordate la sensazione che vi dava osservare quelle vignette? Leggere quei dialoghi iper contrastati nel bianco, come sotto il riflettore di un palco? Era una bella sensazione, intimità ed estraneità: solo loro due, solo noi due, e a proteggerli/ci la luce e il buio. Solo noi due e oltre quella cortina nera chissà… Il mondo fuori, l’esterno. Tutto poteva esserci nell’ “Oltre”, gioia ma più spesso dolore, bene ma più spesso male… Eppure non importava perché noi eravamo racchiusi in quell’involucro con loro.
Ecco, questa è la stessa sensazione che si prova a leggere After Dark, un romanzo dove le interazioni avvengono sempre a due voci, i daloghi sono padroni della scena e tutto ciò che vi è oltre la luce del riflettore è un mondo oscuro, notturno, spesso violento, talvolta onirico. E noi, protagonisti con i personaggi, ci affacciamo a quel mondo, spettatori/avventori di tavole calde 24/7 ben illuminate che osservano dall’interno la notte, separati dal vetro. Intimità ed estraneità prima dell’ avvento del giorno, l’after dark, prima che le luci la fuori si accendano, le luci qua dentro si spengano e la magia svanisca. Quella sensazione sottile, fredda e calda, all’ alba si dissolve; sotto il sole al massimo possono le ombre, di notte noi siamo quelle ombre.
Questa è l’atmosfera che riesce a creare magnificamente Murakami in poche decine di pagine. Queste le emozioni che ci trasmette. Emozioni che, senza paura di peccare di eccesiva nostalgicità (ehm… licenza poetica?) o qualunquismo naive, si può affermare che porteremo con noi per sempre. Sì perché è difficile trovare una scrittura più efficace, una narrazione più significativa. After Dark è quel libro. Ricordi? È il libro della notte, il libro dove ti sei sentito accolto da un amico e con lui hai osservato l’abisso.
Questo e basta.
Per il resto infatti ahinoi non c’è molto altro da dire. Contenutisticamente è il solito Murakami: qualche fatto surrale, qualche personaggio originale, qualche stramba incomprensione, sogno e veglia che si intersecano e compenetrano creando una terza realtà dove tutto diventa soggettivo ed infine gli eroi- antieroi, la Sua gente qualunque con un pizzico di follia che si trova suo malgrado invischiata in avventure che, al pari della loro follia, hanno solo un pizzico di genio in più rispetto alla quotidianità.
Un buon racconto, personaggi ben caratterizzati e un atmosfera che rimanda ai sogni adolescenziali, quando la notte e il suo mondo erano per noi ancora un mistero.
Poi arriva l’età adulta e si scopre che non cambia nulla, poi arriva il giorno e il romanzo finisce. Forse, sembra dirci Murakami, per vivere felici non occorre conoscere proprio tutto, non occorre capire, vedere ogni cosa. Forse basterebbe concederci qualche incertezza, un sottile mistero, un attimo di oscurità prima dell’alba.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Agli amanti dei fumetti vecchio stile, noir e letteratura giapponese in genere (non credo manga però)
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    30 Gennaio, 2021
Top 100 Opinionisti  -  

Benvenuti nel nuovo mondo

Due coppie, due uomini due donne, e un terzo. Cinque persone, dieci occhi all’alba di un evento e al tramonto della civiltà per come noi la conosciamo. La tecnologia fallisce un’ ultima volta. Che ne sarà di noi? Cosa ne rimarrà nei vastissimi spazi che lo squillare di un telefono o la parlantina di un telecronista sportivo non possono più colmare? Vuoto e silenzio, cinque persone sole con loro stesse, dieci occhi che finalmente si guardano e... non capiscono.
The Silence di Delillo è un capolavoro della non scrittura, delle pause tra le parole, il subconscio implicito che, allorchè venga a mancare la base, il territorio comune che ci rende animali sociali (sia esso un evento sportivo, una birra, un’informazione ormai irreperibile), stenta ad ergersi coscienza di massa, ormai inadatto e superato a tessere le maglie di un vivere comune.
Potere e pericolo della modernità: senza qualcosa da guardare, senza qualcosa da ascoltare noi non siamo più niente. Parole nel vuoto, pensieri erratici, gesti casuali. Silenzio.
The Silence corroborato da una scrittura mericolosamente scarna è la perfetta sintesi della nostra essenza. L’opera minimale non più solo ormai di un grande scrittore, ma di un grande poeta.
Molti hanno criticato il DeLillo maturo (il post Underworld) come qualcuno che si è snaturato, che non racconta più storie e punta tutto sullo stile. Non è vero, non si è snaturato è trasceso, la sua scrittura è diventata altro: non occorrono più paragrafi, frasi elaborate. Solo delle parole, leggere imbeccatte che ci indicano il cammino e noi raccontiamo a noi stessi la loro storia, che in fin dei conti è la nostra.
Il DeLillo maturo ha inventato un nuovo scrivere, trascendetale e olografico, voxel ad altissima definizone, collocati con perizia negli angoli più oscuri della nostra coscienza per permetterci di scrivere il vissuto dei suoi personaggi e, scrivendone, viverlo.
Credo che ben pochi autori come il DeLillo di quest’ultima opera siano in grado di teletrasportare (sì, proprio teletrasportare) il lettore, non in un’altra vita, ma in un altro vivere. Questa con la sua intima e personale sensibilità è la nuova frontiera della narrativa. Una frontiera che creiamo noi lettori, tra gli ampi spazi di un mondo disadorno. Il pianeta DeLillo.
Eccezionale, trasfigurante, mistico.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
....qualunque altra cosa e voglia sperimentare la novità. E consigliato a chiunque abbia letto decine di libri di psicologia e crescita personale e sia ormai convinto che trovarsi a tu per tu con se stessi non sia spaventoso
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
3.6
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
3.0
Approfondimento 
 
1.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    05 Ottobre, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Ribellione

Keith Richards, Keef, il mito anticonformista, l’icona ribelle, l’archetipo del rocker contro corrente. Tutti, anche se non sono dei fan degli Stones, almeno una volta han sentito parlare delle gesta del ragazzaccio, dei suoi “casini”, del suo vivere sregolato, accanito nemico dell’ordine sociale, dell’autorità, ecc. ma se così non fosse? Se lui non fosse veramente così?
Life è la sua autobiografia, la storia, interessantissima e sorprendentemente ben scritta (complimenti al ghost writer) delle sue bravate, ma ancor più un viaggio nella sua testa, guidati da un pensiero che quantomeno si potrebbe definire trasgressivo ma, di nuovo, e se in realtà non fosse così trasgressivo?
Intendiamoci il buon Keith, fa di tutto, raccondandoci la sua storia, per farci capire quanto fosse, e sia, avverso allo status quo specie quello dettato dalla civiltà moderna e, se stai al gioco, se segui e credi alle sue regole, senza dubbio Lui ne viene fuori come la bandiera della ribellione. Se stai al gioco...
Ribellarsi però non è forse andare contro le regole? Spezzare le catene della società?
Quindi proviamo a ribelliarci anche noi alle “regole di Keith” e proviamo a ragionare: qual’è uno degli effetti collaterali, uno dei mali, di questa moderna oppressiva società occidentale/capitalista nella quale noi viviamo e verso la quale Lui si mostra così avverso? Be uno di questi, uno dei suoi problemi più infidi, poiché difficili da riconoscere è “il principio del diritto”: i membri della nostra società, se attivi lavoratori, benestanti, paganti, proprio poichè lavorano, guadagnano e pagano si credono in diritto di avere e possedere ogni cosa, tra tutte la libertà di opinione. E per carità ce l’hanno sì questo diritto, ci mancherebbe!, peccato però che poi in virtù proprio di quanto si sentano “valorosi”, di quanto guadagnino e del potere che acquisiscano, la loro/nostra opinione tenda a trasformarsi in assoluto: se io la penso così è perché questa è la verità. E se io ho una posizione sociale migliore della tua, la mia verità è più vera della tua. David Foster Wallace certamente lo spiegava meglio di me, ma il meccanismo fa pressapoco così: io lavoro - io fatico - io guadagno - io valgo - io ho dirittto di esprimere una mia opinione e più fatico, più guadagno, più valgo, più ho diritto e più la mia opinione conta. (Per gli interessati sto parafrasando “Questa è l’acqua” di DFW e diverse sue illuminanti interviste).
Ok, vero probabilmente, ma non è per nulla detto che se una persona agli occhi delle masse conta più di un’altra, anche la sua opinione conti più, ed è ancor meno probabile che questa opinione sia sempre e per forza più autentica, vera o anche solo onesta rispetto a quella di un cosiddetto “signor nessuno”. Soprattuto in materia di cose che non la riguardo direttamente o, per meglio dire, di cui non ci capisce un beneamato nulla!
Ebbene sì, questo del “diritto acquisito con il potere” è, ed è sempre stato, uno dei peggiori difetti del pensiero occidentale. E anche il buon Keef, per quanto faccia di tutto per mostrarci quanto sia un “dannato che gioca secondo le sue regole”, in realtà proprio non ce la fa, non riesce uscire da quest’ottica conformista/occidentale e in fin dei conti egocentrica così da Lui odiata.
Anzi a ben vedere Life di K.R. per certi aspetti è l’emblema del pensiero conformista. È figlio della nostra società. Fin dalle prime pagine infatti K.R. raccontandoci la sua vita ci illustra il suo atteggiamento verso il mondo, la sua filosofia (il che per carità considerate certe autobiografie, di attorucoli, pop star e sportivi 23 enni è encomiabile) ma il problema è che ce le racconta da dentro il suo personaggio, con gli occhi della star,, e dunque proprio per quel meccanismo che vorrebbe sconfiggere, poiché lui vale, lui è un icona, il suo pensiero automaticamente si eleva a verità assoluta e, senza mai mettersi in discussione, di fatto involontariamente ce lo impone.
“I poliziotti sono tutti str...., la droga se pura, se presa con parsimonia (boh!) alle volte ti aiuta, la legge è stupida ecc.” che anticonformista, che ribelle!
Si ok, forse hai ragione Keith, forse posso capire il tuo punto di vista, ma il vero problema è che tu stesso non riconosci che si tratta solo di un altro punto di vista, che non metti mai in dubbio il tuo modo di ragionare. E certo, del resto che bisogno ne hai? Sei un mito, una star, hai diritto di ribellarti, di criticare lo status quo, perché quello che dici è senz’altro vero. È assolutamente così...
E il lettore ci crede, sta al suo gioco, specie se è un fan, del resto che problema c’è? Tu sei libero e Lui, il simbolo, lo è ancora piú di te, lui non ha problemi a giocare e se ne frega se tirando troppo la corda questa si spezza.... ma un’altra verità di questa società marcia e prevaricante è che “nell’oceano ci sarà sempre un pesce più grosso con cui dovrai fare i conti” e quando a un certo punto Keef si sente in dovere di confermare (e dar manforte) alla teoria della relatività di Einstein poichè da strafatto di eroina gli sembrava che il tempo scorresse più lentamente... be, ragazzi miei, be... è lo squalo che si scontra contro l’orca assassina (o la balena o insomma qualche altro bel pesciolone ancora più grosso, fate voi) e d’improvviso vi rendete conto che l’impalcatura della sua immagine crolla. L’uomo nell’alto castello si svela per quel che realmente è: un’ icona, un mito, un meraviglioso chitarrista, ma pur sempre uno dei tanti membri di questa società. Un individuo che per quanto possa essere rivoluzionario e abilissimo in quel che fa non è detto che possegga le chiavi della verità.
Più si tenta di sfuggire all’ordine costituito più probabilmente vi si rimane invischiati e leggere certe cose, quando il castello di carte crolla, ci fa capire, quanto certe immagini siano frutto di illusioni, quanto probabilmente davvero ogni cosa sia relativa. E attenzione, il succo del discorso non è l’essenza relativa di ogni cosa, alrimenti anche quella del sottoscritto sarebbe un’ imposizione, ma il “probabilmente”: la mancaza di certezza, la presuntamente onesta negazione di assoluti.
Keith però no, Keith dicevamo è il ribelle... e certo lui sarebbe il primo a dire qualcosa tipo “rilassati amico, quella della relatività è una battuta.” Sì, vero, ovvio, ma come lui anche quesra a suo modo archetipica di una mentalità, e la cosa assurda che è la mentalità stessa contro cui Lui stesso combatte in tutto il libro: perché, davvero perchè caro K. ti senti in dovere di suggellare col tuo benestare e dunque in qualche modo avvalorare una delle teorie più famose e importanti del novecento? Come se Einstein ne avesse avuto bisogno...
E visto che siamo in tema di relatività concedetemi di fare un’ultima retorica riflessione: chi è veramente più ribelle? Una rockstar famosa e idolatrata in tutto il mondo a cui basta dire una cosa che questa diventi subito autentica e ideale o un “professorino” tedesco che ha dovuto lottare 40 anni per far capire che i concetti di spazio e tempo (guarda caso prima di allora considerati assoluti...) in voga all’epoca probabilmente non erano corretti? Che il suo pensiero era quello giusto. Quel professorino ha dovuto lottare persino con se stesso per convincersi della veridicità di quanto affermava. Forse dunque la vera ribellione nasce non tanto da dentro la società ma in primis da dentro noi stessi; mettiamo in discussione quello in cui noi crediamo e poi potremo discutere quello in cui credono le altre persone. E, intendiamoci, non è certo una cosa semplice ribellarsi a se stessi, contro i propri istinti, i propri umanissimi desideri, certe volte questo percorso non ha termine, oppure è un problema cosi complesso e insolubile che crea un tale disagio da portare una delle menti più fini nonchè uno degli autori più dotati della nostra generazione al suicidio (sto parlando di nuovo di D.F.W).... ma almeno è una cosa autentica, è un percorso sincero, è una presa di posizione relativa però onesta.
Ma Lui no, la rockstar che gioca secondo le sue regole no, lui si faceva, il tempo scorreva più lento e dunque Einstein aveva ragione. Keith Richard l’ha confermato!
C’è sempe il pesce più grosso.
Ma non condanniamo completamente un buon libro solo per una frase (anche se emblematica di un pensiero tanto miope quanto endemico), altrimenti peccheremmo anche noi di miope assolutismo (avete notato come sono passato al plurale maiestatis nella speranza di ottenere la vostra approvazione e rendere in qualche modo comune/assoluta un’opinione personale? Credetemi è sempre la stessa sindrome!) In buona sostanza, Life è un ottimo testo, probabilmente la migliore autobiografia degli ultimi trent’anni, è divertente, scorrevole, entusiasmante, per certi aspetti profonda e senza dubbio sorprendente, ma... ma... finché stai al gioco. Finché giochi secondo le regole di Keith e della società, poiché non appena comprendi che, proprio per quanto l’autore affermi nella narrazione non dovrebbero esserci regole, allora ti accorgi che il tempo scorre sì più lentamente, che lo spazio si dilata sì in rapporto alla densità di massa del corpo esaminato e che le immagini così come ci pervengono di icone, rockstar, miti e leggende del nostro tempo, sono ahinoi irrimediabilmente distorte e in fin dei conti... relative.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altre biografie recenti e pensa di non poterne più di popstar ventitreenni che ci insegnano come vivere. O altri libri del periodo Londra anni 50/60/70/80/90/00 ecc. Oh insomma chi sa leggere.
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    02 Dicembre, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Who wants to live foreveeeer?!

Un uomo comune con un lavoro e una vita sociale/sentimentale costellata di piccole soddisfazioni, frustrazioni, smarrimenti viene convocato dal padre, eclettico e visionario supermiliardario, in una località sperduta per assisterlo durante il difficoltoso processo di "ibernazione terapeutica" al quale ha deciso di sottoporsi la sua ultima moglie/compagna a seguito di una malattia incurabile, nella speranza che in futuro, siano dieci, cento, forse addirittura mille anni, la scienza medica si sia talmente evoluta da trovare un rimedio alla penosa condizione in cui versa la sfortunata e, in primis, un metodo sicuro per riportare in vita (si potrebbe dire "scongelare" se non rimandasse un po' troppo ai filetti di merluzzo) il corpo di lei. La vita del "nostro" uomo comune (d’ora in avanti U.C.) da allora cambierà... o forse no, o meglio sì ma soprattutto nel modo che avrà lui di affrontarla, vederla, esaminarla e appunto, viverla.
DeLillo con quello che alcuni hanno definito il suo più bel romanzo dai tempi di Underworld (e altri, sbagliando grossolanamente, il ritardato debutto del gran maestro del post modernismo nella fantascienza. Questa non è un’opera di fantascienza), ci regala un testo introspettivo ed intimo le cui atmosfere crepuscolari e lo stridente contrasto tra il rutilante guazzabuglio di suoni e colori della quotidianità con i lunghi silenzi dell'asettica e ipertecnologica struttura ove avviene il processo di ibernazione, delineano una vicenda il cui surreale, eppur piacevole, incedere strizza l'occhio all' affettata vaghezza del primo Murakami. Ma se nel giapponese il manierismo delle sue opere giovanili è fin troppo evidente, in DeLillo, autore maturo con una precisa conoscenza del proprio mezzo, si perde sfumato nel respiro universale che con maestria conferisce al narrato.
A ben vedere comunque anche un'altra, persino più importante, differenza separa i due autori: se Murakami potrebbe essere definito un “triste ottimista” tale definizione non sarebbe per nulla applicabile per DeLillo, nell' italo-americano infatti è totalmente assente quella pacifica, passiva, volendo ingenua e talvolta irritante, accettazione tipicamente orientale di quel che accade, al contrario qui il suo U.C., superato lo straniamento iniziale di trovarsi coinvolto in una situazione a dir poco assurda, avverte profonda la rabbia e la repulsione nei confronti di quanto è costretto osservare, di quanto suo malgrado è costretto a considerare... e sono una rabbia e una repulsione le sue tipicamente occidentali: sono stoiche, quasi eroiche, sono la r. & r. di chi è fermamente convinto d'essere nel giusto e solo, unico sulla faccia della Terra, lo capisce; sono la r. & r. di chi è costretto a subire cose più grandi di lui, più grandi di chiunque, eppure facendosi forza dei suoi principi individualistici non s'arrende, e combatte, e lotta.
D'accordo, pare dirci l' U.C. di DeLillo, il presente, il mio presente, quello al di fuori di questa silenziosa fredda vasta e desolante struttura ibernante, è un'accozaglia di azioni casuali compiute e subite, talvolta solo osservate, senza un preciso ordine o ragione e questo rendono il vivere incerto, caotico, per certi aspetti spaventoso, mentre qui invece pare tutto cosí ordinato ed organizzato, tutto cosí privo di imperfezioni, al punto che persino quella che è la paura ultima di ogni essere vivente, ovvero la morte, viene, se non sconfitta, diciamo, almeno rimandata a tempi migliori. D’accordo ma.. Ma come diavolo si fa ad affidarsi ad un sistema di valori cosí alternativo, così rivoluzionario da non concepire neppure la morte? Come si fa affidarsi a degli individui, certo, geni visionari, che sono arrivati ad una tale negazione di uno dei principi stessi dell'esistenza da non contemplarla neppure e facendo così indurre decine, centinaia di persone a rifuggire la loro stessa vita preferendo una sorte di lungo sonno, un letargico bozzolo in cui racchiudersi volontariamente per decine d'anni sperando che al loro risveglio saranno, o forse saremo…, tutte belle, delicate innocue ed inermi farfalle? Sarà forse anche vero e scientificamente prodigioso tutto questo ma non sottende in realtà quell'istintivo e supremo rifiuto infantile del bambino che allorché gli accade qualcosa di brutto, si chiude in se stesso serrando occhi ed orecchie? E io dovrei affidare le mie speranze, e non solo quelle per Diana: i miei cari!, a persone così? Io dovrei permettere a loro di insegnarmi, convincermi che questa è la vera vita, la vera soluzione?
No grazie, questi non sono geni visionari, sono furbissimi, intelligentissimi, codardi! No grazie, chi viene qui ha già smesso di combattere, si è già rifiutato di vivere, chi si fa congelare di fatto è già morto! Un codardo morto.
E sono osservazioni sensate (qui parafrasate) quelle del protagonista, giuste, lecite appunto, ma lo sono tanto quanto quelle del padre allorchè decide egli stesso di intraprendere quel cammino: vero, hai ragione, tutto logico, perfetto, ma con l'altra metà della nostra natura, quella che ci rende al pari della ragione esseri umani come la mettiamo? Come la mettiamo con il sentimento? Come la mettiamo con l'istinto? E il dolore e la paura. Come si può farsi forza quando stremati dal dolore sappiamo che l'indomani dovra sorgere ancora il sole? Come ci si può auspicare la presenza di un domani se non è altro che un lento, estenuante rimandare la fine? In fondo quello che facciamo noi qui, l'addormentarci in una tomba di ghiaccio, non è forse quello che fanno tutti gli uomini, con il loro, lento incedere verso la morte? Solo che qui è ancora più lento e forse proprio per questo ancora più coraggioso: la mente umana allorchè si troverà a temperature prossime allo zero assoluto (zero K) cesserà le sue funzioni o rimarrà vigile, attiva ed imprigionata? Ed il corpo avvertirà qualcosa? Avrò freddo vicino allo zero K? Avrò caldo? Domande stupide eppure indispensabili a chiunque stia per affrontare questo passaggio. E non dimentichiamo che anche la sola idea di affrontarlo questo benedetto e maledetto passaggio richiede un atto di fiducia, coraggio e disperazione fuori dal comune. Come puoi giudicare la disperazione d’altri? E la vita, le scelte, la morte… tu ti faresti ibernare, figliolo? E tu lettore?
E anche queste considerazioni (sempre parafrasate) sono quanto mai lecite. Poichè è senza dubbio vero che la morte in qualche modo definisce la vita delimitandola, le da significato spingendoci a lottare per rimandarne la dipartita il più possibile e al contempo sfruttare ogni momento concessoci per dar valore a ciò che siamo e per consentire a chi amiamo che a sua volta possa sfruttare al meglio la sua occasione su questa Terra, ma è altrettanto verò che il lungo sonno è un supremo atto di fede nella vita, nella sua capacità di evolversi e rigenerarsi, un atto di fede nel potere della mente. E se quest' atto di fede non solo è rivolto nei nostri confronti ma anche verso gli altri, se lottiamo allo sfinimento, sfiorando l'imprevedibile e l'irrealizzabile, solo per concedere un altra chance, sia un giorno, un'ora o un secondo in più, a chi amiamo, non è forse esso stesso un gesto coraggioso ed eroico? Loro saranno i precursori; gli ibernati di oggi saranno i primi risvegliati di domani, gli ambasciatori di un remoto passato e I testimoni di un'imprevedibile futuro, potete anche solo immaginarvi quali imprevisti, difficolta e pericoli andranno incontro? Ammesso poi che si risveglino! Non è forse questo coraggio?!
Forse, forse sí e forse no, difficile per noi dare una risposta unitaria a una domanda così profonda e personale, è difficile per noi così come è difficile per DeLillo, poichè tocca le corde più private di ogni essere umano,, tocca le proprie coscienze, il proprio senso morale. Certo è che, si evince alla fine di questo illuminante romanzo, se son fin troppo ovvi i facili giudizi, mai troppo semplice è rivelarne la fallacia. Interessante, per esempio, il punto (purtroppo nel testo appena accennato) della rinuncia alla vita come una sorta di rinuncia alla responsabilità nei confronti dei propri affetti e dei propri cari, come interessante è anche il breve excursus sull’ evoluzione psicologica di chi si trova nella situazione di avere qualcuno in quella fase intermedia tra vita e morte che è il congelamento: con la morte in qualche modo seppur doloroso, vi è l'abbandono e dunque l'accettazione, e il conseguente relief, il sollievo, ma con l'ibernazione? Allorchè sai che quella persona che conoscevi è praticamente morta, eppure non è morta, che in qualche modo c'è sempre eppure non è più lei e non le puoi più parlare o sentirla o toccarla, cosa accade a te? Probabilmente non riesci più abbandonarla, dunque non trovi mai sollievo ed anzi al contrario rischi di farti ossessionare. Ma ancora è così per tutti o solo per alcuni, e in che misura è lecito da parte degli altri giudicare e criticare?
Di nuovo difficile trovare una risposta adeguata che vada bene per chiunque e DeLillo, ben conoscendo gli insidiosi fondali della coscienza, si mantiene sul vago, e anzi ci ricorda che superato un certo limite, oltre un certo ingrandimento, un certo grado di osservazione ed analisi, come in tutte le cose, non si possono trovare risposte ma solo domande, domande che indicano il cammino verso altre domande, ed altre ancora, ed altre ancora...
In fondo è ben questo quel che noi siamo, chiosa lui: viandanti lungo un percorso costellato di domande e di possibili alternative, si tratta solo di scegliere quali porsi e quali no e, come sempre, in base alla propria esperienze e coscienze, qualcuno sceglierà una cosa e qualcun altro il suo opposto. E, figuratevi, ci sarà persino chi deciderà di non scegliere, chi si limiterà ad osservare, ci sarà persino chi invece di guardare direttamente un tramonto gli basterà osservare la reazione che suscita negli altri.
Ebbene sí, questo è l'ultimo romanzo di DeLillo, un DeLillo, nuovo, per certi aspetti più metafisico e relativista, eppure suadente ed affascinante come non mai. E poco conta che alcune (a dir la verità molte) delle tematiche sull'eternità e l'immortalità suoneranno come musica già ascoltata a chiunque abbia passato l'adolescenza a guardare prequel e sequel (non che la serie televisiva) di Highlander e che forse dal gran maestro del post modernismo, come fanno notare alcuni, sarebbe lecito aspettarsi una profondità superiore rispetto a quella palesata da un ideatore di dialoghi da telefilm anni ''90 (per altro gran bel telefilm); e poco conta che i più critici allorché avranno letto o sentito del paragone con Underworld, la sua passata opera di iperrealtà a 120 fotogrammi al secondo, trovandosi alle prese con queste tematiche intime, surreli e vagamente hippy, scuoteranno la tersta pensando a zero K come ad una sorta di prepensionamento di un autore ormai non più nella realtà fattuale del presente (a onor del vero anche il sottoscritto preferisce di gran lunga le opere più concrete del “Gran Maestro”). Questo è un DeLillo nuovo, forse diverso, forse più banale e commerciale, vero, ma anche più intimo, più vicino, più... “amico”; e malgrado i maligni arrivino a suggerire (e non senza fondamento, questo gli va riconosciuto) che ormai è talmente fuori dalla vita di tutti i giorni che ora riesce a scrivere solo di tematiche pseudometafisiche, è bene ricordare a chiunque che DeLillo resta comunque uno scrittore di elevatissimo livello, uno scrittore che anche se per contenuti non riesce piu a raggiungere le vette dei suoi passati capolavori compensa con il suo impareggiabile stile, creando un testo levigato a tal punto (e in zero K accade per davvero) da potersi permettere di gettare tra le pagine una parola qualunque e sapere perfettamente che quattro capitoli dopo il lettore se la ricorderà esattamente, proprio quella, dove è stata usata, perchè e quando. Un autore così sia che descriva un mondo sospeso in un istante per contemplare ogni sfaccettatura del presente, sia che racconti delle trascendentali ed intime sensazioni di un uomo che lambisce appena il reale, meriterà sempre di esser letto. E poco conta infine che zero K possa essere considerata un’opera minore, o per chi avesse creduto agli editori, una mezza delusione: tutte le lecite critiche che gli possano venir mosse e il senso costante di amaro che possa lasciare la lettura di un lavoro poco definito, sono solo deboli appigli per non ammettere che questa è l’ennesima prova di stile di un grande maestro della nerrativa contemporanea, che zero K è un romanzo che, lo si voglia o no, ci riappacifica con la letteratura, la letteratura buona, la letteratura di classe.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Murakami, ed altri potenziali surrealisti. Anche a chi compra prodotti Findus
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.2
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    22 Luglio, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Modernità

C’è qualcosa relativo alla divinità che spinge alcuni ad indagare costantemente nella sfera del mito e della leggenda. Qualcuno, i più religiosi, ritengono sia questa una “spinta dall’alto” una nostra pulsione, come una sorta di ispirazione a ricongiungerci alla matrice originale che ci ha creato; altri i più materialisti riconducono l’interesse che ancora oggi suscita l’argomento a un’ evoluzione dell’illusione infantile di onnipotenza: che bello se bastasse uno schiocco di dita per creare un cataclisma e spazzar via tutti i nostri problemi o una parola magica e sacra perché si avverassero i nostri desideri! Certo da esseri onnipotenti sarebbe lecito domandarsi se avremmo ancora desideri, ma non divaghiamo. Entrambe le teorie comunque per quanto valide (pur riconoscendone la loro indimostrabilità) non considerano però una terza possibilità, un’ opzione che, concentrandoci ora sul lavoro di De Crescenzo, risulta quanto mai portante ed evidente: l’umanità. La profonda, sacra eppur carnale umanità dell’elemento divino.
De Crescenzo tiene particolarmente a questo aspetto della mitologia e per ogni racconto, episodio, riflessione non manca mai di sottolinearlo. E a ben vedere è un punto particolarmente interessante del suo trattato-racconto: gli Dei, specialmente quelli del pantheon greco, provano come noi emozioni, ci dice l’autore, provano come noi sensazioni e sentimenti, ragionano come noi, perfino ridono come noi e spesso inoltre si concedono ai nostri stessi vizi. Insomma ci assomigliano in tutto e per tutto. Ed è proprio questa somiglianza che ci lega profondamente a loro e stimola la nostra curiosità. È bene considerare tra l’altro che oggi giorno questo legame è ancora più evidente al cospetto delle divinità antiche, poichè, riconosciutane la loro fallace superficialità, constatatane la loro provinciale trivialità, il parallelo con l’essere umano è molto più diretto e semplice che con le più complesse e forse furbe divinità moderne. A differenza infatti degli Dei moderni, di fronte ai quali forse ci sentiamo ancora in soggezione, (o per lo meno in soggezione nei confronti di coloro che credeno alla loro superiorità), con gli Dei antichi possiamo ammettere in tutta onestà che sono copie identiche degli esseri umani, che sono esattamente come noi, se non peggio, che insomma sono (badate bene!) fatti a nostra immagine e somiglianza. Pertanto raccontare della loro mitologia può facilmente diventare un pretesto o uno stratagemma per parlare di noi stessi, evidenziare i loro difetti può diventare un modo per evidenziare i nostri difetti, ridere dei loro timori (giacché ne provano) puó essere un modo per esorcizzare i nostri.
Di fatto la mitologia antica oggi giorno rischia di esserci perfino più utile di quella moderna: quanti infatti si affidano ancora ad una entità esterna e presuntamente superiore per sconfiggere i propri demoni e quanti invece preferiscono un’ analisi (o autoanalisi) magari alleggerita da interessanti e divertenti metafore (come in questo libro), per trovare in se stessi la forza e il coraggio di guardarsi in faccia?
Nessuna sorpresa dunque che il tema della mitologia desti ancora così tanto interesse... o forse sì?
Effettivamente un poco sorprende, tanto quanto almeno il coraggio di De Crescenzo nel scriverne, nel corso degli anni infatti la mitologia è stata così a lungo dibattuta, studiata, forzatamente indottrinata a schiere di annoiati studenti, da pensare che ormai avesse perso gran parte del suo fascino e dunque della sua utilità. Tuttavia le più recenti uscite letterarie e cinematografiche smentiscono categoricamente questa proiezione. Certo non si legge o si vede più gli Dei nel loro contesto originale, i prodotti odierni sono molto più simili ai fumetti dei supereroi, ma in fondo, pur derubati della loro connotazione classica, pur sempre di figure mitologiche si tratta e tra lampi e colpi di scena qualche “verità” storica la serbano ancora.
Voglio credere che il libro di De Crescenzo sia il capostipite di questo rinnovato interesse del grande pubblico per questi temi (si sa bene in realtà che non è così e le Majors hollywoodiane probabilmente non sanno neppure chi sia il filosofo nostrano...) o, se non il capostipite, almeno il precursore; voglio credere che I grandi miti greci con la sua verve, con la sua mordace e un po’ commerciale guasconeria, con il suo raccontare fuor dagli schemi, da ottiche certamente più attuali dei sussidiari scolastici, sia un’opera precorritrice di tutto questo multimilionario recente movimento di riscoperta degli antichi valori romani ed ellenici. Siamo infatti qui di fronte ad un’opera del tutto particolare e innovativa, un’opera, scritta ancora in tempi non sospetti, che tratta argomenti (altresì pesanti) con l’attuale leggerezza e laicità dell’essere umano moderno, conferendogli un fascino e una godibilità del tutto peculiari. Non è il fascino della novità, ma della riscoperta: il fascino che posseggono gli antichi reperti agli occhi dell’esploratore che li rinviene dopo secoli di oblio; non è la godibilità di un best seller planetario, ma quella di una piccola gemma nascosta, di un libro che come pochi altri stimola la “ghiandola dell’autocompoacimento”, della soddisfazione che deriva dalla consapevolezza che nel mentre lo si legge ci si educa anche, si arricchisce la propria cultura, si espandono i propri orizzonti e, di riflesso, la consapevolezza della realtà che ci circonda.
È quello di De Crescenzo insomma un libro che può essere interpretato in diversi modi, ognuno corrispondente a un differente piano di lettura: quello culturale - educativo; quello amabilmente intrattenitivo, e perfino quello metaforico, poichè ogni vicenda, ogni leggenda dell’antichità può essere considerata una parabola di quanto la natura umana, la nostra natura, sia imprescindibilmente portata a determinati comportamenti e dinamiche di relazione a seconda del contesto.
Nel suo piccolo (non si è alle prese con un volume di proporzioni enciclopediche, come si è soliti aspettarsi con questo genere di letture) dunque verrebbe da definire I grandi miti greci, un esempio di letteratura totale, che trascende il genere espandendosi a trecentossessanta gradi lungo ogni ambito della conoscienza e del sapere umano senza tuttavia sconfinare nella pedanteria a buon mercato; un libro che, mantenendosi sempre con eleganza su un piano letterario fruibile sia dal lettore occasionale che dall’esperto già edotto, può strappare un sorriso a chiunque.
Unico ostacolo è la presunta voltaria ridondanza di alcuni passaggi, come a stressare la ripetitività degli schemi comportamentali umani e divini, ostacolo che tuttavia si supera agevolmente grazie all’interesse che suscita l’autore per ogni storia e mito narrati, un interesse che come nei migliori film da botteghino raggiunge il suo climax verso il finale di ogni racconto, con quel crescendo di ritmo, paradossale incisività e ficcante trivialità tipica di altri generi di più vasto e facile consumo.
Storia antica e ritmo alla ken follet con un pizzico di humor post modernista wallaciano senza trascurare tuttavia il legame con le proprie origini e la tradizione della propria terra... Questo non è un trattato di letteratura antica qualsiasi, non è uno dei tanti testi di storia della filosofia e neppure una banale raccolta di racconti, è un libro unico, un crepuscolare esempio di neoclassicismo modernista o, dal momento che è un genere che mi sono appena inventato, se preferite, “neomodernismo classicista”... ma sempre crepuscolare eh!
Termini altisonanti a parte comunque non è da tutti riuscire a creare una simile commistione di generi e stili, e non è da tutti riuscire a farlo con tale fluidità nel mentre, come si diceva, si insegna e si precorrono i tempi.
Un’opera sorprendente, davvero sorprendente!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Agli amanti della storia, del mito, dello humor e dei bei racconti. Io non lo sono e dunque non conosco i titoli! :-)
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Luglio, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

L'estate è alle porte

Una nave deI tempi della guerra civile americana scomparsa, un arma batteriologica che fa letteralmente impazzire gli uomini e rischia di compromettere l'ecosistema dell'intero pianeta, un magnate della finanza senza scrupoli disposto a qualunque cosa pur di conquistare il potere, e il leader corrotto di una nazione minore dell'Africa che non guarda in faccia a nessuno pur di guadagnare qualche dollaro in più ma sulla loro strada troveranno gli intramontabili Pitt e Giordino a mettergli i bastoni tra le ruote e, se ci sono quei due, pronti come sono a mettere in gioco le loro stesse vite per il bene dell'umanità (e i respiri di sollievo di qualche adolescente...), potete star tranquilli che ne vedremo delle belle!
Se anche voi siete tra coloro che giunta la stagione calda sentite la necessità di staccare il cervello e concedervi una vacanza o se siete tra coloro che in certi periodi dell'anno provano una pulsione istintintiva a fuggire dalla logorante quotidianità di una vita qualunque e generalmente sfogate i vostri impulsi acquistando pacchetti viaggio tutto organizzato a cifre non esattamente modiche o sottoscrivendo abbonamenti pluriennali ad almanacchi di viaggi, reportage ed avventura, o se anche siete tra coloro che, almeno una volta, anche solo una, da bambini hanno acquistato una bussola, un temperino e una borraccia sognando di gettarvi nell'avventura per sfuggire alle sculacciate (meritate!) di vostro padre o madre... Be questo romanzo è fatto apposta per voi!
Sahara di Clive Cussler nel suo genere è il romanzo perfetto: leggero intrigante, svelto seppur ben articolato, con una trama incalzante, e un appeal del tutto particolare per gli amanti della storia e dell'ingegneria meccanica (non che ne conosca molti che coltivino contemporaneamente entrambe le passioni), un romanzo insomma che non deluderà certo le aspettative di chiunque cerchi una facile lettura.
I personaggi principali, come sempre nei libri di Cussler, sono netti, privi di ombre o zone grigie, e i protagonisti, audaci e pragmatici, sono dotati di una dedizione all'eroismo tanto inverosimile quanto rassicurante. La trama, fulcro e chiave di volta, del romanzo e "garbatamente" articolata, ben costruita e ricca degli immancabili colpi di scena che han reso famoso l'autore lungo i suoi quaranta e più anni di carriera. Ogni elemento costruttivo e distintivo del romanzo funziona ed è al posto giusto. Altro oltre a questo non va cercato.
Insomma Sahara è un romanzo semplice e senza pretese eppure a suo modo bello, scorrevole e di facile interpretazione, un romanzo che permette ai lettori più piccoli di viaggiare lontano verso luoghi esotici inesplorati in compagnia di bellissime donne e auto di classe (sì, è più che altro un romanzo per maschietti), e ai più grandi di sorridere tra una gomma forata e lo sguardo incaz... della vostra dolce metà che sta facendo tardi dall'estetista, ripensando a quando potevate permettervi il lusso di guidare una Bentley del '29 senza stillare una goccia di sudore o solcare mari inesplorati senza neppure la fatica di staccare il sedere dalla sdraio e rischiare di scottarvi il collo uscendo dalla "green zone" del vostro ombrellone. Ah la perfezione di quei momenti di gioventù...
Ecco ben questo è Sahara: la perfezione, la perfezione di un bellissimo sogno che pur sperandoci con tutto voi stessi sapete già che non si realizzerà mai, e come tale nel leggerlo concede sprazi di estatica gioia e desolante delusione. La perfezione di un quadro stupendo che anche per un solo istante vi permette di scordarvi che, come ogni altro, dietro, cela un muro grigio. Ma è inutile perdersi in divagazioni filosofiche, non è il genere di narrativa che lo consente, non è il genere di narrativa che lo accetta. Sahara, come ogni libro del primo Cussler, è come un viaggio con un amico di lunga data: sai già che ti divertirai, sai già che non ci saranno particolari complicazioni e tutto filerà per il verso giusto, e d'altro canto sai già come andrà a finire...
Quindi azione, colpi di scena, qualche dialoghetto asservito al contesto e zero profondita? Tutto qui? Nient'altro? Anni e anni di narrativa impegnata e basta un romanzetto qualunque per smentirsi, per mandare tutto alla malora, per emozionarsi come uno scolaretto? E il dubbio, l'incertezza, le dualità dell'io, dell'anima, la logica e l'istinto, la poliedricità della natura dell'uomo, il contrasto tra cio che vuole e ciò che deve fare, il ruolo storico che ha avuto in un dato periodo, in un dato luogo, in una data società e...
Ma va, sei con Pitt e Giordino nel Sahara contro un branco di cattivoni, cosa ti metti a pensare? Accendi il ventilatore, appoggia i piedi al tavolino, stappati una birra e viva l'estate!
Al più se proprio non ti basta puoi sempre comprarti una bussola...
In chiusura, a chiunque avesse visto anche il film (con un poco adatto Matthew McConag... MacConugh, MacConn.. ,Va be quel che è!, nei panni di Pitt e una fin troppo adatta Penelope Cruz nei panni della bella di turno), consiglio spassionatamente di dimenticarselo, (fatta eccezione per P. Cruz anche se non per meriti esattamente interpretativi...) proprio come per Raise The Titanic infatti, la forzata trasposizione cinematografica della fatica di Cussler non ha per nulla reso giustizia al romanzo, anzi lo ha letteralmente rovinato, appiattendolo oltre modo. Certo difficile trovare profondità in due quasi super eroi che proprio all'ultimo, quando si era come sempre abbandonata ogni speranza, salvano il genere umano dalle grinfie di qualche maniaco desertico, ma è cosí che deve essere questa tipologia estiva di romanzi: senza pensieri e senza problemi, libera e fresca, spassionata e istintiva, come spassionata e istintiva è la necessita del lettore che ben sapendo a cosa andra incontro nonostante tutto si dedica a questa narrativa. E Sahara nel suo genere è davvero uno dei migliori romanzi disponibili sugli scaffali del Gs, e sicuramente, assieme a Inca Gold e Night Probe, il migliore della lunga carriera del "nostro amico" o come dicono i pubblicisti d'oltre oceano, del "grand master of adventure", insomma del mitico Clive Cussler.
Davvero dategli una chance, concedetegli una possibilità, ma non scordatevi ventilatore e birra!
Buone vacanze a tutti.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi ha letto altri libri di Cussler o suoi simili (e gli sono piaciuti) e a chiunque abbia volgia d'estate di spegnere il cervello...
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Giugno, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

L'intolleranza dei tolleranti

Il pregiudizio, il razzismo, la maldicenza, la discriminazione, e le loro conseguenze: la violenza psicologica, fisica e quella forse peggiore di tutte quella morale, quella autoinflitta per tentare di uniformarsi, per diventare quello che la società vuole che tu sia... Questi e molti altri i temi al centro della trattazione de La Macchia Umana, un romanzo che non a torto molti definiscono il migliore di Roth. È questo infatti, ancor più di Pastorale e del Complotto contro l’America, l’opera di uno scrittore compiuto, totale, che è consapevole all’infinitesimo di ogni suo mezzo e che non si pone limiti se non solo quelli dettati dalla logica e dal buon senso. Quelli dettati dalla consapevolezza ormai raggiunta nell’arco di quarant'anni di carriera che può spingersi nel ragionamento e nella riflessione fino addirittura a trascurare la storia e trattenere una sorta di dialogo con se stesso e con noi lettori, un dialogo che, una volta accettato, non potremo far a meno di notare come sia illuminato dalla scintilla di un’intelligenza, una sensibilità e una cultura fuori dal comune.
Scordatevi leggendo La Macchia Umana di scene avvincenti ricche di pathos o di passioni ardenti, scordatevi persino del film, nel caso l’abbiate visto, la vicenda è marginale, ciò che accade lo si può riassumere in due righe: un professore universitario di chiara fama (e di “mimetizzate” orgini afro americane) viene ingiustamente accusato di razzismo e lentamente emarginato da un mondo, quello accademico e quello bacchettone del paesino americano in cui vive, finché egli stesso diventa vittima della discriminazione e del razzismo, finché egli stesso, proprio come aveva fatto in gioventù è costretto a crearsi una nuova realtà e una nuova vita... Bene, scordatevi di tutto questo, è solo marginale, ciò che conta è il pensiero, la profondità a cui giunge la riflessione di Roth, una profondità tale che gli consente di presentarci il problema dell’intolleranza sotto una luce nuova,, autenticamente anticonformista e per questo realmente coraggiosa: l’intolleranza dei tolleranti.
Non amo nelle recensioni mettere citazioni testuali, poiché m’è sempre sembrato un po’ come un modo di “fregare” il lettore, risparmiarsi la fatica del compito scopiazzando qua e la, tuttavia poiché qui concretamente esaustive del significato del romanzo, nonchè dell’onestà e del coraggio dell’autore, farò un paio di eccezioni.
Si parla del protagonista che lascia la provincia americana per sfuggire ai pregiudizi e le mal dicenze della piccola città alla ricerca di un’identità individuale scevra dal bigotto machismo della retorica nazionale, scevra dalle facili accuse e gli ingiustificati processi pubblici:

“… Poi partí per Washington e, nel primo mese, fu prima un negraccio e nient’altro, poi un negro e nient’altro. No. No. Vide il destino che lo aspettava e non gli piacque. Ci arrivò intuitivamente e spontaneamente si ritrasse. Non puoi lasciare che il grande “loro” t’imponga la sua intolleranza e non puoi nemmeno permettere che il piccolo “loro” diventi un “noi” e ti imponga la sua etica. No alla tirannia del “noi” e alla prima persona plurale con cui essa si esprime e a tutto ciò che il “noi” ti vuole ficcare in testa. Non era per Coleman la tirannia del “noi” che muore dalla voglia di assimilarti, lo storico e inevitabile noi morale coercitivo e assorbente col suo insidioso E pluribus unum. (….) L’io nudo e crudo, invece, con tutta la sua agilità. Andare alla scoperta di se stessi: ecco il vero pugno alla labonza. La singolarità. La lotta appassionata per la singolarità. Il singolo essere umano. La mobile relazione con ogni cosa. Non statica ma mobile. Autocoscienza, ma dissimulata. Cosa c’è di altrettanto potente?”

E ancora quando ormai da professore anziano, la cui carriera è stata irrimediabilmente rovinata dall’ ignorante e dittatoriale perbenismo di un ambiente puritano, torna al campus per allontanarsi da un nuovo presunto (e falso) scandalo sperando che i tempi siano cambiati, che ormai la gente sia maturata, e con grande delusione, udendo le chiacchiere di tre giovani assistenti sul caso Clinton - Lewinsky, capisce che nulla è cambiato e se in realtà ci sono delle differenze, grazie ai media che hanno reso l’opinione un mezzo di coercizione di massa, violentando il pensiero logico individuale, queste sono solo in peggio:

“…si sedette su una panchina ombreggiata dalla vecchia quercia nocchiuta più famosa della corte (…) e si sforzò, con calma di riflettere sulle coercizioni del decoro. Sulla tirannia della decenza. (…) la briglia che il decoro è per la pubblica retorica, l’ispirazione che fornisce agli atteggiamenti personali, la persistenza, quasi dappertutto, di questo svilizzante “virtuosismo” da pulpito che H. L. Mencken identificava con la stupidità, che Philip Wylie definiva mammismo, che gli europei, astoricamente, chiamano puritanesimo americano, che i pari di Ronald Regan chiamano valori irrinunciabili dell’America, e che mantiene un ampia giurisdizione mascherandosi da qualche altra cosa: da ogni altra cosa. Come forza il decoro è proteiforme, un dominatore in mille travestimenti, che s’ infiltra, se neccesario, come civica responsabilità, dignita Wasp, diritti alle donne, orgoglio nero, fedeltà etnica o sensibilità etica ebraica gonfia di emozioni. Non è come se Marx o Freud o Darwin o Stalin o Hitler o Mao non fossero mai esistiti: è come se non fosse mai esistito Sinclair Lewis. È come, pensava Coleman ( Silk ), se Babbit non fosse mai stato scritto. È come se nella coscienza, a provocare il minimo turbamento, non fosse mai stato ammesso neppure quel livello assolutamente elementare di pensiero immaginativo. Un secolo di distruzioni diverso nei suoi eccessi da ogni altro viene a intristire la razza umana: decine di milioni di persone comuni condannate a patire una privazione dopo l’altra, un’atrocità dopo l’altra, un male dopo l’altro, mezzo mondo, o più di mezzo, sottoposto a patologico sadismo come politica sociale, intere società organizzate e ostacolate dalla paura di violente persecuzioni, la degradazione della vita individuale raggiunta in una misura ignota nella storia, nazioni vinte e ridotte in schiavitù da criminali ideologici che le privano di tutto, intere popolazioni cosí demoralizzate da essere incapaci di alzarsi dal letto la mattina col minimo desiderio di affrontare la giornata… Tutte le terribili pietre di paragone offerte da questo secolo, ed eccoli levarsi e prendere le armi per una Faunia Farley. Qui in America o è Faunia Farley o Monica Lewinsky! Il lusso di queste vite cosí turbate dai comportamenti inappropriati di Clinton e Silk! Questa, nel 1998, è la depravazione che devono sopportare. Questa, nel 1998, è la loro tortura, il loro tormento e la loro morte spirituale. La fonte della loro più grande disperazione morale, Faunia che mi fa un pompino e io che mi scopo Faunia. Sono un depravato non soltanto per aver detto una volta la parola “spettri” (in inglese spooks, termine usato anche denigratoriamente per identificare persone di colore), in un aula piena di studenti bianchi, e di averla detta badate, non mentre stavo lí a riesaminare l’eredità della schiavitù, le invettive delle Pantere Nere, le metamorfosi di Malcom X, la retorica di James Baldwin, o la popolarita radiofonica di Amos ‘n’ Andy, ma mentre facevo l’appello abituale. Sono un depravato non soltanto a causa di....


Questo il “piccolo loro” e il “grande loro”, alle prese con il “noi”, con come ovvero noi siamo costretti dalla società ad adeguarci a costumi, mode, opinioni e come a sua volta noi facenti parti di questa società costringiamo altri dettando regole, arrogandoci il diritto di considerare gli altri copie conformi alla nostra, con il nostro stesso modo di pensare, il nostro stesso modo di sentire e allorchè ci accorgiamo che non è cosí, come siamo sempre pronti ad ergerci a paladini del bene e del giusto, schiacciando, distruggendo qualunque cosa differente, qualunque cosa singolare, individuale, personale, intima. Questo è ciò contro cui si scaglia Roth ed è valido oggi giorno per qualunque scelta, qualunque affermazione. Qualcuno che giudica e condanna nel sua “superba bontà” ci sarà sempre: Non sei di destra? Comunista! Non sei di sinitra? Fascista! non sei pro America? Terrorista. Non sei filoislamico? Guerrafondaio! Non sei nero, giallo, verde, gay, lesbica travestito, donna, handicappato, disabile, malato, vecchio? Misogeno, violento, razzista! Non sei bianco, ricco, atletico, cristiano? Sfigato! Opportunista? Ipocrita! Fino ad arrivare alle forme nostrane più becere, stupide, e per questo forse anche volgari e comiche: non sei milanista? Merda! Non sei interista? Merda! Non sei Juventino...
E l’uno? L’individuo? Quello che il singolo è a prescindere dall’appartenenza ad un gruppo, un credo, una bandiera? E ancor più dell’essere? Quello che uno vuole? Quante violenze morali, fisiche, psicologiche siamo costretti a sopportare per uniformarci, quante violenze ci auto imponiamo per far parte di questo “grande loro”?
No, non c’è niente da fare non lo capiamo proprio e anche se a suo tempo, dopo le guerre e le vere violenze e le vere atrocità di cui rimanere scioccati, moralmente deturpati, l’avessimo capito, ormai, instupiditi dal benessere, l’abbiamo dimenticato. L’uno! Il singolo contan più del gruppo! Perchè la vecchietta va in chiesa e l’ultra allo stadio, o viceversa? Perchè entrambi cantano i propri inni? Perchè uno urla olè e l’altro alleluja, se non per sentirsi parte di qualcosa di più grande, se non per sentirsi, in compagnia, più forti, più al sicuro? Ma la vecchietta additerà l’agnostico fuori sul sagrato come l’ultrà interista il milanista (solo il dito forse cambia) e I “Buoni”, I “ Tolleranti” gli “Irriducibili modaioli difensori delle minoranze” additeranno entrambi, senza capire che anche loro hanno bisogno di credere in qualcosa, che anche loro esattamente come tutti gli altri possono volere, desiderare, sbagliare… L’intolleranza della tolleranza, le minoranze che forti della protezione delle maggioranze diventano esse stesse sovverchianti maggioranze: il professore un tempo detentore del potere in aula che per l’uso incauto di un termine viene cacciato, rovinato senza possibilità di appello, senza possibilità di difesa. L’ uomo qualunque che viene condannato da un’intera comunità per una storia con una donna di qualche anno più giovane e che proprio per questo viene identificata come debole vittima di un soppruso. Ma se è lei che lo vuole? Se anche a lei piace?
Farsi forti della forza degli altri, condannare quando gli altri condannano, applaudire quando applaudono. Per appartenere, per sentirsi, anzi, giacchè coinvolge tutti, per sentirci accettati, per illuderci di far parte di qualcosa, per non vedere che in realtà siamo solo ombre d’uomini, deboli macchie che al primo cenno di bontà siamo pronti a ripudiare interamente noi stessi, che per un abbraccio, per una pacca sulla spalla per un coro allo stadio e un cenno di assenso di una decina di teste, siamo pronti a prosituirci, a svendere la nostra individualità. Ma ci sarà poi qualcosa in quelle decine di teste? E nelle nostre? Macchie! Nient’altro che macchie!
Questo è il significato di quelle frasi e del libro, questo è il succo del pensiero di Roth, non che quello di questa recensione, e quelle, le sopra citate frasi, come molte altre presenti nell’romanzo, andrebbero lette e rilette a certe schiere sociali che se ne approfittano vivendo, e prosperando, sulla stupidità di molti e il reale disagio degli altri; andrebbero ripetute allo sfinimento, per convincerli della loro ipocrisia, anzi altro che leggerle, anche a costo di macchiarmi del medesimo reato, andrebbero urlate loro in faccia, per assordarli, per non permettere più di ascoltarsi e crogiolarsi nel loro finto perbenismo! Ma tanto loro non capirebbero, tanto loro sono in troppi e non ascolterebbero e anche se per una volta ascoltassero, per bene come sono, per bene come solo noi sappiamo essere..., in barba all’individualità, di Roth, in barba alla sua intelligenza, al suo coraggio, sarebbero subito pronti a condannare... Macchie!
La macchia umana, forse il romanzo migliore di quello che forse è lo scrittore migliore, almeno del nostro tempo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
consigliato a tutti e in particolare a tutte le macchie umane
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
1.0
Stile 
 
1.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    15 Giugno, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

E il passo oltre?

Che cos'è la fantascienza? O meglio quali sono quelle caratteristiche, quelle pretogative, che determinano l'appartenenza di un' opera al genere fantascienza?
L' ambientazione, certo, i personaggi, la loro peculiarità, siano essi protagonisti o fugaci comparse asservite alla caratterizzazione del contesto, e le dinamiche d'azione, qualora presente. Tutti questi elementi caratterizzano e dunque definiscono l'appartenenza di un'opera alla fantascienza e di fatto ad ogni altro genere letterario, tuttavia proprio per caratterizzare la fantascienza manca un elemento distintivo, senza dubbio il più importante: "il passo oltre."
Il passo oltre è quell'osare dell'autore, quello spingersi al di la del possibile, dell' "Attualmente - irrealizzabile" per raggiungere gli ambiti dell' probabile, del "solo ipotizzabile" dell' "eppur - tuttavia - in futuro - chissà". Ed è grazie a questo passo oltre, a questo "eppur tuttavia..." che si materializza quel processo che dilata la scienza fino ai limiti dell'immaginabile, ed è sempre grazie a questo che, attraverso l'originalità delle idee degli autori, quei limiti si frantumano scagliandoci nelle pieghe spazio temporali dell'ignoto. Certo per compiere il passo si devono gettare prima delle solide basi, ci si deve sempre rifare al conosciuto, ovvero alla scienza attuale, altrimenti si rischia di perdere la rotta e trascendere il genere nella fantasia, tuttavia quel primo passo resta fondamentale, talmente fondamentale che a ben vedere ogni altra prerogativa sopra elencata si può intendere come una diretta conseguenza della capacità dell'autore di osare, di guardare oltre. In fondo il perdere la rotta è un modo di dire piuttosto appropriato: la fantascienza è come una nave che solca acque sconosciute, chi legge di fantascienza è un passeggero di quella nave, lui è sí diretto verso l'ignoto ma è pur sempre su una nave, sempre legato dunque a un qualcosa di reale e solido, se invece cade in mare, se perde il contatto col reale, tutto allora diventa possibile e lecito e, come spesso accade con opere decentrate o eccessivamente illogiche, perde completamente l'orientamento abbandonandosi al destino o in certi casi, ben peggiori, alla noia.
Pensate a Verne, Asimov, Dick, Bradley o al più recente Crichton: di automi, di robot, già si parlava all'epoca dei sopracitati grandi e cosí anche di viaggi, sottomarini o spaziali, e in tempi recenti persino di clonazione, ma senza la coscienza di quei robot, senza la colonizzazione di pianeti lontani, senza la possibilità di trasformare il tempo fino a viaggiarci dentro e senza la possibilità di clonare il DNA di un dinosauro (o chi per lui), cosa sarebbero stati i loro grandi capolavori?
Nulla, non sarebbero stati proprio nulla. Senza l'audace genialità dei loro autori, cosí come senza un solido legame con la scienza a loro disponibile, l'intera impalcatura di quelle opere non avrebbe retto e un intero genere letterario probabilmente non sarebbe mai nato. Dunque questi, a ben vedere sono i cardini su cui si articola tutto il genere, gli altri, come il tempo e il luogo, di fatto sono sempre a loro asserviti, sono sempre un effetto ed una conseguenza di questi primi due.
Bene, vi chiederete ora il perchè di questa lunga premessa. È presto detto, poichè se si accetta la veridicità della premessa risulterà chiaro come Dune in realtà sia un falso libro di fantascienza. Esatto avete capito bene: Dune non è fantascienza!
Se in qualche modo infatti Herbert, l'autore, mantiene il legame con la realtà nel suo scrivere, nel suo creare, deficita completamente del passo oltre, non è in grado di osare neppure per mezzo paragrafo e alla fine compone un lavoro completamente privo di originalità.
E non lasciatevi ingannare da luoghi e tempi o dalle dinamiche di interazione tra improtagonisti: certo tutto avviene su altri pianeti in tempi futuri (?) e i protagonisti hanno nomi strani, usano oggetti strani, ma non c'è nulla in tutte le 660 pagine (le appendici mi rifiuto di leggerle) che sia veramente geniale o in minima misura innovativo. Si narra qui di una vicenda che sarebbe potuta andare bene in ogni epoca e ogni luogo, con intrighi e sotterfugi degni della corte di Re Lear, di una vicenda ovvero letta e riletta centinaia di volte fin dai tempi di Shakespeare con conti, duchi, imperatori stantii (l'autore non si prende neppure la briga di modificare i nomi delle cariche nobiliari...), e che, udite udite, alla fine viene letteralmente sbrogliata a colpi di cappa e spada, con cappe magnetiche e spade più o meno laser, certo, ma sempre armi di indubbie origini, e prerogative, cavalleresche; e mezzi di trasporto il cui appellativo sfiora il palesemente ridicolo (vedasi gli ornitotteri, mezzi volanti con al posto delle eliche delle ali. Non può essere casuale l'assonanza con gli odierni elicotteri, davvero non puo, forse era il traduttore in giornata no?) Una vicenda per ultimo che siccome non è chiaro come si possa concludere ad un tratto s'impregna di un misticismo finto arabeggiante che invece di spessore dona solo grevità allo stile di Herbert, già di per se stesso piuttosto pesante.
E sì, perchè come se non bastasse lo stile di Herbert lungo tutto il romanzo è pervaso di una retorica fricchettona - new age veramente insopportabile. E non tanto insopportabile perchè fricchettona e new age, molte altre opere "vantano" un simile incedere (l'esempio migliore, e sicuramente meglio riuscito, è Siddharta di Herman Hesse), quanto perchè è totalmente fine a se stessa. La retorica se non a piccole, ben calibrate, preferibilmente minuscole, dosi oggi giorno è già fastidiosa di per se poichè è un mezzo per stressasre un concetto già conosciuto, già risaputo, ormai banale, e dunque, allorchè ci troviamo di fronte ad essa, sia che ci venga propinata da uno scrittore rinomato che da un alta carica dello stato o della chiesa, ci sentiamo in qualche modo presi in giro e derubati del nostro tempo; ma quando, come in questo romanzo, è asservita ad una vicenda finta per ribadire concetti finti, be allora ci si sente doppiamente derubati del nostro tempo e doppiamente presi in giro, poichè di fatto è priva di senso, è una suppellettile ad un oggetto inutile.
E non mi si venga a dire che Dune è tutta una metafora, che come per esempio in 1984 la società futura è una estremizzazione di quella attuale e dunque se vi è retorica essa è asservita a denunciare l'attuale stato delle cose! In Dune non c'è metafora, se non quella molto banale e retrograda del bene contro il male, capirai... In Dune non c'è estremizzazione dei problemi attuali, se non quella molto banale, e ineluttabilmente costante tra le epoche, della ricchezza contro la povertà... In Dune di fatto non c'è proprio nulla eccetto che una lunga, banale, noiosa vicenda che come si diceva poteva tranquillamente essere ambientata al giorno d'oggi o alle corti medievali e non sarebbe cambiato niente, se non appunto qualche mal riuscito nome... Dunque cosa serve ad Herbert fare l'elegia del figlio prescelto di un duca morto che costretto dagli eventi abbandona i suoi costumi e scopre i veri valori tra la povera gente? A cosa servono quei toni ipocritamente pomposi allorchè tale giovane si illumina grazie alla presunta azione di fumosi riti sacri dai nomi islamizzanti e che tuttavia ricordano uno sballo da lsd?
No niente da fare, si possono chiamare "ornittotteri" gli elicotteri, si può chiamare la Terra "Harrakis", si può chiamare uno pugnale "kryss" e un strega "Reverenda Madre Benegesserit" (un soprannome un po' più breve no?), ma sempre elicotteri, pugnali e streghe rimarranno. Senza il passo oltre si possono dare tutti i nomi che si vogliono alle cose conosciute ma rimarrano sempre ne piu ne meno che cose appunto conosciute, e il libro che ne narra mai e poi mai potrà esser annoverato tra i libri di fantascienza!
Ma se Dune non è un libro di fantascienza allora cos'è? Non è nemmeno di storia o di critica, sí forse d' avventura ma, vuoi per lo stile, vuoi per la vicenda, anche l'avventura langue e persino il misticismo o la filosofia sono irreali, e nella loro irrealtà sempre e comunque banali, dunque cos'è?
Be ecco... Ricordate come ci si sente quando si è alle prese con la retorica? Dune non è nient'altro che un libro per qualche motivo tremendamente sopravvalutato che al termine della lettura vi lascia con l'odiosa sensazione di esser stati derubati del vostro tempo prezioso e con l'amara consapevolezza di esser stati fino alla fine presi in giro, anzi no, rifacendomi al vizietto herbertiano di mutare le parole per renderle più esotiche, Dune vi lascia proprio con la sensazione di bruciore distale di essere stati implacabilmente presi per il... MULO!


Nota: sono profondamente dispiaciuto se qualcuno si fosse in qualche modo sentito offeso dall'inaudito turpiloquio delle mie ultime parole, a mia parziale, umile, scusante posso giustificare questo lassismo solo in virtù della consapevolezza che talvolta una parola sebbene inauditamente volgare è più efficace di dieci o cento frasi moderatamente corrette, si tratta soltanto di avere il coraggio di usarla, si tratta solo di osare, peccato che Herbert in tutte le 660 pagine non ci provi neppure una volta...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
174
Segnala questa recensione ad un moderatore
Religione e spiritualità
 
Voto medio 
 
3.4
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
2.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    15 Luglio, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Profondità o banalità?

Dormire può essere inteso come un incosciente abbandono del proprio ego, meditare al contrario può essere definito come un cosciente abbandono fino a scoprire che l’ego non esiste. Se è vero che dormire è l'anticamera della meditazione e per certi aspetti ad essa è assimilabile, be, allora leggendo questa raccolta di interpretazioni del Vijñana Bhairava Tantra posso affermare in totale sicurezza di aver proprio meditato profondamente!
Battute a parte, è vero ed indiscutibile: le cose che Osho dice (giacché tutti i suoi libri sono le trascrizioni dei discorsi che ha tenuto lungo la sua vita) sono talmente rilassanti, pacifiche e rasserenanti, che il sonno sopraggiunge naturale come il risultato della calma universale che invade l'essere del lettore. E le cose dette in questa raccolta di tecniche meditative, descritte, storicamente contestualizzate e ben spiegate, non sono certo da meno. Attenzione però qui non si tratta di una semplice spiegazione di alcuni concetti fondamentali di un testo antico ma di un intimo ed originale elaborato sui significati più profondi dell’esistenza umana, i cui insegnamenti, pur in qualche misura traendo dal testo indiano, sono solo uno spunto, un punto di partenza, per elaborare una propria teoria personale sulla vita (personale del lettore che non per forza di cose, e qui sta il bello di un simil testo!, deve coincidere con quella dell’autore.)
Come definire dunque, e per tanto come commentare o giudicare, un testo che più che un saggio potrebbe essere inteso come un manuale, un vademecum, o il breviario del perfetto agnostico? E come catalogare ed inserire in un contesto un libro che per sua stessa natura non ammette ne tantomeno concepisce restrizioni poiché aprioristico a queste?
Semplicemente lo si fa considerandolo per quello che è, e quello che questo libro è è un testo trascendentale, che non rientra appunto in alcuna categoria, che non può rientrare neppure in quella dei testi filosofici o religiosi che dir si voglia, poiché questi, perfino questi, anche se bene o male hanno come unico obiettivo, il “convincimento” del lettore, contengono ed elaborano contenuti diversi, (parabole, insegnamenti, o applicazioni diverse a concetti e correnti di pensiero); il Libro dei Segreti invece no, e non perché non contenga tutti questi elementi , ma poiché questi di fatto non contano, non hanno alcuna importanza! Sono dei meri stratagemmi, per poter dir qualcosa, senza porre l’accento tuttavia sulla “cosa in se”, quanto sul “dire”. E sull’effetto subitaneo che tale dire esercita sul lettore.
Paradossalmente la categoria più affine a questo testo, potrà sembrare assurdo, ma è quella dei libri-game, i libri gioco (li ricordate, ne avete mai sentito parlare? Andavan di moda quando il sottoscritto era circa un adolescente), libri creati ovvero per avere una forte interattività col lettore, libri che a seconda delle scelte che noi compiamo possono variare di volta in volta.
Strano vero? Specie associandoli ad argomenti che in realtà non ha nulla a che vedere con il gioco. (Salvo ammettere che tutta la vita non sia altro che un grande gioco, e questa potrebbe essere un’ altra possibile interpretazione esistenzialista che nasce dalla lettura di questo testo. Ma non divaghiamo.) Insomma è inutile fasciarsi la testa, quando si legge questa tipologia di libri bisogna entrare nell’ordine delle idee che non conta tanto quel che in esso si dice ma come lo si dice, e non si parla esclusivamente di stile ma dei tempi, delle pause, delle locuzioni che di volta in volta si susseguono e soprattutto, ancora una volta, dell’effetto che queste provocano nel lettore.
Certi libri sono scritti con uno stile serrato che non lasciano tempo di trarre il respiro, ben vengano poiché per molti sono di provato intrattenimento; altri sono invece scritti con stile misurato, calmo, ragionato, appropriato ad approfondire tematiche importanti, ben vengano anche quelli poiché anche loro per molti altri lettori sono di sicuro intrattenimento; Il libro dei Segreti di Osho invece trascende queste due tipologie, poiché è scritto con il ritmo del respiro eterno di ogni cosa viva e non, con il passo universale delle stelle lontane il cui movimento è innegabile quanto impercettibile. E ben venga dunque anche questo poiché è davvero difficile trovare qualcosa di più spiritualmente appagante.
Passo universale, respiro eterno, spiritualità... I materialisti, e io mi vanto di essere tra questi, storceranno il naso, ma attenzione ai pregiudizi quanto alle critiche superficiali: qui non si tratta di filosofia, di religione, questo libro tratta di cose personali, sì personali!, che accadono soggettivamente ai singoli che se ne concedono la lettura, ma che di fatto sono anche oggettive, concrete e appunto materiali. E il respiro eterno? Be se proprio non ci si vuole concedere un po’ di grossolano misticismo, lo si può definire in fin dei conti come un altro modo per chiamare lo stile; uno stile certo però, come si diceva, più affine agli eventi cosmici che alla letteratura, a quegli eventi insomma che hanno tempi d'attesa lunghissimi e si propagano per distanze siderali, ma che quando avvengono, sono tuttavia dirompenti e totali o per usare un termine ormai abusato eppure qui più che mai appropriato... illuminanti.
Essendo questo dunque un libro fuori dal comune per onestà intellettuale in ultima analisi occorre interrogarsi sul perché qualcuno mai dovrebbe leggerlo, che bisogno c’è, a chi mai può essere infatti destinato un testo così totale, peculiare eppure volendo talmente sui generis che potrebbe ormai persino esser definito banale?
Be è destinato a... chi vuole, a chi per qualunque motivo, per qualche momento nella sua vita, ne sente o ne ha sentito il bisogno, e i bisogni possono essere molti: tranquillità, sicurezza, ansia, stress, fatica e persino ignoranza, l’ignoranza di coloro (ed oggi giorno ce ne sono molti) che pur non sapendo quasi nulla in materia per partito preso (talvolta addirittura partito politico!) si dichiarano molto più affini al misticismo orientaleggiante rispetto alle troppo regolamentate e conservatrici “religioni nostrane.” Salvo poi rimaner terribilmente delusi allorché scoprono che come si diceva questo libro non ha molto a che vedere con la spiritualità indo-asiatica e tanto meno con le modaiole e sterili prese di posizione di certi intelletualoidi ciarlatani che amano pavoneggiarsi con pensieri fintamente anticonformisti (e per poi loro stessi ribadire la loro conformità rifacendosi a termini tanto pretestuosi quanto ossimorici quali radical chic, new age e chi ne ha più ne metta!). Dunque i motivi per leggere un simil testo possono essere tanti e per ogni persona ce ne può essere un proprio, singolare. Personalmente è stata la curiosità di imbattermi in un’ opera così fuori dal comune e un innegabile bisogno di evasione dalla a tratti estenuante quotidianità di una vita qualunque. Ma qualunque sia il motivo per cui ci si avvicina a questa lettura, una cosa la si può garantire: è assolutamente esaustiva ed, a patto di concedervisi senza pregiudizi (sia positivi che negativi), a patto di seguire, o cercare di seguire, il più onestamente possibile gli insegnamenti, le tecniche, in essa contenute, è efficace.
Riprendendo per l’ennesima volta la metafora cosmica si potrebbe infatti concludere affermando che al pari del nascere e morir delle stelle, questo libro infonde quella luce di novità (alcuni lo definirebbero brivido) e quella calma ineluttabile tipiche degli eventi del destino a cui nulla si può fare per opporvi resistenza e nulla si deve fare per combatterli, poiché dolcemente e inesorabilmente ad essi siamo condotti e ad essi noi tutti prima o poi siamo, appunto, destinati.
Rileggendo quanto scritto mi rendo conto che è difficile, pur tentando d’esser chiari, risultare più oscuri di così, tuttavia al pari di certe esperienze indescrivibili a parole, l'insegnamento di Osho è inenarrabile, va semplicemente sperimentato. Certo oggi giorno qualcuno potrebbe tacciare di banalità quanto riportato in questo volume, ma nessuno che abbia provato ad applicare in prima persona i suoi consigli potrebbe davvero farlo. Vero anche che per via deIl linguaggio colloquiale, semplice e diretto, qualcuno potrebbe sostenere che i problemi sollevati nel testo e le soluzioni a questi problemi sono altrettanto semplici e dirette, ma troppo semplici e dirette, tanto da risultare perfino utopiche e irrealizzabili. Attenzione però: non bisogna confondere la semplicità con la banalità, e ancora di più la direttezza con la stupidità. Spesso per ogni problema la soluzione semplice è la migliore e se non ci sembra tale è perché noi di fatto non vogliamo trovare una soluzione o non vogliamo affrontare il problema. E malgrado una certa innegabile fondatezza delle critiche mosse all’irrealizzabilità di certe soluzioni e sull’utopia generale che pervade molti dei suoi discorsi, è sempre bene ricordare che senza un irrealizzabile, e per questo provocatorio, ideale dettato dall'utopia l'uomo non avrebbe nulla a cui tendere, non avvertirebbe quella spinta istintiva a migliorarsi costantemente ed evolversi, e senza una costante ripetizione di quelle che sono le certezze acquisite durante millenni di evoluzione rischieremmo di dimenticarci chi siamo, di perdere le basi che caratterizzano il terreno da cui siamo partiti. Si sa che in un albero sano e forte sono importanti le radici come i rami più elevati, quelli insomma che, per intenderci, senza mai raggiungerlo, ma talvolta oscurandolo, puntano al cielo.
Ancora attenzione dunque ai facili giudizi, ma attenzione tuttavia anche all’eccessivo impegno, pur essendo questa una lettura alla portata di chiunque resta tuttavia alle volte inapplicabile in un contesto moderno per tempistica e necessità di sperimentare, due fattori che metteranno a dura prova il lettore onesto. Una scorsa superficiale del testo difatti non donerà nulla se non la sopracitata banalità concettuale, la sistematica e ordinata sperimentazione dei consigli invece regalerà una pace e una serenità e sì, se si vuole, un equilibrio e una consapevolezza, altrimenti inarrivabili.
Per concludere, come molti dei libri di Osho (forse tutti sarebbe eccessivo, date certe castronerie, scientifiche, storiche e culturali,) anche questo è difficile da definire in altro modo se non “illuminante”. Questo in più, se applicato alla realtà quotidiana potrebbe essere anche "tranquillamente rivoluzionario", sempre ammesso che nella sopracitata esperienza estatica non siano già contenuti i valori di termini come rivoluzione e tranquillità e... Ma no è meglio che mi fermi qua, se no rischio di diventare eccessivamente mistico e spirituale, e l’equilibrio conseguito va a farsi benedire! Per bilanciare infine è giusto aggiungere anche qualche “contro” al libro.
Difficile in realtà trovarne senza rifarsi ad una volendo eccessiva, ma non particolarmente sgradevole ripetitività di alcuni passaggi, poiché di fatto l'unico aspetto negativo certo è di carattere editoriale: "il libro dei segreti" infatti è un semplice estratto dei commenti al Vijñana Bhai... (va be quel che è!), non ne è la raccolta completa. All'inizio del volume si parla invece di un centinaio di tecniche per raggiungere la “consapevolezza”, ma ad occhio ne sono descritte e spiegate si e no una trentina. Il risultato, purtroppo non può essere altro che quello di un volume amaramente incompleto. Con una dotta ironia, per lo più antipatica e auto celebrativa, si potrebbe rispondere alla mia critica con un “ma è giusto che sia incompleto: non hai letto cosa dice? Non hai capito nulla? Questo non è un libro! Chi l’ha scritto non è un autore! E tu che critichi non sei realmente tu...”
Ma sarebbe davvero troppo facile, banale, utopico, conformista e davvero troppo, troppo, antipatico.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri suoi libri, a chi ne sente il bisogno e a chi riesce onestamente liberarsi dai pregiudizi sia negativi che positivi
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    23 Giugno, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

100 metri nella semiotica

Un romanzo originale ed intelligente che per ambientazione, tematiche, ritmo narrativo e stile crea un punto di rottura rispetto alle precedenti opere di Eco. E’ Numero Zero infatti un’opera svelta, quasi verrebbe da dire affrettata, ma che ciò non di meno sviluppa e approfondisce tematiche quanto mai importanti e attuali: il giornalismo, la stampa e la comunicazione, o meglio come viene prodotto, elaborato e percepito, il messaggio, i messaggi, che ogni giorno tv, radio, computer e agenzie d’informazione ci trasmettono; e approfondendo queste tematiche le analizza, seppur con rapidità, accuratamente, spiegandocene, talvolta in tono ironico, talvolta in tono serio, le dinamiche, le metodologie, e persino alcuni “trucchi del mestiere.”
Quali possono essere i motivi per dare maggior rilievo ad un articolo di giornale rispetto ad un’altro, quali possono essere i motivi per unire, dividere, escludere o includere una notizia, sia essa presentata sotto forma di articolo, di servizio televisivo, o perfino come opinione di un presunto esperto? E soprattutto quali sono i modi, i trucchi, gli stratagemmi, per ottenere il risultato desiderato? Meglio usare certe parole rispetto ad altre, certi caratteri, certe forme verbali, certe impaginazioni? Eco in questo romanzo, poiché non dimentichiamocelo pur sempre di romanzo si tratta, ci svela questo ed altro sguazzando amabilmente nella dottrina che per anni è stato il suo cavallo di battaglia: la semiotica, ovvero propriamente la “scienza umana che si occupa dello studio di tutti i segni che servono per la comunicazione” (cit. Il Sabatini Coletti Diz. Della Lingua Italiana). E non è un caso che il verbo qui utilizzato sia “sguazzare” poiché traspare tra le righe il grande divertimento che l’autore trae dalla possibilità di poterci insegnare come plasmare una notizia nella maniera più opportuna; si percepisce il suo piacere, quasi ce lo si immagina con un largo sorriso a premere sulla tastiera al ritmo di un tic al decimo di secondo - adesso aggiungo questo, poi dico quest’altro... - e man mano che la storia si sviluppa, aumenta anche il suo diletto: perché non inserirci un bel complotto in quella nostalgica Milano degli anni ‘90? Perché non infilarci delle belle atmosfere cupe tra le strette vie di Brera o quelle case rustiche e così romantiche dei navigli, e perché non metterci anche un paio di personaggi bislacchi, una bella donna tanto frizzante quanto insicura e un protagonista, perdente nato, che col suo cupo sarcasmo, cupo quanto le viuzze, tinge tutto di noir? Un noir di quelli però all’italiana, senza machismi e sparatorie alla Dick Tracy e al loro posto della buona e sana logica! E infine perché non inserire come perno di tutta la storia, una sorta di “mistero nel mistero”, il mistero ovvero di un fatto che in fondo potrebbe essere realmente accaduto dentro al mistero del saper produrre una notizia creandola magari da zero, dal nulla..., un bel fatto storico insomma in qualche modo innovativo, come può esserlo per esempio quello di Mussolini che in realtà non è stato fucilato a Giulino di Mezzegra sul lago di Como ma per vie traverse è riuscito a scappare all’estero? (Non si svela nulla dal momento che dopo meno di un giorno dall’uscita del romanzo e forse anche prima, ovunque si leggeva che questo fosse uno degli argomenti principali del romanzo). Perché non mettere dunque tutto questo, in fondo è divertente.
E lo è veramente! Lo è, come si è detto, per l’autore il cui diletto traspare nella scrittura e lo è per il lettore che riesce, grazie ad un ritmo a dir poco serrato ma ad una prospettiva sempre distaccata, a farsi coinvolgere da una trama originale senza tuttavia smettere di far funzionare la testa e apprendere, imparare la lezione che “il professore” con leggerezza gli impartisce: non conta cosa è successo ma come è stato riferito poiché tutto può essere sempre il contrario di tutto.
Sarà vero quanto si narra? Sicuramente verosimile, plausibile… Sarà per quel motivo o per quell’altro o quell’altro ancora che la vicenda del “nostro” protagonista è finita come è finita? E il giornale che doveva contribuire a creare? Perché volevano veramente crearlo e chi invece non voleva che fosse pubblicato? Numero Zero è davvero tutto e il contrario di tutto, e così ne è anche la confezione che vuole venga catalogato come romanzo ma che leggendolo poi si scopre che sono tante e tali le nozioni in esso contenute che potrebbe passare tranquillamente anche come saggio, un saggio di divulgazione, ed anche, come in molti ormai l’han già definito un manuale: il manuale del cattivo giornalismo.
Un’osservazione finale in ultimo è d’obbligo farla nei confronti dell’ambientazione della vicenda così differente a quelle a cui ci ha abituato l’autore (è dai tempi del Pendolo di Foucault infatti che non scriveva un romanzo contemporaneo): ambientare una storia in una città che tutti bene o male conoscono e in un tempo che tutti bene o male (almeno quelli che di solito leggono Eco) ricordano può essere un’arma a doppio taglio: se da un lato è senza dubbio affascinante poiché risveglia ricordi forse freschi, forse sopiti, nel lettore, del tipo “ah si dov’ero io quel giorno del 92, cosa stavo facendo?” e via dicendo, dall’altro può creare una sorta di distaccamento, in primo luogo poiché la memoria del lettore per forza di cose è differente da quella dell’autore (vita, esperienze, conoscenze differenti) e dunque il ricordo, l’impressione, nostalgica o meno del tempo filtrata dal nostro, chiamiamolo, bagaglio culturale individuale, potrebbe farci dire “no quella non era la Milano del ‘92, non era così, sbaglia.” In secondo luogo poiché proprio perché l’ambientazione temporale è prossima alla contemporaneità viene a mancare di fatto quell’elemento che tutti i romantici della letteratura (parlo dei lettori non degli scrittori, di coloro ovvero che leggono perché vogliono sfuggire per qualche minuto ogni giorno alla realtà quotidiana senza ricorrere a composti chimici diversamente salutari) hanno imparato ad apprezzare e vanno cercando appena odono il nome dell’autore: il volo nella storia, quella sorta di teletrasporto guttenberghiano che con il prodigio dei caratteri mobili su carta stampata ci consente di rivivere altre epoche ed immaginarci talvolta noi stessi alle prese coi problemi di antichi protagonisti.
Dunque l’ambientazione attuale potrebbe essere un’arma a doppio taglio, ma ancora una volta la scelta del verbo non è casuale, è mia opinione infatti che in Numero Zero non si avverta tutto sommato la mancanza dell’elemento storico e non si avverta neppure la distorsione della memoria individuale poiché a quegli elementi deficitari (per forza di cosa e non per mancanze dell’autore) viene in soccorso il ritmo del narrare che, è bene ribadirlo ancora una volta, qui è estremamente serrato e minimalista, quasi scarno, e con una cadenza così veloce non si ha tempo di stare a riflettere su cosa ci ricordiamo noi del 92, almeno non troppo, con un ritmo così serrato non si ha tempo di star a sentir la mancanza del tempo perduto, il tempo che fu, sia esso il Medioevo, l’Illuminismo o gli anni tra le due guerre, poiché ad un fatto ne segue subito un altro, ad una lezione segue subito la successiva e quello che ci occorre, quello di cui sentiamo realmente bisogno qui sono i fatti, solo quelli: fatti, fatti e ancora fatti. Altro davvero non serve e una volta esauriti questi il romanzo è finito, e poco importa che Milano nel ‘92 magari era diversa, poco importa che la storia del giornale che nasce e non nasce poteva essere più approfondita, così come lo spessore dei personaggi che delineano questa vicenda, e poco importa persino che il perno della vicenda, lo “scoop Mussolini”, era di una forza così originale che meritava da solo un intero libro, di quelli da ottocento pagine, come ci aveva abituato prima il Nostro, qui si parla di giornalismo, di un quotidiano che deve andare in stampa tra poche ore e dunque non c’è tempo per le lungaggini, le incertezze o le riflessioni qui occorrono i fatti, e dunque, come si diceva: fatti, fatti, e ancora fatti, punto e basta. Così è il libro, così i dialoghi, la vicenda, il protagonista, così le sue osservazioni e i suoi pensieri: un rutilante avvicendarsi di accadimenti che come dice la parola stessa “accadono”, accadono mentre li si scrivono, accadono mentre li si leggono e al pari della vita reale non si fermano mai, poiché l’unica volta, la sola volta, che si fermeranno significa che sarà finito, la vicenda, gli insegnamenti, il giornale, il protagonista, il libro, tutto sarà finito.
Piuttosto illuminante fu l’intervista che rilascio l’autore qualche giorno prima della pubblicazione alla tv nazionale, disse (parafraso) - non è un libro come gli altri ad ampio respiro, è rapido, veloce, ad un certo punto è come si mi avesse detto che era finito ed infatti così era: era finito.
Questo dunque è Numero Zero, non un excursus ma una rapida occhiata, uno scatto mentale in un recente passato, e sia che lo si chiami saggio, sia romanzo, sia manuale, sia pamphlet, sia che si dica che è fatto per screditare attuali figure di spicco del panorama politico italiano, sia che si dica sia fatto per riportare alla luce eventi troppo in fretta messi a tacere, sia infine si dica non sia altro che il riassunto delle lezioni di una vita dell’autore, la natura del libro di fatto non cambia, è e sempre sarà quello “scatto”, e al pari delle gare di corsa il cui fascino è inversamente proporzionale alla loro lunghezza (quanti si emozionano per Usain Bolt che fa il record dei 100 m rispetto a Gebrselassie che fa quello della maratona?) questo libro/romanzo/saggio gode di un grandissimo fascino, il fascino dei bei libri che solo i grandi scrittori riescono a creare, quegli scrittori a cui bastano due parole e un punto per crearti una storia, colorarla di realtà e nel mentre spiegarti come funziona il mondo. Due parole e un punto, niente di più. Punto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri libri di Eco (x stupirsi), libri d'attualita o storia moderna, buoni romanzi
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    13 Mag, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Se A=B e B=C allora C=Xn...

Futuro, presente, passato, viaggi nel tempo e nella multidimensionalità dell' esistenza di uomini in parte vivi e in parte morti che sono però in grado di agire attivamente su ogni momento, istante, di ogni singola dimensione, creando scorciatoie temporali, realtà parallele e alternative; creando paradossi e assurdi dinamici (e statici) di mondi che si evolvono al contrario e di uomini, come noi, che regrediscono di pari passo vibrando negli infiniti spazi tra una molecola e l'altra, tra un istante e l'altro, alla ricerca di un perché, alla ricerca della risposta a quella domanda che ne cela infinite altre: cos'è accaduto, cosa sta accadendo, cosa accadrà e soprattutto, appunto, ancora..., perché?!
Questo è Ubik, forse il più famoso romanzo di Dick e sicuramente il più profondo, un romanzo dove non mancano tutti quegli elementi fantascientifici e squisitamente nostalgici (fin dall'inizio si è catapultati in un mondo futuristico anni novanta che ha tuttavia l'adorabilmente ingenuo sentore della fantascienza anni 70) che l'hanno reso caro a tutti gli amanti del genere ma che eppure, partendo da questi, si evolve fino a trascenderli diventando un testo intimo di uno scrittore che indaga sui misteri della vita e sui misteri della sua, e nostra, esistenza.
Siamo noi che evolviamo o è il mondo attorno e noi di pari passo ci adeguiamo? Siamo noi che camminiamo o è la terra sotto i nostri piedi a scorrere, in altre parole è la terra che ci attira o noi che attiriamo lei?
Entrambe dice la legge di gravitazione universale, e come è valida quella è valida anche quella sulla nostra esistenza: noi mutiamo al mutare di ciò che ci circonda e viceversa ma, a prescindere da chi muta chi, chi attrae chi, chi agisce su chi, l'unico modo per rendercene conto è attraverso il tempo, studiando e ricordandoci quello che eravamo, studiando e ricordando quello che il mondo era e osservando quello che è adesso, e quello che siamo noi ora. Ma se esistesse qualcuno in grado di modificarlo? Di modificare il ricordo e soprattutto il tempo, che nel presente può modificare il passato e viceversa nel passato il presente, come sarebbe ora la nostra vita? Come saremmo noi ora e soprattutto ci accorgeremmo delle differenze?
In Ubik esiste questo qualcuno, esiste questa forza che agisce in verso opposto a quella normale, e il mondo che ne viene fuori, i singoli che ne risaltano, sono un nonsenso dimensionale, dei nonsensi esistenziali, il cui unico modo per riuscire ancora a capire chi sono, e dove, è rifarsi alle loro poche certezze, ai loro ontologici ricordi: "quella cosa è avvenuta perché io me la ricordo", e, seppur strano, ancora una volta al tempo, al loro tempo congelato nell'istante del presente, dell'ora, adesso, lì, poiché in quel vorticoso vibrare dei secondi, dei centimetri, delle ere e degli spazi sconfinati, loro in quel momento, in quel preciso momento, innegabilmente sono!
È dunque quello di Dick un romanzo ammirabile che getta uno sguardo crepuscolare sulle allora più recenti e particolari teorie del cosiddetto continuum dimensionale, ma è anche un romanzo intimo che parla al lettore, che lo fa riflettere sui misteri della sua (nostra) esistenza e sulle poche, talvolta rassicuranti, talvolta non..., certezze della vita; un romanzo insomma che per stile, contenuti e fascino forse rappresenta il punto più elevato della produzione letteraria Dickiana, un romanzo che tutti, gli amanti del genere e non, dovrebbero leggere, per capire e capirsi di più, e per trovare nell'incessante evolversi della vita i propri valori e le proprie, seppur poche, solide certezze.



Qui finisce la recensione, ciò che segue è un non troppo breve excursus sul significato del libro: dal momento che per trenta e più anni chiunque abbia letto Ubik ha dato la sua spiegazione, ha creato la sua teoria, per cercare di inquadrare in un sistema comprensibile e logico un testo altrimenti di difficile adattabilità ad un contesto temporale e geografico sensato, senza ovviamente pensare minimamente di potermi collocare sullo stesso piano dei "filosofi norvegesi e russi" che tentavano di spiegarlo all'autore stesso, mi sono sentito anch'io in dovere di aggiungere la mia voce al coro di tutti coloro che nel corso degli anni hanno dato la loro teoria su come vada letto e compreso. Che nessuno di coloro che è giunto a leggere fin qui dunque si senta altrettanto in dovere di continuare a scervellarsi su questi temi, ma d'altro canto sappiate che se qualcuno per qualche minuto ancora ha voglia di ragionare con il sottoscritto, è senza dubbio bene accetto.
Dunque ricominciamo.

Ebbene sì, terminata la lettura il sottoscritto, come chiunque, si è posto la fatidica domanda che ha attanagliato la sua mente lungo tutte le duecento e più pagine del romanzo: ma alla fine che diavolo è questo Ubik?
Per capirlo, dal momento che Ubik è sì un elemento del romanzo ma ne è anche il titolo e dunque il romanzo stesso, per comprendere cosa sia e come sia da interpretarne la sua innegabile esistenza, occorre concentrarsi su quello che appunto oltre ad Ubik è l'elemento principale della storia: il tempo.
Il tempo, nel romanzo non è fisso, non è quello della lancetta dei secondi che si muove sul quadrante dell'orologio ma è un tempo "universale", è il tempo che i protagonisti e noi (ricordate che nella recensione si diceva che questo è un romanzo intimo che parla a noi stessi?) è il tempo che noi abbiamo vissuto, il tempo che dobbiamo vivere e quello che stiamo ancora vivendo, quello in cui nel momento, in questo preciso istante, noi siamo; e poi ancora quello dell'istante precedente in cui siamo stati e quello dell'istante successivo, in cui ovviamente saremo. Tutto infatti (si sa) continua a scorrere, "panta rei" dicevano gli antichi e gli antichi... si sbagliavano!
Non è il tutto che scorre secondo Dick (o meglio secondo la mia personale interpretazione del suo pensiero) ma solo il tempo, è lui e solo lui che continua a scorrere e le persone, le cose, i luoghi, presi al di fuori di questa quarta dimensione, presi nel singolo istante, sono immobili. È solo infatti se osservati rispetto a quanto e dove erano prima, o saranno dopo, che se ne può apprezzare il loro mutamento, il loro movimento. E la fisica ci spiega che questo loro movimento è apprezzabile grazie alle velocità ovvero grazie al rapporto tra lo spazio che percorrono e, appunto, il tempo che impiegano a percorrerlo. Riadottando dunque la "teoria dei singoli istanti", poiché lo spazio che percorrono e dato dalla somma dei momenti in cui durante il loro tragitto questi individui hanno vissuto, o meglio sono stati, e lo spazio, come si è visto, è indissolubilmente legato al tempo, riadottando la teoria il tempo stesso può essere definito dalle mutazioni che loro, gli individui, i protagonisti, hanno subito rispetto ai loro stessi passati o futuri.
Lo so è materia da mal di testa assicurato, sarebbe infatti più facile disegnarlo che raccontarlo ma giusto per tentare di capirci: l'oggetto X (quanti di voi leggendo ora la famigerata letterina hanno cominciato a tremare? Ammettetelo! Tranquilli non ci metto molto, del resto il tempo è anche denaro... Ma appunto meglio non divagare!), quindi giusto per capirci: X allo scorrere del tempo si muove nella posizione uno e diventa X1, poi si muove nella posizione due e diventa X2, poi nella tre, la quattro, cinque e così via mutando di volta in volta conformazione (o stato se preferite); ora la somma di tutte le posizioni in cui si è trovato nel singolo momento è data da X1+X2+Xn e questa somma ci rende il quadro del suo movimento, e, a seconda della velocità di questo movimento e del numero di fasi di X, ci restituisce il concetto di tempo: più sono le X a velocità costante maggiore è il tempo, più invece è la velocità a numero di X costante, minore è il tempo. Ma tutto è sempre in funzione del tempo.
Certo il mutamento da X1 a X2 lo si apprezza spesso solo se si è un osservatore esterno, se ipoteticamente cioè si è fuori dal sistema spazio-temporale in oggetto o se almeno si ha un riferimento fisso, ma, poiché ciò nella realtà non può accadere, perché (ebbene sì!) anche noi ci muoviamo (anche noi nel nostro piccolo siamo tante Xn), per apprezzare la transizione di un oggetto alla sua forma più prossima, dobbiamo tenere conto anche delle nostre transizioni, del nostro movimento. Insomma, per tornare alla domanda posta in Ubik, siamo noi che ci muoviamo rispetto all'oggetto o l'oggetto rispetto a noi? E chi muta, noi o il resto?
Entrambi, o meglio, senza un punto di riferimento fisso non lo sappiamo e non lo sapremo mai, specie se poi oltre a noi e all'oggetto a muoversi e a mutare è tutto quanto, tutto il mondo che ci circonda e tutta la realtà. È naturale dunque ci dice Dick che per capire qualcosa di noi, del tempo e del mondo, ci occorra quel punto, quella singola dogmatica certezza che ci permette di astrarci dal nostro stesso contesto e diventare i sopracitati osservatori esterni. E che cos'è quella, questa, certezza? Be Galileo e Copernico, come alcuni altri, forse sbagliando, la cercavano fuori dal nostro pianeta, e la chiamavano Sole o Terra (a seconda delle teorie...), alcuni mistici invece, forse sbagliando anche loro (chi può dirlo, chi può esserne certo?), la cercavano fuori dalla fisica, nella metafisica, e la chiamavano Dio o Allah o Buddha; altri mistici ancora invece la cercavano nelle cose che si riproponevano quotidianamente ed erano le più visibili e materialmente le più importanti e la chiamavano... be in tanti modi: amore, famiglia, denaro, lavoro, successo, Juve, Milan, Inter e chi ne ha più ne metta! E per finire c'era Dick, Philip K. Dick che, ovviamente anche lui sbagliando (quando non si hanno certezze tutti hanno ragione e tutti torto) la cercava nella materia stessa da cui originava il dubbio, la cercava nel tempo stesso, nel suo scorrere e nel nostro mutare al suo scorrere... E la chiamava Ubik.
Dunque cos'è Ubik? Ubik è tutto: è il sole, è Dio, e l'amore, il denaro e, sì persino la Juve (o il Milan o... be ci siamo capiti!), è insomma quell'unica entità che c'è e sempre ci sarà nel tempo a prescindere dal suo scorrere, quell'unica entità che trascende la connotazione multidimensionale dello spazio-tempo e in qualunque epoca, periodo, anno, giorno, ora, istante, troveremo sempre. E nella fattispecie che cos'è questa entità, come è fatta, che forma ha, come riconoscerla? Be Ubik è... la pubblicità: talvolta è una bomboletta, talvolta, un balsamo, talvolta un digestivo o una crema di bellezza ma di fatto è un brand, è uno spot televisivo e un messaggio. E se ci si pensa bene non è una cosa così stupida investire di tale importanza una reclam poiché chi è che si pone la domanda, chi è che vuole capire lo scorrere del tempo? Chi è che riesce apprezzare lo scorrere del tempo, chi è che infine vive nel tempo? Noi, l'uomo, e dunque cosa meglio della pubblicità, l'emblema massimo della creazione e del nostro intelletto (poiché più comune e popolare di qualunque altra cosa da noi inventata e dunque più adatta ad abbracciare la totalità degli esseri umani) per trovare il nostro centro, il punto fisso o il perno attorno a cui ruota il mondo?!
Dunque cos'è Ubik, Ubik è una bomboletta, un balsamo, ma è anche un punto di riferimento, l'ultimo paladino che si oppone a questa mutevole realtà, un messaggio dell'uomo all'uomo ed una rivendicazione della sua centralità nell'esistenza: scordatevi di Dio, del sole, e delle lontane stelle, noi siamo coloro che possiamo vederle, noi siamo coloro che possiamo capirle, noi siamo coloro che possiamo concepirle, e così il tempo stesso, così il movimento e il luogo. A cosa servono i calendari, - faceva dire Leopardi al coniglietto (o qualunque altra bestiaccia fosse) - una volta sterminata l'umanità? Sono gli uomini che l'han creato a noi non serve, i giorni sono tutti uguali, i giorni, noi animali sopravvissuti, non sappiamo neanche cosa sono! - (Forse non era Leopardi ma va be...) Dunque che cos'è la nostra esistenza, come interagisce col tempo?
Per capirlo dobbiamo, e possiamo, affidarci solo a noi stessi, a quell'unica cosa che lei stessa ci permette di esistere, e che grazie alla sua invariabilità da la prova che siamo anche esistiti e in futuro ancora esisteremo: il nostro creare, il nostro continuò e incessante creare, il porci domane e trovare le risposte, il creare teorie e sistemi che funzionino e infine trovare sistemi che ci spieghino, che ci permettano di capire, di conoscere e tramandare la conoscenza, o in altre parole Ubik, la pubblicità, il messaggio dell'uomo per l'uomo: fin tanto che l'uomo esisterà si porrà domande e fintanto che si porrà domande troverà risposte, diverse, varie e mutevoli, a seconda dei luoghi, dei tempi, ma pur sempre risposte, pur sempre messaggi, atti creatori umani, pur sempre Ubik, una bomboletta spray.
Questo dunque è Ubik, uno dei romanzi più belli e più complessi di Dick, un romanzo che si dipana su diversi piani temporali, che porta alla luce dubbi e domande sulla nostra natura e sulla natura del creato (non uso questa parola a caso), un libro che mette in gioco ogni nostra convinzione e si pone domande la cui risposta è pressoché incomprensibile salvo rifarsi all'unica immutabile e invariabile costante: siamo noi, noi che creiamo le domande e siamo noi che tramite osservazioni, ipotesi, teorie e dimostrazioni, troviamo le risposte. E siamo ancora noi che possiamo apprezzare queste risposte oppure al loro "cospetto" infastidirci, ma sempre e soltanto noi, anzi Noi, nel Nostro mondo, nella Nostra realtà, grazie alla Nostra, a Nostro modo, divinità: Ubik, il Dio da noi creato, magnanimo e immutabile e soprattutto, per una volta, utile, quotidianamente utile, poiché da noi e per noi creato. Ma di un Dio, anche se profano, laico, per nulla sacro, occorre diffonde il verbo (specie poi se l'essenza stessa di questo dio è il verbo) altrimenti che Dio è? E quale mezzo migliore dunque di un romanzo, di un testo? Ed ecco che questo Dio, riproponendo una delle peculiarità tipiche delle divinità, si scinde e diventa come suggerisce il suo stesso nome ubiquo, onnipresente, ovvero presente in ogni tempo, sotto ogni forma e aspetto... persino quello di Romanzo.
Ma non ti sembra di far confusione - direte voi - ad accomunare un elemento del romanzo col romanzo stesso, e ancora il romanzo con la forza creatrice del tempo, dei luoghi e in fine di noi stessi?
Forse ma le Divinità (sia quella del romanzo che le "classiche") hanno questa dote: danno certezze la dove regna la confusione, basta credergli... E in fondo hanno un senso proprio perché ne esiste un testo in cui se ne parla: come si potrebbe dire per esempio che la Bibbia è una cosa diversa da Dio? (Non me ne vogliano i credenti, mi concentro sul cristianesimo esclusivamente per il fatto che per estrazione culturale è la religione che conosco meglio) Come si potrebbe dire una cosa simile?Per i credenti, non siamo forse noi opera di Dio? E la bibbia non l'abbiamo scritta forse noi riportando i dettami del Creatore, dunque se A=B e B=C...
Ed ecco infine allora cos'è Ubik è tutto, siamo noi, il mondo, Dio e non per ultimo una bibbia, anzi La Bibbia, la bibbia profana dell'uomo per l'uomo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Aprile, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Moderno immortale

Un romanzo che cattura l'attenzione del lettore poiché gode dell' indiscusso fascino delle storie ben concepite e ben narrate. È quella del Complotto contro L'America infatti una storia estremamente interessante poiché tratta di accadimenti, sì veri, ma rivisitati, ribaltati e descritti in maniera del tutto speculare, quasi parossistica rispetto a quello che poi è stato il naturale corso degli eventi. E se già altri autori s'eran cimentati con questo genere di chiamiamole "analisi per assurdo" con risultati incerti (tra i vari vedasi il grande Philip K. Dick con “la svastica sul sole”, libro geniale, potente, intimo ma davvero troppo disordinato e quell’ oscuro scrittore che è Matt Ruff, sempre a cavallo tra serio e faceto, con “Le False Verità”, libro che ad oggi non mi è stato ancora possibile recensire per la sua ormai difficile, e forse per questo significativa..., reperibilità) come se la sarebbe cavata uno come Philip Roth, uno cioè che più che gli effetti speciali e l'azione predilige la razionalità, il ragionamento e l'introspezione?
Bene, Philip Roth, come era logico aspettarsi, qui non se la cava per nulla male! Pur non snaturandosi con balzi nel vuoto e sfavillanti sparatorie infatti riesce a creare una realtà del tutto opposta a quella raccontataci dai libri di storia, una realtà che malgrado l'elemento assurdo gli concede la possibilità, forse ancora più che in altre sue opere, di sondare la profondità dell'animo umano, delle sue pulsioni, dei suoi istinti e soprattutto delle sue contraddizioni.
La storia narrata nel “Complotto” si rifà anche qui alla seconda guerra mondiale, ma non viene affrontata dal punto di vista dei prodromi come in Dick, ma da quanto accadde, o meglio sarebbe potuto accadere, subito prima in America; sfruttando infatti il reale vociferare che all'epoca si faceva di Lindberg, l'asso dell'aviazione, e della sua vicinanza agli ambienti filo nazisti, Roth ci presenta un America alla rovescia, un America sull'orlo di una seconda guerra civile, dove l'odio razziale grazie al presidente neoeletto si trasforma in odio anti semitico e l'unione dell'opinione pubblica invece che condannare le gesta del gerarca nazista d’oltre oceano quasi le approva, e se non la approva almeno le giustifica come estrema conseguenza di una situazione ormai giudicata insostenibile, facendoci insomma vivere (o ri-vivere per i più longevi) più che l’orrore che si era consumato in quegli anni in Europa, la tensione e la paura di un qualcosa che non era ancora accaduto ma che tutti sapevano che era li li per succedere e al quale sapevano di non potersi opporre, un orrore la cui unica soluzione insomma era o la fuga o la morte.
Ma davvero in Europa non potevano, davvero non c’era nulla che potessero fare per evitare lo sterminio di milioni di ebrei? E in America? Persino gli americani, gli americani di Roth, saranno impotenti di fronte a questa strage che si sta per compiere, e per giunta, questa volta, sul proprio suolo?
No, stavolta no, o non è detto, non è così necessariamente scontato, poiché se una cosa succede in un luogo, con un popolo e una cultura, non è automatico che accada in ogni luogo e con ogni cultura e l'Europa è l'europa, sembra sottolineare l'autore, ma l'America... è l’America! E la testardaggine yankee, che sopperisce talvolta alla faciloneria, il civile senso comune del bene del patriota che ogni tanto fa da scudo e talvolta da sprone all'ingenuità, potrebbero persino essere sufficienti a non far degenerare una situazione ormai già più che drammatica. Perché infatti arrendersi all'inevitabile, perché darla per vinta a qualcuno che non la pensa come noi, e sul “nostro” suolo? Certo sarà dura, sarà difficile, ma che fine han fatto lo spirito di sacrifico, l'eroismo, l'aspirazione al bene dell’ onesto cittadino made in USA?! E dunque secondo Roth per quanto, la stupidità, l’ignoranza e il terrore in cui sta per sprofondare l'Europa è di facile trasmissibilità anche oltre oceano non è detto che debba finire per forza così anche in patria, non fin tanto che esisteranno almeno brave anime pronte a combattere per i propri valori, anime di gente qualunque, di gente diversa, culturalmente e ideologicamente, ma che da sempre ha incarnato la forza di un popolo che malgrado le proprie umili origini si è ritrovato su un territorio comune, un territorio che è stato sì di conquista, che è stato sì ignorante e violento, ma che da sempre è stato anche un territorio di libertà e un territorio di coraggiosi,” the land of the free, the home of the brave!”
Vero, forse questa è un interpretazione un tantino retorica della realtà di Roth, ma come non rimanere colpiti dalla tenacia di quella famiglia ebrea attraverso la quale si vive tutta la vicenda, e come non rimanere sorpresi e per certi aspetti rispettosamente intimoriti da quel bambino, il protagonista, la voce narrante, attraverso i cui occhi, prima ingenui e poi fin troppo consapevoli, si vive il disagio, la paura, l'odio e in fine, come diretto insegnamento di suo padre (a suo modo padre della patria), il coraggio, l'abnegazione e la forza di volontà?
E l'ultima parte del libro, quella forse più interessante, quella dove vengono riportati cronologicamente i fatti come sono invece realmente accaduti suonano proprio come un monito, come a dire: attenzione poiché la follia umana non conosce davvero confini e basta un nonnulla perché un idea, per quanto stupida, per quanto assurda, possa trasformarsi in tragedia, basta di fatto che “gli altri”, tutti gli altri, non ci facciano caso, basta di fatto “lasciare che sia”; ma ancora attenzione però perché qui non è accaduto, qui non è successo, qui, da noi, la razionalità e il bene (come sempre...) hanno trionfato, perché ciò avvenga però non e semplice, occorre crederci veramente, occorre combattere sempre per quegli ideali in cui si crede e assolutamente, ma proprio assolutamente, non arrendersi mai!
E questo insegnamento, l’insegnamento finale del libro, se in tempi di guerra si focalizza su chi fa rispettare i diritti degli oppressi e trionfare il bene, in tempi relativamente pacifici, come quelli di quando è stato scritto il romanzo, si estende a tutta la popolazione che suole, e vuole, definirsi civile ed evoluta, e non tanto per evitare che fatti simili si possano ripetere (gli inizialmente giusti ma ormai poco più che retorici “Mai più” sono stati talmente tante volte ripetuti da aver purtroppo perso quasi tutto della loro iniziale genuina forza), ma per far capire che ognuno, nel suo piccolo, conta, è importante, e da solo, o, meglio, con altri, può avere la forza di cambiare la propria vita e quella di molti suoi simili. Basta appunto crederci, combattere e non lasciarsi “fannullonescamente”(e, da studenti a politici, e talvolta persino disoccupati!, quanti fannulloni oggi giorno si trovano in ogni ambito e società...) trasportare dalla corrente.
Dunque, in sostanza, come giudicare, o anche solo definire, un libro che partendo da un falso storico, attraverso un ragionamento per assurdo, e una dichiarazione d’amore nei confronti della sua patria, riesce a raccontare lo spirito di un popolo e, forse utopisticamente, ma pur sempre in maniera pura e cristallina, a insegnarci come dovremmo, e forse potremmo, vivere? Un libro insomma che partendo dal singolare raggiunge l’universale trascendendo tempo e luogo?
Bene, a mio modesto parere (scusate è tutta la vita che sogno di dirlo!) solo in un modo: trattandolo con il riguardo con cui si trattano alcune delle più grandi opere di ogni epoca e talvolta anche gli scrittori che le hanno scritte; se Roth infatti forse è ancora troppo presto per paragonarlo ai grandi, anzi agli immensi, del passato per una fondamentale mancanza (nostra) di prospettiva storica, almeno questo suo romanzo, Il complotto contro l’America, non lo si può definire in altro modo che un’opera immortale.
Peccato che lo stile iniziale sia vagamente piatto, ma chi ha mai detto che gli immortali non abbiano difetti? Highlander insegna...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Libri di storia, altri romanzi di Roth e dei più grandi di ogni epoca
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    18 Marzo, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Pensarci e ripensarci

Vi racconterò un aneddoto, anzi più che un aneddoto una breve storia, e scusatemi se inizio una recensione in maniera così bizzarra e personale ma ho come la sensazione che questo sia il modo migliore, se non l'unico, che mi è concesso per spiegarvi cosa significa veramente leggere questo libro. Dunque ecco la storia: ho un buon amico d'infanzia, ormai ci conosciamo da più di venticinque anni, che condivide la mia stessa passione per i libri e spesso ci ritroviamo davanti a una birra, un caffe o, grazie ai mezzi di comunicazione che il web 2.0 da qualche anno ha messo adisposizione, davanti a uno schermo piatto e una tatiera inesistente, a discutere delle nostre ultime letture, di quelle che ci sono piaciute di più e quali di meno, insomma a scambiarci i nostri rispettivi punti di vista e opinioni sul panorama letterario attuale e non. Questo amico è una persona senza dubbio intelligente, equilibrata e divertente (è lui tanto per darvi un'idea che mi ha convinto a leggere alcuni grandi contemporanei come Roth o Bellow) tuttavia, pur avendo tutte queste apprezzabili qualità, agli occhi di un cinico miscredente quale sono io, ha un odioso difetto: è una persona che vuole a tutti costi credere nei sogni. E badate bene non ho detto "che crede nei sogni" ma che vuole a tutti i costi crederci, e la differenza secondo me è fondamentale poichè uno che ci crede e basta, un sognatore, non ha altra scelta se non quella di essere così com'è; noi cinici lo vedremo sempre come un romantico naive immancabilmente destinato alla delusione, ma lo capiremo e lo apprezzeremo per quel suo idealismo sconfinato e un po' adolescenziale che almeno una volta nell'arco della nostra vita, per anche forse solo una singola cosa, anche noi abbiamo provato, non so l' amore, l'eroismo, la giustizia, o da sano maschietto quale sono mi viene in mente la squadra del cuore, il supererore i cui fumetti leggevamo da piccoli o l'invincibile mito del cinema d'azione, il Chuck Norris o lo Schwarzenegger che masticava proiettili a colazione... Una persona così dunque non ha scelta, crede nei sogni punto e al limite noi possiamo guardarla sorridendo bonariamente sapendo che si sbaglia ma in fondo, sotto sotto, sperando che non si sbagli più di tanto; ma il mio amico no, lui non è di questi, è uno che invece VUOLE credere nei sogni, e fa di tutto per convincersi che ci crede. E se permettete che divaghi ancora per qualche riga, a mio parere la differenza sta proprio tutta qui, in quel "Vuole", ovvero lui sa che le cose di cui si convince di credere non sono quasi mai vere o almeno possibili in un mondo reale (il male assoluto, il bene assoluto, la perfezione, sempre assoluta) eppure è come se non volesse ammetterlo, o per dirla a suo modo "non volesse arrendersi all'imperfezione della vita". E questo agli occhi del cinicio è un qualcosa di quanto mai fastidioso e insopportabile: lui a differenza del sognatore ha una scelta, sa com'è la realtà eppure vuol continuare ad ingannarsi, perchè?! Capisco che è più bello vivere in un mondo fittizio dove tutto è certo, sicuro, a suo modo tranquillo, ma, e Matrix insegna, chi preferirebbe l'irreale al reale?
Ma lui no, imperterrito va per la sua variopinta e soffice strada, senza prestar ascolto, e così ogni volta che nelle nostre conversazioni se ne veniva fuori il nome di David Foster Wallace, lui, storcendo il naso, diceva cose del tipo: bah, sì ho guardato qualche suo libro, è sicuramente bravo ma non lo leggo, non mi interessa, non fa per me. Ed era naturale che dicesse così, poichè con la sua intelligenza e la sua esperienza (ho già menzionato che è in grado di leggersi un paio di libri da seicento pagine in meno di una settimana? E lavora! Ha una vita normale!) gli era bastato sfogliare qualche pagina di quei libri per rendersi conto che D.F.W. è il più grande distruttore di sogni che la letteratura moderna abbia mai partorito. Dunque lui, il finto sognatore, diceva cose del tipo, "no, no, son sicuro che non mi piacerebbe ecc. Ecc.." E così è andato avanti per anni, finchè vuoi per la mia costante e strenua opera di convincimento, vuoi per una suo raro momento di illuminazione, o di normalità, si è deciso a prendere in mano Una cosa divertente che non farò mai più...
E il miracolo s'è avverato: ha cominciato a leggere tutti i suoi libri e da allora non ho mai sentito qualcuno parlare meglio di un autore che in realtà uno come lui non può far altro che detestare! Già, perchè in realtà ancora adesso non gli piace, Wallace va contro a tutto ciò in cui lui crede, ah no scusate vuole credere, eppure al contempo, con una di quelle stupende contraddizioni tipiche dell'essere umano che solo Dostoevskj (e forse appunto D.F.W.) hanno saputo rendere alla perfezione, pur odiandolo non può far a meno che apprezzarlo, stimarlo e, con un sorriso cattivo e disncatato, che io trovo estremamente divertente e poeticamente giusto, elogiarlo.
Ecco questo è quel che significa leggere Una cosa divertente che non faro mai più: significa ripensarci, significa ricredersi, significa dire addio alle proprie certezze e lasciar che il proprio personale miraggio di perfezione venga dolcemente frantumato. E scusate, ma questa non è una cosa che vi può capitare tutti i giorni, specie con un libro così breve. Poiche “Una cosa divertente…” è sì un breve libretto, simpatico, diveretente, particolare, e che qualche incauto potrebbe persino definire innocuo od eccessivamente manieristico, ma è anche un libro che a ben vedere con il suo acume, con il suo stile ragionato ed incalzante con il suo sferzante occhio critico e il fascino mordente di un'intelligenza fuori dalle righe in poche pagine racchiude in se tutto il pensiero di Wallace, (attenzione il viaggio in crociera di cui tratta il libro non è solo il frutto dell'onestà intellettuale di un autore che non si vuole arrendere alle convenzioni, ma è anche un pretesto per evidenziare l'ipocrisia, e con essa tutti i problemi a questa connessi, della società in cui viviamo) e il pensiero di Wallace se si è obbiettivi ed equilibrati, pur non necessariamente in accordo col proprio, non si potrà fare a meno di ammettere che sia uno dei più brillanti, profondi e affascinanti degli ultimi anni , e che apparteneva a uno degli scrittori, se non probailmete lo scrittore, migliore della sua generazione.
Neanch'io ammetto, sono, e dopo tutto questo lirismo vi parrà strano, sempre stato un suo grande ammiratore, o almeno non dei suoi due (aihnoi) unici romanzi che a mio giudizio erano o troppo ampollosi, o inconcludenti e surreali, (i suoi seguaci non me ne vogliano ma La scopa del sistema l'ho trovato a differenza di molti, specie del critico che l'ha esaminato, o sarebbe meglio dire sezionato in lungo e in largo, talmente insulso che è stato l'unico libro di cui non sia mai riuscito a scrivere una recensione... e x il semplice fatto che non mi è mai venuto in mente nulla da dire!) neanch'io dunque l'ho mai veramente apprezzato, ma con questo, forse perchè trattava di un argomento oggettivo, reale e comune, come appunto può essere un viaggio in crociera, forse perchè qui usava molto di più l'ironia e l'acume rispetto al drammatico potere delle immagini che era solito evocare in altri lavori, o forse perchè semplicemente non avevo mai capito niente, mi sono dovuto anch'io ricredere. Qui Wallace da veramente il meglio di se, qui Wallace ha veramente creato un libro che con profondità e semplicità parla a tutti noi nel profondo delle nostre coscienze, qui Wallace è veramente il miglior scrittore degli ultimi vent'anni.
Ecco, ribadisco, questo significa leggere Una cosa divertente che non farò mai più: significa sorridere, pensare, capire, lasciarsi distruggere ed infine ricredersi e tuttosommato consolarsi, poichè se la perfezione non esiste proprio... in fondo neppure noi siamo tanto male!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Wallace, Franzen, Moody, forse Ruff e molte brochure di crociere e altri "perfetti" viaggi di divertimento organizzato.
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    07 Marzo, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Intelletto a buon mercato

Intime riflessioni, vivide ancorché fugaci sensazioni e uno stile pulito ed accattivante fanno di questo semi-esordio letterario più che un romanzo impegnato un elegante pamphlet di intellettualismo contemporaneo. Manca infatti qui una vera e propria storia dalla trama definita e sono scarsi se non del tutto assenti quegli elementi che fanno solitamente di un' opera un lavoro omogeneo e completo, ovvero la linearità cronologica e quel tipico intrecciarsi delle storie dei personaggi secondari che contribuisce a creare un quadro organico d’insieme. Ciononostante, l'abile e fluente penna di Teju Cole sembra riuscire a regalarci attimi di vero piacere razionale, e non tanto per gli argomenti trattati, ad onor del vero vagamente ridondanti (sono i temi sociali più dibattuti in questi anni e l’autore non li affronta con sguardo personale e neppure particolarmente innovativo), ma per l’apparente qualità, l’apparente ricercatezza e, qui è giusto sottolinearlo, la naturale scorrevolezza, con cui riesce ad inserirli nel tessuto narrativo di questo lungo (eppur breve, breve quanto un ricordo) excursus sulla vita di un uomo.
Sì, a ben riflettere è sicuramente in questa, nell’elegante fluidità della narrazione, che risiede la forza del romanzo, una fluidità che Cole riesce a trasmettere al protagonista stesso e per riflesso all’intera sua vicenda. Ma attenzione è la fluidità ad essere elegante, non la vicenda e tantomeno il protagonista. Ma su questo ci torneremo dopo poiché per capire le ragioni di quest’ apparente contrasto è necessario concentrarsi prima proprio sulla figura del protagonista, figura molto forte e centrale (molto più che in altra narrativa di genere) nell’evoluzione del pensiero dell’autore.
Il protagonista, l’uomo creato da Cole, è un americano senza nazione (metà africano e metà tedesco) dalla giovinezza stentata e burrascosa che grazie alle proprie forze riesce a crearsi un brillante avvenire. Egli non solo è la perfetta incarnazione dell'ideale di self - made man, ma anche, per il suo passato, l’archetipo del disagio sociale. È sì, infatti, ora un uomo equilibrato e di successo ma è anche un uomo che in realtà cela agli altri, e soprattutto alla sua coscienza, diversi scheletri nell’armadio, scheletri che non gli permettono mai di sentirsi a proprio agio, neppure tra coloro che condividono le sue stesse fattezze (connotati, corporatura, e non per ultimo colore della pelle) e neppure tra coloro che condividono la sua stessa condizione (salute, occupazione e, non per ultima, posizione sociale), un uomo insomma, ci fa capire Cole, che, malgrado l'intelligenza, le buone maniere e la cultura, non riuscirà mai ad integrarsi in una società, vuoi americana, vuoi europea, vuoi africana, sempre endemicamente chiusa nei confronti della diversità, e per quella sua (che poi è anche la nostra...) stessa chiusura sarà, sempre pronta a giudicarlo dalle apparenze; e dunque un uomo che come sola risposta alle sue tribolazioni avrà esclusivamente la fuga: la fuga dalla madre patria da bambino, la fuga dalla propria famiglia da adolescente e la fuga in Belgio, anche solo per una vacanza o per riallacciare un rapporto, da adulto. Particolarmente brillanti e degni di nota durante il viaggio europeo sono i passaggi che vogliono “il nostro” (uomo comunque cresciuto con valori occidentali) scontrarsi dialetticamente in territorio neutro (appunto Bruxelles) con un suo pari, educato, colto e per nulla estremista, cresciuto in un ambiente mussulmano. E addirittura sorprendenti, considerato il tenore del libro (filo buonista –perbenista - progressista) le conclusioni che l'autore ne trae. Ma non divaghiamo troppo. Dunque il viaggio, la fuga. Diceva il saggio (e nella fattispecie forse si trattava di Orazio o forse di Catullo o forse di qualcun altro ancora, certamente comunque qualcuno più saggio di colui che scrive e che riporta delle citazioni senza documentarsi a dovere…) diceva il saggio, che colui che continua a cercare la felicità nel continuo cambiamento è destinato a condurre una vita infelice, poiché prima di cercarla altrove dovrebbe cercarla in se stesso. E mai “citazione” fu più appropriata poiché l’infelicità di fondo del personaggio di Cole, è sì legata all’impossibilità di integrarsi nel paese dove di volta in volta vive, ma non si tratta di quell’ emarginazione populista e talvolta anche “auto - compianta” contro cui spesso si scaglia l’opinione pubblica (immemore che è proprio lei il più delle volte a crearla), no, è una emarginazione individuale, esclusivamente personale, è un intimo disagio nei confronti di se stessi, un disagio insomma contro il quale, proprio come diceva Catullo (o va be Orazio) ben poco si può fare se non si viene prima a patti con quel che si è. Tuttavia il protagonista non ci riesce e la sua sofferenza diventa il motore principale della narrazione tanto (e qui risiede un’altra delle poche altre peculiarità del romanzo), che grazie a questa, e al suo potere appunto emarginante, si crea tra le pagine come una bolla, una bolla di vetro infrangibile e di intima solitudine dalla quale il protagonista (e noi con lui) può osservare la vita in tutta la sua variegata bellezza e le sua, talvolta palese, assurdità; una bolla insomma che lo (e ci) nasconde dal mondo esterno e che lo (e ci) protegge dal rumore, il caos e la sofferenza che dovrà incontrare lungo il cammino della vita, garantendogli, forse, quel famoso “centro tranquillo”, quel silenzioso bilanciamento interiore, tanto caro anche agli orientalisti new-age, e che solo attraverso la sua scoperta permette di creare una base da cui attingere attraverso intelligenti riflessioni per farsi forza lungo... Be, come si diceva, appunto... il cammino della vita.
Uhm... Sofferenze che portano alla scoperta della vera felicità tramite la scoperta del proprio bilanciamento interiore, dov’è che si è già sentita questa cosa?
Ah sì, ovunque!
Ahi ahi, che dietro la facciata di sentito ed originale intellettualismo di Città Aperta si incomincino ad intravedere chiazze di volgare, modaiola, banalità? No, ma non lasciamoci fuorviare dalle piccolezze, si tratta sempre di un libro elegante, piacevolmente ricercato, e appunto intellettualmente profondo, giusto no?
No.
Poiché se in questo sofferto e intellettualoide “streben” del protagonista (e dai concedete al sottoscritto di utilizzare l’unica parola di tedesco che sa!) risiede forse il pregio dell’opera, qui, rannicchiato tra le auliche righe, sicuramente vi risiede anche il suo peggior difetto. E’ opportuno però spiegarsi meglio e per farlo è necessaria (per vostra fortuna!) un’altra breve digressione.
Città Aperta talvolta viene definito “narrativa da viaggio”, altre “narrativa di viaggio”, e forse non sono sbagliate ne l’una ne l’altra definizione, ma non è per il passeggiare Newyorkese, e fortemente Alleniano che l’autore fa compiere con studiata periodicità al suo uomo, che il romanzo si può ascrivere a quelle tipologie letterarie, è invece per quel sopracitato (a lungo sopracitato!) intimo viaggio del medesimo uomo dentro la propria coscienza alla scoperta di un, se non nuovo, almeno dimenticato, o sopito, se stesso. Ed è questo un viaggio fondamentale di un certo tipo di narrativa “di classe”; tuttavia proprio perché fondamentale, e dunque fortemente sfruttato, oggi giorno deve essere necessariamente affrontato in maniera innovativa e realmente anticonvenzionale, se invece, come in Città Aperta, al contrario è una semplice rivisitazione dei cliché più comuni, e anche dei luoghi più comuni, la ricercata introspettività non diventa altro che un canonico elenco di banalità, e il romanzo non diventa altro che un accumularsi di concetti ed opinioni già ascoltate, noiose e fastidiose; soprattutto fastidiose, fastidiose esattamente tanto quanto quella ricercatezza che da principio può far pensare di trovarsi finalmente di fronte ad un’ opera dotta, equilibrata e, perché no?, intelligente, ma che alla fin fine, deludendo, fa capire che non rappresenta nient’altro che un mero esercizio stile. E questo purtroppo e proprio il caso di Città Aperta, e non c’è nulla di più antipatico in letteratura, nulla, neppure la banalità da supermercato!, che la presunzione di una mente che si crede più fine delle altre e di una penna che si crede più scorrevole. Qui poi si ha addirittura una trasmigrazione della supponenza: è come se l’autore stesso, fin troppo calato nei panni del protagonista, volesse spiegarci che malgrado le apparenze, malgrado le sue umili origini e (diciamolo fino in infondo, poiché che lo si voglia o no il pregiudizio, soprattutto se nei confronti di se stessi, è lento a morire) il colore della pelle, lui è un uomo colto, che ha pensieri profondi e riesce a esternarli articolando frasi complesse…
Ma dove sta la profondità nella banalità? Dove sta la cultura nella ripetitività? Dove sta quel benedetto Io con la I maiuscola, tanto cercato da Cole, nella mondanità di parole ormai sulla bocca di tutti?
E non sono neanche sbagliati poi i suoi ragionamenti, non sono sbagliati i suoi pensieri o le sue sensazioni ma… sarebbe bastata una battuta, sarebbe bastato un aneddoto, una scenetta divertente per (rubando un termine ormai altrettanto modaiolo) sgrassare la narrazione; ma lui no, prosegue, intimo, profondo, delicato, fintamente perspicace e serio come la morte su temi che, boh va be, se ne sente parlare ogni giorno e una voce in più o una in meno…
E il precedente riferimento a Woody Allen qui non è casuale: questo è davvero un racconto di stampo fortemente Alleniano, ma rispetto alle opere dell’ autore/attore/regista ha una grande differenza, di fatto gli manca una cosa, una cosa che a giudizio di chi scrive è fondamentale! Cos’è? Be ormai si sarà capito: l’ ironia. In Città Aperta c’è una totale, endemica, assenza di ironia, e l’ironia in un libro del genere è essenziale per sdrammatizzare, e sdrammatizzare, sempre in un libro del genere, è essenziale, per mantenere uno sguardo lucido e obbiettivo sul mondo, la società e la vita. E poi, d’accordo che l’autore vuole dimostrare quanto è bravo ed intelligente, ma, pensateci bene, qual è quella cosa che più di ogni altra definisce e caratterizza l’intelligenza di un’ uomo evoluto? Quella cosa che contraddistingue la finezza di una mente e che molte volte ci fa apprezzare fin da subito una persona, per quanto magari non la si conosca ancora? Esatto, è l’ironia, la capacità ovvero di elaborare uno stimolo esterno, potenzialmente negativo, e trasformarlo in qualcosa di inaspettatamente diverso, in qualcosa di positivo e dunque soprassedere alla sventura, esorcizzarla, anzi infischiarsene, e in fine riderci sopra. Le altre specie (e alcuni esseri umani particolarmente gretti) non ce l’hanno questa capacità, loro rispondono esclusivamente agli istinti: hanno paura scappano, hanno rabbia attaccano, gli fanno un torto reagiscono; l’uomo moderno, il sapiens sapiens, specie se come quello di Cole è un intellettuale evoluto, dovrebbe essere capace di mitigare il proprio istinto e farsi ogni tanto una sana risata, o almeno, appunto, di stemperare la sventura con il sarcasmo, e invece no. Ciò che ne viene fuori è un individuo, fine, delicato, profondo e tremendamente pesante.
Pensateci ancora un attimo, non vi piace Allen? Lo considerate, specialmente il primo, troppo fanfarone? Ecco un altro esempio: cos’è che ancor’ oggi ci permette di apprezzare le opere (sì opere, poiché quando l’arte è vera trascende il genere) di Chaplin? L’ormai datato humor slapstick? L’ormai datatissimo “prodigio pirotecnico” di luci ed effetti che gli permette di vivere in una capanna in bilico su un precipizio o di trovarsi, per esempio, in due posti differenti prima nei panni di un uomo buono e qualunque, e poi addirittura in quelli del più cattivo della storia, Adolf Hitler? Certo che no, quello che ci permette di apprezzarli e, malgrado i decenni ormai trascorsi, renderli ancora attuali è l’ironia, la delicatezza e la lucidità con cui vengono trattati i temi più importanti della storia dell’uomo, temi di una tale gravità che senza quella scintilla che fa inaspettatamente nascere il sorriso nella tragedia, sarebbero in grado di schiacciarci solo col loro stesso peso. E non si parla di superficialità qui (come qualcuno potrebbe ribattere) ma piuttosto, di una sorta di imperitura, e forse per questo eroica, convinzione che l’uomo, il suo genere, malgrado riesca talvolta raggiungere delle bassezze indicibili, è tuttavia superiore: superiore alle sciagure, al destino, al tempo e perfino a se stesso! Quale dunque metodo migliore per dimostrare, per ribadire, la sua indomita natura se non riderci sopra, se non, delicatamente, umilmente, inavvertitamente, ogni tanto, riderci sopra?
Ma Teju Cole no: il suo protagonista è intelligente, profondo, squisitamente colto e… non accenna mai neanche a un mezzo sorriso, è totalmente pieno di sé, letteralmente perso nelle peregrinazioni del suo io cosciente, come uno specchio del suo stesso intelletto, nel suo struggle interiore, nel suo much ado about nothing! - Ok hai avuto un passato difficile, molto difficile? Ma guarda dove sei ora, - verrebbe da dirgli - guarda che cos’hai! Dovresti essere doppiamente felice visto che sei riuscito ad ottenere tutto da solo! - E invece no, lui non sorride mai, nessun personaggio sorride mai, l’autore non sorride mai, il libro non sorride mai, e il protagonista, così come la narrazione, così come l’autore, e così come il libro, alla lunga, diventano antipatici, tremendamente antipatici. Eddai ridi che ti fa bene, la vita è breve! Eddai Teju abbiamo capito il tuo intento, ma non sai che un sorriso tra le lacrime talvolta è più drammatico del pianto? Talvolta è anche più eroico, talvolta è persino più intelligente!
Attenzione non sto mettendo in dubbio che Teju Cole sia una persona dalla squisita intelligenza e un abile scrittore ma in questo suo semi esordio a tratti sembra talmente preso dalla circonvoluta complessità delle sue elucubrazioni che lui stesso pare dimenticarsene, e dimenticandosene, ogni riflessione, per quanto profonda e corretta, diventa pesante, ogni frase, parola e locuzione, per quanto appropriata, diventa un’auto compiaciuta dimostrazione di bravura. Bravura, ok indiscutibile, ma, sempre come si diceva, mal riposta e che alla fin fine trasforma quella che potrebbe essere un’opera originale ed illuminante nella solita utopica esternazione del disagio di un uomo medio nei confronti della società, nei problemi che il mondo sembra riversare su di lui e nella sua lotta interiore per non soccombere, in una vicenda insomma come tante, che non aggiunge nulla più a molte altre, e fa di un possibile buon libro un libro come tanti, un libro che, al pari di quella voce di cui si parlava sopra, tratta di cose di cui se ne sente parlare ogni giorno, e un libro più o un libro meno…
Teju, un consiglio spassionato infine, (fortuna che non leggerà mai questa recensione!), vuoi parlare veramente di questi temi in maniera innovativa, originale e personale? Leggiti la Macchia Umana di Roth!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    15 Novembre, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Essere o non essere? Chiese il Bianconiglio

Il metodico divagare di un sublime pazzo (o di un pazzo sublime, che dir si voglia) che rimbalza qua e la come una pallina, appunto impazzita, tra limiti ed estremi della natura umana, tra emozione e logica, azione e pensiero, istinto e ragione, finché ogni singola variabile che caratterizza la vicenda, (per i più curiosi trattasi di: caso e predeterminazione, incertezza e convinzione, perfino scienza e spiritualità), non si congiungono nel segno della follia, di un' unica gigantesca, rutilante, comica eppure epica epopea dell'essere vivente, di cosa questi sia in grado di fare e di cosa proprio, neanche in cent'anni, neanche con centomila dei suoi simili, riuscirà mai a fare, ovvero capire.
L'uomo del romanzo, l'essere umano, gli esseri umani (e noi con loro), infatti sono Faustianamente capaci di creare meccanismi perfetti, sistemi che contemplino ogni casistica possibile, eventuale ed inevitabile del loro agire eppure non riusciranno mai ad intravvederne il significato, quel romantico Byroniano e appunto anche Goethiano, fuoco che li spinge nella loro vana ricerca a commettere al contempo atti miserabili e grandiosi. Ma esiste veramente poi un significato? Esiste veramente questo universale perché o è soltanto lo scherzo di una radiazione luminosa, il riflesso delle nostre ombre, o meglio di un arcobaleno? Forse per capirlo, ci dice Pynchon, si dovrebbe intanto sapere quali sono i limiti dell'arcobaleno, dove inizia e dove finisce e posti questi trovarne il centro, il luogo dove è più visibile, definito, concreto. Ma è davvero così reale d’altro canto quell'arcobaleno? Ed è davvero lassù in cielo? Questo Pynchon invece non lo sa e fa bene a non saperlo! La scienza infatti ci dice che un arcobaleno non è nient'altro che un effetto ottico dovuto alla diffrazione della radiazione solare che colpisce le gocce d'acqua nebulizzate nell'aria dopo il temporale, il cuore però ci dice di correre verso di esso, abbracciarlo, afferrarlo e seguirlo fino a raggiungere la pentola d'oro, fino a trovarne il significato... Chi ha ragione? A quale delle due dare ascolto, la testa o il cuore, il pensiero razionale o il sentimento? Forse entrambi, infondo siamo sempre noi a crearli, a provarli a cercarli. Ma allora ancora una volta come venire a capo di questo dualismo, come comprendere, come sperare di capire senza renderci conto, senza ammettere una volta per tutte che anche noi non siamo ne più ne meno che dei pazzi, dei folli e degli illusi?
Può un razzo colpire, prima che lo si veda arrivare? Assurdo! Può esplodere prima che lo si senta esplodere? Grottesco! Ma se può come lo si crea, come lo si trova, come lo si distrugge, ma soprattutto... perché? Oh guarda, è forse follia porsi una simile domanda? Solo un folle comandato da altri folli potrebbe infatti inventarlo e solo un folle comandato da altrettanto simili folli potrebbe cercarlo, e forse anche solo un folle potrebbe scrivercene su, raccontarcelo e, raccontandocelo, raccontare a noi stessi chi in realtà siamo.
- E chi siamo?
- Ma come non l'avete ancora capito? I pazzi, i folli, gli illusi che agiamo di pari passo coi protagonisti dell' Arcobaleno in quel teatrino della follia che è la vita, convinti, e irrimediabilmente delusi, che alla fine ci sia un perché!
Ma il perché non c'è - scordatevelo! - ribadisce Pynchon, - dimenticatevene, altrimenti vi perderete nella sua ricerca e dimenticherete di sentire, provare e infine anche vivere! - ...E scordatevi anche, leggendo l'A. (e questo non lo dice l'autore, ma il sottoscritto), di capire, scordatevi di comprendere, poiché al pari della vicenda umana nell' A. ciò che conta qui non è capire, ciò che conta è la sensazione, le sensazioni, e la strenua ricerca che l'autore/protagonista (nella pazzia è difficile disgiungerli) si pone come obiettivo.
E dire che una storia c'è, ed è anche relativamente semplice, o quasi: gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, un gruppo crea un arma micidiale, un altro gruppo tenta di sottrargliela per vincere la guerra, un terzo gruppo, di cui fa parte il nostro protagonista, tenta di raggiungerla prima che il primo la ultimi e il secondo la rubi, e... Ma ancora tutto ciò non conta nulla, ciò che conta è il pensiero, la percezione e ancora una volta le sensazioni singole, subitanee, semplici, multiple, elaborate, complesse, che si provano leggendo; da queste infatti trae il libro e a queste anche (e qui vi parrà strano) tende: alla loro folle sublimazione nei complotti, nella paura, nei desideri, nella ricerca, nella noia e nella paranoia, sia dei singoli e che dei gruppi di entrambe le parti, sia che siano questi buoni o cattivi, eroi o antagonisti, protagonisti o comparse, scrittore o lettori. Da queste il libro trae e tende e se non fosse ancora chiaro anche dal caos: dal totale dissoluto caos di nazioni che stanno vincendo e altre che stanno perdendo e delle anime dei singoli lasciate a loro stesse, anime che cercano una ragione dove non c'è altro che torto, una verità dove non ci sono altro che menzogne, un punto di vista unico, totale, assoluto, dove invece non c'è proprio nulla da capire, da vedere e neppure da temere...
- Ma come, davvero non c'è nulla? E le bombe, i nuovi razzi, creati da gli inglesi o dai tedeschi che si sentono arrivare dopo che sono già caduti e che quindi è impossibile sfuggirgli se sei... se sei, Dio non voglia!, il bersaglio designato? E poi quelle sussurrate cospirazioni internazionali volte a trovare l'unica persona, per metà medium, per metà scienziato, per metà filosofo per metà ingegnerie, per metà soldato, per metà ragazzo normale, quell'unico in grado di intuire/capire/prevedere/sentire dove cadono o cadranno? Neanche queste son da temere? E un essere così dotato (ammetterete che tutte quelle metà non sono poche!) ammesso che esista, non è forse anche lui da temere?! Non potrebbe forse essere lui stesso in realtà quell' arma definitiva, (più definitiva ancora più delle bombe), così ricercata dai tedeschi e dagli inglesi? Così perseguita da ambo le parti da non guardare in faccia nessuno e coinvolgere strada facendo (anche se forse sarebbe meglio dire "gettare nella mischia") psicologi, parapsicologi, ricercatori (che conducono tremendi esperimenti psichiatrici su animali a detta loro del tutto riproducibili sull'uomo), e poi come se non bastasse anche donne e uomini qualunque, amiche, amici, amanti, puttane, puttani, oppure nemici, codardi, vigliacchi, beoni, sadici torturatori, maniaci sessuali, maniaci omicidi, arroganti e timidi, perfidi e discreti, tutte menti comunque in grado di ordire piani di distruzione globale? Chi è quest'essere, e chi sono tutti gli altri e davvero non sono da temere, e se invece lo sono chi deve aver paura di chi? Il protagonista di loro, loro del protagonista? Noi di tutti? E poi e poi e poi... non sono forse da temere neppure quelle canzoncine? Quelle maledette canzoncine che tutti sembrano cantare e nessuno sembra sappiano cosa vogliono dire, quelle canzoncine tanto insulse quanto rivelatrici, propiziatorie, precorritrici al pari di un coro fuori scena di una tragedia shakespeariana che introducono lo spettatore/lettore al dramma che sta per compiersi? Neppure loro? Ma poi temere da chi? Dal/dai protagonista/i o da noi lettori?
- Noi? Noi!?! Possibile che il lettore possa veramente temere? Temere un libro?! Possibile che possa rimanere talmente coinvolto dalla lettura di un romanzo da perdersi tra le righe smarrendo così perfino il suo raziocinio?
Sì è possibile, ed è possibile esattamente nella misura in cui è possibile aver paura di essere talmente bombardati dai pensieri (ormai privi di filtro) di gente altrui da non comprendere più quali sono le nostre priorità e le nostre linee guida, la nostra insomma deontologia di vita. E tutti forse sotto sotto abbiamo paura di una cosa simile poiché è l'equivalente del caos più totale, della pazzia. E ben questo è l'arcobaleno della gravità: un trampolino di lancio per la follia, un altissimo scoglio da cui lanciarsi per precipitare in quella pozza d'acqua stracolma di pensieri contundenti che è la mente di Pynchon, poiché è inutile negarlo, inutile che ci giriamo tanto attorno senza mai dirlo apertamente... Thomas Pynchon è pazzo! È un dannato pazzo furioso a cui non dovrebbe mai essere consentito l'uso di una penna, ma è anche un pazzo dotato di tale genio creativo che non concedergliela sarebbe un crimine contro l'umanità, un crimine contro il buon gusto e un crimine contro la libertà.
- La libertà? E adesso cosa diavolo...
- Sì la libertà, la libertà, proprio quella, anzi la Libertà con la elle maiuscola, perché fondamentalmente è questa che si respira durante tutte le 1000 e più pagine dell'A., è una libertà sotto forma di pulsione, di conquista, di condanna, di punizione, di biasimo, di ricerca, di piacere, di paura (la paura del recluso da troppo tempo a cui viene concessa la possibilità di fuggire) e in fine di respiro, di stile, di pensiero, e... e... Solo Dio sa che altro, ma è questa e solo questa la vera protagonista: la Libertà… forse.
Insomma per concludere, perché ormai urge veramente una conclusione, c' è chi ha definito l' A. un grande romanzo contemporaneo, c'è chi invece l'ha definito un grande romanzo storico e c'è infine chi la definito un romanzo talmente futuristico che noi, gente di oggi, non siamo ancora in grado di capirlo. L' A. non è nessuno di questi, non è niente di tutto ciò: l' Arcobaleno della gravità è semplicemente un romanzo libero. Libero come forse (e attenzione è bene ripeterlo: forse) dovrebbe essere un uomo, come liberò forse dovrebbe essere il suo pensare, il suo sentire, il suo capire.
- Balle, nient'altro che balle di una menta plagiata da una retorica a buon mercato e da un idealismo naive! Dove la mettiamo per esempio l'istruzione, la cultura, il leggere stesso? Se tu non fossi mai stato obbligato a fare nulla probabilmente ora non sapresti neppure leggere, o scrivere o tantomeno ragionare. La cultura, la letteratura, e dunque gli obblighi ci aprono la mente e più una mente è aperta più è libera. E poi senza più neppure una regola, senza neppure più uno schema di pensiero, un codice di condotta, cosa rimarrebbe di noi? Solo follia, la più totale, libera, follia!
- Vero... ma prima di leggere l'Arcobaleno era difficile stabilire un nesso così saldo tra ragione, libertà e follia, ed era difficile anche solo ipotizzare che tutt'e tre assieme potessero essere così affascinanti.
Per concludere, (e giuro che questa volta è per davvero) e forse anche riassumere, è veramente difficile tirare le somme del costante e scriteriato divagare di Pynchon nell' A., poiché è fondamentalmente impossibile giungere a capo di una assurda vicenda che si protrae per più di mille pagine senza un punto fermo, logico e lineare su cui fare affidamento ogni qualvolta ci si smarrisce lungo il cammino; eppure in quel "trambusto di parole" che è il romanzo, tra le pagine, le righe, le parole e persino le virgole si odono echi di una grandezza, di uno stile e di uno genio letterario, oggi giorno impareggiabili, echi che igniscono l'animo umano facendolo librare su sensazioni ed aspirazioni sempre appena al di là del percettibile, echi che rimandano alla nostra natura più intima e a quella più subdola e che contemplano nella loro pungente ironia ogni variabile dell'agire e del sentire umani in quello che è un circolo parodistico ed incommensurabile del vivere o, meglio ancora, dell'essere. Peccato che ancora una volta affossati da una maniacale e follemente prolissa vena letteraria questi siano appunto sempre e soltanto degli echi.
È dunque questo un libro stupendo, meraviglioso, unico, un libro che si potrebbe consigliare a chiunque di leggere più volte nel corso della propria esistenza, ma... a chiunque sia fondamentalmente votato al masochismo intellettuale o per dirla alla Pynchon al sadomasochismo della coscienza.
Solo un grande scrittore aggiungo inoltre (poiché doveroso) in un'unica opera sarebbe in grado narrando di passare di punto in punto, di virgola in virgola da Dickens a Palahniuk (per citarne uno), dalla intima sofferta idealistica introspezione di Dostoevskij alla disincantata eccessiva ironia di Bukowski, solo un pazzo sarebbe in grado di balzare qua e la nella fantasia come il Bianconiglio di Carroll per poi capitombolare e in un punto e virgola rialzarsi nella cruda vivida realtà Hemingwayana, una realtà che se non stai attento non ci mette ne uno ne due a trafiggerti con le sue corna e... poi farti in salmì. Già in salmì, poiché sei sempre in fondo il Bianconiglio, ricordi? E quale miglior fine ti meriti dunque al punto e virgola successivo, stupido eppure eroico di un protagonista/lettore?
Dunque solo un grande scrittore, ma anche solo un pazzo, solo loro due infatti riuscirebbero a creare una struttura letteraria in grado di unire questi grandi della letteratura che si sono rincorsi in cento/duecento anni di storia, e così facendo rinnovare le loro voci, ricordarci il loro insegnamento; solo un pazzo e solo un grande... E Pynchon è appunto un grande pazzo, ma da lui non ci si aspetterebbe altro che questo, non ci si aspetterebbe meno di una incommensurabile, lucida, stordente, bellissima pazzia.

Nota 1: mi scuso con i lettori se hanno trovato questa recensione troppo confusa e disordinata, o se ritengono che abbia divagato troppo senza soffermarmi su dei punti chiave del libro, ma nello scriverla l’intento del sottoscritto, più che di dare un idea definita dell’ A., è stato quello di far capire ciò che dovranno affrontare se mai volessero sobbarcarsi l'impresa di leggere tutto il libro. Senza ovviamente anche solo ipotizzare di riuscire a eguagliare lo stile di Pynchon qui infatti si è voluto ricalcarne (forse copiarne malamente) alcuni tratti salienti, quali appunto il continuo divagare, il costante claustrofobico cerebralismo e le dirompenti stupende esplosioni di folle libertà.
Oppure un'altra giustificazione bizzarra e poco sincera potrebbe essere che è vero il detto che ogni autore che si rispetti, letto un suo libro, ci lascia sempre qualcosa, e qui ahimè è stato il caos e la confusione... speriamo comunque non la follia!
Nota 2: sarebbe stato bello in accordo con quella innumerevolmente sopracitata Libertà non esser costretti a ridurre un simil libro ad un mero numerino da 1 a 5 e renderlo così simile ad altre opere. L’ A. non ha termini di paragone con altre opere recenti, se non forse come si diceva il Faust di Goethe (che appunto però non è certo recente). E sarebbe stato bello non giudicarlo neppure per contenuti, stile ecc. ecc, ma ciò non è possibile, dunque è bene adeguarsi e non sapendo come ridurlo ai minimi termini e poiché a quanto si dice in medio stat virtus, pur non essendo d'accordo, il voto all' A. ne sarà una diretta conseguenza… o adeguamento che dir si voglia.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri lavori di Pynchon e li ha apprezzati. E consigliato ai masochisti in generale.
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    16 Giugno, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Tu, gli altri, e tutto il resto

1984. Il lavoro, l’arrivismo, l’assenteismo, la citta tentacolare che nasconde tra i suoi meandri all’ombra dei grattaceli o sul proscenio della sfavillante 5th avenue ogni tipologia d’essere: dal miliardario al barbone, dall’onesto cittadino al drug dealer, dall’intellettuale yuppie alla modella stupidella; e poi ancora la musica dell’epoca, la mentalità, le feste e i party della popolazione dabbene e la vita notturna al terminare di questi e con essa gli eccessi e la trasgressione, non più fenomeno di massa come il precedente decennio, ma individualizzata, domestica, alla portata del singolo e delle sue risorse economiche, sottoforma di sostanze allucinogene, droghe, psicofarmaci; e la conseguente depressione post effetto ricreativo e il conseguente pentimento del giorno dopo, sotto la sferzante luce del sole che delinea così bene le forme dei grattaceli, netti, definiti, regolari... loro, i grattacieli, poiché tu non lo sei, tu sei solo un essere umano, e come tale non sei d’acciaio, sei debole, sei stressato, e lo stress gioca brutti scherzi: ti fa toppare al lavoro, ti fa dimenticare le persone che hai attorno, chi ancora nonostante tutto cerca di volerti bene, ti fa insomma incasinare una vita e ti fa sentire solo, solo in un mondo dove tutti sembrano cavarsela egregiamente tranne te, trentenne con una carriera in crescita e una vita potenzialmente invidiabile ma che forse perché hai il vizio di pensare troppo, di non accontentarti della normalità, delle apparenze, non riesci a visualizzarla, non riesci a capirla e consumarla... e allora di nuovo la depressione e il male di vivere e il bisogno di dimenticare con l' alcool e le droghe finchè strafatto, rimbambito, sprecato nulla sembra più giusto, nulla sembra più corretto, nulla sembra più normale se non tu e il tuo riflesso nello specchio di un sordido bagno di un bar mentre aspetti con una sgualdrina altrettanto strafatta che “i soldatini boliviani” facciano il loro effetto nel tuo cervello fino all’alba del nuovo risveglio, fino a quando stancamente dovrai riaprire gli occhi un’altra volte e vergognandoti dovrai osservare il sole riflesso sui grattaceli, il sole che si suddivide e moltiplica trasformandosi in mille luci, le mille luci di New york, i mille volti di un mondo che giudica e non si lascia giudicare.
Questo è il romanzo di McInerney, una storia singolare, intensa, introspettiva ma che pure lascia spazio all’ironia, alla leggerezza, al (strano ma vero) ottimismo, poiché è vero che tutta la vicenda è impregnata di una profonda e melanconica depressione ma questo non è l’allucinato viaggio senza speranza di un uomo destinato a fallire, al contrario è la spinta di ribellione ad un mondo, a suo modo brutale, di un giovane che, malgrado ciò che gli accade, o ciò che si fa accadere, continua a vedere la luce infondo al tunnel e che, anche se talvolta sembra sul punto di lasciarsi andare, continua a combattere per quella luce.
Questa dunque la vicenda di Bright Light Big City, una vicenda singolare e totale, che racconta di un uomo, rendendo omaggio, o meglio memoria (poiché se ne parla sia bene sia male) a una società, a un mondo e a un tempo che magari non per fatti, non per accadimenti, ma per idee, passioni, gusti, ha fatto la storia recente del cammino evolutivo dell’uomo sul pianeta Terra: gli anni ’80; e a un luogo, a una città, dove forse più che in ogni altro posto tale cammino in quegli anni si è reso evidente: New York.
Non è infatti questo solo il racconto disincantato delle angosce di un giovane di quegli anni, è il resoconto di una storia che per semplicità e singolarità riesce a rendersi emblematica di un'epoca, di un decennio, di un mondo, in cui la vita dell'uomo comune per la prima volta da molti anni sembra scevra di tensioni e aspetti negativi, dove tutto sembra in crescita, ma che in realtà nasconde tra i riflessi della sua presunta perfezione regioni di profonda, individuale, oscurità.
Tutto va bene, tutto volge al meglio, basta adeguarsi alla corrente... ma se tu non ci riesci, se tu per tua natura, perché sei troppo scaltro per credere nei sogni o troppo rassegnato per non crederci, non ce la fai, allora sei un "diverso", e come tale sei segnato, sei additato, sei respinto, emarginato, e non hai altra scelta se non quella di rifugiarti nell’irrealtà dello sballo del sabato sera, nell’oblio della perdizione da droghe e alcool, un oblio talmente profondo che in esso vi si può trovare perfino gente che ci sguazza dentro divertendosi, senza accorgersi del male che si sta facendo, e gente, come te, che sa perfettamente di farsi del male e continua a farselo consapevolmente come punizione per quello che non è, per quello che non riesce a diventare.
Questo è Le mille luci di New York, una breve occhiata sull’esistenza di un uomo in bilico tra gli abissi dell’eccessivo, finto, vuoto, ingenuo benessere, (come quello della bellissima Amanda, l’ex moglie/modella/trofeo del protagonista) e dell’auto distruttivo, autolesionistico, malessere, di una coscienza e una ragione che malgrado tutto non si vogliono arrendere alla realtà, di una coscienza e di una ragione, al pari di un mondo, costantemente in bilico tra la beata ipocrisia di un presunta perfezione e l’endemica depressione di uno scontato insuccesso.
Ricchezza, sicurezza, certezza, povertà, angoscia, dubbio, trasgressione, colpa, emarginazione, libertà e... tu.
Questa è l’opera prima di McInerney, un’ opera che sarebbe potuta risultare, pesante, noiosa e deprimente, ma che grazie ad uno stile diretto, onesto, disincantato, ironico e persino innovativo (forse è il primo libro ad essere scritto tutto in seconda persona, qui confesso la mia ignoranza), si trasforma in un piccolo capolavoro e in una sorprendente e inaspettata dimostrazione di bravura di un autore, allora esordiente, che è riuscito a creare un romanzo perfettamente bilanciato in ogni sua parte e che in pochissime pagine è riuscito a sondare i più profondi e sopiti istinti dell’uomo, a rielaborarli con ragione e dialettica, e ad elevarli a manifesto di un’ intera epoca e di un intera cultura.
Questo è il lavoro di McInerney, un lavoro perfetto, l’opera prima che ogni scrittore affermato o meno avrebbe voluto scrivere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliata a tutti
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
1.0
Stile 
 
1.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    28 Mag, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Sonnellino pomeridiano

Brevemente, poichè il libro davvero non merita di specarci su molte parole:
Se il titolo rimanda il lettore a scenari esotici ed orientaleggianti il contenuto del romanzo è ciò che di più lontano ci possa essere da quel mondo. Il protagonista non ha nulla a che vedere con un samurai, se non per qualche mal spiegata mossa di judo e l'ambientazione non ha nulla a che fare con antichi campi di battaglia, se non per la collocazione geografica della vicenda: il Giappone.
Posto dunque che il fuorviante e allusivo titolo italiano è furbescamente poco azzeccato, il resto del romanzo purtroppo non è da meno: piatto, banale, furbetto (appunto) e, ancora come il titolo, davvero poco azzeccato. Piatto perché manca di mordente e la sorte del protagonista ti lascia piuttosto indifferente. Banale perché ormai si sono letti troppi romanzi la cui trama è incentrata su un uomo che vorrebbe smettere di fare il suo infamante lavoro ma per amore è richiamato all'azione ancora un' ultima volta (sembra la trama di un film di Steven Seagal). Furbetto perché sembra appunto la trama di un film di Seagal e tutti gli appassionati del genere arti marziali persevereranno nella lettura sperando invano di identificarsi nel protagonista in modo da emularne le gesta nelle loro camerette (è un libro massimo per quindicenni). Poco azzeccato infine perché anche l'ultimo stratagemma dello scrittore, l'immedesimazione, sfuma quando il lettore si rende conto che pur con tutti i suoi adolescenziali sforzi non può immedesimarsi in un simpatico killer internazionale dai tratti somatici asiatici, e dal background culturale multietnico, che è in grado di spezzare colonne vertebrali IN un battito di ciglia e anche CON un battito di ciglia. Ridicolo! Ah, ho menzionato che la sua fidanzata è un killer anche lei? Come si saranno incontrati, sarà stato un colpo di fulmine... o un colpo di pistola?!
- Tesoro, prima di tornare a casa, dopo che hai massacrato quei tre delinquenti internazionali, ricorda di prendere il latte.
- Certo, amore, spero di non fare tardi.
- Guarda, basta che non ti porti il lavoro a casa...
Gesù!
In ultimo, una dovuta (ma non necessariamente voluta) parentesi sullo stile di Barry Eisler: la sua tecnica narrativa di alternare la 1a persona con la 3a da un capitolo all'altro non è una straniante e fresca innovazione propedeuitca allo svolgimento del racconto, o all'introspezione nella psiche del nostro "caro killer", ma un puerile tentativo di sorprendere il lettore, un tentativo che, più di una sprecata abilità narrativa, qui, ha il rancido sentore della confessione di un' incapacità descrittiva, il rancido sentore dell' ammissione di una delle tante lacune di uno scrittore che dovendosi confrontare con un periodare eccessivamente complesso è costretto a cambiare la prospettiva del lettore come meglio riesce, anzi come meglio può....
L'unico aspetto positivo del romanzo è la lineare semplicità di una trama che non fa pensare troppo e a tratti rilassa proprio come un sonnellino pomeridiano. Occhio però che se il sonnellino è troppo lungo ci si risveglia intontiti.
- Ma sì, cosa ti aspettavi? - Si potrebbe in fine obiettare. - Lo sapevi ancora prima di comprarlo: La Furia del Samurai non è ne più ne meno che un libro da ombrellone.
Vero, è "da ombrellone" ... da ombrellone in testa a chi butta via 17.60 € per acquistarlo, come appunto il sottoscritto!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
182
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    08 Mag, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Aberrazioni?

Un giovane professore universitario dal promettente futuro che si rovina non riuscendo arginare l'istinto sessuale e la sua voglia di ribellione, una bella ragazza che rischia di mandare all'aria una carriera da chef per un non esattamente latente lesbismo nei confronti della moglie del proprio capo e il fratello dei due, già perché loro sono fratelli, quello più maturo, quello con la testa sulle spalle, l'uomo di successo che dovrebbe essere d’esempio per gli altri due ma che in realtà, con il suo complesso di inferiorità e la sudditanza psicologica nei confronti della moglie, lotta quotidianamente con il rancore e la depressione fino a sfiorare l'autolesionismo. E sullo sfondo i genitori, artefici e colpevoli del modo d'essere dei tre fratelli, di come affrontano le difficoltà, di come "s'incasinano" la vita: il padre un uomo un tempo tutto d'un pezzo che viveva di lavoro e di principi talmente rigidi da sfiorare l'estremismo ma che ormai l'età, e una malattia incurabile, hanno rabbonito (e forse rinsavito); e la madre, la figura più antipatica (e per questo forse meglio riuscita), colei ovvero che, costretta a vedersela con le tare del marito, diventa una rancorosa repressa e depressa (proprio come il fratello più grande dei tre) che fa ricadere il proprio mortificato impulso ad essere un individuo compiuto, equilibrato e libero, sui figli durante tutto il loro percorso di maturazione dalla gioventù all'età adulta, con le sue regole, con le sue cervellotiche macchinazione ed infine con le tanto famigerate, squilibrate temute eppure dovute Correzioni, quelle con la C maiuscola, quelle del titolo del libro, quelle che fanno da leitmotiv a tutta la narrazione e conducono il lettore attraverso quell’interessante spaccato di una famiglia, e per estensione di tutta la middleclass americana, che è in realtà il romanzo di Franzen.
Con quest’opera l’autore infatti ci illustra in maniera curiosa e approfondita come un termine così banale e sfruttato di questi tempi quale quello di middleclass, il nostro “benestante”, per intenderci, racchiuda in sé molteplici realtà, che possono andare dal radical/urban/social/chic, il progredito, aggiornato cittadino della metropoli, che malgrado gli agi si sente a suo modo una vittima di un sistema ipocrita che sfrutta le sue debolezze e per questo scelglie di condurre una vita “al di fuori” e ideologicamente (ma solo ideologicamente) assimilabile a quella di un anarchico nulla tenente; fino al Redneck del midwest, il rigido ultraconservatore dell'aperta campagna che per ambiente, collocazione geografica, e talvolta arretratezza culturale non può assolutamente concepire e tanto meno accettare la dissolutezza morale di chi non va alla funzione religiosa ogni domenica, di chi non ha quei "sani" principi capitalistici che lo spingono dopo la funzione ad organizzare sfarzosi ricevimenti nella sua tenuta per scatenare invidia di amici e conoscenti e di chi in buona sostanza non condivide la sua visione del mondo.
Un romanzo dunque interessante che facendo incontrare questi due estremi dello stesso segmento sociale sotto il tetto della famiglia dei protagonisti, dipinge in maniera precisa quali possano essere pregi e difetti di ogni corrente, di ogni filosofia, restituendoci prospetticamente quella che oggi per buona misura è la nostra realtà.
Ma la prospettiva di Franzen è davvero così corretta oppure è anch'essa il risultato di una distorsione, di una aberrazione, di una sua forzata "correzione"?
Sì, certo, a metterla su questo piano, penserete voi, a qualunque opera, persino alla più illuminata, si può trovare qualche difetto, ovvio, ma qui le critiche non sono tanto legate alla visione che l'autore ha del mondo o alla sua maniera di spiegarcela, e neppure a quell' auto compiaciuta pedanteria del suo descrivere i comportamenti umani in alcuni capitoli, ma alla fondamentale mancanza di equilibrio e a tratti addirittura di consequenzialità logica della sua storia, del giudizio che lui ha di essa, e in definitiva delle conclusioni che trae. Franzen nella sua denuncia dello stato attuale delle cose (poiché di denuncia per forza si deve trattare altrimenti il suo stile sarebbe veramente troppo pedante e pretenzioso) indugia particolarmente sul concetto del peccato come sfogo di una correzione, come bisogno di ribellione, di fuga, di un individuo da un ingiusto ordine precostituito vuoi da una società fondamentalmente cinica e spietata, vuoi da dei genitori rigidi e spesso non all'altezza della situazione e, indugiando in questo suo modo di vedere le cose, perde di vista il sopracitato equilibrio prospettico: ma che errori compiono esattamente i tre giovani protagonisti? Quali tremendi peccati? Sì, vero, qualche cavolata la fanno, qualche peccatuccio lo commettono, ma sono tutte cose più o meno veniali che, salvo eccezioni, potrebbero commettere tutti quanti, e in compenso loro ne vengono fuori sempre abbastanza bene, e se non proprio puliti per lo meno maturati, più esperti ed equilibrati, dunque quali sono le loro grandi colpe, e quali sono quelle dei genitori con le loro tanto odiate correzioni? Quali infine quelle della società, che a sua volta, anche se in altri modi, talvolta più brutali, redarguisce e corregge anche lei? O meglio ancora di cosa si lamenta esattamente l'autore se alla fine nel mondo che ha creato tutti pressappoco se la cavano? Non è forse il compito ultimo di un genitore educare il figlio perché alla fine possa cavarsela da solo? Non è forse la più importante prerogativa di una società permettere una degna sopravvivenza a chiunque ne faccia parte? I tre - cinque protagonisti nel mondo creato dall'autore ci riescono a sopravvivere, e tutto sommato come si diceva ci riescono anche bene, e allora di che si lamenta esattamente? Qual' è la sua denuncia? Poiché, come si diceva, se lo sforzo dell’autore fosse rivolto solo al fine di riportare un quadro del vivere moderno vorrebbe dire che il suo stile iper – realista, sottilmente umoristico, e acidamente sarcastico sarebbe fine a se stesso, buono solo a mascherare una vicenda alla Much Ado About Nothing sotto le mentite spoglie di letteratura impeganata... Ma non può essere così, dunque cosa vuole dirci esattamente, cosa vuole spiegarci col suo romanzo se tutto alla fine va pressappoco bene?
Se si vuole fare un romanzo di sfogo occorre un fatto eclatante, un qualcosa che permetta ai lettori quanto a lui scrittore, di indignarsi (sì veda per esempio Pastorale Americana) se invece si parla, si parla e si parla e poi alla fine non accade nulla a cosa servono tutti quegli sforzi, cosa serve tutto quello scrivere? Senza contare che così facendo si corre il rischio che tutto il pensiero dell'autore venga inteso solo come un lungo e, ripeto, auto compiaciuto viaggio mentale (il termine corretto sarebbe un altro ma onde evitare che taluni storcano il naso tralascerò…).
Questa dunque la principale critica che si può rivolgere al romanzo, ma criticandolo non bisogna scordare che nonstante le falle di logica, e qualche caduta di stile eccessiva, la resa finale è comunque, buona, anzi più che buona, è la resa insomma che ci si può aspettare da un autore di razza che grazie ad una grande conoscenza della storia recente e della psicologia umana, riesce malgrado tutto a regalarci un libro di grande appeal, un libro che in confronto a certa altra letteratura, se non si è troppo rigorosi, non può essere definito nient’altro che curioso, sorprendente e intellettualmente rinfrescante.
Ps.
A giudizio di chi scrive, resta comunque ancora troppo azzardato, almeno in quest'opera, il paragone tra Franzen e David Foster Wallace, se il primo infatti a livello di tematiche rimane più legato alla realtà e per questo risulta forse più appetibile, il secondo vanta uno stile per scorrevolezza e cinico umorismo che il caro Franzen per ora non è neppure in grado di imitare. E il sottoscritto, tengo a precisare, non è un fanatico ammiratore di Wallace.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi è disposto a chiudere un occhio, ma solo uno.
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Marzo, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Riascoltare una bella canzone

Comicità surreale in bilico tra eccessiva grossolanità e sferzante critica sociale, scene da tutti i giorni stiracchiate oltre il limite del credibile per evidenziare i difetti dell' uomo medio e improvvise considerazioni sulla vita che si librano per qualche istante a specchio della nostra coscienza per poi essere abbattute con micidiale precisione dal godibilissimo umorismo di cui l'autore è maestro; il tutto condito da un alone di nostalgica tristezza che come vuole la grande tradizione della commedia (Chaplin, Buster Keaton, fino ai più recenti Gene Wilder, Woody Allen e perfino Bill Murray) s'accorda così bene ai tempi comici dell'eroe/antieroe alle prese con problemi che lui stesso, per sua stessa indole, rende irrisolvibili.
Questo è in sostanza "Sono incazzato come una belva" di Paolo Villaggio, un libro divertente, a tratti profondo e sensibile, a tratti abilmente sfacciato, eppure un libro fondamentalmente prevedibile. E non è un caso che per recensirlo si chiamino in causa alcuni grandi della cinematografia poichè come per tutti gli aspetti positivi anche la sua previdibilità è inscindibilmente legata a quella. É questo infatti ne più ne meno un prodotto di quella cinematografia, o meglio un prodotto di quel filone comico, appunto intimo e grossolano, che ha reso l'autore un protagonista della scena italiana negli ultimi cinquant'anni. Ma come si diceva se in quel suo rifarsi alla grande tradizione della commedia sta uno dei pregi del libro e dell'autore (anche il più serio e scettico concederà infatti che non sia per nulla facile trasportare su carta stampata l'immediatezza di certe scene senza perderne il diretto impatto visivo), qui sta anche il suo peggiore difetto, ovvero che il Nostro nel libro riesce sì abilmente a ricreare quella divertente atmosfera di crudele sottomissione che opera il Sistema nei confronti del protagonista tipica dei suoi film, ma ad essa si mantiene costantemente, si vincola e, per quanti sforzi sembri fare, davvero non riesce a superarla, non riesce andare oltre.
Intendiamoci non è un'opera limitata la sua, un'opera che delude il lettore, anzi è l'esatto opposto, a parte qualche sporadica trovata è esattamente come ci si aspetta che sia: è un insieme dei pensieri e delle considerazioni che siamo soliti sentir dire dal suo personaggio. Il problema però è che è solo questo! È un interessante e a tratti intimo viaggio nell'introspettività di un personaggio, ma solo di un personaggio, non della brillante mente che l'ha creato. E proprio come per i suoi fillm, che sono stati divertenti, affascinanti, e al tempo persino innovativi, ma che se eccedevano nella ripetizione rischiavano di sfociare nella banalità (andiamo dai, ammeterete che gli ultimi non avevano la stessa forza dei primi!) anche in questo libro, non riuscendo proprio l'autore a staccarsi da quel ruolo, rischia di abbandonare l'amabile e leggera atmosfera da parodia del vivere moderno e sforare nel rancoroso accanimento di un uomo nei confronti di un mondo privo di logica, giustizia e umanità.
Forse per dare un giudizio obiettivo a quest' opera andrebbe analizzata decontestualizzata, come cioè operà a se stante, fintamente immemori che di fatto i contenuti sono pressapoco identici a quelli dei suoi film, ma per fare una cosa del genere occorrerebbe prima porsi una domanda: se il suo autore non si fosse chiamato Paolo Villaggio e se Paolo Villaggio non fosse mai stato Paolo Villaggio, qualcuno l'avrebbe mai pubblicata?
Probabilmente no. Certo, sarebbe stato un vero peccato, poichè, in un mondo parallelo che non l'avesse mai conosciuto, non pubblicare "Sono incazzato..." sarebbe equivalso a privare la disumana umanità di uno strumento per osservarsi allo specchio, per cogliere i propri difetti e non da ultimo per farsi una sana risata, ma tant'è: nessuno probabilmente l'avrebbe mai pubblicato, perchè senza quella "adeguata premessa" di cinquant'anni di cinema e televisione un lettore che incuriosito dal titolo avesse incominciato a sfogliarne le pagine, non avrebbe saputo come considerarlo, come definirlo e in buona sostanza come leggerlo.
Quello di "Sono incazzato come una belva" in somma è un fenomeno particolare, si autoalimenta di ciò che in realtà lo distrugge: se non fosse per la notorietà dell'autore non avrebbe senso, eppure è proprio per quella notorietà che tende a perdere di significato!
Ribadisco, in realtà è un libro, libretto (lo si finisce in un'ora buona), più che valido, ma esattamente come per la canzone preferita che se riascoltata costantemente già alla terza volta comincia ad annoiare, anche questo, tende irrimediabilmente a stancare, dunque a svalutarsi e, in un impeto di fantozziana memoria, a sottomettersi alle centinaia, se non migliaia, di opere ben più importanti e innovative.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato solo a chi non conosce bene, ma pur sempre conosce, il suo lavoro
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    26 Febbraio, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Sognare e non sognare

Sforzarsi di vivere è fondamentalmente inutile. Lottare, affaticarsi, per tentare di raggiungere grandi obbiettivi è solo fatica sprecata, poichè questi il più delle volte si rivelano comunque non essere alla nostra portata e le altre, una volta conseguiti, quei pochi, si scopre che alla fine, in fondo, non ne è valsa la pena, non ne è valsa la fatica. Molto meglio allora seguire il naturale fluire delle cose, il ritmo della vita, e, pur mantenedo alcuni principi, alcuni valori basilari (quasi a guisa di traccia etica) adeguarsi ad esso, adeguarsi all'incessante, logico, eppure talvolta pazzo roteare della terra e con esso, seguendo le sue note, la sua musica, ballare, ballare e ancora appunto ballare. E così alla fine si scoprirà che più dei grandi sogni sono le piccole cose quelle che contano, quelle che ci fanno andare avanti, quelle piccole soddisfazioni che bilanciano così bene le avversità quotidiane nell'eterno ciclo di una vita comune. In fondo a che serve una Maserati, quando si ha già una piccola Subaru di seconda mano? Trovi anche parcheggio più facilmente e se per sbaglio gli fai un graffietto... Dunque meglio non sforzarsi, meglio vivere sereni, trovare il buono in ogni cosa e se proprio per una volta va male, amen!, ormai quel che è stato e stato e domani, come si suol dire, è un altro giorno. Un giorno in cui svegliarsi, sentire il tepore del sole sul viso, sorridere al canto degli uccellini e danzare vorticosamente.
Ohm... Adesso fate due respiri profondi, lasciate che la negatività fluisca fuori da vostro corpo e andate in pace, la seduta è finita! Danzate figliuoli, danzate sereni... Occhio ai pali della luce però!
Va bene, battute a parte questo è suppergiù il messaggio del libro, un messaggio interessante, magari un po' banale, magari un po' ingenuo e non da tutti condivisibile, ma senza dubbio interessante e la cui attuabilità non è sempre così scontata. Vero è infatti che l'uomo spesso preso dalla frenesia della vita moderna si dimentica di respirare, di osservare e talvolta persino di vivere; se solo per un minuto smettese di pensare a quel che non ha e osservasse cosa ha già!, sembra dirci l'autore.
Ma ahimè come è vera la prima affermazione è altrettanto vero che spesso e volentieri sono proprio gli obiettivi che l'uomo si pone, anche se talvolta irraggiungibili, a farlo vivere, a farlo danzare. E più grande è l'obbiettivo più bella deve essere la danza. E poi se ci accontentassimo già di quel che abbiamo, se ci ritenessimo già perfetti, e dunque non avessimo neppure un' aspirazione, cosa vivremmo a fare? Per bearci del creato? Sai che noia! Dunque ben vengano i problemi, l'ansia e su scala più grande povertà, carestie e guerre? No certo che no, ma... perchè buttare via una Maserati?! Se hai la fortuna di avere un amico che non sa cosa farsene e te la regala, perchè restituirgliela? Non ti ci trovi bene, il tuo amico non la rivuole? Vendila! Sai quante Subaru ti ci compri? Darla via, restituirgliela, non è danzare accontentandosi delle piccole cose, è sputare in faccia alla vita e a chi balla attorno a te! ...Oltre a non capire un tubo di macchine!
Torniamo al libro. In realtà l'autore ha anche ragione, è vero quanto sostiene, ma è vero solo in parte, la verità infatti non è mai agli estremi, ma come dicevano gli antichi è nel mezzo: certo ci sono problemi, ansie, sofferenze, ci sono in ogni vita, e allora cosa?, rinunciamo all'ambizione, grande e piccola che sia, così evitiamo di soffrire? Questo non è il modo per vivere bene, è il modo per rinunciare a vivere. Il giusto è nell'equilibrio e anche nella difficoltà, la difficoltà di riuscire a porsi degli obbiettivi, sforzarsi di raggiungerli e non dimenticarsi di trarre ogni tanto un respiro e, perchè no, di danzare. Questo è il giusto, il vero; è difficile, ma è anche l'unica via, chiunque riuscirà a perseguirla, soffrirà certo, faticherà ovvio, ma gioirà anche e salvo icredibili, fantozziane sfortune, vivrà bene, sereno e in maniera onesta. (Ovviamente questo è un discorso che vale per l'uomo comune che vive nell'ambito di una società civile e mediamente evoluta, ma poichè questo è anche l'ambito del romanzo...)
Detto questo il messaggio del libro rimane interessante e senza dubbio il modo con cui Murakami fa affrontare la vita al protagonista aiuta il lettore a ridimensionare i suoi problemi. E se è vero che, come dicono gli esperti, il massimo risultato ottenibile per un libro è la catarsi del lettore, be in tal caso obiettivo centrato. Peccato che qui si teorizzi l'inutilità delle grandi aspirazioni, ma lasciamo stare, non riapriamo la discussione!
Veniamo invece alla realizzazione, poichè se è verò che a livello di messaggio, morale si sarebbe detto un tempo, Dance dance dance, è senza dubbio un libro quanto meno riuscito, a livello realizzativo ha purtroppo grandissimi difetti. Non parlo dello stile dell'autore, la cui abilità nel essere profondo ed intimo pur mantenedosi leggero e scorrevole è riconosciutà in ogni ambiente letterario, ma dei singoli contenuti dell' opera che a tratti, in alcuni passaggi, rappresentano delle vere e proprie vette letterarie, ma in altri delle grossolane cadute di stile.
Dance dance dance è una sorta di seguito non seguito di Nel Segno Della Pecora, la storia riparte circa da dove era terminata l'altra per poi evolversi tutta in maniera differente. Se da un lato questo può essere piacevole, poichè è sempre interessante, ove non si ecceda, ritrovare un protagonista per così dire famigliare, dall'altro reca un grosso problema: se il primo libro, vuoi per una serie di motivi in cui ora non è il caso di addentrarsi, non era esattamente riuscito, si rischia riprendendo il soggetto di trasportare i difetti anche nel secondo libro. E qui così purtroppo accade, ed è un vero peccato, poichè come s'è già detto il romanzo in se è valido.
Ma che bisogno c'era di riproporre quell'assurdo e veramente poco credibile personaggio dell' Uomo Pecora? Che bisogno c'era di reintrodurre l' ex fiamma dalle orecchie portentose, orecchie così particolari che una volta messe in mostra, una volta "aperte" sono in grado di sovvertire le leggi della fisica?
Delle orecchie? Ma dai! Cioè tutt' al più delle orecchie possono essere ben fatte, carine, sensuali... Se una storia parte da dei presupposti inconsistenti, incredibili, non importa quanto valida, bella, delicata e toccante possa diventare, sarà pur sempre una storia campata per aria. Certo occorreva l'elemento di rottura, l'imprevisto che fa nascere dalla routine di una vita come tante una vicenda degna di essere raccontata, ma per una volta si poteva lasciar perdere l'elemento surreale. Capisco anche che ormai questo sembra sempre più diventare il marchio di fabbrica dell'autore, ma per una volta, solo una, si poteva anche evitare, in Norwegian Wood c'era riuscito ed è diventato uno dei suoi libri più amati, perchè dunque ricascarci qui? In racconti come La Fine del Mondo il surreale ci sta anche bene, poichè tutta la storia è così, è un urban fantasy, ma in questa, che a tratti è talmente legata alla realtà da sembrare quasi un giallo o un noir, si poteva lasciar perdere, no? Poi col libro successivo avrebbe potuto parlare di fate ed unicorni quanto voleva, ma almeno in questo! E non è il mio un protestare vuoto per amore della critica è perchè questo è veramente un bel romanzo, che come si diceva si eleva a vette letterarie raramente raggiungibili oggi giorno (vedasi per esempio i dialoghi tra il protagonista e la ragazzina chiusa in se stessa che gli piomba nella vita o l'angosciante, quasi kafkiano, interrogatorio della polizia o ancora il personaggio di Dick North: un personaggio di passaggio, solo appena accennato eppure così ben caratterizzato da rappresentare da solo un mondo e una stagione, le Hawaii di fine estate.) Eppure no, quasi Murakami si sentisse in obbligo nei confronti del lettore, ci rificca dentro il surreale, e se non è l'Uomo Pecora, sono le orecchie portentose della sua ex, e se non sono quelle sono delle allucinazioni alla Shining con alberghi dai piani inesistenti o peggio ancora gli scheletri in soffitta (ma nel vero senso della parola!) e tutto il romanzo viene irrimediabilmente ridimensionato, se non addirittura rovinato, e ciò che poteva essere un moderno capolavoro meritevole da solo di nobel per la letteratura, torna ad essere il simpatico romanzo di un bravo e un po' stralunato autore.
Pazienza, che ci volete fare, in fondo lui stesso ci insegna che è meglio accontentarsi, rinunciare ai grandi sogni e ballare, ballare e ballare.
Se lo dice lui...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri suoi libri
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    06 Febbraio, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

In buona e cattiva sorte...

E' il punto di svolta: pubblicato nel 1988 Tesoro rappresenta il vero trampolino di lancio della carriera di Clive Cussler che, sebbene fosse già piuttosto noto in patria (la sua), grazie a questo romanzo diventa consistentemente famoso in tutto il mondo.
Cussler nel '88 ha già alle spalle ben sette libri dunque è ormai sicuro dei propri mezzi, lo stile qui è ben consolidato, così come ben consolidati sono gli aspetti positivi del medesimo: la scorrevolezza, il linguaggio diretto, la linearità della trama; e gli aspetti negativi: la sporadica semplicità di alcuni passaggi, la mancanza di profondità, la costante ricerca del colpo di scena.
La storia è ricca di tutti quei dettagli che uno scrittore esperto può permettersi di riportare nel testo quasi fino all'eccesso (concreta ricerca storica, approfonditi tecnicismi, cliché da film d'azione, ironia, dialoghi esclusivamente asserviti al contesto per l'incalzare del ritmo ecc. ecc.) La trama è ben congeniata, lo stile non ha particolari pecche e i personaggi sono ben delineati, per quanto lo consenta questo genere di narrativa.
Insomma, con Tesoro, tutto sembra pulito e preciso, perfetto per il grande balzo nel mercato mondiale e Cussler, neanche fosse il suo alter ego Dirk Pitt, non fallisce il colpo, da questo romanzo in poi sulle copertine dei suoi libri verranno riportate le cifre del successo: 60, 80, fino a 100 milioni di lettori in tutto il mondo. Finalmente un grande palco per una grande opera (le virgolette del secondo "grande" sono sottointese) per un autore, sì commerciale, ma pur sempre di grande talento!
... Bene così dunque?
Forse.
Tesoro è veramente il romanzo commerciale perfetto, tutto funziona e scorre, tutto luccica e brilla, ma come è vero che talvolta una piccola imperfezione dona fascino, è altrettanto vero che la totale perfezione spesso rimanda alla banalità. Sì, questa forse è una storia più completa, sfarzosa, intrattenitiva delle precedenti, ma il fascino dell'incertezza? La tensione dei misteri delle vicende sullo sfondo di una pittoresca guerra fredda? O ancora il nostalgico e profetico strenuo tentativo di riscossa del Titanic che tra le righe si fa quasi involontaria parabola del lottare quotidiano dell'uomo comune, che fine hanno fatto? Dove sono?
In una storia "perfetta" non c'è posto per le supposizioni rimaste tali, per gli enigmi insoluti, per le atmosfere artisticamente appena accennate, no, tutto deve essere concreto, ben delineato, perfetto appunto.
E così è, dal punto di vista della solidità narrativa infatti Tesoro è sicuramente una conquista, un passo avanti, tuttavia ogni tanto ad una nuova vittoria coincide una antica sconfitta, ad un passo avanti coincide un passo indietro o, peggio, l'oblio del precedente cammino.
Tesoro sarà dunque un bene? Un male? Sia vera la prima ipotesi, sia la seconda, è innegabile comunque che per la carriera, la storia e la fama dell'autore questo romanzo rappresenta un punto di svolta, un cardine. Nella bibliografia di un autore non sono molti i libri che si possono definire pietre miliari, in quella di Cussler al 1988 se ne possono riscontrare due: Enigma, il primo libro pubblicato, e Raise the Titanic, il primo grande successo, (personalmente aggiungerei anche Salto nel Buio, il suo migliore, anche se apparentemente il grande pubblico non sembra d'accordo...) Tesoro, almeno commercialmente, è la terza pietra miliare (andando avanti se ne troverà qualche altra ma saranno sempre più rare) dunque a questo romanzo, giustamente, e forse anche ineluttabilmente, come tale gli va tributato il riconoscimento che merita... sia nella buona che nella cattiva sorte.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi apprezza l'autore, il suo genere e la narrativa d'avventura
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    30 Gennaio, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Astrattismo letterario

Qual'è quella cosa su cui si regge la società antica e quella moderna, quell'unica imprescindibile prerogativa e insieme caratteristica di ogni assemblea di uomini, voglia essa chiamarsi stato, nazione o società? L'economia, la politica, la legge? No di certo, o meglio sì, in parte, ovvio!, ma tutte loro non sono tuttavia così unicamente essenziali come un'altra (e la recente storia pare anche confermarcelo): la comunicazione, il sistema di trasmissione diretto e indiretto delle informazioni. Se viene a mancare questo, vengono a mancare i rapporti tra nazioni, citta, paesi e infine uomini e non c'è più economia, politica o legge che regga. E quale migliore metodo dunque per rivoluzionare un mondo se non quello di tagliare le vie di comunicazione originali e soppiantarle con delle altre gestite e controllate dai rivoluzionari? Quale modo migliore per conquistare e mantenere il potere se non quello di controllare le informazioni? (Vedasi per esempio i regimi mono o pluri dittatoriali che ancora oggi negano al loro popolo l'accesso ai social network, o la Cina che ha introdotto un motore di ricerca "personale" per far concorrenza a Google e probabilmente filtrare certe notizie) Quale metodo migliore dunque? È presto detto: nessuno.
Ma se il sistema originale è troppo potente, troppo instaurato e affermato sul territorio da essere soppiantato così in quattro e quattr' otto, tutto ciò che possono fare i "sovversivi", gli ideatori del nuovo sistema, è quello di limitarsi ad una guerriglia, ad una guerra fredda fatta di sotterfugi, silenziosi attentati, reclutamenti segreti, e voci contradditorie seminate tra la gente, certa gente, per creare confusione o talvolta, come nel caso della "nostro" romanzo, curiosità e rabbia. E se poi qualche estraneo, qualche innocente, come nel caso della "nostra" protagonista, cade erroneamente in questa sotterranea rete eversiva, be tanto meglio: o una nuova adepta o un nuovo esempio del potere dei rivoluzionari per tutti i nemici, per tutti gli assuefatti al naturale, normale, stato delle cose, o ancora meglio, attraverso la sopraccitata metodica trasformazione dell' informazione, un nuovo martire imolato alla giusta causa, sacrificato da un sistema, quello originale, corrotto, per tentare di mettere a tacere un movimento che in questo modo non è piú soltanto la voce fuori dal coro di un manipolo di pazzi reazionari, ma la voce del popolo, l'unica e autentica voce della verità.
Non c'è come palesare una cosa per renderla dubbia, non c'è come sussurrarla per renderla autentica.
Questo è Il significato, a grandi linee, della storia a cui gira attorno L' Incanto del lotto 49; a grandi linee, poichè di per se stessa la vicenda non è per nulla chiara e lascia molti punti, o argomenti all'oscuro, tipo: perchè tirare in mezzo proprio quella donna, la protagonista? Oppure sarà stata veramente tirata in mezzo o è lei che ci si è infilata, intromessa, occupandosi di cose che non la riguardavano? E poi in fin dei conti cosa vogliono veramente questi reazionari, ammesso che esistano..., questi accaniti e quanto mai concorrenziali rivoluzionari? D'accordo vogliono rivoluzionare... ma perchè, cosa vogliono ottenere? Di cosa esattamente si lamentano? E anche ammesso che sia lecito il loro motivo, sempre che esista..., non c'era un metodo più efficace che tirare in mezzo un opera teatrale di qualche decennio prima, dei francobolli e un benedetto corno da postiglione?!
Certo è tutto figurato, è tutto un meccanismo propedeutico alla narrazione, uno stratagemma per dare il ritmo alla trama grazie ad un sarcasmo di riflesso, da teatrino dell'assurdo, come se noi, lettori, spettatori e membri della società, all'apertura del sipario ci trovassimo di fronte ad un grande specchio che non fa altro che rifletterci, storpiandoci, evidenziando i nostri difetti e la nostra illogicità e, noi, marionette nelle marionette ridessimo di gusto capendo e non capendo. (Viene spontaneo qui il paragone con uno dei primi film del cineasta che crea l'Infinite Jest del romanzo di David Foster Wallace, quello che consiste nella ripresa e riproposizione in tempo reale del pubblico in sala e questo prima si stranisce, poi illogicamente ride ed infine s'arrabbia e se ne va.)
Vero dunque, come in Infinite Jest anche ne L' Incanto del lotto 49 è tutto allegorico, ma proprio come in quello se l'allegoria è illimita e costante si rischia realmente di perdere il significato di fondo, e con esso il senso della realtà. E qui del resto certo non si lesina sull'irrealtà: l' autore apposta crea una vicenda fumosa e caotica, dove ogni propsettiva viene costantemente rivoluzionata attraverso contradditori giochi di specchi e di parole che rimandano alle incertezze della protagonista e del mondo che pare, solo pare, aprirsi di fronte ai suoi occhi; e più che raccontare la storia ce la dipinge (a tratti da vero maestro) con scorci disordinati di vissuto su un annuvolato sfondo esistenzialista e minimalista, davanti al quale noi non possiamo far altro che rimanere ad osservare beandoci dei colori e delle forme, senza tuttavia riuscire a comprendere il significato delle immagini.
Sorge dunque spontanea una domanda: in soldoni, "L' Incanto" è un bel libro oppure no? E Pynchon scrive bene oppure no?
È impossibile rispondere poichè come ogni opera d'arte che tocca profondamente chi l'osserva il giudizio non puó mai essere assoluto ma solo personale e ogni lode è lecita e giustificata quanto ogni critica. Ma se il giudizio sulla singola opera e sulla piacevolezza dello stile di Pynchon è soggettivo, una cosa oggettiva rimane, e certamente gli va riconosciuta: l'autore nel bene e nel male ha sconvolto e rivoluzionato la recente letteratura più di ogni altro suo collega e ha creato un movimento a se stante che, come per certa arte moderna che si discosta dai normali canoni di perfezione di quella classica, si pone come altro estremo della visione e comprensione umani. Pynchon ha creato la letteratura astratta, dove i soggetti narrati non sono più chiari, le vicende non più lineari, ma solo l'idea di base che si ha di esse, l'idea che viene esposta dall'autore dopo essere stata masticata, digerita e metabolizzata dalla sua fervida mente.
E come ogni movimento anche questo ha i suoi adepti, vedasi per esempio, come si diceva prima David Foster Wallace che, pur essendo la sua bibliografia ahinoi troppo scarna per poter essere portato ad esempio, a tratti pare proprio un Pynchon mondato e ripulito dall'eccessiva caoticità, o il "recentissimo" Tom McCharty col suo C (il cui titolo sembra un talmente ovvio omaggio al V del Nostro da rasentare l' inverosimile), o i critici letterari come Bloom (che consiglia addirittura di leggere L' Incanto due volte). Sì, ha i suoi adepti, ma anche suoi detrattori, coloro che criticano l'eccessività del suo stile, coloro che vorrebbero ma proprio non ce la fanno ad apprezzarlo, come per esempio il sottoscritto (lo so come esempio lascio un po' a desiderare) coloro che, pur riconoscendo l'immensa creatività e l'audacia dell'autore, non reggono allo sforzo di tirare le somme ad una vicenda che tende all'autocompiaciuta incomprensibilità in meno di 150 pagine.
Per concludere, è vero: sì legge, si evidenzia, la grandezza di Pynchon tra le righe, tra le parole e soprattutto, a mio parere, nella perfetta caratterizzazione delle atmosfere, ma i meccanismi attraverso cui si giunge a queste vette letterarie rimangono incomprenibili, così come volutamente incomprensibile è il filo logico che sottende alle sue vicende.
Genio e sregolatezza, si dice per descrivere certi grandi dell'arte e questo è anche il caso di Pynchon, ma al pari dei più grandi artisti dell'astrattismo figurato, checchè ne dicano i veri critici e i presunti esperti che si adeguano al coro delle loro risonanti voci, affrontando "un Pynchon" viene sempre umilmente da chiedersi dove veramente finisca il genio e dove comici la più totale, dissoluta, e involontaria sregolatezza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altre sue opere, i grandi della letteratura contemporanea e chi ha una propensione per il masochismo....
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
1.0
Stile 
 
1.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    20 Gennaio, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

Frullati di verdure e vetri troppo sottili per arr

Quando ci si trova a dover recensire un romanzo ci si rende conto che fondamentalmente ne esistono di due tipologie, quelli difficili e quelli ancora più difficili: quelli difficili sono quelli così complessi e profondi, od originali ed entusiasmanti, che al momento di parlarne sono talmente tante le cose che si vorrebbero dire, sono talmente tanti i temi che si vorrebbero affrontare che le idee si sommano in testa, i pensieri si accavallono l'uno sull'altro, e solo con estrema pazienza e forza di volontà, dopo innumerevoli riletture, si riesce a creare un discorso organico e sensato.
Poi invece ci sono quelli "ancora più difficili" che fondamentalmente sono l'esatto contrario dei primi, quelli per i quali vi è talmente poco da dire, si è provato così scarso interesse, che anche mettendosi al tavolino per due ore, anche rubando nei week end ore a della sana attività sportiva o a del meritato riposo, non si riesce a mettere insieme mezza riga. Sono quei libri che nel corso della lettura ci fanno domandare perchè li abbiamo acquistati oppure quale assurda karmica legge di contrappasso ci obbliga a continuare a leggerli, quei libri insomma che immancabilmente non si possono altro che definire "errori". Errori di noi lettori che li abbiamo acqustati, errori degli scrittori che li hanno scritti, errori degli editori che li hanno pubblicati ed errori infine degli edicolanti/cartolai che li espongono in vetrina a prezzo ribassato tra materassini, ombrelloni e paperette di gomma.
Non me ne voglia G. M. Ford (che fortunatamente non leggera mai questa mia recensione) ma Fiume Nero, il suo libro, non si può altro che farlo rientrare in questa seconda tipologia di romanzi e con tutta la buona volontà non si può definirlo in altro modo se non proprio "un errore".
Qui verrebbe da controbattere con la solita (e tuttavia lecita e giusta) obiezione: "facile il lavoro del critico, legge un libro, se gli piace dice che è bello, se non gli piace dice che brutto; il critico è un individuo che campa sul lavoro degli altri, sugli sforzi degli altri, provate voi ogni giorno a scrivere pagine su pagine inventate di sana pianta che abbiano un qualche filo logico e che in qualche modo siano piacevoli, non dico capolavori, non dico pietre miliari della storia della letteratura, ma almeno, vagamente, piacevoli, provateci voi invece di star li a criticare!"
Vero, giusto, ma a parte che si potrebbe obiettare che ognuno infondo campa sul lavoro di qualcun altrro: il critico, sull'autore, l'autore sull'editore, l'editore sui lettori e dunqe di nuovo sui critici; a parte che si potrebbe obiettare che neppure il lavoro del critico è tutto rose e fiori e in taluni casi, anche se di lavoro non si tratta ma solo di passione, certi libri (proprio come questo) impongono da parte di colui che recensisce degli sforzi immani; a parte queste altrettanto lecite obiezioni, talvolta comunque, per certi singoli romanzi, l'impulso istintivo di gridare a chiunque ti ascolti:"non comprarlo, non leggerlo, non ne vale la pena, sono solo soldi buttati!", è davvero troppo forte, troppo urgente, tanto che è fisiologicamente impossibile resistergli. E allora al diavolo l'etichetta, al diavolo l'equilibrio, al diavolo la cortesia o l'educazione ed esplodiamo e diamo libero sfogo a tutto il veleno che si è accumulato durante la lettura: "Basta! Basta scrivere libri così, basta leggerli, basta pubblicarli!"
Verrebbe da chiedersi come ultima cosa, dopo tutta questa retorica del basta, perchè proprio noi, che ci scagliamo persino contro il consumatore ultimo di questa letteratura (colpevole ai nostri occhi d' incentivarne il mercato), perchè proprio noi li leggiamo, perchè insomma sapendo che li avremmo trovati così tremendi, li abbiamo comprati, li abbiamo letti, e per ultimo li abbiamo portati a termine.
Be qui i motivi sono molteplici, vanno da un pretestuoso spirito di umanità del critico che vuole per il bene degli altri suoi simili conoscere fin dove può spingersi "il male", fino ad un indiscutibile egocentrismo che vuole che nelle recensioni, specie quelle negative, giudicando, criticando, il lavoro degli altrri in qualche modo si illuda nella sua infima natura di essere superiore agli altri... ma è bene non dilungarsi troppo sulle ragioni personali che ci impongono di leggere un libro, poichè come mi faranno notare quelli di voi che sono giunti fin qui a leggere questa recensione, fino ad ora non ho ancora detto mezza parola sul romanzo! Vi basti sapere dunque (e mi vergongno profondamente ad ammetterlo) che nel mio caso, Fiume Nero, l'ho comprato e l'ho letto per un unica e semplice ragione:
mi piaceva la copertina.
E davvero è bella, ha una grafica interessante, ben strutturata, proporzionata... Peccato che sia l'unica cosa decente di questo libro, il resto è pura, piatta e vastissima banalità. La banalità di un giallo/noir di quelli che si sono già letti, visti e sentiti milioni di volte, la banalità di personaggi talmente stereotipati da essere totalmente inverosimili: affascinante eroe, supercattivone con corredo di innocente donzella da salvare dalle sue grinfie che guarda caso ha un recente passato da miss Universo o quel che è e immancabilmente si invaghisce del Nostro, che magari non è bellissimo come lei, ma compensa con l'audacia e l'indefessa propensione verso il bene e tutto ciò che è giusto e sano, compresi i frullati di verdure!
No davvero è ridicolo, non si possono scrivere di queste cose e pretendere degli apprezzamenti. Ridicolo, sul serio, non c'è altro modo di definirlo... Anche perchè a dirla tutta non mi ricordo altro! Ma non è una mia mancanza questa (almeno spero, sono ancora giovane per avere problemi di memoria) è invece un ennesima mancanza del romanzo! O forse no... Forse invece è un pregio. Ma sì certo è un pregio, l'unico altro pregio oltre alla copertina! Il solo aspetto positivo di questi libri è che a soli pochi giorni dalla lettura ci si dimentica totalmente di averli letti.
Fiume Nero? Cosa? Dove? Chiamate la Protezione Civile!
POST SCRIPTUM: rileggendola a qualche anno di distanza mi rendo conto che questa recensione per lunghezza, per inutilità, per malcelata presuntuosa saccenza, potrebbe tranquillamente concorrere per i primi posti tra le peggiori recensioni della storia della critica letteraria, tuttavia all'epoca (e figuriamoci adesso) fu davvero difficile trovare una qualunque cosa da dire su un libro che di per se non aveva proprio nulla da dire; dunque forse il mio qui smodato divagare non è stato tanto fuoriluogo, forse al contrario è stato abbastanza significativo della qualità del libro, così come è altrettanto significativa la bruttezza della recensione. Sì, significativa e senza dubbio adeguata al tema trattato. Del resto G. M. Ford ci insegna che non tutte le ciambelle riescono col buco, figuriamoci i frullati di verdure...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Religione e spiritualità
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
2.0
Approfondimento 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    09 Gennaio, 2014
Top 100 Opinionisti  -  

There can be only one!

Parlando de il Libro dei Cinque Anelli spesso si sentono dire cose come “c’è più verità in una singola riga di Musashi che in un trattato di filosofia", oppure "è un opera assoluta che trascende il tempo ergendosi a strumento di comprensione della vita" o peggio "un libro illuminante, ho imparato molto leggendolo..." Cose di questo tipo. Ma di fatto non è così.
Che ci sia del vero e del chiaro (luminoso o illuminante che dir si voglia è un termine talmente comune ormai che quasi non ha più valore) in questo libro è inopinabile, ma è altrettanto vero che quanto dice Musashi è assolutamente, e se volete anche chiaramente, legato al suo tempo e al suo luogo. E a dirla proprio tutta non trascende un fico secco. ...E meno male! Poichè questa sopravvalutata opera non è altro che un elenco ordinato di postulati su come colpire, ferire e ammazzare meglio il tuo nemico se casualmente sei in possesso di una katana.
Certo ogni tanto si parla anche di approccio psicologico allo scontro, di disposizione mentale, verrebbe dunque istintivo per estensione far combaciare i precetti della via del Hehio alla vita di tutti i giorni: come affronti il nemico in singolar tenzone, così affronti le avversità della vita quotidiana, verrebbe… ma sarebbe un volo di fantasia poichè in realtà ad ogni consiglio, ad ogni tecnica analizzata, si ritorna sempre lì, al combattimento: meglio attaccare subito che aspettare l’avversario, se lui ha una spada lunga tu usane una ancor più lunga, meglio attenersi a sole cinque posizioni di guardia che tentarne altre ecc. ecc.
Ok, ok, chiaro, volendo anche oggi queste regole hanno un qualche utilità, ma affermare che trovino costantemente riscontro nelle migliaia di sfaccettature della poliedrica esistenza dei nostri tempi è mancare di obbiettività. Oggi giorno è senz'altro giusto attenersi a delle linee guida di base, alcuni le chiamano codice di comportamento, altri morale, coerenza, o sanità mentale perfino, ma da qui a dire che le tecniche di Musashi si applicano ad ogni aspetto della nostra vita, che i suoi insegnamenti, finalizzati alla sconfitta violenta, all’uccisione, del nemico siano utilizzabili indiscriminatamente in ogni situazione concreta e pratica della realtà moderna, be suona un po’ eccessivo.
Niente di male, dunque se si considera il libro un buon documento storico della mentalità dell’epoca, una sorta di saggio folkloristico o un pittoresco estratto della società giapponese seicentesca, ma se invece lo si tiene da conto come il vademecum dell’uomo moderno o vi chiamate Chuck Norris e andate per strada a mietere vittime o avete una bella sindrome di Peter Pan! (Talvolta le due alternative coincidono...)
E parlando di Chuck Norris, francamente non sembra neanche che le tecniche qui descritte siano di qualche utilità neppure per il praticante di arti marziali, non si possono neppure definire tecniche infatti: sono più che altro tracce, suggerimenti poco precisi e mal spiegati e quindi perlopiù inutili qualora si debba sopraffare il presunto nemico tra le quattro mura di una palestra.
Dunque, per concludere, Il libro dei Cinque Anelli può essere considerato un testo storicamente interessante e forse in certi passaggi persino accattivante, ma senza dubbio rimane un' opera fine a se stessa, inapplicabile nel dojo per mancanza di specificità e inapplicabile nella vita quotidiana per… be perché se Dio vuole ci siamo evoluti e, nonostante certi ausiliari del traffico ci spingano a regredire al medioevo, non andiamo più in giro a sanare torti e redimere coscienze a colpi di spada, o almeno così si spera...
Nel nono giorno, del primo mese, del quattordicesimo anno del 2000.
A Milano,
Chuck Norris (ah no scusate Paolo Pizzi)

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi da piccolo, come il sottoscritto, andava pazzo per i film di arti marziali
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    26 Dicembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

E noi?

Che cos'è un uomo?
Benchè sia essenziale rispondere a questa domanda per comprendere, talvolta persino giustificare, il significato del libro della Fallaci, a dare una definizione all'uomo si rischia di imbarcarsi in una serie di ragionamenti estremamente complessi che se non ben bilancianti tendono a diventare tremendamente pedanti o ancora peggio banalmente qualunquisti. È fin troppo facile infatti fare della filosofia da bar su un argomento del genere, ed essendo questa, quella del libro, una storia concreta, vera e a tratti tutt'altro che filosofica, non ci sarebbe nulla di meno appropriato che recensire il libro, e giudicarlo, partendo da dei presupposti semantici, per non dire dei sofismi, che senz' alcun dubbio trascendevano l'intento dell' autrice.
Ciò premesso, rimanendo comunque doveroso rispondere alla domanda iniziale, è meglio mantenersi sul semplice. Tanto suppongo che bene o male chiunque abbia un idea di cosa sia un uomo....
Dunque che cos'è un uomo? Che cos'è un essere umano?
Un uomo tralasciando la parte diciamo materiale, quella costituita principalmente d'acqua, molecole di carbonio e qualche organo più o meno vitale, è un miscuglio di pensieri, idee, sensazioni, pulsioni e ragionamenti, alcuni simili e concordanti altri diversi e contrastanti e in base a questi, in base a come li elabora, agisce, compie delle azioni, che possono essere più o meno importanti, che possono essere più o meno giuste agli occhi di quel sistema non sempre organizzato di suoi simili che comunemente si chiama società.
Quindi allora un uomo è anche un essere che compie azioni! Sì, e a dire il vero ne compie pure tante nel corso della sua vita e per ognuna di esse ne paga le conseguenze, siano esse giuste o sbagliate. Ed è ben di questo che si parla nel libro. Il libro della Fallaci racconta la storia di un uomo, di quel che ha fatto, e di quanto gli è accaduto. Ed era questo un uomo per nulla dissimile da molti altri, con le sue idee, le sue passioni, le sue ragioni e i suoi torti; un uomo che, sì forse era più portato rispetto ad altri a compiere scelte estremiste, a dar meno valore alla vita propria e altrui che la media della società, (o forse a darne di più, infatti a ben vedere è proprio per questo che lottò costantemente contro il regime filo fascista greco e le sue successive evoluzioni), dunque un individuo forse più sbilanciato verso certe idee, certe pulsioni, ma pur sempre un uomo come tanti, come tutti. E questo è essenziale comprenderlo, altrimenti a posteriori, dopo più di quarant'anni dagli avvenimenti, al caldo dei nostri bei caminetti (vabè facciamo termosifoni) non si potranno mai accettare le sue gesta, giustificare la sua rabbia, comprendere il suo odio, non si potrà mai capire quel che ha provato quando venne rinchiuso nella cella di tre per tre a forma di tomba, quando è stato picchiato, torturato, reso vittima di una persecuzione psicologica tremenda, e quando in fine è stato ammazzato. Non si potrà mai capirlo se non ci si mette nei suoi panni, se invece di leggere il suo nome non leggiamo il nostro.
Vero, lui inizialmente ha commesso un attentato, ha tentato di uccidere una persona con una bomba, tuttavia quella persona stando al libro, stando a quanto ci racconta la storia (non è nell'intento di questa recensione entrare nel merito riguardo l'autenticità dei fatti narrarati), si era macchiata di crimini ben più gravi, crimini che probabilmente alla luce proprio di quella che noi chiamiamo umanità, e sicuramente del concetto etico che "l'uomo" del libro aveva di essa, giustificavano la sua morte. Vero. Tuttavia, lecita o meno che fosse stata la sua battaglia, aveva fallito e ciò non di meno alla fine venne ripagato con gli interessi sottoponendolo ad un calvario mortale che, se non la giustificazione al suo gesto, fu senza dubbio la dimostrazione della disumanità di quel regime politico militare contro cui lui si era scagliato.
Eppure ribadisco lui era un uomo qualunque, almeno inizialmente, come noi, come tanti di noi! Per comprendere dunque il significato di quest' opera è bene porsi allora un'altra domanda: noi al suo posto cosa avremmo fatto? Se invece di essere Panagulis ad essere torturato e seviziato per mesi, anni, nella cella di Boiati e in tutte le altre, eri tu, lettore, cosa avresti fatto?
Probabilmente è impossibile rispondere poichè è inconcepibile immaginare anche solo di trovarsi in una situazione del genere. Occorre tuttavia ammettere che se è impossbile rispondere a questa domanda è allora altrettanto impossbile giudicare l'operato di quell'uomo, sia che lo si voglia tacciare di delinquenza, di terrorismo, sia che lo si voglia marchiare da eroe.
E non potendone giudicare l'operato, non si può nenanche giudicare il contenuto del libro, il pensiero dell'autrice intimamente legata a lui. Dovrà dunque bastare parlare dei contenuti senza giudicarli, parlare della storia senza porsi al di sopra di essa come imparziali arbitri del bene e del male. E che storia è questa? Questa è la storia reale di una persona che, malgrado la sua normalità, pur trovandosi in situazioni tremende non si è mai arreso, che malgrado le innumerevoli sconfitte, anche se sarebbe stato molto più semplice, non ha mai chinato la testa, e ciò non l' ha reso un eroe, non l' ha reso un martire (come volle la folla al suo funerale) ma semplicemente un essere umano, un essere umano ancora più umano. Una volta qualcuno disse "un uomo non si capisce quanto vale quando vince, troppo facile: a vincere sono buoni tutti, ma lo si capisce quando perde, da come affronta le sconfitte, se si arrende o continua a lottare." Vero. E se, come in questo caso se si vince forse c'è in ballo il bene comune di una nazione, ma se si perde c'è in ballo solo la propria vita e ciononostante si continua a lottare, be allora quale definizione migliore si può dare a quell' essere umano se non quella di "Uomo"? Non ce n'è, non ne esiste alcuna di migliore, poichè un essere che si mette in gioco in quel modo di umano deve avere tutto, assolutamente tutto: l'orgoglio, la rabbia, la ragione, i torti, i dolori, le sofferenze, e soprattutto la dignità.
Ciononostante quell'uomo, malgrado la sua dignità e il suo coraggio perde, perde ripetutamente e noi, suoi simili, lungo il racconto perdiamo con lui, fintanto che giunto allo stremo, riuscendo stoicamente a non arrendersi per l'ennesima volta, perde definitivamente, perde la vita. E qui (fortunatamente) noi non siamo più con lui, noi torniamo ad essere dei vivi lettori comodamente seduti in poltrona, e il distacco è totale, tremendo, come totale e tremenda diventa la domanda che per riflesso alla luce della storia appena letta sentiamo in obbligo di porci: sì, abbiamo capitò cos'è un uomo, ma noi possiamo definirci uomini?
La domanda implicita con cui inizia questo libro dunque si trasforma e da "come si definisce un uomo?" diventa, possiamo noi nel nostra coscienza, al pari di lui, al pari di Panagulis, definirci uomini? Possiamo noi definirci autentici esseri umani? Una domanda ben più importante della prima poichè è una domanda personale, che ci riguarda direttamente e per tanto ci infastidisce, ci repelle: tutti di primo acchito rispondono "certo che sì!" eppure si insedia nel profondo della nostra coscienza e rimane, talvolta sussurrando talvolta gridando, talvolta esasperandoci per la nostra quotidiana viltà, talvolta rendendoci orgogliosi del nostro piccolo eroismo, "noi siamo uomini, siamo esseri umani autentici?", e senza dubbio ci fa riflettere, crescere, conferendoci in fine una più ampia idea dei nostri difetti e delle nostre possibilità.
Questo è l'unico imparziale modo con cui si può parlare della storia che si racconta in questo libro, un libro personale che talvolta manca di obbiettività e si accende di infuocato, morboso, romanticismo col suo intendere il protagonista come un eroe mitologico, il cavaliere senza macchia che combatte il drago, o di cieco furore col suo stigmatizzare di fatti che ben poco lasciano all'interpretazione, ma anche un libro che racconta di una storia realmente accaduta, il cui significato trascende la mera denuncia dei fatti, le bassenze a cui può giungere l'animo umano, un libro in fine che, sia che lo si apprezzi sia che lo si critichi, gli va indubbiamente riconosciuto il merito di darci fastidio, di farci scandalizzare, di farci soffrire e infine di farci crescere.
Molti dei più autorevoli critici sostengono che cio che va ricercato nella letteratura è la catarsi, l'evoluzione del proprio pensiero attraverso la narrazione, e sostengono talmente la loro teoria che arrivano a confondere l'una con l'altra, il fine con il mezzo. In realtà non è sbagliato, anzi, tuttavia è limitato: la letteratura infatti è anche sensazione, (emozione, fastidio, piacere, sofferenza, gioia), è anche svago, relax, medicina per lo stress, ed è sicuramente anche qualcos'altro: è il confronto con noi stessi, con quello che noi sappiamo, con quello che noi crediamo, con quello in cui noi crediamo. E da questo punto di vista Un Uomo di Oriana Fallaci è lettratura purissima, è uno dei più alti esempi di letteratura d'ogni epoca, poichè è la rappresentazione della domanda a cui noi, tutti noi, ogni giorno più o meno consapevolmente dobbiamo rispondere, il problema che più o meno tutti noi dobbiamo sforzarci di risolvere: possiamo definirci esseri umani? Panagulis, nel bene e nel male, è stato un uomo, un essere umano, possiamo noi, al pari di lui definirci tali? Davvero, possiamo?
Nota:
Assolutamente inutile, la prefazione di Domenico Procacci all'edizione qui recensita. Inutile se non a lui stesso, se non a promuovere il "suo" film, la "sua" versione della storia. Inutile se non a ribadire uno dei concetti che si evincono dalla lettura del libro, uno dei concetti la cui incomprensione, in buona sostanza si può dire che abbia causato la morte de "l'uomo" del titolo, ovvero che non importa quanto strenuamente, romanticamente, testardamente, dignitosamente si lotti, non importa: i soldi e il potere vinceranno sempre. Sempre.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A quelli a cui piacciono le storie vere
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Dicembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Il gusto del tempo

Un affascinante romanzo a tre voci che riassume, rielabora e approfondisce un periodo storico di fondamentale importanza, quello che va dalla metà dell'800 fino agli inizi del '900, un periodo che ha segnato un'epoca e che con le sue tensioni politiche, economiche e sociali definisce i prodromi di quelli che verranno considerati i più grandi sconvolgimenti della storia dell'umanità.
Come è nato tutto? Cosa ha portato l'uomo ad auto sterminarsi su così vasta scala con ben due Guerre Mondiali? Quali sono state le tensioni, i piani segreti, le macchinazioni dei singoli e il tessuto sociale su cui si è potuto inserire quel meccanismo che avrebbe portato alla morte violenta di decine di milioni di persone in meno di trent'anni? Eco tenta di spiegarcelo, raccontando in maniera intelligente e brillante ciò che è stato agli inizi, quando nessuno avrebbe potuto sospettare le conseguenze di quanto si stava facendo, rivisitando (ma non reinventando) la storia europea di quegli anni, introducendo nel tessuto narrativo personaggi chiave per il destino del mondo, e dipingendo un quadro di insieme dalle tinte fosche, eppure nostalgiche e talora persino comiche, come solo una delle più abili penne del panorama letterario mondiale saprebbe fare.
Un lavoro dunque per metà romanzo e per metà documento storico, un lavoro profondo, intellettualmente appagante e sorprendentemente divertente che nella sua costante ricerca di un significato a ciò che è accaduto all'uomo, ciò di cui esso si è reso capace, ribadisce un concetto ormai a chiunque già noto, eppure mai così chiaro e lampante come in questa analisi: non contano le epoche, le credenze, l'intelligenza, la stupidità, la cultura e l'ignoranza, il virtuosismo o la turpe immoralità di alcuni, siano essi singoli individui o interi popoli, non contano le differenze sociali, politiche, militari o religiose tra stato e stato, tra uomo e uomo, non sono quelle, non sono loro a fare la storia; ciò che crea o distrugge la civiltà, ciò che plasma la nostra società adeguandola al tempo e al luogo è sempre stata (e sempre sarà) una sola cosa: i soldi, il denaro, e il potere che da esso ne deriva.
In nome di questo si formano alleanze, e si scatenano guerre, si eleggono capi e si sterminano i popoli, sotto il suo comando si piegano i vincitori e si umiliano i perdenti, si annullano i valori dell'uomo e della sua morale, si dimentica ciô che è stato e si ignora quel che sarà, al suo cospetto si tradiscono i propri ideali e si prega inginocchiati al fianco degli Dei, noi come loro, annichiliti dal suo potere temporale. E sia che lo si voglia o no, sia che per molti aspetti possa essere un male e per alcuni un bene, non ci si può fare nulla, poichè i soldi sono ciò che su grande e piccola scala ha sempre regolato, stabilito e determinato la vita e la morte degli esseri umani. Qualcuno potrebbe obbiettare, divagando, che le malattie sono un altro fattore determinante, ma non è forse vero che queste si sviluppano maggiormente in situazioni ambientali dove la povertà è più diffusa, non è forse vero che se si destinassero più fondi alla comprensione delle malattie, alle ricerca delle cure, si riuscirebbero a debellare più facilmente? Non c'è nulla da fare il denaro regola ogni cosa. Ma appunto non divaghiamo. Ciò che si evince dal libro è che non solo il potere del denaro ha un effetto diretto sulla persona che ne entra (o cerca di entrarne) in possesso, ma ha anche un potere sugli altri, su ogni singolo aspetto della loro vita: ad ogni azione corrisponde una reazione, ad ogni alleanza una rottura, ad ogni mossa una contro mossa e dalla singola moneta che si mette in tasca l'uomo qualunque nascono e derivano un'infinità di azioni concatenate, talvolta buone talvolta cattive, che nel loro complesso formano lo scheletro e il tessuto su cui si sviluppa la nostra società.
Temi importanti dunque quelli discussi ne Il Cimitero di Praga, temi di grande, e ineluttabile, attualità eppure temi che si inseriscono perfettamente nel contesto storico della narrazione.
È estremamente difficile costruire una storia che tratti di questi argomenti ed è ancora più difficile costruirla in modo tale che si regga in piedi in ogni sua parte, che scorra senza intoppi e soprattutto che avvinca chi la legge; sì, è estremamente difficile, eppure l'autore ci riesce, grazie ad uno stile coraggioso ed istrionico che avvinghia il lettore alla vicenda, ma ancor più all' ambiente, alla cultura, e alle società dell'epoca che, seppur conosciute, mai prima d'ora erano parse così intriganti e romantiche.
In un film si diceva (e forse questa era l'unica cosa degna di nota in quel film) che Hemingway era un grande perchè con i suoi romanzi era in grado di farci sentire il gusto delle cose. Bene anche Eco allora è "un grande" poichè al pari del suo predecessore anche lui riesce a farci sentire il gusto, non è tuttavia quello delle cose, ma è quello del tempo, è quello di un modo di vivere, è quello della storia.
Un libro dunque affascinante questo, dai contenuti importanti, se non essenziali, e che solo nel finale ad esser pignoli tende a perdere parzialmente il ritmo a causa di un' eccessiva ridondanza; dettaglio comunque più che trascurabile considerato che al contrario può vantare uno dei più divertenti, coraggiosi e interessanti incipit della storia della letteratura.
Un libro quindi profondo, maturo, reale, scritto in uno stile accattivante e condito da una appena accennata (e forse proprio per questo così affascinante) italianità; un libro che dovrebbe essere letto nei licei al pari di altri testi formativi per far capire e riflettere (divertendo) di cosa è capace, e inevitabilmente sarà capace, l'uomo, per la gloria, il potere o anche semplicemente la possibilità di sopravvivere, e in fin dei conti come già ribadito per l'unico vero ed equo Dio in cui pare costantemente credere a scapito di tutto il resto, il denaro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri romanzi e saggi storici
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Novembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Già noto, purtroppo.

Il romanzo più cinematografico (per quanto non sia mai stato soggetto ad un adattamento per grande schermo), più commerciale (per quanto non sia mai stato considerato esattamente un best seller) e forse meno creativo di Cussler. Non potendo pretendere infatti da questo genere di narrativa l’eccellenza stilistica è ai contenuti che occorre volgere l'attenzione, e i contenuti in quest'opera purtroppo non solo sono banali e scontati, ma ricalcano di fatto tutti i temi dei suoi due precedenti romanzi e di quel filone spionistico che dagli anni '60 in poi, grazie soprattutto al cinema, è rimasto in voga fino ai giorni nostri. E se i due precedenti lavori sono sì altrettanto comuni, ma schiudono tra le righe panorami di insospettata profondità (specialmente il primo, Salto nel Buio) qui torna a essere tutto piatto e normale, come appunto il più "fracassone" dei popcorn movie.
Guerre sussurrate, documenti segreti, super potenze capitaliste contro super potenze comuniste, colpi di stato mancati, missioni nello spazio e al centro di tutto questo un solo uomo che possa salvare l'umanità, un solo eroe e il suo nome è James Bon...ah no Dirk Pitt. Uff, c'è mancato poco!
Ispirarsi agli archetipi di un genere talvolta è doveroso e imprescindibile, scopiazzare qualche variopinta idea al contrario è superfluo e pericoloso. Copiare infatti è un arte complicata che se non la si padroneggia perfettamente, dissimulando ogni riferimento alle fonti, il novanta percento delle volte rischia di ritorcersi contro l'autore, facendolo diventare se non uno sfruttatore di glorie altrui (è difficile parlare in questi termini in letteratura) sicuramente "uno dei tanti", uno "comune", una voce insomma nel coro dei "già letto", "già visto" e "già sentito."
È anche sì vero comunque che non è giusto definire Cyclops un totale buco nell'acqua, poichè qualche spunto divertente in realtà gli va riconosciuto: l'antagonista dal volto già noto e il finale quasi da commedia degli equivoci, anche se niente più che striminzite scialuppe nella burrasca della convenzionalità, sono a loro modo innovativi nella bibliografia dell'autore; e non è neppure giusto definire Cyclops un passo falso, poichè in fin dei conti è semplicemente un libro ingenuo, come ingenuo è stato l'autore a suo tempo che, a differenza di tanti suoi colleghi, non è riuscito a riciclare camuffandole adeguatamente delle tematiche fin troppo sfruttate. E' giusto tenere invece a mente che l'ingenuità quando è sinonimo di onestà può anche essere un pregio.
Ma in fine, onestà per onestà, bisogna rendersi anche conto quando la stima (altrove meritata) che si nutre per l' autore porta colui che scrive a non essere più obiettivo e a calzare i panni (qui quanto mai stretti) dell' avvocato del diavolo...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    14 Novembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Capolavoro, ah sì?

Una brevissima pièce teatrale da leggere e rileggere innumerevoli volte fintanto che non si è certi di averne compreso ogni più sottile significato. Pur essendo inferiore alle settanta pagine Al di là delle Forze Umane è infatti un’opera universale che tocca con incisiva semplicità ogni aspetto della vita umana ed è anche un testo emblematico di ogni scontro interiore tra ciò in cui crediamo e ciò in cui vorremmo credere. Uno scritto breve insomma, intenso e soprattutto ermetico.
Attenzione però, qui Bjornson fa sì dell’ermetismo il suo punto di forza ma ne fa anche il suo punto debole: se è vero infatti che l'opera è apprezzabile su diversi piani di lettura, che variano dalla piatta comprensione della vicenda così per come è fino alla interpretazione esclusivamente simbolica (che vuole per esempio i rintocchi della campana come una sorta di deus ex machina che scandisce i vari tempi del dramma o una sorta di fulcro di una bilancia che deve reggere l’equilibrio tra religione e scienza), se è vero tutto ciò, è altrettanto vero che senza l’indispensabile postfazione a questa edizione è praticamente impossibile coglierne tutte le sfumature, le sottigliezze e i rimandi.
Brevemente, per non copiare il lavoro di altri, mi limiterò a dire che quest’opera ha talmente tante probabili (e sottolineo: "probabili") chiavi di lettura che è impossibile contemplarle tutte e riuscire ad avere contemporaneamente un idea organica del suo significato. C’è una chiave di lettura per ogni ripensamento che l’autore ha avuto nell’arco della sua vita, e se alcune di queste sono lampanti (leggasi per esempio il dramma familiare dell’uomo che abbandona i suoi cari per dedicarsi a scopi più elevati, così simile a quello del Dr. Faust, o quello molto più popolare e tragico della frana in paese) altre, senza una conoscenza della biografia dello scrittore e della trasformazione che negli anni ha subito la sua linea di pensiero, passano senza dubbio inosservate, o peggio rischiano di apparire solo come frutto di brevi accenni a tematiche affrontate esclusivamente per dovere letterario in un’opera comunque incompleta, poco approfondita, se non addirittura superficiale (leggasi il conflitto tra religione e scienza, e l'appena introdotta e mal approfondita idea che l'illusione della prima conduca alla amara presa di coscienza della seconda.)
Bjornson dunque in questa sua opera va sì lodato per le indubbie capacità di sintesi con le quali è riuscito a contemplare in poche pagine tutta una serie di episodi e casistiche umane talvolta comuni, talvolta fuori dal comune, va si lodato per la sincerità, l'obbiettività e l'audacia (soprattutto considerata l’epoca) con cui ci illustra la sua opinione su chi abbia le risposte giuste alle domande esistenziali che da sempre attanagliano la mente dei filosofi, e va forse ancora più lodato per lo stupendo e sorprendentemente attuale umorismo con cui tratta l’intera vicenda; va sì lodato per tutto ciò ma va anche redarguito (termine ammetto piuttosto ridicolo da utilizzare nei confronti di uno scrittore di questa portata), redarguito proprio per quella sinteticità che inopinabilmente in certi passaggi è oltremodo eccessiva, per la sua tendenza al sottrarre che a tratti prevarica in maniera determinante la comprensione delle sue idee, e in fine per la superiorità implicita con cui si approccia all' intera vicenda, sottintendendo fin dalla partenza dei presupposti che, vuoi per il divario temporale tra la prima stesura dell’opera e i giorni nostri, vuoi perchè nessuno riesce ad entrare fin da subito nella mente di un altro, vuoi per la scontata ignoranza del sottoscritto, sono tutt’altro che ovvi.
E iI risultato finale è quello di un lavoro che salvo ulteriori approfondimenti appare niente più che apprezzabile, interessante, innocuo e un po’ superfluo. Certo una volta che te lo spiegano, una volta che ne apprendi i significati reconditi, capisci quanto in realtà sia stato ingenuo considerarlo tale, quanto sia superficiale limitarsi ad una singola chiave di lettura e quanto sia presuntuoso pensare di trovarsi di fronte un dramma inutile per raggiunti limiti d’età, ma appunto te lo devono spiegare, occorre fare una ricerca, inserire il lavoro nel contesto biografico in cui è stato creato, altrimenti è impossibile intuirlo.
Un' opera che si definisce universale, che tratta di temi universali, non dovrebbe parlare a tutti? Se la comprensione di quest' opera, lasciata a se stessa, è limitata a pochi eletti, magari addirittura ai soli pochi edotti critici che hanno fatto della loro passione un lavoro, che senso ha scrivere di argomenti che riguardano l’intero genere umano? Se si descrivono i problemi del popolo, per esortare, per insegnare al popolo, non bisognerebbe parlare il linguaggio del popolo?
In sostanza, sì, quanto disse nel 1899 Georg Brandes in riferimento ad Al di là delle forze umane ( cit. "Bjornson non ha scritto dramma più bello. Ibsen nemmeno.”,) è vero, assolutamente vero! Ma... finché non te lo fanno notare non te ne accorgi proprio.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ha poco tempo, grandi interrogativi e qualche aspirazione
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantasy
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    07 Novembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Questione di pesi e cinture

Per metà Signore degli anelli e per metà Pirati dei caraibi, il romanzo d’esordio di Scott Lynch sembrerebbe contenere tutti gli elementi, le situazioni, e i personaggi di uno tra i più banali fantasy in circolazione; limitandosi al riassunto della trama in ultima di copertina verrebbe da pensare infatti che non sia altro che la summa di tutti i luoghi comuni, usati, abusati e vergognosamente sfruttati da quegli scrittori da quattro soldi che, adeguandosi alle richieste del mercato, cavalcano fino allo sfinimento il reddivivo filone letterario che vede in Tolkien (e oggi giorno forse solo in George R. R. Martin) i più illustri e autorevoli esempi.
Verrebbe da pensare così... ma si rischierebbe di prendere una grossa cantonata.
Gli Inganni di Locke Lamora, è sì uno stereotipo di tutta la narrativa filo-fantasy/filo-banale in voga di questi tempi, ma a suo modo ne è anche un archetipo, un archetipo post - litteram: le vicende, le ambientazioni, i personaggi, sono tutti già noti, eppure ciònonostante hanno un qualcosa che li distingue dal resto della letteratura precedente, che pur nella loro ovvietà li rende originali, unici, appunto archetipici di un genere che, malgrado abbia detto tutto quel che aveva da dire ormai da diversi anni, in alcune piccole nicchie letterarie, in alcuni casi isolati, come questo di Scott Lynch, riesce ancora a risplendere e dare il meglio di sé.
E’ un fenomeno particolare, quello de “Gli Inganni”, difficile da spiegare, forse legato alla scorrevolezza dello stile dell’autore (anche se in realtà non ha nulla di più e nulla di meno di quello di molti altri scrittori a lui simili), forse legato alla dinamicità della trama (anche se basta prendere in mano un Clancy o un Crichton per trovare storie altrettanto dinamiche), o alla variopinta e accattivante atmosfera in cui si dipana il racconto (anche se basta rileggersi una pagina di Tolkien per ritrovarla, e molto più amplificata per giunta), o alla appena sviluppata e ciò non di meno esaustiva psicologia dei personaggi (anche se Ken Follett, e come lui molti altri, ne aveva già fatto parte integrante del suo stile ancora prima che Lynch imparasse a leggere e a scrivere), forse è un fenomeno legato a questo, o forse a qualcos’altro ancora, qualcosa di non ben ponderabile, come il perfetto equilibrio tra gli elementi sopra accennati, o addirittura, semplicemente, il caso, la fortuna; ma questo, questo fenomeno, questo effetto, fa de "Gli Inganni" un libro che sorprendentemente intrattiene, inaspettatamente diverte e, a costo di essere orrendamente banali, tiene con il fiato sospeso fino all’ultima riga.
Sì, probabilmente a pensarci bene, è tutto merito dell’equilibrio: Gli Inganni di Locke Lamora è un libro ben bilanciato in ogni suo aspetto, in ogni sua parte, e poco importa se queste parti sono inevitabili scopiazzature di altri più illustri pagine di letteratura, poco importa se rimandano a lavori più celebri di scrittori ben più autorevoli, in fondo, come direbbe un esperto di musica, le note sono sette e per forza prima o poi si devono ripetere, e non importa se la ripetizione è palese o ben mimetizzata, poiché se si riesce a farle suonare bene assieme ciò che si ottiene è comunque un’ottima melodia.
Certo più di una volta sfogliando il libro viene da sorridere ripensando agli elaborati intrecci e alla solida ossatura dell’opera di Tolkien o all’occhio visionario di Orwell o ancora, per estendere il discorso alla letteratura in generale, all’introspezione dostoevskijana, o alla concreta solidità che rende le opinioni di Hemingway degli assoluti letterari, ma sarebbe del tutto inappropriato, sia a livello logico che a livello istintivo, acconsentire alla formulazione di tali paragoni. Si tratta di romanzi diversi, con obbiettivi diversi, scritti in tempi diversi.
Tolkien, Orwell, Hemingway... e Scott Lynch, d'accordo assurdo, ridicolo persino! Ma chi farebbe combattere il campione dei pesi massimi con quello dei piuma? Sarebbe un massacro, sarebbe ripugnante, sarebbe da irresponsabili, e allora uno è più bravo dell'altro? No, al contrario entrambi, nella loro categoria, nel loro ambito, sono parimenti meritevoli, entrambi, nel loro "enviroment" sono egualmente validi e valorosi.
Verrebbe da chiedersi allora a che ambito appartiene Lynch, ma questo è a discrezione del singolo lettore e di quanto egli sia disposto concedere al gusto e alle emozioni a scapito dell'obiettività.
Ad ogni lettore dunque, al "suo personalissimo cartellino”, il compito d'attribuire il ruolo che a Scott Lynch compete nella storia della letteratura, però attenzione, ribadisco: i pesi sono diversi, la forza è differente, differente dunque è anche l’interesse suscitato, ma se nella propria categoria uno conquista la cintura allora quell' uno è un campione tanto quanto quell’altro che per natura e destino ha maggiori possibilità, se nel settore che gli compete uno da il meglio di se allora quell'uno è degno di lode esattamente come lo è colui che per educazione, ambiente e forse epoca è naturalmente più portato ad eccellere; e se poi quell'uno è addirittura uno scrittore appena trent’enne che riesce a spiccare così tanto tra i suoi innumerevoli e banali simili tanto da vendere i diritti cinematografici della sua opera a una major hollywoodiana, allora quell'uno va preso in considerazione quanto e come i grandi di ogni tempo, nonostante sia opinione comune e giustamente consolidata che questi ultimi fossero di tutt’altra risma e calibro, poiché se oggi giorno questi pilastri della letteratura sono noti a chiunque è bene ricordare che un tempo anche loro non sono stati altro che degli esordienti semi sconosciuti, anche loro se la sono dovuta vedere con le più ingombranti celebrità della loro epoca, anche loro sono stati degli Scott Lynch qualunque.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Fantasy moderni commerciali
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    25 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Genio e "regolatezza"

Stoicismo è la prima parola che viene in mente pensando a La Svastica sul Sole, tuttavia questa parola non è legata al romanzo in sè; anche se a ben vedere la popolazione americana che nel mondo di Dick ha perso la seconda guerra mondiale e deve vedersela quotidianamente con le leggi dei nazisti e la mentalità dei giapponesi potrebbe essere a ben ragione definita stoica; tuttavia no, la parola non è strettamente legata ai contenuti del romanzo, ma ai lettori: "stoicismo" definisce quale dev'essere la principale qualità delle persone che vogliono affrontare questa lettura.
La Svastica sul Sole (titolo italiano per altro fuorviante, la cui scelta è difficilmente spiegabile se non per banali ragioni commerciali) non è il "solito" romanzo alla Dick dalle crepuscolari e futuristiche prospettive che si intrecciano a creare una storia in cui il malessere di un' uomo è il malessere della società, al contrario è un libro impegnato, difficile da seguire per i continui cambi di inquadratura, e che fa dell'elemento fantastico solo un pretesto per elaborare una complessa disamina degli eventi storico - politici immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale.
Ed è talmente complessa (per non dire confusa e cervellotica) questa disamina che i rimandi, i paralleli, i riferimenti con la situazione politica internazionale dell'epoca, non si colgono (salvo i più ovvi e grossolani) e il lettore comune, il lettore che è dotato sì di cultura e conoscienze storiche ma per ovvi motivi non ha le competenze di uno che ha fatto della storia la sua professione, rimane obnubilato dalla baraonda di informazioni, dettagli e curiosità gettate qua e la dall'autore lungo tutta la narrazione.
Lo stratagemma utilizzato in verità e' brillante: creare una realtà parallela, specchio della nostra, in cui la vita e tutto ciò che la contorna è simile a come noi già la conosciamo ma con il piccolo particolare che è all'esatto opposto e, grazie a questo paradosso speculare, raccontarci cosa è successo nell'immediato dopo guerra, o per meglio dire: denunciare i tanti vizi e le pochè virtù di cui si è resa capace l'umanità in quel periodo. L'idea dunque è assolutamente ingegnosa, ma se il suo potere, l'iniziale effetto sorpresa, viene speso subito e in malo modo (troppi personaggi in così poche pagine e neanche un vero protagonista) dopo poco ci si rende conto che senza una trama adeguatamente profonda la sorpresa di per sé non è sufficiente a supportare l'interesse del lettore fino alla fine. Lettore che tra l'altro, è bene sottolinearlo ancora una volta, trovandosi di fronte ad un costante spostamento delle luci di scena, non riesce mai ad entrare nella trama, a sentire suoi i problemi dei personaggi e a condividere le emozioni e i pensieri dei tanti protagonisti.
Certo la scelta di Dick di non darci un punto fisso e' più che spiegabile, infatti il suo intento non era certamente quello di raccontarci una storia qualunque, il suo intento era quello di farci comprendere che non sempre tutto ciò che "noi vincitori" abbiamo fatto, facciamo e faremo (vuoi in quella guerra, vuoi nelle future) è corretto ed equo agli occhi della giustizia universale, che non sempre quel "bene comune" per il quale noi crediamo di agire è realmente tale, poichè molte volte non è nient'altro che un diritto acquisito con le armi; questo era il suo intento, e dunque la sua scelta è più che spiegabile ma, come è vero che il fine non sempre giustifica i mezzi, così talvolta è vero anche che i mezzi non sempre giustificano il fine. E in questo caso i mezzi utilizzati dall'autore per buona parte della narrazione non sono per nulla adeguati allo scopo, anzi: il romanzo, senza una trama solida e dei personaggi ben delineati ottiene quasi l'effetto opposto, tanto che leggendolo si rischia di iniziare a non sopportare più questa assurda realtà parallela fatta di tedeschi boriosi e giapponesi incomprensibili e a cadere nuovamente nell'errore la cui correzione era appunto il fine ultimo di Dick, nel tornare cioè per esasperazione a ritenere la società da noi creata quella giusta, quella migliore e dunque quella superiore.
E per evitare ciò si è costretti tenere sempre a mente che il romanzo è solo un' allegoria, una sorta di dimostrazione per assurdo di un concetto, si è costretti a stringere i denti e a ragionare costantemente senza mai riuscire a perdersi nella trama, ad accettare, digerire ed assimilare quell'assurdo mondo ribaltato di Dick.
"Stoicismo" dunque e' ciò che viene da pensare ricordando le sensazioni durante la lettura. Stoicismo. Almeno fino ai capitoli conclusivi, almeno fino alle ultime venti/trenta pagine del romanzo, venti/trenta pagine in cui finalmente si riaccende la luce della viva genialità dell'autore e in un rutilante crescendo si tirano le somme di tutta la vicenda. Venti trenta pagine di grandissima letteratura che si chiudono con lo stupendo discorso - presa di coscienza dell' "Uomo nell' alto castello" (da cui il titolo originale dell' opera), di colui ovvero che, parallelamente a Dick, in una realtà agli opposti, è riuscito a concepire una dimensione differente, a riconoscersi in essa e a negare la sua attuale; tale uomo (scusate se non aggiungo altro e vi sembro poco chiaro ma non voglio rischiare di rovinare il finale) è l'incarnazione della speranza, della via d'uscita, e se ciò che dice è verò è anche il mezzo di redenzione dell'umanità, e nel gran finale fa questo discorso, autentico, disincantato, toccante, un discorso che ribalta nuovamente la prospettiva delle cose, un discorso talmente potente che sembra animarsi di vita propria e sfuggire di mano tanto al suo autore fittizio che al suo autore reale, un discorso dove Dick stesso, travolto dalle sue idee, dal suo mondo, smette di essere il narratore e diventa un oratore e per mano dell'autore fittizio (suo alter ego all'opposto) buca la quarta dimensione, come solo Chaplin nel Grande Dittatore era riuscito a fare, e ci parla fissandoci direttamente negli occhi.
E se le parole di Chaplin, sono un dura accusa della società ma al contempo anche un’ esortazione al bene che denota un'incrollabile e commovente fiducia nel genere umano, le parole di Philip K. Dick sono quanto di più pessimistico, sconfitto e triste vi possa essere. Sono la definitiva condanna del genere umano, che nella sua visione è la causa di ogni male e dal male, come si sa, non può generare altro che ulteriore male. E se Chaplin con impeto lascia spazio alla speranza, nobilitando l’uomo per il fatto stesso di aver potuto dare alla luce qualcuno in grado di pensare, scrivere e dire quelle parole, Dick con disincanto sfonda quello spazio marcandolo come l'assurda illusione di una razza, quella dell'uomo, che non potrà mai trovare la pace, neppure nell’illusione di una coscienza generata dagli psicofarmaci, dall’alcool e dalle droghe.
Due discorsi all'opposto, dunque, come le realtà del romanzo, il primo, quello del Grande Dittatore, puro, ingenuo, magnifico, il secondo, quello della Svastica sul Sole, sporco, disincantato, terribile. Forse non a caso entrambe le opere, il film e il romanzo, sono strettamente legate alla seconda guerra mondiale, il punto più basso che ha raggiunto l'umanità' nella sua storia...
Entrambe vertono su quella, ma è la chiave di lettura ad essere differente: nel film la guerra rappresenta l’opportunità della ripartenza, la base della montagna dalla quale l'umanità deve incominciare la sua risalita per raggiungere la vetta e riscattarsi; nel libro invece rappresenta la causa, la logica conseguenza di quello che siamo, l’arrivo, la vetta da cui l'umanità' può soltanto precipitare.
Sta ad ognuno scegliere come vederla, quale di queste due visioni all'opposto fare propria, è bene però notare che se il discorso della scena finale del Grande Dittatore è considerato da chiunque come ispirato, magnifico e genuinamente meraviglioso, quello di Dick essendo all'esatto opposto non può essere considerato in altro modo se non altrettanto ispirato, tremendo e genuinamente orrendo.
Dunque uno magnifico e meraviglioso e l'altro tremendo e orrendo, ma entrambi ispirati e genuini. Entrambi a loro modo geniali, come geniali le menti di coloro che li hanno creati, la prima quella del grande attore/regista, la seconda quella del grande scrittore, che qui ancora una volta, malgrado l'effetto sorpresa sprecato fin da subito, malgrado l'eccessiva cerebralità di molti dei passaggi lungo la narrazione, nel finale si riscatta e ci consegna quelle che probabilmente sono le più belle pagine di tutta la produzione letteraria degli ultimi cinquant’anni.
Ad avere una visione poetica delle cose verrebbe da pensare che gli alti e bassi di questo libro siano nient'altro che gli alti e bassi della società moderna, degli istinti dell'uomo in eterno conflitto tra bene e male, tra vizi e virtù e che il riscatto finale dell' autore non sia altro che il riscatto finale dell'umanità' ...ma questa sarebbe la visione poetica di Chaplin, non quella disincantata di Philip K. Dick.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi sa di poter reggere fino alla fine...
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    17 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Guerra Fredda e Popcorn

Scritto nel 84 e pubblicato in Italia diversi anni dopo per molti aspetti Missione Eagle può essere considerato il seguito di Salto nel Buio, un seguito indiretto. Personaggi, situazioni e dinamiche infatti sono simili ma l'atmosfera ahimè no. Se nel primo la vicenda, che verte sulla tensione tra Stati Uniti e Canada, non ? nient'altro che un riflesso, un rimando, alla più grave crisi con l' Unione Sovietica (crisi di cui lungo tutta la narrazione se ne avverte sì il peso, ma più appunto per le atmosfere e gli atteggiamenti dei protagonisti che per degli oggettivi concreti accadimenti) qui, in Missione Eagle, si tira in ballo la "cosa vera", la Guerra Fredda, quel complesso dissidio internazionale tra le due super potenze che in quegli anni più volte parverò sul punto (anche con futili pretesti) di far scoppiare un terzo conflitto mondiale. E tirandola in ballo (verrebbe da dire finalmente in ballo) ogni rapporto, circostanza, causa e conseguenza, che nel primo romanzo si tingeva di oscuri presagi per luce riflessa, qui diventa oggettivamente più cupa, più sinistra, e ogni atteggiamento, differenza di opinione, e di veduta, diventa più netta, marcata e se si vuole spietata. Non c'è più tempo per concederersi alle riflessioni, alle ipotesi, alle sensazioni del precedente romanzo, qui bisogna agire, bisogna fare qualcosa, bisogna porre rimedio ai fatti con i fatti altrimenti non è più solo una guerra fredda ma una guerra vera, altrimenti sono i missili nucleari, altrimenti è la fine dell' umanità! E tutto così in Missione Eagle diventa azione, e l'affascinante oscura atmosfera di Salto nel Buio, che lasciava spazio a ipotesi e dubbi, diventa la spigolosa e semplice rappresentazione da battaglia navale delle schermaglie tra due nazioni, e le incertezze diventano miopi certezze, e l'affascinante disincantato distacco dei protagonisti diventa l'implacabile (e talvolta) cieco estremismo che fa presa sulla popolazione nei momenti di crisi, un estremismo che si gonfia la bocca dei "sacri" termini di Patria, Giustizia, Ragione, senza capirne realmente il valore, senza ammettere che la difesa di tali valori è sì lecita e quanto mai auspicabile, ma lo è da entrambe le parti, lo è anche per gli altri, per quei popoli, popolazioni, uomini, che in un dato momento storico, in un preciso contesto temporale, definiamo "nemici."
Loro sono diversi, loro hanno differenti interessi, loro sono contro di noi, dunque loro sono i nemici, dunque noi dobbiamo combatterli. Forse giusto così, forse è più realistico, del resto la storia insegna che da quando esiste l'uomo vale il detto "mors tua vita mea", è la legge di natura, la legge del più forte, tuttavia narrativamente parlando (poichè non bisogna scordarsi che qui sì è comunque sempre di fronte ad un romanzo che, pur attinente alla realtà, rimane sempre il frutto della fervida immaginazione di uno scrittore), narrativamente, si viene a perdere qualcosa: è il lusso della prospettiva storica, la possibilità degli uomini di farsi un'idea più concreta e imparziale con lo scorre del tempo, grazie allo scorrere del tempo, e allo scemare delle tensioni. Pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo sarebbe stato abbattuto il muro di Berlino, sarebbe accaduta cioè quella cosa che agli occhi di tutto il mondo avrebbe sancito in maniera più o meno allegorica e definitiva la conclusione della Guerra Fredda; pochi anni dopo già, ma in realtà era da alcuni anni che ormai se ne parlava, era da alcuni anni che ormai si respirava un clima di distensione, e di certo i dissidi tra le nazioni non erano più così accesì come dieci, vent'anni prima; dunque che bisogno c'era dell'estremismo, dunque che bisogno c'era di rispolverare per l'ennesima volta il vecchio paradigma "Usa buoni - Urss cattivi"? Magari si poteva evitarlo, magari si poteva ometterlo o anche solo celarlo all'insegna di una più interessante e imparziale prospettiva, una prospettiva magari più focalizzata sulla vicenda dei singoli (come appunto in Salto nel Buio) che su un pirotecnico ma improbabile rischio di conflitto mondiale. Ma così non è e dagli sfuocati e disincantati personaggi del precedente romanzo qui si torna ai buoni e i cattivi, agli integerrimi paladini del bene e ai sadici, e talvolta macchiettistici, ciarltani tipici della cultura del tempo.
Forse è proprio questo il problema principale di Missione Eagle, il problema che sul piano della qualità lo colloca qualche passo più indietro rispetto al precedente romanzo: che è troppo figlio della cultura dell'epoca, quella stessa cultura che voleva che se nei film il cattivone di turno era uno str... di prima categoria o un gradasso un po' stupidotto, quello doveva essere per forza Russo, quella stessa cultura che scampato ormai il pericolo esorcizzava le paure esasperando i tratti distintivi dei presunti nemici per ridicolizzarli e così riderci sopra. Forse è proprio questo il problema: che al pari di quei film (basta vedere Rocky IV o un qualsiasi James Bond dell'epoca per rendersene conto) descrive la situazione internazionale non tanto come il complesso e realistico retroscena davanti al quale si svolge una singolare vicenda, ma come un' ovvietà la cui unica cura è sfogarne la tensione caricaturizzando la stupidità di fatti e personaggi.
Troppo figlio del suo tempo, troppo figlio della cultura di un' epoca, e come gli altri prodotti di quella cultura, (di cui, intendiamoci, tutto si può dire tranne che non fosse divertente, compresi i vari Rocky e James Bond!) anche qui l'obbiettività e il realismo lasciano il posto al dogmatico eroismo dei buoni, il ragionamento e la profondità ai posticci colpi di scena, i dubbi e le incertezze alle risate al gusto di popcorn nelle sale dei cinema.
Missione Eagle insomma è un libro divertente, un "popcorn book" facile, entusiasmante, e, considerato in una certa prospettiva storico-sociale, anche interessante, ma è anche un libro che sia per respiro narrativo che per eccesso di faciloneria sarà sempre adombrato dal profondo, oscuro, fascino del precedente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri libri di Cussler
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    09 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Reale e surreale.

Una favola moderna o post moderna abilmente raccontata che, grazie a una perfetta caretterizzazione dei personaggi e a dei dialoghi finemente cesellati, riesce a ricreare quell' affascinante atomsfera reale/surreale tipica dei film di Woody Allen.
Di fatto non è un vero e proprio racconto, è stato ideato per essere rappresentato a teatro e la trama è semplice e lineare e, seppur il suo evolversi abbia la statica cadenza dei tempi del palcoscenico e le riflessioni dei protagonisti si prestino (volendo) ad una approfondita analisi, il testo si mantiene amabilmente scorrevole e leggero come è giusto che sia. Si parla qui infatti di quotidianità e la quotidianità, salvo appunto volerlo, non ha mai bisogno di complicati giri di parole per essere compresa. Dunque qui tutto è semplice, pulito, lineare, ed è proprio nella sua semplicità che sta il bello, nella piatta normalità dei principali interpreti che risiede l'universalità di questa vicenda, nella banalità di un padre fedifrago e di una madre incline alla depressione, alle prese con dei figli a cavallo tra il delinquenziale e lo sfigato cronico, che si riscopre "l'idillio" della normalità, l'idilio di una vita che ci sommerge con i suoi controsensi e i suoi problemi per poi risollevarci facendoci intravedere sprazzi di cielo, dandoci la forza di credere nel sogno.
Non sono farneticazioni romantiche queste, non sono suggestive immagini prive di contenuto, è la realta, l'evoluzione, le scimmie di 2001 Odissea nello spazio che lanciano in aria le ossa, i resti dei loro avi, sognando di volare; sono l'oggettivazione di quella costante spinta che ci fa continuare, i protagonisti e noi, a vivere e a tentare di migliorarci costantemente malgrado le incognite, malgradono gli inconvenienti che primo o poi accadono nel corso di una vita qualunque.
Speranze e delusioni, il riflettore in La Lampadina Galleggiante è particolarmente puntato su uno dei figli, il primo genito, lo "sfigato cronico" con la passione per la magia e una incontrollabile balbuzie che lo assale ogni qual volta tenti di esibirsi nei suoi giochetti davanti al pubblico; è lui il vero protagonista e la vicenda la si vive quasi esclusivamente attraverso i suoi occhi, attraverso i suoi sogni sistematicamente mortificati che danno origine a profonde delusioni. E sono questi i sogni e le delusioni di un ragazzino ma rappresentano i sogni e le delusioni di una società, quella del dopo guerra, che vuole tornare a sperare e che ogni qual volta osa porsi un obbiettivo, ed osa perseguirlo, deve fare i conti con tutte le difficoltà di un epoca e di un mondo che stenta a riprendersi.
La società dunque che si rispecchia nel ragazzino con le sue due pulsioni contrastanti quella magica e quella reale, quella sognante e quella quotidiana. Ed è infatti sullo scontro tra magia e realtà che si evolve la vicenda, la magia del ragazzino che spera di diventare un grande prestigiatore e la dura realtá della vita che fa sì che quando lui riesca finalmente ad esibirsi di fronte ad un talent scout amico di famiglia, compia una memorabile figuraccia e capisca che ciò che il mondo, la società e chiunque altro, gli chiede è molto di più di quanto ora sia in grado di dare, molto di più di quel che ora sappia fare. E le parole dello scout che gli consiglia, gentilmente, di esercitarsi di più o, autenticamente, di rinunciare del tutto, diventano una sorta di paradigma della nostra società: in fondo non è proprio questo quello che ci viene chiesto ogni giorno, di esercitarci a fare qualcosa, sia che sia lavoro, sia che sia studio, sia che siano relazioni sentimentali o più semplicemente sport? Esercitarsi, esercitarsi e ancora esercitarsi. Non è forse proprio in questo che consiste la vita, nel continuò e costante esercizio delle nostre abilità nella speranza che un giorno s'avverino i nostri sogni? Poi poco importa che le sagge parole di incoraggiamento del talent scout celino in realtà il tentativo di conquistare la madre depressa e semi-abbandonata, poco importa che abbia concesso un'audizione al ragazzino spinto dalla apparente facilità con cui suppone lei gli si conceda intuito il tradimento del marito, anzi l'indelicata ipocrisia del "terzo incomodo" sono un'ulteriore conferma della eterna disputa tra realtà e finzione, della continua lotta tra illusione e delusione, del precario equilibrio tra aspirazione e mortificazione; equilibrio che può trovare solo il ragazzino con il suo eroismo da sfigato, lotta a cui si può opporre solo il prestigiatore fallito, ma non sconfitto, con il suo costante, strenuo, esercizio volto al fondersi e confondersi di magia e realtà, disputa che può appianare soltanto il ragazzino-prestigiatore con il suo sguardo eternamente sognante e la scarsa animosita con cui non accetta una vita fatta di modeste aspirazioni e sogni infranti, vittorie passeggere e inequivocabili sconfitte.
Tuttavia limitarsi a questo, limitarsi a dire che si è di fronte ad un disincantato e pessimistico spaccato della societa dell'epoca e per estensione della vita di ogni uomo non solo sarebbe riduttivo nei confronti del testo ma anche errato, poichè vero che ne La Lampadina Galleggiante si legge di eterni sconfitti, vero che ogni singolo personaggio è costantemente avvolto da un' aura malsana di depressione ma è anche vero (e qui sta la cosa più interessante, qui sta la bravura dell'autore) che ogni singolo passaggio del testo, ogni deprimente mancanza dei protagonisti, è descritta, raccontata e analizzata con sottile e squisita ironia, con una sorta di algofiliaco e sarcastico humor che di volta in volta prende alla sprovvista il lettore, facendolo sorridere e facendolo riflettere sulle sue personali delusioni e facendogli in fine ricordare che malgrado ogni dispiacere, malgrado ogni delusione, è sempre meglio svegliarsi con un sorriso che con una lacrima, è sempre meglio svegliarsi con un sogno che con la paura che quel sogno venga infranto, o come forse sosterrebbe l'autore stesso... che, a prescindere, è sempre meglio svegliarsi!
Questo dunque è il messaggio de La Lampadina Galleggiante, il significato di una storia improntata non, come sostengono in molti, sul grigiore della realtà ma sulla magia del riuscire a riderci sopra, non sulle inevitabili sconfitte della vita ma sulla resistenza degli sconfitti che grazie all'ironia continuano a lottare, sognare e vivere.
Non aggiungo altro poichè il libro di per se è molto breve, dunque, considerata la sua spontanea, normale e a tratti surreale bellezza, è molto meglio spendere del tempo per rileggerlo, piuttosto che per analizzarne ancora i singoli contenuti.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri lavori dell'autore, opere teatrali (commedie) moderne
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    01 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

L'anello mancante

Il tempo che si cristallizza in una lucente bolla di cruda passione, di odorosa realtà (giacché la realtà quand'è tale ne profuma ne puzza) e di vivida armonia, e il respiro dell'uomo che si fonde con il respiro universale concorde con il ritmo della vita. Verdi colline d'Africa non è il resoconto di un safari, non è la storia (vera) dello scrittore in cerca di emozioni che organizza battute di caccia in Africa, è di più: è il richiamo del selvaggio, il ricollocamento dell'uomo nel proprio naturale ambito d’appartenenza; e non è solo il racconto di un episodio di un' interessante vita: è il racconto di tutte le vite.
Il genere umano con tutta la superiorità di cui è capace vantarsi tende a prendere le distanze dalle sue origini, dalla sua discendenza animale, Hemingway con questo libro lo riporta con i piedi per terra, o per meglio dire nel fango, nella sabbia, nell'erba, non più evolutivamente sopra gli altri esseri ma in mezzo ad essi con l'armonia della propria specie a contatto con le altre.
Per decenni si è cercato l’anello di congiunzione tra l' uomo e gli altri animali, questo libro per la prima volta c’è lo mostra, ce lo descrive: è ciò che ci circonda, ciò che condividiamo con gli altri, uomini e non, il terreno su cui camminiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo. Tutto ciò che ci lega ad ogni altro singolo essere vivente, questo è l’anello. Non a caso questa armonia, questo anello che non riuscivamo a trovare, a spiegarci, Hemingway lo trova in Africa, la culla della vita, dove il contatto tra uomo e suoi simili è ancora possibile (almeno all’epoca dello scrittore, almeno stando a quello che ci racconta) dove la vita tra uomo e animale può ancora appunto essere armoniosa.
Attenzione però armonia non vuol dire l'artefatta immagine idilliaca di un paradiso terrestre in cui tutte le creature vivono in pace tra loro, ma è l’equilibrio della realtà, è il rapporto dell' essere umano con tutte le creature nel giusto ordine delle cose. L'uomo è parte della natura e la natura (ammesso che si possa attribuirle una caratteristica del singolo) è violenta: in natura gli animali cacciano, mordono, uccidono e così anche l'uomo, e cosi anche gli uomini del libro.
Dunque la caccia non più come gesto barbaro di una mente superiore che malgrado il suo acume prevarica gli esseri inferiori, ma come gesto normale, come normale è il ciclo della vita, di tutte le vite. Dunque il cacciatore non più come estemporanea incognita, malgradita da un ecosistema perfettamente autonomo, ma come tassello di quel puzzle eterno ed essenziale che comprende l'esistenza di ogni essere vivente.
Il viaggio, il safari, raccontato in "Verdi colline" è relativamente breve, e dal ritmo della narrazione traspare la fretta che in una permanenza di pochi giorni pervade la mente del viaggiatore: la paura che passate un paio di notti il sogno finisca, il timore che tempo di disfare le valige e sia già ora di rifarle; e più che una battuta di caccia, il racconto pare una costante rincorsa del momento perfetto, dell'istante dove, felici di essere "altrove" , finalmente ci si gode la vacanza e il tempo non conta più. Ma quell'istante si fa attendere: ha l'aspetto del leone che non riescono a trovare, del cervo (o quel che è) che non riescono a colpire, e quando finalmente ci riescono, quando l'autore preme il grilletto e colpisce la sua preda, ci si rende conto che in realtà è già passato, che l'istante è nuovamente sfuggito e che ci si era anche sbagliati, poichè non è nello scovare la preda, nell' ucciderla, la perfezione, ma prima, nello scorgerne le tracce, nel trovare la pista, nell'acquattarsi dietro un cespuglio per studiarne i movimenti, per attendere che il vento non rivelì l'odore dell'uomo, la sua presenza. Quelli erano i momenti giusti, gli istanti perfetti: quelli delle attese, quelli che anche nel viaggio, nella stranezza, nell'originalità, sono la quotidiana normalità. Ed Hemingway ad un certo punto se ne accorge, lo sente, lo capisce e il ritmo della narrazione prima e dopo affrettato, lì, in quei momenti, diventa calmo, lento, statico, tanto che pare arrestarsi e dilatarsi all'infinito come a ribadire che le singole ore della caccia e le singole ore del giorno (poichè pur nel particolare di un esperienza fuori dal normale qui il libro si fa parabola del quotidiano vivere) le singole ore, le si possono frazionare in minuti e in secondi, e ogni secondo in milionesime parti, ma nessuna di queste conta se non la si sente, comprende, vive e gode fino in fondo; e solo allora, quando le si saranno comprese e si sarà dentro di esse si troverà che il tempo in realtà non conta, che il passato e anche il futuro non hanno importanza ma solo il momento.
E' solo in quello, sembra dirci Hemingway, nel momento, che il cacciatore è presente; è solo in quello che, grazie alla viva forza dell'animale a confronto con la sua, l'uomo può trovare l'anello mancante tra le specie e il suo ruolo nella natura; ed è solo in quello che l'autore è veramente se stesso e può raccontarcelo, e noi leggerlo. Prima di questo istante infatti lui e noi non ci siamo più, siamo già oltre, dopo questo istante non ci siamo ancora, dobbiamo ancora arrivarci, e così anche il libro: quello che sì è prima della caccia va lasciato dietro, quello che si è dopo va lasciato davanti.
E’ estremamente difficile avere esperienza del presente, e in quello avvertire l'energia che lega ogni essere vivente ad ogni suo simile, ancora di più narrare una storia che vi si mantenga costantemente con coscienza, descrivendo questa energia, mostrandocela non più come un offuscato vaneggiamento d'un santone indiano, o lo psichedelico pavoneggiarsi di un cavaliere Jedi, ma come una concreta, oggettiva, reale, e talvolta brutale, esperienza di vita; è estremamente difficile, eppure Hemingway, con il suo stile che è in grado di racchiudere l'universale nel particolare ci è riuscito (scusate il luogo comune, ma quando ci vuole, ci vuole!): è riuscito a raccontare una storia fissa nel tempo senza oggi e senza domani, che pur circondata dalla rutilante fretta dell'inesorabile incedere del tempo riesce a descrivere, la forza, l'enorme potere, che in ogni singolo istante scorre in lui, in noi e in ogni altro essere vivente.
E se qualcuno riesce in tale impresa, scrittore, pittore, o musicista che sia, davvero non occorre aggiungere altro, poichè di fronte ad un tale risultato ogni ulteriore complimento, ogni ulteriore parola, è superflua.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Particolarmente consigliato ai realisti
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    24 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Inaspettatamente il migliore

Un Cussler ancora giovane ma già affermato scrive questo libro con uno stile solido e concreto senza ancora concedersi a quei cliché che nei romanzi sucessivi l’hanno reso famoso e che nei romanzi più recenti hanno il sentore di banale ripetizione.
E' superfluo specificare che da questo genere di narrativa tutta “effetti speciali” non ci si deve mai aspettare troppo, tuttavia il libro pur rientrando completamente in questo ambito, in parte ne trascende anche i canoni: la trama qua non è asservita al ritmo, l’ambientazione non è un obbligo nei confronti dell’autenticità della vicenda, ma l’esatto contrario.
In questo romanzo è l'atmosfera l’elemento principale: la notte, l'assenza di luce, il buio del titolo (“Night” nella versione originale), che può essere inteso come l'oscurità del profondo lago attorno al quale si svolge parte della vicenda, ma anche l'oscurità di un periodo storico, quello della guerra fredda, o quello delle lunghe ombre che avvolgono le coscienze degli uomini allorché avvertono sulle loro spalle il peso di sfilacciati equilibri internazionali e la precarietà della loro condizione di singoli esseri umani sull'orlo del baratro di un terzo conflitto mondiale. Questo è quell'elemento principale, l'elemento che rende l'opera differente, meno lineare delle altre forse, meno avvincente delle successive, ma sicuramente più intima, personale, profonda; questo è quell'elemento particolare e costante che avverte il lettore lungo tutto il romanzo. Ed è sempre grazie a questo che qui si ammira il maggior sviluppo dei personaggi di tutta bibliografia Cussleriana, il cui loro immancabile eroismo per una volta non è un attributo tanto congenito quanto fine a se stesso (l'eroe è tale poichè così richiede la storia), ma un più razionale, disincantato, freddo aspetto del carattere di un essere umano.
Certo da Dirk Pitt ci si aspetta sempre lo sprezzo del pericolo e il brillante dinamismo dell'eroe senza macchia, tuttavia qui, pur non deludendo il lettore, non ha più la disposizione d'animo dell'essere umano perfetto, ma il cinismo di chi è consapevole dell’inutilità dei suoi sforzi, e le sue gesta non sono tanto dettate da una topolinesca o supemaniana dedizione al dovere, al giusto, ma dal bisogno di sentirsi protagonista del rischio, dal romantico istinto di essere il primo a correre sull’orlo del precipizio quando tutto il mondo sembra stia marciando inesorabile verso l'autodistruzione.
Seppur sempre entro certi limiti imposti dal mercato qui dunque non si è di fronte al solito Cussler, la storia che racconta infatti non è particolarmente avvincente, il ritmo non è particolarmente serrato, anzi, storpiando il gergo musicale, il ritmo qui potrebbe essere quello di un "adagio meditato" o "incerto", con sporadici passaggi di "andante con brio", che come è giusto che sia si fanno via via più frequenti verso la conclusione. E il finale, senza svelare nulla, non è la banale e pirotecnica summa di quanto avvenuto nelle precedenti pagine, ma l'adeguata conclusione di un' opera forse minore, ma di sicuro unica nel suo genere. Poichè se l'eroe con quella sua sorprendente e forse involontaria introspezione si fa inaspettatamente emblema dell'uomo normale, il finale con il suo sofferto romanticismo, che contiene un messaggio di intrinseca speranza nell'incertezza del momento, una sorta di epitaffio della routine contrapposto al canto dell'autodistruzione, conferisce a Salto nel Buio il titolo di irriconosciuto emblema del mood sociale di un'epoca, di disincantata esegesi di un periodo storico.
Queste le sensazioni che permangono ad anni dalla lettura del romanzo; queste e lo stile dell'autore che non riuscirà più ad eguagliarsi, per abilità narrative, neanche nei suoi successivi e più celebri lavori.
Salto nel buio in conclusione è un libro cupo, a tratti malinconico e lento, tuttavia è anche intrigante, sorprendente e fresco, come l’ inattesa ventata nella piatta calura di un genere letterario già allora troppo ricco di autori di belle speranze e false promesse, come la solitaria e oscura ombra su un già allora troppo infuocato viale dell' intrattenimento di massa.
Del resto se anche a detta dell'autore stesso è il romanzo che gli è riuscito meglio ci sarà un motivo no?

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri romanzi di Cussler, libri noir e romanzi da cortina di ferro
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    17 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Domande per riflettere

Un libro che fa riflettere. Scritta così potrebbe sembrare un opinione banale per classificare un qualunque saggio di denuncia sociale, ma non fraintendetemi: Underground è un libro che fa riflettere a 360°, anzi va oltre la semplice riflessione contenutistica.
Il primo pensiero dell' autore, ovviamente va alle vittime del gas sarin, alle numerose persone colpite dall'attentato del '95 alla metropolitana di Tokyo, da cui il libro, e il primo impatto del lettore con Underground sono le testimonianze dirette di coloro che c'erano, che quel giorno erano presenti proprio lì su quei treni, in quei vagoni.
- Quante vittime, quanto hanno sofferto, quali le ripercussioni fisiche, psicologiche, sociali di un simile trauma tra i sopravvissuti, come reagire, come affrontare di nuovo il quotidiano senza sentire il peso di un implicito straniamento nei confronti di una società in cui tutta la vita si lotta per appartenervi degnamente e che poi d'improvviso, vuoi per la mano di un folle, vuoi per il cieco destino che ti colloca in quel posto in quella precisa ora, ti volta le spalle e ti tradisce mortificando tutti i tuoi sforzi, resettando la tua biografia nel migliore dei casi (se perdi il lavoro) a ventenne in cerca di un impiego e nel peggiore (i feriti gravi) a bambino, a neonato, ad essere non più auto sufficiente, non in grado di esprimersi e tuttavia con una coscienza adulta? - Queste le domande che Murakami si pone, talvolta che ci induce a porre, nella prima parte del suo lavoro. E sono domande legittime, giuste, normali, forse addirittura banali se non si temesse di mancare di rispetto alle vittime. E se Underground si limitasse a queste forse già basterebbe, già sarebbe un importante cronaca di quei tragici fatti, un documento storico che empaticamente risuonerebbe nell’io del lettore risvegliando i timori più profondi e sopiti, quelli del concreto, del reale: non tanto dell’effettivo pericolo, quanto della certa constatazione che nella vita non vi è nulla di permanente, di costante, e soprattutto che, per quanto ci si possa sforzare a certe cose è impossibile opporsi.
Forse sarebbe già sufficiente dunque, ma per fortuna nostra (usare termini con connotazioni positive trattando di questi temi pare sempre fuori luogo) l’autore non è pago e dopo l'ardente sofferenza dei racconti dei soprevvissuti, con una lucidità e un equilibrio stupendamente disumani (poiché sarebbe troppo comprensibile, normale, troppo umano appunto, ribellarsi e adirarsi bollando di luoghi comuni l’accaduto), va a sondare i motivi che hanno portato ad un simile attentato. E dove va a cercare questi motivi? Direttamente in “terra nemica” intervistando, se non gli attentatori stessi (cosa preclusagli probabilmente per motivi legali), gli affiliati, gli adepti allo stesso culto degli artefici della carneficina, coloro i quali insomma se non a giustificare, sono disposti almeno a comprendere i motivi che hanno portato i loro “compagni” ad agire in quel modo; e ancora, non solo l’autore ne riporta la testimonianza, li intervista, vi dialoga, vi discute tentando di opporre la logica all’illogicità, la ragione al cieco fondamentalismo del seguace e in fine dei conti l’umano al disumano, ma tenta anche di calarsi nei loro panni, di mettersi al loro stesso livello. Ed è qui che nascono finalmente le riflessioni più interessanti, ed è qui che l'autore ci porta, con perfetta logica, a porci le domande più importanti e talvolta abberranti.
Non aggiungerò altro poichè ognuno deve arrivare alle proprie conclusioni senza essere influenzato dal pensiero di altri. Attenzione però leggendo questa parte a non commettere l'errore di credere che Murakami voglia fare l’avvocato del diavolo: a lui non interessa giustificare i terroristi, il suo intento, è quello di andare più in profondità, di comprendere cosa c’è dietro al semplice brutale atto, e ancora di più, cosa c’è dietro all’esecutore materiale, quali possono essere i motivi che lo portano a compiere una tale aberrazione della natura, quale può essere stato, prima del momento fatidico, il suo ruolo nella società e cosa l'ha portato a diventare prima un interessato, poi un affiliato ed infine un adepto di un culto che con una mano benedice e promette libertà e con l’altra sottrae individualità e razionalità fino a creare una marionetta mostruosa.
Superata comunque questa seconda parte sull'onda delle riflessioni personali poi si giunge al finale, ed è questo un finale aperto, l’indagine dell’autore infatti non porta a nessuna conclusione certa ma solleva, come giusto che sia in questi incomprensibili casi, solo altri quesiti, solo altri dubbi che a ben cercare nascono tutti dal terreno fertile di un vecchio adagio ormai noto a molti: il colpevole, ladro - assassino - mandante - esecutore - terrorista che dir si voglia, è veramente colpevole o è il frutto di una società che non lascia scampo, di un sistema che riconosce prontamente gli errori delle sue parti senza tuttavia ammettere che siano errori propri?
Scadendo nell’esistenziale, questo dubbio può essere esteso ad ognuno di noi, ad ogni aspetto della nostra vita: siamo noi padroni del nostro destino o siamo semplicemente gli esecutori di un mandante sociale?
L’angolo delle riflessioni a 360°però non è ancora del tutto compiuto, Underground in sé contiene infatti un ulteriore quesito, neppure troppo implicito dal momento che l’autore stesso ci ragiona su più volte nella postfazione, ovvero: cosa porta uno scrittore di romanzi diciamo iper-reali, per non dire surreali, ad imbarcarsi in un' impresa completamente diversa, estranea, probabilmente addirittura oltrè le sue possibilità? Cosa porta un famoso autore di romanzi a scrivere un saggio su quello che in fin dei conti è il disagio della società moderna e su quelli che sono i membri più colpiti da questo disagio? E' come se lui, l’autore, alla fine si chiedesse “perché, io Murakami, scrittore affermato di tutt’altro genere, sento il bisogno di denunciare questi fatti, perché sento il bisogno di ragionarci su, di confrontarmi e forse anche confortarmi con gli altri? Che forse io stesso, dall’alto della mia consolidata e tranquilla posizione di essere umano normale, in misura magari minore, inferiore, assolutamente non paragonabile a quella dei membri del culto Aum, dei terroristi, che forse io stesso dunque, senta questo disagio, sia una vittima di questo stesso meccanismo la cui estremizzazione porta ai risultati a tutti ahimè noti?"
Magari è proprio così, magari senza rendercene conto, tutti, chi più chi meno, percepiamo di essere artefici e vittime di un qualcosa più grande di noi a cui non possiamo opporci, tutti temiamo che, compiuta una scelta sbagliata, questa ci trasporti in un ineluttabile piramide lesionista/autolesionistica le cui estreme conseguenze sono la perdita di individualità a favore della forza del gruppo, a favore dello spirito d’unione che nasce dal coro delle voci che recitano un mantra vuoi improntato alla pietà, all’umiltà e alla pace, vuoi improntato alla violenza, alla guerra e alla morte. E magari l'unica nostra chance è proprio quella di denuciare questa scoperta e confrontarci/confortarci con gli altri per meglio comprendere il da farsi, per tentare anche solo di intuire l'esistenza di una via per sfuggire a questa dinamica a questo meccanismo di aggregazione dalle facili promesse.
E la riflessione (stavolta veramente l'ultima!) dell’autore termina proprio così, con un pensiero che suona quasi come un monito e forse non è altro che un' inopinabile constatazione: i terroristi, gli adepti del culto Aum, originariamente non facevano parte di un substrato culturale ai margini della società, erano persone normali, architetti, ingegneri, medici, gente colta, intelligente, insospettabile insomma eppure qualcosa li ha attratti, in qualche modo sono rimasti invischiati nell’assurda macchina del culto fondamentalista, del cieco estremismo, dell’assurdo disumano, e se può capitare a loro, “gente comune”, può capitare a chiunque e un giorno o l’altro potrebbe capitare anche a voi…
Roba da toccarsi i “paesi bassi” e lasciavi la mano per una settimana buona, per scherzarci su.
Stilisticamente, (sarò finalmente breve poiché in questo genere di lavoro la lucentezza della penna ha poca importanza rispetto ai contenuti) Murakami si esprime come sempre in maniera chiara, e fluida; l' unico appunto riguarda il numero delle testimonianze delle vittime: mi rendo conto che era necessario dipingere un quadro d’insieme globale e fedele alla realtà, tuttavia forse alcune testimonianze, quelle dei “più fortunati” che non hanno riportato conseguenze, potevano essere tralasciate in favore di altre magari più toccanti o in favore, e provo un umanissimo fastidio a confessarlo, della più interessante seconda parte in cui l’autore dialoga e prova a ragionare con i membri della setta. Forse avrebbe potuto, forse sarebbe stato un libro meno corrispondente alla realtà ma più pregnante, più asciutto, di maggior impatto, ma come già precisato lo stile in questo genere di letteratura conta davvero poco e se si è disposti a concedersi qualche indelicato sbadiglio iniziale e a lasciare che la viva realtà degli accadimenti trascenda la monotonia del già detto, si scoprirà un testo ricco di spunti per meditare equilibratamente sulla natura, talvolta spaventosa, dell’essere umano.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chiunque voglia ragionare.
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    14 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Ritmo & nostalgia

Già visto, già letto, già sentito, per questo genere di libri spesso non c’è mai molto da dire: alcuni si inseriscono bene nel loro settore di narrativa non impegnata, altri invece riescono soltanto a inserirsi grazie alla notorietà dell’autore che li scrive. E il loro settore generalmente si colloca tra le scatole di pelati e le conserve della nonna, nei grandi magazzini, o tra le mani sudate dei bagnanti sotto gli ombrelloni.
Vero, Cussler, King, Follett, Crichton (e qualcun altro che ho sicuramente dimenticato) sono i grandi della letteratura popolare, ma anche se hanno sempre qualcosa in più rispetto ai loro giovani ed improvvisati colleghi, purtroppo vanno sempre osservati, recensiti e giudicati con obiettività. E l'obiettività ci rammenta ogni volta che anche loro, persino loro, rientrano nell' ambito della letteratura da spiaggia, o da supermercato che dir si voglia, e dunque in tale ambito vanno sempre giudicati.
Il cacciatore non fa eccezione, non è un romanzo profondo, impegnato, intimo, e anche lui si inserisce nella sopracitata nicchia di mercato, ma a differenza di molti altri libri, grazie a Dio (grazie soprattutto se si è un fan dell’autore da più di vent’anni e se si è cresciuti leggendo i suoi romanzi, sognando di vivere le avventure dei suoi protagonisti), grazie a Dio dunque, ma soprattutto grazie a Cussler, in questa categoria risalta particolarmente e non tanto per contenuti (la storia, pur ambientata nel passato, è infatti piuttosto canonica, per non dire banale) o per trovate (i mitici arguti, ma ormai attesi, colpi di scena che han reso famoso l’autore), quanto per stile.
Sarà infatti che è il primo libro che Clive scrive da solo dopo parecchi anni, sarà che è difficile trovare un approfondimento e una simile cura per il dettaglio nei romanzi dei suoi colleghi autori (Crichton a parte, ma è anche un altro genere), sarà che, va bene, non c’è nulla di che per buona metà del libro e i dialoghi sono stereotipati quanto i personaggi ma quando inizia l’azione vera è propria, quando comincia la caccia, l’inseguimento (da cui il titolo originale "The Chase"), il ritmo è davvero incalzante e la storia per quanto ingenua diventa realmente avvincente; sarà dunque questo, e sarà anche che l’autore grazie alla sua esperienza ormai quasi cinquantennale di certo sa come mettere insieme i vari elementi di una trama per suscitare l’interesse del lettore (vedasi la parte relativa alla "catastrofe", netta, concreta, precisa, toccante eppure non retorica), e che qui, in questo romanzo, cambiando scenari, ambientazioni, personaggi, parrebbe aver ritrovato finalmente la voglia di scrivere, ma Il Cacciatore nel suo genere è veramente degno di nota ed è la dimostrazione che Cussler merita quella considerazione che gli riserva da anni il panorama letterario mondiale.
Non c’è introspezione, non c’è profondità, non c’è ne messaggio ne morale, soltanto fatti messi in fila uno dopo l’altro per creare una storia, per raccontare una vicenda, ma se solo ci si scorda per un istante che questo romanzo in realtà non apporta nulla alla propria crescita personale, almeno nulla di nuovo, se solo ci si dimentica che è un romanzo senza pretese, se solo ci si lascia andare alla cadenza della narrazione, alla sua trama, al suo incessante incedere, come si faceva un tempo da ragazzi, ci si ritroverà catapultati in un mondo fiabesco e reale, un mondo di gangster, banditi, investigatori privati, belle donne, belle macchine e bella musica, un mondo permeato da quella atmosfera suadente e romantica che solo il mito del passato può avere, che solo un grande scrittore riesce a rendere.
No,The Chase, non è un romanzo su cui si deve riflettere, non è uno di quei racconti che estrapolano, spiegano, il punto di vista dell’autore su un argomento, non è uno di quegli stupendi trascendenti e catartici scritti che ci aiutano a comprendere meglio la realtà, ad apprezzarla di più, ne tantomeno è un saggio esplicativo di un pensiero, di una teoria con cui ci si può trovare d’accordo oppure no; è un romanzo semplice, schietto, diretto, è un romanzo che si legge così per come è, senza pensarci su.
Sì, lo si legge e basta... ma lo si legge tutto d’un fiato!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri romanzi di Cussler e letteratura noir
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Mal riuscito

La cronaca di un viaggio da un capo all'altro del Giappone, niente di più e niente di meno: il resoconto non troppo dettagliato delle peregrinazioni, per lo più in autostop, di Will Ferguson attraverso una terra che agli occhi degli occidentali ha da sempre esercitato un fascino esotico. E di nuovo niente di più e niente di meno...
Per commentare adeguatamente questa tipologia di libri comunque è bene porsi sempre la seguente domanda di carattere generale: l'autore riesce a raggiungere l'obiettivo che inizialmente si era posto?
Poichè se ci riesce: bravo, ottimo lavoro; se invece non ci riesce: peccato, ritenta cambiando qualcosa.
Ma qual' è l'obiettivo che Ferguson si dovrebbe porre scrivendo il resoconto di un viaggio in terra, straniera sì, ma talmente amata da ribattezzarla "casa"?
Teoricamente dovrebbe essere quello di affascinare il lettore raccontandogli della sua esperienza in termini talmente suadenti, con particolari talmente interessanti e romantiche prospettive talmente stranianti, da farlo immediatamente correre in aeroporto a prendere il primo volo per raggiungere la destinazione narrata nell'opera (disponibilità economiche permettendo). Certo si parla per eccesso, è un esagerazione, ma a grandi linee il significato è quello; quanti leggendo di un reportage, o guardando un documentario, particolarmente riuscito non han pensato: "diamine, se avessi i soldi, o il tempo, se domani non dovessi andare al lavoro, salterei sul primo aereo e via a visitare quella città, quel paese o quella nazione!" Quanti non l'hanno mai pensato?
Ed è naturale che sia così, è uno dei motivi per cui si girano questi documentari e si scrivono questi libri.
Date dunque le summenzionate considerazioni, per comprendere "l'efficacia" del lavoro di Ferguson, non resta che porsi la seguente domanda: finito di leggere il suo libro il lettore bramerà vedere con i propri occhi la terra del Sol Levante?
La risposta è no. Anzi!
Involontariamente, cedendo il passo a quel meccanismo di odio/amore che sopraggiunge negli uomini che per troppo tempo hanno vissuto tra un popolo che non condivide le proprie consuetudini e le proprie "leggi comportamentali" (forse parlare di valori è eccessivo), Ferguson ci descrive la sua esperienza con un distacco quasi di ostentata superiorità culturale, relegando le sue vere e profonde sensazioni (scintilla imprescindibile in questo genere di opere per destare nel lettore quella smania empatica di immedesimazione in prima persona) ad un basso cumulo di affettata ironia manieristica.
Da un libro con un tale titolo ci si aspetta almeno che la narrazione stimoli il lettore facendogli annusare la parvenza degli aromi di terre straniere, ascoltare l’eco di popoli lontani, ma Autostop con Buddha proprio non ci riesce: non si eleva mai oltre la soglia del mero descrittivo rimanendo un semplice e ahinoi banale resoconto di un viaggio che ha la profondità di una guida turistica senza però esserne altrettanto dettagliato, un libro in sostanza piatto che si conclude lasciando il lettore indifferente ancorché attanagliato da un pressante dubbio: ...ma a parte un paio di aforismi gettati li a caso, cosa c'entra il Buddha del titolo?

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
141
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    07 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Fumettone

Come comparve scritto su un giornale quando uscì il libro "...c'è del genio nel delirio iper -tecnologico di Alan D. Altieri..."
E in effetti fa piacere trovare una tale cura per il dettaglio e un tale approfondimento tecnico in un romanzo commerciale. Come fa del resto piacere, per via di una sorta di orgoglio patriottico, scoprire nel corso della lettura che Altieri non ha nulla da invidiare ai suoi colleghi d’oltre oceano, indiscussi maestri della narrativa non impegnata. In Kondor infatti sembra davvero d’essere alle prese con un Clancy o un Patterson: azione, ritmo serrato, trama nettamente delineata, colpi di scena ben piazzati e un immancabile finale in crescendo all’insegna di un pragmatismo e un ottimismo made in U.S.A. che non lascia scampo alle riflessioni, alla psicologia e ai dubbi della coscienza.
Del resto è anche giusto che sia così la storia in esso narrata, l’azione in esso raccontata, non richiede esitazioni, ripensamenti o rimpianti, non richiede nulla se non appunto altra azione, avventura, decisioni estreme prese in mezzo secondo, dialoghi sferzanti sempre e costantemente volti al raggiungimento di uno scopo, all’ esecuzione d’un ordine, alla mortificazione di un avversario: - Premi il grilleto! - , -Riparati dietro quel muro! – Lurido mercenario, te la farò pagare! Tutto perfetto, tutto come previsto, proprio come appunto un Clancy o un Patterson…
E allora cosa? Allora quale è il problema di questo libro? Per quale motivo non è considerato alla stessa stregua dei Best Sellers da ombrellone dei suoi più famosi colleghi?
Naturalmente, in parte è per colpa del mercato, che per forza di cosa non può essere così ampio come quello di uno scrittore di fama internazionale, ma non è solo questo, è anche per qualcos’altro. E’ inutile sottolineare ancora che in Kondor manca ogni più pallida traccia di introspezione, approfondimento psicologico o intima riflessione, non ce lo si aspetta da questo romanzo, così come non ce lo si aspetta da un autore in tutto e per tutto assimilabile ai due sopra menzionati, poiché non è il loro genere e non è il suo genere; e allora cosa, allora dov’è il problema?
Il problema essenzialmente è che l’autore, quasi avvertendo il peso del confronto con gli altri suoi, più affermati, colleghi, sembra ansioso di non voler deludere il lettore ideale, ovvero quell’archetipo/standard del consumatore medio di questo genere letterario: quello che per lavoro, tempo, stress, voglia, disinteresse, legge un paio di libri all’anno quando è in vacanza e in quei libri vuole trovare, dramma, azione, passione, fuga dalla quotidianità e soprattutto riposo. Sembra, leggendo Kondor, che Altieri abbia tentato in tutti i modi di soddisfare quella tipologia di lettore e per fare ciò abbia inserito, facendosi prendere troppo la mano, ogni luogo comune, banalità, e stereotipo del genere action- drama. E i protagonisti qui sono per forza degli eroi, e i loro nemici qui sono per forza degli stro…, e la lealtà e i sentimenti dei “buoni” sono tanto giusti e stoicamente incorruttibili quanto solo possono essere sbagliati e stoicamente deprecabili la perfidia e la crudeltà dei “cattivi”, e così via, tanto che ad un certo punto non sembra più neanche di essere alle prese con un romanzo ma con un bellissimo e coloratissimo fumettone, talvolta intenso ed arguto, ma certamente privo di credibilità.
Il Marine torturato, seviziato e spossato che insperatamente viene salvato dal suo “grande amore” (che guarda caso ha in tasca una specie di miracolosa zolletta di zucchero) e, malgrado lui sia da mesi rinchiuso nella più sordida e sporca delle celle e sia l’esempio della denutrizione e della sofferenza, assunta la zolletta, si risveglia e incomincia a suonarle a tutti in più perfetto stile Chuck Norris quando gli bucano la gomma del pick up?
Uff, e poi che altro, Pippo che mangia una nocciolina e si trasforma in Super Pippo?!
“C’è del genio nel delirio iper - tecnologico…” diceva un giornale, sì senza dubbio c’è del genio, ma purtroppo più nel bene che nel male, proprio come un promettente pittore che, aspirando alla perfezione, tenta di migliorare l’opera del suo maestro accentuando qua e la alcuni passaggi e non si accorge facendo così che in realtà non fa altro che copiare e distorcere, non si accorge che in realtà non fa altro che far perdere di credibilità al suo lavoro e a quello di colui che l’ha ispirato.
Tutto sommato forse però non è il caso di essere così negativi, certo con qualcosa in più da una parte e qualcosa in meno dall’altra l’opera di Altieri sarebbe stata senza dubbio più accattivante e plausibile, ma in fondo non si può pretendere molto da un fumettone e, sempre in fondo, Kondor, proprio come certi fumetti, se letto senza troppi pensieri, può risultare divertente… ed è questo alla fine l’importante sotto l’ombrellone.

NOTA PER LA REDAZIONE: non è fantascienza, ma azione o guerra, al limite avventura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
consigliato agli amanti del genere Tom Clancy
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
2.2
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
2.0
Approfondimento 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    04 Settembre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Ne carne ne pesce

"L'animale irrazionale" per impostazione più che un saggio sembra un lungo articolo scientifico di etologia, ma sia che lo si voglia considerare un saggio, sia che lo si voglia considerare un articolo, ci si poteva aspettare ben di più. Se vuole essere un articolo scientifico infatti esso risulta deficitario di alcune parti fondamentali come, tralasciando "l'abstract" e le "references", l'introduzione, le procedure e i risultati. Di fatto, il libro, di scientifico mantiene soltanto la lunga discussione sul lavoro svolto dall'autore. Questa in verità, data appunto la lunghezza e la materia, potrebbe essere considerata da alcuni più che sufficiente per classificare il testo come "scientifico", occorre però considerare che la mancanza delle tre sezioni sopra menzionate, e soprattutto quella della parte legata alle metodologie, fa perdere alcune delle prerogative essenziali di questa tipologia di articoli, ovvero la specifictà, il dettaglio e l'integrale riproducibilità degli esperimenti in esso discussi. Senza queste caratteristiche un articolo scientifico non ha alcun valore e non è neppure da considerarsi scientifico.
Dunque qui più che di scienza forse si tratta di divulgazione della scienza o come si diceva prima di attualità, di saggistica, tuttavia, anche in questo caso il bersaglio risulta mancato: se voleva essere esclusivamente un saggio di divulgazione mentre l'autore lo scriveva doveva, come dire, "rimettersi alla clemenza delle masse", ovvero doveva considerare che non tutti i fruitori del prodotto finale, i lettori, sarebbero stati degli etologhi e neppure tutti avrebbero avuto una conoscienza scientifica (talvolta neppure un' infarinatura iniziale) tale da permettere loro di capire alcuni dei passaggi, dei metodi o delle analisi, qui date per scontate. Se l'intento era quello di scrivere un saggio che catturasse l'attenzione anche dei "non addetti ai lavori" il ritmo della trattazione poi doveva essere decisamente più sostenuto, e avvalorato da più esempi, più aneddoti. Le uniche parti simpatiche qui invece sono quelle in cui a supporto delle sue teorie l'autore inserisce le descrizioni dei comportamenti di alcuni degli animali da lui contemplati; ma queste, come si diceva, sono sporadiche e il tessuto narrativo che le lega è eccessivamente prolisso.
Va infine anche considerato che le divagazioni finali che l'autore aggiunge a mo di conclusione del suo lavoro, con tutti quei parallelismi tra uomo e animale, non sono esattamente condivisibili da tutti e senza dubbio alcune paiono a dir poco forzate.
In sostanza "L' animale irrazionale" è un libro troppo poco specifico per essere considerato un articolo scientifico e troppo poco articolato per essere considerato un saggio di divulgazione, un libro che può risultare sì un' interessante introduzione all'etologia animale per chiunque incominci a dedicarsi agli studi di questa scienza, ma certamente non un libro adatto ad un lettore comune o a un etologo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Religione e spiritualità
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
2.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    31 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Intuizione e cinesi che parlano ai russi

Come si può commentare un libro che si prefigge come obiettivo di spiegare e soprattutto farci capire, o meglio farci intuire noi stessi, la vita, la realtà e il tutto? Intuizione infatti e non comprensione poiché, come lo stesso Osho sostiene nel libro, la comprensione è solo superficiale, influenzata dal nostro ego e per tanto falsa, mentre l’osservazione e la pura intuizione che da essa ne deriva sono vere, anzi scorci del vero che conducono alla Verità, con la V maiuscola.
Come si può dunque mettersi a ragionare su un libro, sul suo obiettivo, sul significato di quella tanto agognata e sfuggevole Verità, se nello stesso libro si mettono in discussione e poi si rifiutano rispettivamente la ragione, gli obiettivi e il significato delle cose? E’ impossibile e dunque qualsiasi commento è superfluo poiché il contenuto del libro è aprioristico rispetto ad ogni possibile recensione, revisione o critica.
Tuttavia in qualche modo bisogna pur parlarne del suo messaggio, certi termini, per quanto dica lui insignificanti e fuorvianti vanno utilizzati, altrimenti come introdurre, spiegare, comprendere (eddai con la comprensione!), intuire volevo dire!, ed eventualmente trasmettere il suo messaggio? Per forza di cose ci si deve abbassare al linguaggio, alle parole, a quel minimo comune denominatore tra gli uomini che è il parlare quotidiano, per quanto foriero talvolta di mal interpretazioni ed equivoci; sì ci si deve “abbassare”, per poter anche solo indicare al lettore neofita il percorso verso la suprema Verità (però…basta una maiuscola al posto giusto e subito ci si sente in obbligo di appesantire la frase con avverbi e superlativi assoluti, il potere delle parole! …ah già, ops!), e per poter presentare al “novizio” il messaggio del grande filosofo, anche se filosofo lui non voleva esser definito (e che cavolo!). Ma facendo uso di quell’arma a doppio taglio, che è la parola, talvolta anche arma di distruzione di massa, allora bisogna fare uso anche del linguaggio, e se si fa uso del linguaggio si fa uso del pensiero e dunque del ragionamento e col ragionamento delle critiche, non se ne scappa… ma ancora come criticare qualcosa che non si può comprendere ma solo intuire, qualcosa che non si può comunicare poiché intima esperienza e rivelazione di un soggetto privo di soggetto? Poiché a questo vuole tendere il suo messaggio, all’annullamento dell’io per armonizzarsi al tutto. (Verrebbe da chiedersi perché uno dovrebbe volere una cosa del genere, ma viene poi da pensare che la volontà e una diretta conseguenza del proprio ego e dunque va ripudiata pure quella… ma è meglio evitare altrimenti non se ne esce più!)
Dunque come criticare qualcosa che è aprioristico a qualunque critica, come recensire qualcosa che non richiede recensioni e non le ammette neppure? Be, capirete il mio imbarazzo e l’imbarazzo di chiunque si ponga come obiettivo la critica al pensiero di Osho. E allora come?
Verrebbe da dire con l'estrapolazione delle singole affermazioni dell’autore dal loro contesto originario: privandole della loro propedeuticità al raggiungimento di una più elevata forma di vita tornerebbero ad essere soltanto frasi, tornerebbero ad essere soltanto normali affermazioni e allora, qualora dal loro confronto nascesse un apparente contrasto logico, si potrebbero finalmente, umilmente, criticare.
Ma Osho, anche in questo caso, avrebbe la meglio sul pensiero del comune lettore spiegando che è naturale contraddirsi enunciando postulati illogicamente consequenziali poiché l'uomo, per sua natura, è un essere in costante evoluzione, che ogni secondo muore a se stesso rinascendo in una nuova forma, che dove c'è contraddizione c'è vita e speranza, dove non c'è cambiamento invece c'è staticità e morte, e dunque è naturale contraddirsi. Ribatterebbe poi anche che il valore principale per ogni singolo essere umano è la libertà e che lui è un essere talmente libero che non si cura nemmeno di contraddirsi. E si ritornerebbe al punto di partenza.
Se uno parla solo cinese e uno parla solo russo non c’è speranza che i due interlocutori si capiscano, salvo, certo, ricorre a gesti, a i segni comuni ed intuibili da entrambi.
Dunque ritorna la domanda: quale può essere in questo, nel caso di questo libro e per estensione di tutto il pensiero di Osho, quel fattore, quel minimo comunue denominatore che ci permette di stare sul suo stesso piano e in tal mondo tentare di criticarlo?
Può essere uno e uno solo, quell’unico che è comune a tutti e a cui neanche le menti più illuminate possono sfuggire: il tempo.
In fondo infatti anche Osho era un uomo, era un essere umano, e come tale è vissuto in un certo tempo, in un determinato periodo di anni… ed ecco la soluzione! Il fattore tempo è l'unico modo per poter rivolgere una critica al suo pensiero.
Purtroppo Osho ha "lasciato il suo corpo terreno" agli inizi degli anni 90, dunque non è potuto venire a conoscenza di tutti quegli avvenimenti e quelle scoperte che si sono susseguite nell'arco degli ultimi trent'anni. Il risultato è qualche innegabile castroneria scientifica e socio-politica, vedasi quando afferma che l'anima entra nell'essere umano quando è ancora un atomo nell'utero materno, o quando afferma che le donne non hanno aspirazioni poiché hanno un numero di atomi pari o quando infine sostiene che l’India e gli indiani non diventeranno mai una potenza economica poiché hanno altri valori e istintivamente sono più portati per il misticismo e la filosofia. Ecco la critica, ecco lo sperone a cui aggrapparsi: anche lui, come ogni altro essere, doveva fare i conti col tempo.Per il resto è inattaccabile su tutta la linea. (A onor del vero verrebbe da osservare che di tanto in tanto si concede eccessivamente al qualunquismo, o per usare un espressione molto in voga in questo periodo, alla demagogia, ma si rischierebbe di ricadere nell’errore di prima, di valutare cioè qualcosa che di per se, secondo lui, non ha alcun valore, e il cinese ricomincerebbe a parlare cinese al russo…dunque è meglio tralasciare.)
In sostanza, in somma, poiché e vero come sostiene Lui che tutti noi abbiamo la capacità e la facoltà di elevarci al rango di “illuminati”, ma finché non ci riusciamo siamo pur sempre dei pinco pallini qualunque, e per tanto abbiamo bisogno di parlare, ragionare e capire se un libro vale la pena di leggerlo o no, in sostanza, dicevo, è stupendo, rilassante, divertente, gioioso, rassicurante e talvolta a dir poco illuminante (Illuminante, ma dai? Non l’avrei mai detto!) leggere Osho, finché però rimane sugli “argomenti di cui è esperto”, quando si occupa di materia d'altri, facendo sfoggio di un eccessivo attaccamento al suo tempo e di una malcelata ignoranza, si può solo sorridere bonariamente. Oltre a questo non si può dire nient’altro se non: leggete e comprend… intuite!
Aggiungo soltanto a mo di nota che questo resta comunque un libro dall'inizio leggermente ostico e dunque sconsigliato a chi affronta queste tematiche per la prima volta.
Assolutamente inspiegabile infine la traduzione italiana del titolo che letteralmente sarebbe: "Il lungo, il corto, il tutto".

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi ha letto prima altri libri, magari introduttivi, su queste tematiche. E consigliato comunque a tutti i filosofi in erba e ai lettori particolarmente stressati.
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    28 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Immedesimazione e astrazione

Si dice che in certi romanzi, nei loro protagonisti, ci si riesca ad immedesimare talmente bene che sembra di condividere i loro problemi, provare le loro sensazioni, vivere le loro emozioni. Non ci ho mai creduto, non mi è mai capitato. Per me il romanzo deve essere una via di fuga, una scappatoia dalla monotonia quotidiana, ma pur sempre con un occhio alla realtà in modo tale che sia sempre in grado di apprezzare totalmente uno scritto e al contempo di riporlo sul comodino quando sono stanco. Riflettiamoci su: è stupendo leggere di avventure estreme, azioni eroiche (stiamo appunto parlando di romanzi) e gesta epiche, ma quanti vorrebbero realmente trovarsi al posto dei protagonisti? E’ stupendo leggere (considerando una narrativa più dotta) dei problemi sociali di certe subculture o delle avversità quotidiane che diventano spunto di introspezione filosofica, ma quanti realmente vorrebbero essere gli angosciati creatori delle impalcature cerebrali che spesso si autoalimentano per quella sorta di algofilia letteraria con cui gli autori tendono ad auto escludersi dalla realtà e dai problemi quotidiani da cui traggono spunto? O ancora, per tornare ad un ambito più consono all’autore di questo romanzo, quanti vorrebbero realmente essere i testimoni di una società in rovina la cui sublimazione è la creazione di uomini artificiali più autentici ed umani di quelli veri? Quanti vorrebbero scoprirsi disumani? No, non mi è mai capitato di immedesimarmi nel protagonista di un romanzo e ritengo anche che oltre certi limiti sia impossibile per chiunque. Però mi è capitato il contrario, l’esatto opposto: la disimmedesimazione (ma non credo che esista il termine), la astrazione come forma di repulsione da quanto viene scritto, da quanto viene raccontato.
Confessioni di un’artista di merda per me rappresenta la totale astrazione, la completa separazione dalla vicenda, poiché inaccettabile, ingiusta, irrazionale. Eppure stupendamente snervante, angosciantemente quotidiana, straniante nella sua normalità. E a rischio di contraddirmi, coinvolgente nella sua estraneità.
Il libro è il racconto da più punti di vista di una vicenda del tutto normale, banale si potrebbe dire. Sì parla di disturbi sociali, problemi di coppia, ansia da insuccesso, nevrosi, tradimenti, violenza domestica. Problemi appunto, magari non esattamente condivisi da tutti ma che perlomeno rientrano in quell’ordine logico e sociale che è la vicenda dell’umano vivere.
E dove sta allora l’inaccettabile, eppur affascinante, ingiusta irrazionalità?
Proprio nei punti di vista, nelle tre – quattro voci narranti che si alternano alla guida del romanzo. Sono i protagonisti stessi di questa vicenda di quotidiana follia a raccontare la storia, a descrivercela secondo la loro opinione, a farcela osservare coi loro occhi. Sono loro, quei tre o quattro…e neanche uno è normale, neanche uno è sano, giusto, razionale: c’è l’uomo materiale creato dal denaro e che d’altro non si cura, che ha talmente poca profondità culturale da non riuscire ad esprimersi, da non poter dare sfogo alla propria rabbia se non con la violenza fisica; c’è la donna spregiudicata, immatura, possessiva ed egoista, che non guarda in faccia nessuno pur di ottenere ciò che vuole; c’è l’intellettuale ben pensante e finto innocente che non riesce a resistere ai vizi della propria natura e non volendo rendersene conto crea dei castelli in aria e delle ridicole immagini riflesse di se stesso per soprassedere alla sua misera condizione; c’è la ragazza innocente, vulnerabile, talmente debole che accetta il destino senza neppure illuderci di potersi opporre ed infine c’è lo svitato, l’artista del titolo, il più pazzo, schizofrenico, nevrotico di tutti, talmente odioso da risultare simpatico. Non se ne salva nessuno, ogni singolo personaggio è l’estremizzazione dei problemi e delle angosce quotidiane.
La vicenda è normale i protagonisti no e con la loro pazzia ci portano a detestare tutto il loro mondo. I protagonisti sono odiosi, le loro stesse voci sono odiose, è impossibile non provare repulsione per anche uno solo di loro, eppure sono così attraenti. Perché? Cos’è questa comunione di sentimenti che ci lega e al contempo astrae dai protagonisti? Che ci fa repellere la loro società e al contempo ci affascina?
E’ un riflesso, tutto ciò che proviamo nei loro confronti non è altro che un riflesso, un’immagine speculare: i loro non sono problemi campati in aria, non sono problemi inventati, non sono androidi che sognano pecore elettriche, sono problemi reali, quotidiani, sono i nostri problemi, le nostre vicissitudini. I protagonisti per quanto descritti con deliziosa ironia non sono macchiette abbozzate prive di personalità, non sono stereotipate caricature della cosa reale, loro sono esattamente come noi: noi lettori, noi tutti. Loro, gli odiosi personaggi, sono parte di quello che siamo, di quello che potremmo essere e di quello a cui inconsciamente aspiriamo, quello in definitiva di cui saremmo e siamo capaci in un determinato ambito sociale. E Philip K. Dick con questo libro sembra che c’è lo urli in faccia, è inutile che ci illudiamo come il suo intellettuale ben pensante, sotto sotto lo sappiamo già: noi siamo i suoi protagonisti. Noi siamo gli “artisti” del titolo e la nostra repulsione per la loro vicenda è tale solo perché in essa riscontriamo le nostre, ci riconosciamo in loro e non vogliamo ammetterlo.
C’è una redenzione? (E per noi?)
Forse, ma secondo Dick, solo per il più svitato, il meno desiderato, quello additato da tutti come anormale, poiché lui almeno, rispetto agli altri, è autentico, vero: nella sua pazzia è se stesso, mentre gli altri nella loro finta normalità sono solo ombre dell’ego dietro i paraventi della vanità.
Anche se biograficamente e bibliograficamente questo libro è più che altro una piccata risposta nei confronti di tutti quelli che sostenevano che Dick fosse buono solo a scrivere di marziani e robot, sarebbe affascinante e romantico considerarlo come la base, la rampa di lancio di tutta la sua letteratura: l’uomo, come lo vede l’autore, l’essere umano è una delusione, la società che ha creato è una delusione, è finta come finti sono i suoi protagonisti, inaccettabile; per provi rimedio non c’è altro da fare che cercare altre società a cui ispirarsi, magari su altri pianeti, non c’è altro da fare che sperare che il tempo rimedi alla odierna stupidità con l’evoluzione, magari l’uomo del futuro…, non c’è altro da fare che trarre dalla finzione umana e crearne una ancora più fittizia, talmente assurda da oltrepassare la soglia del comprensibile, del riconoscibile, finché questa nuova realtà potrà mescolarsi indisturbata alla nostra e mondarla dai difetti. Sì, sarebbe bello considerare questo libro come il punto di partenza di tutta la narrativa fantascientifica Dickiana, ma così non è e pertanto le Confessioni restano solo come una voce fuori dal coro, come un esempio isolato di narrazione, ispiratamente realistica, di un mondo di sconfitti la cui unica abilità è quella di crearsi un opaco involucro che li protegga dalla coscienza della propria miseria …ah quanto sarebbe bello vedere questi illusi poveracci alle prese coi replicanti, con gli automi, specchio delle disgrazie dei propri creatori!
Stilisticamente non si può dire che quella di Confessioni di un artista di merda sia una narrativa molto impegnata o impegnativa, come tutti i libri di Dick anche questo, pur trattando di temi profondi mantiene un tono semplice, pulito, alla portata di tutti.
Il suo stile mi è sempre parso come l’anello di congiunzione tra il circonvoluto lungo periodare del romanticismo introspettivo russo (o nord europeo) e la semplice ingenuità moderna del fraseggio commerciale. E del resto è quello che si può dire anche delle Confessioni: è l’anello di congiunzione tra due mondi distinti, due narrative; concetti profondi esposti in maniera semplice ed elegante.
Insomma, per concludere Confessioni di un artista di merda si può sì definire come letteratura ad uso e consumo delle masse, ma non per intrattenerle sotto l’ombrellone, per farle riflettere nella flebile luce di un’insperata presa di coscienza globale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a tutti
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
1.5
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    26 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Involontariamente comico

Un romanzo commerciale per certi aspetti innovativo e straniante, per altri addirittura incredibile, nel senso che con tutta la buona volontà non gli si può proprio credere.
Per buona parte del libro il riflettore è puntato sull'antitesi dell'immancabile e stereotipato eroe, sul nemico per antonomasia: il terrorista. Il resto del libro è la caccia al terrorista. Questa, quella della prima parte, quella di mettersi nei panni del terrorista, è senza dubbio un'intersesante novità per la narrativa commerciale, una novità che, se ben sviluppata e approfondita, con le sue peculiari tematiche, potrebbe andare a sondare terreni fin'ora sconosciuti e che, proprio perchè è destinata al "grande pubblico", a differenza di molti, molto più accurati, specifici, seri, ma anche non facilmente abbordabili, e talvolta piuttosto noiosi, lavori potrebbe addirittura smuovere le masse (oddio forse è un po' troppo in fondo è pur sempre un lavoro di fantasia) e far gridare, alcuni, allo scandalo e, altri, al capolavoro, se ben approfondita e sviluppata... ma così purtroppo non è.
Sviluppata qui è sviluppata, per carità, peccato che l'autore ad un certo punto non si renda conto di svilupparla un po' troppo e così facendo di superare la misura, di approfittare cioè eccessivamente dei già lassi confini di verosimiglianza di una storia finta, irreale, e di cominciare addirittura a dar segni di provare una sorta d' affezione domestica per il "povero terrorista", mischiando palesemente la sua vita (quella dell' autore) e i suoi problemi a quella del terrorista. E sebbene un tentativo di approfondimento psicologico del "nemico" sia più che lodabile se, come già detto, si esagera, il dramma si trasforma in commedia e la serrata azione diventa fatua ridicolaggine. E non uso il termine a caso poichè qui ad un certo punto si sfiora veramente il ridicolo, e non è un ridocolo voluto (se così fosse non sarebbe per nulla riuscito) è un ridicolo del tutto involontario: l'autore ad un certo punto ci infila dentro pure una dieta, mette il terrorista a dieta! Ma dai... Va bene gli stereotipi ma una micidiale macchina di morte a cui basta un colpo di mano per uccidere un uomo, che neanche il Rambo di trent'anni fa, e poi lo vedi al tavolino del ristorante a ordinare tacchino e verdura al vapore perchè ha lo stomaco delicato, oppure fare dieci minuti di jogging al mattino, tra un attentato e l'altro, perchè deve smaltire qualche chiletto e con l'età, si sa, se incominci a metter su peso poi quando, innescata la miccia, c' è da scappare e hai il fiatone non va mica bene... va bene gli stereotipi, ma con tutta la buona volontà come può essere preso sul serio?!
Già perchè è così che il micidiale nemico ci viene descritto: un minuto prima pronto a far esplodere un treno o un sommergibile o quel che è, e un minuto dopo un gran simpaticone, una pasta d'uomo, un adorabile membro di una società che non ha ancora sterminato del tutto poichè vessato, poverino, dalle vicissitudini dell' uomo di mezza età e perchè, diciamocela tutta, tra il dispensare consigli per una vita sana e prodigarsi in suggerimenti con i giovani terroristi in erba, che appena lo riconoscono incominciano ad idolatrarlo neanche fosse una rock star (davvero, nel libro succede anche questo!), insomma tra una cosa e l'altra, dove lo trova il tempo per sterminare i principali capi di stato, migliaia di poveri innocenti e sovvertire l'ordine della civiltà occidentale? Insomma non si può pretendere troppo altrimenti poi si stressa, gli viene un esaurimento e si rischia che l'autore lo mandi pure dallo psicologo o peggio a fare yoga con le cinquant'enni! Ma dai... E questo sarebbe l'approfondimento psicologico?
Non c'è nulla di peggio che creare delle aspettative e poi non solo disattenderle, ma mortificarle con la piatta banalità. E giusto per restare in tema, terminato l'escursus "sull' insospettabile vita di un terrorista qualunque" si passa poi alla seconda parte, la seconda metà del libro, in parte alternata e intercalata alla prima e in parte no, la parte dei buoni, degli eroi che danno la caccia al "simpaticone", e questa parte, se possibile, è ancora più banale dell' insospettabile e deludente prima, ed è zeppa d'azione da quattro soldi, di pensieri mono neuronali e di luoghi comuni talmente comuni da diventare province (scusate qualcuno mi deve aver contagiato con la sua demenzialità, chissà chi?). E qui i "buoni" risplendono di luce propria e i "cattivi", in barba a tutto quanto letto prima, tornano ad essere dei veri e propri str... e tutto ciò che si presumeva, sperava, ci fosse di innovativo nel romanzo va definitivamente a farsi benedire prima del "gran finale", una conclusione da western anni trenta con le rivoltelle di plastica, tanto comune, quanto inaccettabilmente ovvia. E il romanzo, come se già condannato in partenza da un titolo quanto mai azzeccato, rimesso sullo scaffale si mimetizza tra gli altri, si nasconde, quasi si vergognasse di aver osato l'inosabile dentro a un genere che non ammette variazioni, diventando una buona volta, veramente, invisibile.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    24 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Alta tensione, scarsa ricezione

Un thriller sottovalutato dall'affascinante ambientazione italiana e da un ritmo quanto mai serrato che, proprio come si dice di solito sulle variopinte ultime di copertina, “dalla prima all’ultima pagina non da respiro al lettore” … o forse era “tregua”?
Naturalmente anche questo romanzo non è esente da tutti i difetti che si possono imputare al genere di narrativa in cui si colloca: scarsa profondità dei personaggi e del loro carattere, eccessiva presenza di macchiette stereotipate che si contendono su carta il primato della banalità a colpi di frasi fatte e quel tipico stile talmente piatto e banale da far venire il dubbio che il romanzo sia stato scritto più che da un uomo da una stampante industriale; ciò non di meno con la sua trama, con quell’interessante intrigo vaticano attorno al quale ruota tutta la vicenda, a Giorno di Confessione e al suo autore, va riconosciuto il merito, oltre a quelli già inizialmente accennati, di aver precorso i tempi, di, a loro modo, nel loro piccolo, essere stati dei precursori, incompresi, ingiustamente trascurati, ma pur sempre precursori. Qualche anno dopo la pubblicazione di questo romanzo infatti Dan Brown avrebbe scritto un qualcosa di molto simile, ficcandoci dentro il suo misticismo scientifico, la sua simbologia da rebus della settimana enigmistica, e avrebbe ottenuto un ennesimo successo planetario.
E Folsom, “poveretto”?
Per quanto i due libri, a onor del vero, non siano esattamente paragonabili, i fan dei best seller di Brown avrebbero comunque dovuto apprezzare questo libro o quanto meno riconoscere all’autore la paternità dell’intrigo ecclesiastico... e invece no. Misteri della letteratura!
Certo, sempre ad onor del vero, come per Dan Brown anche nel caso di Allan Folsom si potrebbe osservare che non è tutta farina del suo sacco, che anche lui a sua volta ha attinto da altri autori ancora, se non addirittura dalla realtà, ma è anche vero che da qualcuno bisogna pur attingere e non è tanto l’ispirarsi a qualcosa o qualcuno che è deprecabile, quanto l’eccessivo ispirarsi, che, qualora conclamato e ripetuto negli anni, può denunciare da parte di un autore mancanza di inventiva o ancora peggio mancanza di individualità.
Tuttavia, ripensandoci, forse è proprio per questo che Folsom non è diventato così celebre e famoso, che il suo Giorno di Confessione non è mai stato riscoperto e celebrato dai lettori di tutto il mondo: perché trovato il suo genere, o meglio il genere che faceva presa sui lettori, a differenza del suo collega non ha più saputo ripetersi (…e ripetersi, e ripetersi, e ripetersi!) e quei pochi che l’han letto, rovistando tra i suoi altri titoli l’han tacciato come una meteora in un genere che tra le sue fila conta ben più autorevoli ed esperti scrittori. Ma non sono forse la poliedricità di pensiero, la diversità e l’originalità valori quanto mai considerati oggi? E allora perché si da più peso ad alcuni che non fanno altro che riscrivere la stessa cosa limitandosi a cambiare di volta in volta confezione rispetto ad altri che sanno reinventarsi ad ogni libro sondando così ogni campo dello scrivere (anche se si parla pur sempre di scrivere commerciale)? Ancora una volta misteri della letteratura!
Insomma per concludere Folsom con Giorno di Confessione ha compiuto un più che discreto, e di certo sottovalutato, lavoro, che magari non raggiungerà i fin troppo ispirati, ma talvolta ridondanti, livelli di interattività noetica e paranormale complottismo (mah…) del suo più noto collega, ma pur sempre un più che discreto lavoro, apprezzabile per la sua concretezza, il suo ritmo e soprattutto la linearità con cui da delle semplici premesse giunge rapidamente ad un finale, chiaro, pulito e soprattutto conclusivo. Prerogative queste che in certa letteratura da ombrellone si tende volentieri a trascurare se non addirittura elidere ma che in realtà, molto spesso, sono una vera e propria benedizione del cielo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Angeli e Demoni, poichè questo è più semplice ma anche sicuramente più concreto e realistico.
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
1.8
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
1.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    20 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Petronio e il massacro

Petronio e il massacro dei cristiani, queste in realtà le uniche due cose che si salvano di un romanzo talmente famoso d’aver fatto epoca ma talmente impregnato del gusto proprio di quell’epoca d’aver fatto ormai, irrimediabilmente, il suo tempo.
Impossibile infatti oggi giorno lasciar correre di fronte a quella ridondante retorica che sembra permeare ogni pagina dello scritto, impossibile chiudere un’ occhio di fronte a quell’ingombrante e predominate estremismo religioso che relega i Cristiani a non più savi portatori del “Verbo”, o per dirla più laicamente a: indiscutibili fautori di un processo di civilizzazione grazie al quale la società moderna ora può identificarsi come tale, ma a fanatici seguaci di un culto per il quale son disposti a subire pene inimmaginabili fino a giungere al sacrificio estremo, fino alla morte. Certo Senkievicz scrive di un'altra età, talmente lontana che sarebbe totalmente ingenuo pensare di paragonarla a quella attuale, e neppure a quella in cui fu creato il libro, tuttavia alcuni principi naturali, alcuni processi chimici e fisiologici, alcuni istinti, tipici della nostra specie, anzi di tutte le specie, di tutti gli esseri che si suole definir vivi, per forza di cose devono essere rimasti uguali negli anni, devono essere rimasti invariati, altrimenti l’uomo come alcuni degli altri animali si sarebbe estinto: parlo dell’ istinto di conservazione, parlo della capacità dell’essere umano di provare piacere e dolore, felicità e tristezza, paura e coraggio… Davvero all’epoca la vita, quella del singolo, dell’essere umano, dell’uno dei tanti, aveva minor importanza? Davvero il dolore, quello fisico e quello mentale del sapere che tempo un paio di giorni e si cesserà di esistere attraverso pene indicibili, valevano meno di un idea, un concetto, un credo? Certo a tutt’oggi si è testimoni di atti di grande eroismo o talvolta di grande pazzia (vedasi i terroristi che si fanno saltare) , ma sono gesta isolate di pochi e per questo son degne di nota, per queste sono degne di lode (o biasimo), ma qui si sta parlando di masse intere di comuni individui che accecati da un culto vanno ad immolarsi convinti della giustizia e della correttezza del proprio gesto! Senza dubbio in quell’epoca sarà avvenuto così, ma possibile che non ci fosse tra le migliaia di anime al patibolo qualche ripensamento, qualche dubbio, qualche incertezza? Possibile che siano bastate le parole di un uomo ispirato (Pietro o Paolo di Tarso) ad annullare ogni individualità, a dipanare ogni dubbio e a far sì che ognuno si gettasse tra le fauci delle belve, tranquillo, contento e felice? Poiché così li descrive Senkievicz i cristiani subito prima della carneficina.
Poco realistico, troppo romanzato, e ancora una volta troppo retorico. Non metto in dubbio la veridicità dei fatti (per quanto diversi storici abbiano più volte posato l’accento sulla poca congruenza delle date a cui si vuole far risalire i suddetti fatti e alla erronea collocazione geografica di certi personaggi) ma le modalità con cui si sono svolti, poiché se davvero all’epoca tutti gli uomini erano disposti a soccombere alle prime parole di qualcuno, vere ed ispirate che fossero, la nostra specie non si sarebbe perpetuata nei secoli e oggi giorno la terra non conterebbe i sei o sette miliardi (ammetto di aver perso il conto qualche anno fa) di persone che la popolano.
No, davvero eccessivo, troppo romanzato e troppo poco realistico, troppo prostituito alla moda dell’epoca, moda che evidentemente aveva bisogno di puri ed immacolati eroi, che aveva bisogno di assoluti, di nette divisioni tra bene e male, e, tra queste due opposte file, di trovare paladini a cui ispirarsi e sordide nemesi contro cui scagliarsi.
Nemesi per altro così altrettanto nette nella loro brutalità da assumere le sembianze di veri e propri demoni! Nella fattispecie i romani, la maggioranza di loro, almeno fino a quella sorta di conversione della loro coscienza che pare avvenire in ultimo allorché si stancano degli spettacoli circensi tra belve e cristiani. Come prima: possibile che i romani tranne pochi illuminati (tra questi Petronio) fossero tutti così avvezzi alla violenza, allo sterminio, e ai vizi di ogni sorta? Probabilmente sì, ma non c’era nemmeno un ripensamento? Non c’era nemmeno un ragionamento? Poiché se Sienkivicz ci dipinge i Cristiani come una sorta di ciechi seguaci del Vero e del Giusto, allo stesso modo ci dipinge i romani come il loro opposto: dei seguaci del falso e dello sbagliato, come delle insulse macchiette pronte a sterminare le masse pur di concedersi qualche stupido vizietto. Nerone su tutti. D’accordo la storia vuole che fosse un potente criminale egocentrico (perfino ai giorni nostri se ne trovano ancora di questi uomini) ma possibile che fosse così innamorato di se stesso e della sua presunta arte oratoria da bruciare la propria città e con essa il proprio popolo (e molte delle sue fonti di reddito quindi) solo per poter declamare qualche verso poco ispirato. Ok, sarà stato anche lui che aveva ordito la distruzione di Roma ma è davvero così credibile quella edonistica motivazione che lo vuole carnefice e piromane solo per dar nutrimento alle proprie corde vocali? Non ci sarà stato qualche altro interesse sotto, qualcosa che lo riguardava da più vicino, qualcosa che implicava magari anche il suo “stato maggiore”, i suoi collaboratori? Roma che brucia e Nerone che canta, vero, ce lo ripetono fin da bambini, ma chiunque con un po’ di buon senso capisce che è un’ estremizzazione, una sorta di parabola, riportarlo testuale, come se fosse la più pura delle verità nel libro non solo è mancanza di obbiettività, ma anche eccessiva faciloneria.
Superficiale, banale, poco obbiettivo, estremista, questo è in realtà Quo Vadis. E allora cosa si salva di questo libro? Quale fu il motivo che valse a Senkievicz il premio nobel?
Come si diceva all’inizio si salvano solo Petronio e il massacro dei cristiani. Il primo, l’esteta, perché Senkievicz con lui ha creato una figura meravigliosa, il primo e unico uomo moderno: intelligente, savio, scaltro, furbo, che si concede ai piccoli vizi ma in maniera misurata, che non diniega qualche mezzuccio pur di ottenere qualche vantaggio, senza mai cadere però nella subdola codardia; anzi al momento cruciale dimostra di essere il più coraggioso di tutti, persino dei cristiani, poiché loro sono confortati/accecati dalla fede mentre lui è solo, niente e nessuno lo rassicura e nella sua moderna individualità va incontro al proprio destino da vero uomo, consapevole di aver fatto tutto ciò che poteva fare, consapevole di aver vissuto a suo modo una vita senza rimpianti e di averla vissuta degnamente. Il primo dunque è lui poiché ogni volta che compare è una sana boccata d’aria nella latente pazzia generale di un mondo fittizio, il secondo è invece il massacro dei cristiani, poiché qui Senkievicz da il meglio di sé e pur infarcendolo di retorica e asfittico eroismo riesce ad essere talmente realistico, talmente crudo, violento e vivo da riuscire ancora oggi ad impressionare, a smuovere qualcosa nell’animo dei lettori che, empaticamente, leggendo delle pene che devono subire quei poveracci, ne rimangono coinvolti e addirittura infastiditi. Riuscire in una simile impresa al giorno d’oggi, quando sia su carta stampata che su pellicola (e ahimè talvolta anche nella realtà) siamo sommersi da sangue e violenza, è assolutamente una cosa degna di nota.
Petronio e il massacro quindi, purtroppo però oltre a questo non c’è molto altro sia sul piano dei contenuti che dello stile. Certo non va dimenticato che recensendo Quo Vadis non si può trascendere dal gusto dell’epoca e che collocato nel proprio ambito storico si è di fronte alla prima opera di questo genere, un’ opera che come si è già detto valse all’autore il premio Nobel per la letteratura, un’ opera che a suo modo ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo di generazioni di persone: oggi giorno senza la romantica e retorica ingenuità di Quo Vadis non avremmo molti dei colossal del cinema antico e moderno e neppure alcune delle più gettonate serie televisive, tuttavia il dubbio rimane: l’opera di Senkievicz ha plasmato l’immaginario di migliaia di lettori, spettatori e persone comuni, forse dell’intera umanità, ma così facendo non l’avrà anche per caso ingannato, non l’avrà per caso illuso?
Forse è così, forse no, non sta al sottoscritto stabilirlo, considerato quanto scritto finora sorge comunque spontanea una riflessione, anche se sarebbe meglio chiamarla una rivelazione: piatto, ingenuo, retorico, ma anche incalzante, romantico e audace, Quo Vadis, di Senkievicz, è senza dubbio il primo romanzo commerciale della storia.
Ognuno ne tragga le conclusioni che vuole…

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
...altri romanzi storici, poichè comunque Quo Vadis è l'archetipo dell'intero genere.
Trovi utile questa opinione? 
42
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Genio e Finzione

PREMESSA:
Mi rendo conto (e per questo mi scuso) che la seguente recensione per dimensioni e ripetitività è demenzialmente lunga, ingombrante e non necessaria, tuttavia, criticando (anche aspramente) il lavoro di colui che considero tra i più grandi scrittori viventi, non mi è stato assolutamente possibile accorciarla in alcuna maniera poichè ovunque tentassi di operare un taglio, la cosequenzialità e la correttezza (o presunta tale) di quanto affermavo parevano perdere di logica o coerenza. Certo avrei potuto limitarmi a dire: sì è bello perchè... o no è brutto perchè, ma posto quanto sopra nove pagine di confuse, complesse, cervellotiche analisi e scuse mi sembrano quanto meno il minimo indispensabile per poter anche solo pensare di mettere in dubbio quella che è considerata una delle più importanti opere contemporanee. Per quei pochi quindi (e credono che questa volta saranno molto pochi) che siano interessati a questa recensione ne consiglio una lettura suddivisa in più giorni. Dato il suddetto consiglio, non mi riterrò responsabile per ogni danno cerebrale derivante da una lettura consecutiva. Al contrario prometto che mi impegnerò a leggere, con estrema attenzione e piacere ogni commento e critica (insulti e minacce compresi) che si dovesse e volesse muovere alle mie osservazioni o alla mia persona. :-)

PASTORALE AMERICANA:
La fine del sogno americano, i conflitti esterni ed interni alla nazione tra gli anni cinquanta e gli anni settanta che sconvolgono la società, che ridimensionano, trasformano, i valori del periodo d’oro, e la conseguente crisi d’identità della middle class, del singolo individuo, del privilegiato che vede sotto i proprio occhi disfarsi tutti gli ideali in cui credeva, la crisi dell’uomo medio, piccolo borghese, che a cavallo tra due epoche non sa in che piede tenere le scarpe, che a modo suo cerca di fare quello che in fin dei conti han sempre fatto i suoi simili: barcamenarsi tra i due estremi guardando più a se stesso, al proprio interesse, che alle rivoluzioni sociali. Ma la trasformazione è troppo profonda per tentare di soprassedere, per far finta che non esista, per chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e continuare per la propria strada. E neppure la fuga in campagna, lontano dalla città, dal luogo dove è più viva la spinta rivoluzionaria, è sufficiente per sfuggirle, per sfuggire a quella realtà assurda, inspiegabile, estremista, eppure così equa, concreta, plausibile tanto quanto la precedente.
Gli americani sono i buoni, i vietnamiti sono i cattivi, e se fosse il contrario? Il capitalismo e bene, il comunismo è male, e se fosse il contrario? All’uomo della middle class non interessa, non è estremista, non è socialmente impegnato fino al punto da rendere proprie delle regole di vita che non sono altro che un insieme di valori utopici e astratti; all’uomo medio basta lavorare, avere i soldi, qualche aspirazione, una casa nuova, una nuova auto, la figlia che va nel miglior college possibile ecc. ecc. Questo basta, e allora cos’è quella trasformazione, quel movimento a cui non riesce opporsi, quell’ imponderabile bisogno di ribellione che dilaga per le strade, prima delle grandi città, New York, Washinghton e poi nelle cittadine e nei paesi, Newark, Weequahic, Old Rimrock.? Che cos’è quella, anzi questa, questa insaziabile sete di giustizia universale che pervade dapprima solo i movimenti giovanili, ma che poi si insedia in ogni classe (poiché l’America rappresentata dall’autore è una società fortemente suddivisa in classi, a seconda che si appartenga o meno a un credo politico, a seconda che si appartenga o meno a un credo religioso, a una categoria lavorativa, o semplicemente a seconda del conto in banca) dunque che cos’è questo movimento che si insidia nel tessuto sociale dell’America del dopo guerra e in questo si incarna fino a diventare esso stesso un tessuto sociale, fino a diventare un estremo di un ideologia, fino a diventare l’altro lato della medaglia? E se è così giusto ed equilibrato, (no alla guerra in Vietnam, no a tutte le guerre, parità di diritti per tutti gli uomini!) perché se è così perfetto, vero, ancora più sacro di quanto possa essere la religione, perché sfocia in gesti di pura violenza? Perché prima esecra gli estremismi ideologici (opposti ma simili) degli altri movimenti e poi per combatterli si macchia proprio di quelle colpe contro cui si ribellava? E perché viene appoggiato da così tanta gente? È forse impazzita l’America? Non può essere solo una moda passeggera, solo il bisogno di cambiare, di fare un passo avanti nel cammino dell’evoluzione umana lasciandosi alle spalle un conflitto mondiale. Non può esserlo perché manca di logica, se si è pacifisti come si può combattere contro i propri simili, contro i propri fratelli, compatrioti, ritenendoli responsabili, più responsabili, di un nuovo conflitto così lontano dalla civiltà occidentale, dalla placida routine della provincia americana? Non si vuole la guerra a migliaia di chilometri di distanza e allora la si porta in casa propria, nella tranquilla vita di un paese che, sì d’accordo, forse è più fossilizzato di altri, delle grandi città, nel proprio disarmante benessere, forse è più bigotto di altri, forse con la sua società ben nettamente divisa più di altri non lascia via di scampo al libero pensiero, alla libera espressione di sé (un paese dove la figlia dell’ex miss New Jersey non può e non deve avere la balbuzie, non può e non deve essere brutta, non può e non deve essere anticapitalista), si forse…, ma è pur sempre un luogo tranquillo, calmo, parodisticamente pacifico. E allora perché portare la guerra nel proprio paese, nel proprio luogo di nascita? E perché deve interessare l’individuo, il singolo, pacifico, uomo il cui unico male è aver sempre e soltanto desiderato il meglio per sé e per la sua famiglia? Di che colpe si può macchiare tale individuo, di quali peccati? Di mancanza di consapevolezza sociale? E allora è socialmente più consapevole una ragazzina fuori di testa che per rivendicare i diritti di gente lontana, piazza una bomba in uno spaccio della cittadina dove vive, uccidendo persone, distruggendo vite, famiglie (a cominciare dalla propria) e negando, col suo gesto, proprio quel principio di evoluzione – giustizia sociale e ribellione pacifica per il quale combatte?
“Combattere per la pace.” Forse è proprio questo il controsenso, il nonsenso di fondo, che scuote la gioventù ribelle dell’epoca, l’appartenere ad una società che non ti vuole se non sei perfetto, fuggire per crearne un'altra migliore e scoprire di non essere neppure perfetti per quella nuova società, di non appartenere più neppure a questa, di non appartenere più e basta. E allora cosa rimane, qual è la soluzione? Tornare nella prima società? Quella dura, autarchica, quella contro cui all’inizio si era combattuto, ritornare nel nido familiare, chiedere scusa e tutto come prima? No, se ci si è spinti troppo oltre, no se si è commesso, nell’emblema dell’assurdità ideologica, quell’atto contro il quale per anni si è combattuto, quell’atto che così evolutivamente giustificato nel corso della storia dell’uomo eppure, preso singolarmente, così abominevole da catapultare chi la commesso fuori da ogni possibile società che voglia dirsi evoluta, no se si è ucciso qualcuno. Se poi si ha ammazzato non una ma quattro persone…
E allora cosa rimane? Qual è il posto di un individuo simile? Per qualcuno la galera, per qualcun altro il manicomio, per il padre disperato la famiglia, ma per se stessi? Se sei stato tu ad aver compiuto il massacro, come puoi avere ancora un’identità, una definizione di te stesso, darti uno scopo, un luogo, un posto dove vivere se hai privato proprio di tutte queste cose (identità, scopi, luoghi e affetti) non una ma quattro persone? Semplice non è possibile, a meno di non esser pazzi, non è possibile a meno di rinunciare totalmente a qualunque cosa, autodefinirsi abominevoli, immeritevoli, ridursi alla fame, all’estremo dell’immonda natura che ci spinge a comportarci così. No, non è possibile tranne che rinunciando completamente a vivere.
Ma cosa ha a che vedere tutto questo con la società? Con un piccolo paesino di provincia? E’ questa società, con le sue ottuse, retrograde ideologie che hanno creato il mostro-bambina (poiché è della figlia del protagonista che si parla) o viceversa è lei che con indole innata ha partorito un abominio sotto le mentite spoglie di una nuova società? E’ lei la condanna totale di un mondo oppure è l’artefice di uno step evolutivo umano che prima o poi sarebbe stato inevitabile, la scintilla primordiale di una nuova civiltà, antitetica alla precedente, la cui commistione con questa, non può che generare un mondo più evoluto, più cosciente, più comprensivo, ma non necessariamente migliore? Martire o carnefice?
E come può il singolo individuo, l’uomo medio della classe media, colui che aveva sempre mirato al raggiungimento dei primi ideali, quelli che un tempo erano considerati inequivocabilmente il Bene con la B maiuscola, quelli con cui aveva vissuto per anni, con cui era stato educato, cresciuto, quelli per i quali aveva combattuto, aveva portato la guerra nel mondo, aveva sostenuto la guerra nel mondo, come può uniformarsi a questo nuovo mondo? E se questo individuo poi è il padre del mostro?
Come può, sopportare, adeguarsi, superare tutto ciò?
No, non è possibile come non è possibile sfuggirgli, come non è possibile sfuggire alla violenza implicita dell’atto, come non è possibile sfuggire dalla realtà, neppure se si è una personalità, neppure se si è un mito locale, l’asso del college o miss New Jersey, neppure circondandosi di cose, di ricchezze, di vita, neppure cambiando casa, cambiando donna, trovandosi un amante, neppure cambiando vita, no, la realtà è sempre in agguato dietro l’angolo pronta a risucchiarti nelle sue spirali, pronta a rinfacciarti cosa sei stato, cosa hai generato, di che colpe ti sei macchiato.
Ma che peccati ha commesso questo individuo? Lo Svedese, il protagonista, la sua famiglia, la società a cui appartiene? Come può accadere che qualcuno sia colpevole di aver vissuto perfettamente, incarnando quei valori a cui tutti tendono, che tutti stimano?
Che quelli non siano i veri valori, be di certo non sono neanche gli altri, quelli opposti, quelli della rivoluzione, guardate la Russia, e tutti i regimi comunisti, guardate a cosa hanno portato gli altri valori: a una bomba, ad un omicidio, all’accattonaggio, ad un suicidio per “inappetenza alla vita”, alla rovina. E allora cosa rimane, dell’uomo perfetto, nella società perfetta, della pastorale americana? Di quella comunione di individui che in barba alle differenze si ritrovano assieme per condividere qualcosa di più del semplice appartenere ad una realtà agiata, qualcosa di più della partitella a football tra amici la domenica? Cosa rimane se questa stessa società a cui hai dato tutto ti volta le spalle e ti concede la “pastorale” più come un illusione, più come un pretesto solo una volta all’anno, perché si deve, perché si fa, perché è così? Quale valore rimane?
Forse l’unico vero valore è non avere valori, forse è questa la via, fuggire, illudersi, fingere che le guerra in Vietnam non esista, fingere che i conflitti religiosi non esistano, fingere di non avere una figlia dinamitarda e fuggire, fuggire in campagna per persistere nel sogno, fuggire nella casa da sogno, rifugiarsi nella finzione, dove per una sparuta comunità sei ancora un mito, sei ancora “lo Svedese”, oppure fuggire dietro le mani di un chirurgo plastico, dietro le apparenze di una nuova faccia sorridente, non a caso Dawn, la moglie dello svedese, sembra riacquistare lucidità e sanità mentale solo quando torna a casa dopo il lifting, solo quando si toglie le bende e può di nuovo ammirare il volto di quando era miss New Jersey, può ancora ammirare la persona che era quando esistevano dei valori condivisibili o almeno comprensibili, forse è questo l’unico modo…
Ma tutte quelle, il redivivo Svedese e la rediviva miss New Jersey sono solo apparenze, e dietro a queste è in agguato il loro vero aspetto, dietro a queste è in agguato la realtà di una figlia terrorista, di una famiglia distrutta, di una società malata, e a nulla valgono i tentativi di rimettersi in carreggiata.
E allora dunque come si può sopravvivere a questo sconvolgimento sociale, umano, nazionale, ideologico e psicologico?
Forse non si può, forse, va affrontato di petto, forse bisogna calarsi completamente nel ruolo e adattarsi, viverlo in pieno o, forse, turarsi il naso e aspettare stoicamente che il tempo bilanci la sorte, ridimensioni l’ottica sballata, riequilibri la morale.
Qualunque metodo è valido, se sei l’uomo medio, ma se l’uomo medio nel suo piccolo è un punto di riferimento? Un esempio? Se incarna per tutti, tranne che per se stesso, uno dei due estremi, uno dei due ideali?
Il tempo sana tutto, sconfigge le cause all’origine, ma se sei parte dell’origine allora non avrai mai scampo. Vuoi la società, vuoi, la realtà, vuoi la figlia, vuoi la tetra ironia di un tumore dopo essere sopravvissuto a tutto quanto, ma non avrai mai scampo.
Eppure cosa c’è di sbagliato in credere in qualcosa? Cosa diavolo c’è di sbagliato nell’essere qualcuno? (Qualcuno con la q minuscola).
Questo, tutto questo, è Pastorale Americana, un libro dai contenuti profondi, un libro dall’importante risvolto sociale, che fa del singolo la vicenda di tutti e riassume la storia di una nazione in un sol uomo, una drammatica e pessimisticamente disarmante disamina della storia americana degli ultimi cinquant’anni; questo è il pluripremiato capolavoro di quello che è considerato uno dei migliori scrittori del nostro tempo, un libro elevato, importante, consapevolmente archetipico di un’umanità che sente la necessità di evolversi denunciando un ventennio di involuzione, un libro profondo, importante e… ahimè un libro tremendamente finto!
Che cos’è la scrittura? E’ osservazione, riflessione, interpretazione, ma soprattutto sincerità, così, parafrasando, diceva Hemingway: “Se cominciavo a scrivere in modo complicato (…) scoprivo di poter tagliare quella voluta o quel fronzolo e gettarlo via e cominciare con la prima frase semplice e sincera che avevo scritto” (cit. Fiesta Mobile). In pastorale c’è tanto di riflessione e troppo poco di osservazione, c’è tanto di interpretazione e troppa poca sincerità, realismo: un padre che perde la figlia, dove sono le reazioni, istintive, impulsive, illogiche, sanguigne, subitanee di ogni essere umano? Un marito che si scopre tradito dalla moglie dopo che lui aveva fatto tutto per lei, dov’è la rabbia, l’istante di follia che solo l’educazione, il senso di appartenenza ad un mondo civile riescono a mediare? Una famiglia distrutta, una società distrutta, un mondo che ti schernisce, dov’è la viva forza della disperazione, le urla, le lacrime, dove sono?
Vero tutto quanto si dice, condivisibile l’interpretazione della vicenda, ma è sufficiente?
E’ tutta psicologia, elaborazione, autocommiserazione, ma dove sono le reazioni spontanee, primitive, primigenie? Forse proprio quell’unica cosa quella costante che accomuna gli esseri umani tra loro? Dov’è l’istinto?
E ma quello è sottinteso, va intuito…
No, perché come ci viene presentata la vicenda è completamente assente, forse addirittura si vuole far pensare che la società di quel tempo inglobi, fagociti, ogni istinto. Ma l’amor proprio, l’orgoglio, la rabbia, la ribellione, la cieca forza della disperazione oltre un certo limite, superata una certa misura sorgono inesorabili, comunque, a prescindere dall’ambiente in cui si è immersi, poiché sono lo sfogo dell’istinto primario che è alla base della specie umana e di ogni altra: l’istinto di sopravvivenza. Dov’è tutto ciò?
Semplice non c’è, al suo posto ci sono le elucubrazioni, le sortite mentali di uno spettatore distaccato, la cronaca del possibile e l’omissione del certo, la ricerca della possibile interpretazione, della possibile causa, e l’alienazione dalla concreta realtà, dalla illogica, subitanea, ma sincera, risposta di un uomo ingiustamente condannato a soffrire.
Ma perché è una vicenda metaforica, un esempio campione che estrapolandolo dal contesto rappresenta la realtà dell’America di quegli anni…
No, poiché se l’obbiettivo era quello non è’ sufficiente una simile storia, troppo particolare, esclusiva, rappresentativa, (proprio perché è troppo emblematica non può essere presa come campione, occorre qualcosa di più normale), non è sufficiente una singola vicenda per denunciare un’intera epoca storica. E le elucubrazioni mentali del protagonista, giustificate a posteriori, sono ingiustificabili di fronte all’incalzare dei fatti.
Tante cose accaddero in quel periodo eppure se ne vive una sola in Pastorale, una esemplare per carità, una approfondita fino al micrometro, ma è così importante alla fine? E’così significativa da dimostrare, ribadire, rafforzare il legame con quanto accaduto in quegli anni, è così imprescindibile da assumere un valore storico-sociale indiscutibile, tanto da far vincere il Pulitzer all’autore?
Lo è se è sincera, onesta, ma di sincero nello Svedese c’è ben poco, di onesto nel soggetto non c’è quasi nulla. Sono sinceri i suoi pensieri, ma le sue azioni, il come avrebbe agito, il responso naturale ai fatti? Eddai un “bestione di uno e novanta” asso del football, del basket e di ogni altra cosa, forte come un toro, mr. Perfezione, manager di una fabbrica avviata, sta li a pensare come sarebbe meglio interpretare il fatto che sua figlia non si lava da mesi, non mangia da altrettanto tempo ed è una bombarola incallita? Dov’è la sincerità? Forse se sei uno scrittore – eremita completamente distaccato dalla vicenda puoi metterti a pensare alle concatenazioni psicologiche di una simile situazione, ma se sei coinvolto in prima persona, fai come gli suggerisce il fratello: cacchio, vai lì in due e con la forza la trascini via da quella pazzia auto inflitta e la ricoveri in manicomio! Ma quali pensieri! Quali “viaggi” (per non dir di peggio) mentali! Quali? L’onestà in certi casi coincide con la forza, con l’azione, con la sensazione, magari erronea, ma pur sempre istintiva non con l’intellettualismo.
Forse allora non era meglio togliere qualche anacoluto cerebrale ed aggiungere qualcosa in più ad una vicenda che, a osservare strettamente i fatti, è alquanto scarna?
I riferimenti storici sono sicuramente presenti, e importanti, ma la vicenda, estrapolata dal contesto è quanto mai assurda, banale, piatta, fine a se stessa. Tanto che ad un certo punto, stanchi di leggere di tutte le paturnie mentali dello Svedese, è impossibile non parteggiare per il fratello, il chirurgo stronzo, e con la sua proposta, parafraso: “va bene, hai una figlia terrorista e rimbambita? Tirale due ceffoni, trascinala a casa e falle assumere la responsabilità di quello che a fatto, oppure lasciala marcire nei suoi stessi escrementi, ma smettila di farti ammazzare per colpa sua, e per carità smettila di pensare!” E’ impossibile non parteggiare per lui dopo l’ininterrotto stream of conunciousness dello svedese/autore. D’accordo anche questo passaggio è collegato alla storia, poiché è la trasformazione della società, e le trasformazioni da questa imposte per adeguarvisi, che hanno reso la figlia una bombarola, e che hanno reso il padre e lo zio, rispettivamente un mollaccione e un rispettato chirurgo stronzo, ma il collegamento tra individuo e società è assai lasso, almeno fino alla fine, fino all’ultimo convivio della borghesia dove tutti i nodi dovrebbero venire al pettine ed in realtà non accade praticamente nulla.
Questo è il problema di Pastorale: il collegamento, parlando della singola vicenda, focalizzandosi solo su quella si rischia di estrapolarla troppo e di farle perdere quella dimensione storica, politica e sociale che in origine l’autore si era proposto di darle. Forse sarebbe stata utile qualche altra vicenda, qualche altro fatto in più…
Quest’opera per certi aspetti è l’antitesi, l’opposto, di Underworld di DeLillo: entrambi si propongono di spiegare, criticare, denunciare e meglio comprendere, così da accettare, la storia recente dell’America e dell’occidente, ma il primo parte dal singolo per illustrare il tutto, il secondo parte dal tutto per arrivare al singolo, e se il primo dopo un po’ fa perdere la pazienza, se non addirittura il filo del discorso, il secondo, pur non avendo un filo logico consequenziale (si veda per esempio la disposizione dei capitoli) riesce ad approfondire, sviluppare, indagare nella psicologia dell’uomo molto più che le quattrocentocinquanta pagine di autolesionistica introspezione del protagonista di Pastorale Americana.
Anche stilisticamente il “capolavoro” di Roth non regge il confronto con quello di DeLillo, se il primo fa della confusione, della non scorrevolezza un arma impropria, il secondo (non da meno a livello di aggrovigliamento cerebrale), riesce a catalizzare l’attenzione su ogni singolo dettaglio che permea la vicenda, le vicende, e in tal modo a focalizzare l’attenzione sulla storia stessa.
E se nel secondo il realismo in un processo di catarsi assume la connotazione di iper – realismo, valorizzando la percezione stessa della realtà, in Pastorale semplicemente il realismo latita, sconfitto dall’assurdo e pedante immobilismo del protagonista, dalla inverosimiglianza del suo comportamento alla luce di quanto gli è accaduto e di quanto gli accade.
Ma non limitiamoci a questo, tiriamo ancora una volta in ballo Underworld di DeLillo: in Underworld c’è il ragionamento, il pensiero, la discussione, e sono legate indissolubilmente all’osservazione, alle impressioni, al contesto. In Pastorale invece sono sì legate al contesto, ci mancherebbe!, e sono sì giuste, pertinenti e condivisibili ma sembrano quasi ribaltare lo schema mentale dell’essere umano lo schema osservazione-pensiero. Input – ragionamento – output, nell’opera di Roth l’osservazione, la reazione nascono dal ragionamento, e il ragionamento è aprioristico rispetto alle contingenze, rispetto all’evoluzione degli eventi, come se lo Svedese si comportasse così, a prescindere da quello che accade, e la figlia idem, perché è così che si comporterebbe in un caso o nell’altro Roth.
No, non è onestà questa, non è realtà, non è il ragionamento che crea l’input.
La premessa stessa dell’autore, (parafraso) “…stavo danzando con… e di colpo.”, lo frega, è una confessione del suo errore, un ammissione di colpa: tutto il libro è finto poiché alla base parte da un viaggio mentale interiore e da esso non riesce separarsi.
E’ giusto pensare, ragionare, ma talvolta la vita è fatta anche di sensazioni, di stimoli inspiegabili, di istanti contradditori, di errori marginali e di visioni offuscate, è questo che ci rende umani, il fatto di pensare prima di agire e talvolta di non farlo. La realtà è giusto interpretarla, ma talvolta va presa per così com’è, accettarla e basta o non accettarla e basta, senza starci a riflettere su troppo; è il piano dell’infinitesimo di secondo che ci sfugge pur essendo fondamentale, è il vasto ritmo del mondo, di tutti gli esseri agenti sulla terra, che, impossibile da comprendere, possiamo soltanto intuire. Talvolta la quotidianità è fatta di pensieri, scelte, ma molte altre volte sono le azioni, le sensazioni; se così non è, se c’è solo il ragionamento, il pensiero profondo, ci si perde in se stessi, nelle proprie elucubrazioni, si perde il filo del discorso o il significato del libro. Bene, certo, sempre riflettere e pensare, ma talvolta occorre spegnere il cervello altrimenti ci si chiude in se stessi dimenticandosi del mondo esterno, delle sensazioni che questo ci offre, ci si dimentica di vivere. Talvolta una sensazione, l’istante in cui romanticamente abbagliati dalla bellezza di un paesaggio, un’ opera d’arte, una donna, si mette a tacere la propria voce interiore e si rimane inerti, incantati, totalmente ricettivi e istintivamente coinvolti, quell’istante vale più di mille riflessioni, vale più di cento pensieri! DeLillo questo lo sa bene, Underworld, il titolo stesso volendo rimanda a quel “mondo sotterraneo”, sotto la soglia del percettibile, che è la genuina comprensione istintiva, Roth invece apparentemente non lo capisce, lui è perso nei suoi elaborati pensieri, è smarrito nelle sue arzigogolate riflessioni ed è sconfitto dalla realtà quotidiana.
Tutto vero, quel che dice, quel che racconta, ma il mondo non è così, nella vita non c’è tempo per queste cose: se sei il padre che ha smarrito una figlia al diavolo l’America, il comunismo e il capitalismo, lo scambio generazionale, il bene e il male, i vecchi tempi, i valori della patria e il socialismo e la borghesia, al diavolo tutte queste idiozie da tea pomeridiano, al diavolo tutto e tutti e corri a riprenderla! Sì, ci puoi pensare, ne puoi parlare, ogni tanto, così per amore del dialogo, ma non puoi impostare la tua condotta di vita sul dualismo tra antico e moderno, tra occidente e oriente, tra bene individuale e bene delle masse, tra cattolicesimo ed ebraismo. Lo puoi fare se sei un politico, un prete, un rabbino, uno scrittore che vive da eremita e passa tutto il tempo a vagheggiare pontificando sulle giuste scelte morali della società moderna, ma non se sei un uomo comune, che vive dentro la vita, che non ha tempo per queste cose, non se sei una persona come lo Svedese.
Per tirare in ballo ancora una volta DeLillo, e prometto che questa è l’ultima, Punto Omega (e con questo ammetto che lo sto rivalutando) è la migliore risposta a Pastorle Americana: in questo caso non è la guerra del Vietnam ma quella del golfo, non è la società “antica” dei genitori, contro quella moderna e ribelle dei figli, ma un giovane e un anziano, non sono gli anni settanta ma il novanta, forse il duemila, ma la storia è simile, i temi sono simili, (guerra giusta o sbagliata? Società americana - occidentale che incarna i veri valori o è solo uno stereotipo che cela una realtà ben più amara e arrivista?) e le due generazioni a confronto si trovano a discutere, a riflettere; ad un certo punto DeLillo però si riscuote e compie il balzo che lo ri- trascina nel reale: quando accade qualcosa alla figlia del protagonista anziano, chi se ne frega di queste “cavolate dialettiche”, chi se ne frega di chi ha ragione, chi se ne frega dell’ America, dell’ Iraq, del capitalismo e del comunismo e corriamo a vedere cosa è successo, e affrontiamo il vero problema!
Questo è l’istinto, la risposta dell’uomo reale alle difficoltà della vita, l’istante sensazionale in cui si smette di ragionare e si agisce, l’istante che vale di più delle eremitche elucubrazioni artificiose di un emarginato sociale, poiché questo pare lo Svedese, un emarginato pur circondato da una società, chi se ne frega di tutto, questa è l’unica risposta al dilemma del “ma cosa è accaduto?”, “ma dove siamo andati a finire?” DeLillo ci mette un centinaio di pagine a trovarla, Roth ce ne mette più di quattrocento e non la trova, e il dubbio gli rimane. “Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa c’è di meno riprovevole…”
E dire che la risposta è molto semplice, facile, ci arriva chiunque al momento buono. Ma dove siamo andati a finire? Cosa c’è che non va nello Svedese, in me Svedese, nella mia vita?
La risposta è solo una: “ma chi se ne frega!”
Non è realtà quella di Pastorale è irrealtà, mascherata da intellettualismo, è mancanza di obbiettività, non storica e sociale, quella per carità l’autore ne ha fin troppa, ma mancanza di obbiettività individuale.
Date (sempre e comunque) a Cesare quel che è di Cesare, a essere obbiettivi, non ci si può limitare a condannare questo libro, non si può giudicarlo un libro mal riuscito e basta, non con quelle premesse, non se si parla di Philip Roth. Credo che l’unica parola che non contempli il suo vasto vocabolario di grande scrittore sia la parola “non riuscito.” Questo infatti non è un libro non riuscito, tuttavia, date le aspettative, le premesse, dato il riconoscimento internazionale, se per Pastorale non si può parlare di fallimento almeno di grande delusione forse è lecito. Delusione alla luce dell’ancora fatidica domanda: che cos’è la letteratura, che cos’è scrivere, ma soprattutto leggere?
In buona sostanza come dice Bloom la letteratura è catarsi, ma da cosa nasce la catarsi in un libro? Dal perfetto equilibrio di ogni sua parte e da uno stile irreprensibile in ogni sua variazione, da uno stile propedeutico all’evoluzione della trama, propedeutico all’evoluzione del concetto di realtà dell’autore e propedeutico all’evoluzione del lettore. Ma se la trama, come nel caso di quest’opera, è deficitaria e il soggetto è poco credibile allora lo stile deve essere ancora più che irreprensibile, deve essere assoluto, totale, o, in una parola molto più elegante, e già fin troppo usata, semplicemente, onesto.
Pastorale americana è scritta in uno stile onesto?
No, e in parte abbiamo già visto perché, ma c’è qualcos’altro di scorretto nel suo stile, di vizioso, di accennato eppure così palese, qualcosa che trascende l’indiscutibilità dei fatti.
Quello che lo Svedese accenna di aver iniziato, provato a compiere, con la figlia, ancora bambina e come la descrive Roth subito prima della telefonata al fratello (il fratello dello Svedese): è qualcosa di deviato, e si ripercuote lungo tutto il libro, nel modo come è scritto, nello stile, qualcosa di sottinteso, ellisso, eppure profondamente, moralmente, sbagliato. Sempre un passo al di là della soglia del tangibile eppure percettibile, eppure fin troppo palese.
E’ la repressione sessuale: è la pura, naturale pulsione di ogni uomo che in qualche modo viene repressa nelle parole di Roth. Ma questa repressione sarà volontaria o involontaria? Sarà un effetto voluto per stressare i problemi di una società perfetta solo in facciata oppure è una delle tante conseguenze dell’eccessivo cerebralismo dell’autore? E’ difficile capirlo come è difficile notarla, realizzarne in un singolo punto, paragrafo, la presenza; ciò non di meno è li, tra le pagine, una costante, raccapricciante e inammissibile per qualunque uomo onesto che voglia credersi tale. Dunque è lo Svedese disonesto o è lo stile dell’autore? L’uno esclude l’altro poiché se fatto apposta ne guadagna lo stile se invece è involontario ne perde l’autore.
Roth in Pastorale Americana, per quello che dice, per come lo dice non solo è l’antitesi di DeLillo ma lo è anche di Murakami, anzi di quest’ultimo parrebbe addirittura essere la nemesi: entrambi realisti, (a onor del vero il secondo più surrealista che realista) uno sembra diventare il nemico giurato dell’altro. Per l’autore Giapponese il sesso, la sessualità, l’erotismo, sono una costante ma sono normali, naturali, giusti, puri, in Roth invece no, ogni pulsione diventa morbosa, sporadica, ma avidamente particolareggiata, quasi volgare, quasi depravata. Non c’è nulla di oggettivo, concreto, sono solo impressioni, sensazioni che si spengono sempre un attimo prima di arrivare alla cosa definita, ma sono li, le si evincono dalla narrazione, tra le righe, di pagina in pagina, in un crescendo di presunta trivialità che culmina con il resoconto di quanto è stato fatto alla figlia dello svedese, culminano con il paragone, con l’immagine che ha il padre della figlia, di lei neonata da bambina e di lei sporca adepta ad un culto autolesionistico.
La domanda che occorre farsi ancora una volta è: questa appestante sensazione di irriverente maniacalità è volontaria?
Se è così, come per esempio ne “Il Teatro di Sabbath”, se è fatta apposta per evidenziare, sottolineare, stressare i problemi dell’uomo moderno, le sue falsità, le irrisorie apparenze a cui tiene tanto la società, be… tanto di cappello, è un'altra prova della grandezza di questo autore, ma se invece è soltanto frutto del caso, o meglio della innata indole repressa dalla cerebralità di un anziano che vive appartato tra i boschi, be… sarebbe quanto mai auto degradante.
No, non scherziamo, non facciamo della stupida faciloneria, affermare una cosa del genere sarebbe assurdo, sarebbe come mettere in discussione l’intelletto di un’ uomo il cui equilibrio e la cui acuità mentale sono riconosciute a livello planetario, anzi peggio, affermare una cosa del genere sarebbe come denigrare qualcuno per le sue scelte personali, sarebbe come accusare qualcuno, una persona riconosciuta come esemplare, di avere una mente corrotta dal proprio intelletto in un gioco di autodistruzione progressivo e totale, sarebbe psicologia da quattro soldi, psicologia da risentimento… ma Pastorale è un libro che suscita queste pulsioni, queste reazioni: lo si ama, ma lo si odia anche, piace e non piace, intrattiene e per certi aspetti disgusta. Forse perché in realtà mette a nudo ciò che noi, lettori, uomini moderni, occidentali, in realtà siamo; forse perché in realtà è uno specchio della nostra anima e non tanto di quella dell’autore, forse… ma l’odio, il malessere persistono, rimangono e si autoalimentano di pagina in pagina. Fino a ritenere che l’unico personaggio con un minimo di buon senso sia non tanto lo Svedese, eroe buono e sfortunato del romanzo ma suo fratello, ovvero colui che rappresenta lo stereotipo del occidentale, del capitalista possessivo e violento (cerebralmente, mentalmente, violento), del emancipato che una volta raggiunta una degna condizione sociale non guarda più in faccia nessuno pur di vendicarsi di quello che ha subito, di quello che la società gli ha fatto subire. Si arriva a questo, a stimare questo personaggio estremista, come unica voce della ragione in un delirio di pazzi.
Ma ancora una volta è indispensabile porsi la domanda, sarà un effetto cercato dall’autore o un collateralismo involontario? A differenza della sfera sessuale qui viene da pensare che sia stato fatto, studiato ed elaborato con intenzione, per poter rimarcare il concetto della totale e normale assurdità in cui si ritrova la società contemporanea, un assurdità così globale e onnicomprensiva che è impossibile sfuggirle e si è solo vittime, come lo Svedese da un lato, con la sua perfezione la sua bonarietà progressista; la figlia ribelle dall’altro, antisociale, anticonformista e antiumana e il fratello dal terzo, estremista totale che per repulsione nei confronti del mondo vive di troppo facili assoluti inopinabili ed inespugnabili.
Tutte vittime della società moderna, viene da chiedersi però, chi ha creato questa società? Se l’uomo presentato da Roth è vittima della società, vuol dire che è anche vittima di se stesso, poiché chi altri è l’artefice di questa condannata società se non l’uomo stesso? Magari, non lo Svedese nello specifico, magari non Merry, la figlia, o il fratello, ma anche loro sono comunque colpevoli, anche loro sono comunque esecutori materiali poiché parte del genere umano, poiché partecipi dell’ordine naturale delle cose. E allora cosa vuole dirci Roth, che ognuno è una vittima a prescindere, che non c’è soluzione di continuità alla nostra natura, che siamo condannati a soffrire della nostra stessa esistenza?
Apparentemente parrebbe di sì. Ma anche qui si torna al discorso di prima: troppo cerebrale, squilibrato, masochistico: la vita non è sempre e soltanto riflessione, e lo stesso la realtà, la società, se si incomincia a riflettere su qualcosa si troveranno sempre dei lati negativi, se ci si concentra su quelli parranno sempre più grandi, fino a diventare insormontabili, è sempre così, e l’autore se ne rende conto, ma sembra dirci: “vero, ma non c’è soluzione, è nella natura dello Svedese e nella nostra di esseri umani, riflettere e ingigantire i problemi.”
Eppure in qualche modo, si sopravvive, lo Svedese sopravvive, si legge all’inizio che è un tumore a stroncarlo e l’autore, l’alter ego cartaceo di Roth che crea tutta la storia mentre danza con la sua ex fiamma del college, è sopravvissuto, probabilmente in quanto essere umano avrà avuto gli stessi problemi dello svedese eppure ce l’ha fatta anche lui, come? Perdendo ogni valore? Ogni sicurezza, ogni scopo, rassegnandosi alla piatta realtà delle cose che accadono senza motivo? Forse per Roth è così ma di nuovo questa è una visione estrema che pecca di equilibrio, è un assolutismo non giustificabile da una mente illuminata come la sua.
E allora come venir meno al male di vivere che ci si auto infligge riflettendo, non potendo fare a meno di riflettere sulle cose che accadono? Quale filosofia, quale pensiero illuminato ci può permettere di ribaltare questa situazione, quale può sconfiggere l’indole innata della miserabile natura dell’essere umano di Roth?
Pare che l’autore nei suoi sessant’anni di carriera letteraria non sia riuscito a capirlo. Qualcuno meno sveglio, più istintivo, più giovane invece c’è arrivato, (e come lui ne sono sicuro, molti altri) era un semplice cantante di qualche anno fa, aveva fatto una canzone che conteneva un verso che recitava così: “ in every life we have some trouble, but if you worry you make it double, don’t worry, be happy!” Sono sicuro che tutti avete capito di chi parlo…
Facile, banale, scontato, palese, eppure più vero, genuino e concreto di ogni insulsa peregrinazione mentale di un povero pensatore chiuso in se stesso.
Questo, il verso di quella canzone, pare allora essere l’unica, risposta migliore, alle quattrocento e più pagine di Pastorale, parafrasando: Roth ci spiega i problemi della vita, dell’uomo, della società, dell’America attuale, ce li fa vivere, sentire, perdendosi nelle angosce, nella sofferenza e non vi trova soluzione, ma solo domande e domande alle ulteriori domande, fino ad arrivare a quella finale: come è possibile tutto questo? Cosa c’è di sbagliato? Come sopportare tutto questo?
La risposta è un semplice verso (le cose semplici sono sempre le migliori, anche in letteratura) di una semplice canzone: if you worry you make it double, don’t worry be happy, che guarda caso suona proprio come “si va be ma in fondo chi se ne frega!” Chi se ne frega se il mondo va così, chi se ne frega se non è una vita perfetta, chi se ne frega se hai dei problemi, se ti preoccupi ti sembreranno grossi il doppio, vivi sereno e affrontali da uomo!
Da qui il giudizio negativo al libro, forse un giudizio dovrebbe trascendere se si è d’accordo o meno su quanto affermato nel libro, e dovrebbe incentrarsi su come viene esposto l’argomento, sull’onestà degli elementi che vengono portati a supporto della propria teoria e non tanto delle conclusioni che si traggono da questi. Ma se queste conclusioni, influenzano tutto lo stile della narrazione, e la vicenda stessa, se l’ottica pessimistica di Roth influenza totalmente un libro, un romanzo, e se si riscontra che quest’ottica coinvolge i lettori e ogni membro, civile, pensante del genere umano, e se si nota che quest’ottica è sbagliata, falsa, stupida e limitata, be allora non si può prescindere dallo screditare il romanzo, per quanto il romanzo sia considerato il capolavoro dell’autore, per quanto la critica gli provenga da un insulso lettore come tanti, poiché se si è disposti a concedere il punto di vista all’autore, bisogna essere disposti a concedere anche il punto di vista opposto al critico e se si è dotati di logica, e chiunque legga Roth immagino lo sia, non si può ammettere che traendo da delle premesse corrette si possa giungere a delle conclusioni sbagliate; non se in ballo c’è il destino di un uomo, anche se fittizio, poiché nei disegni dell’autore è esemplare del genere umano, poiché anche se è uno stereotipo, nei suoi disegni è anche l’ archetipo di una società, poiché anche se irreale nella logica dello scrittore è quanto di più vero e attinente alla realtà possa esserci. No, non si può proprio ammettere una cosa del genere se c’è in ballo una critica alla società, la nostra società, non se in ballo c’è una dissertazione su quello che siamo stati e cosa siamo diventati negli ultimi cinquant’anni, non se in ballo c’è una critica personale fin troppo facile dei vizi di noi altri poveri esseri umani che ci mettiamo costantemente in gioco e il più delle volte non abbiamo tempo di riflettere sulla nostra illogica vita, no, non se in ballo c’è cosi tanto.
Date a Cesare quel che è di Cesare, ancora, d’accordo non sarà tutto perfetto, consequenziale, realistico e logico, ma come non considerare l’emozione che suscitano certi passaggi, l’angoscia di certi pensieri, il tormento di certe frasi taciute? E come non prendere in considerazione la catarsi inversa, per repulsione, che il libro suscita?
Pastorale Americana non è un libro sbagliato, scorretto, cattivo è un libro all’opposto, che fa ragionare per assurdo: “non vuoi una simile interpretazione della realtà e allora createla da solo”, sembra dirci, “ti va bene questa? Be è logico è così che va il mondo, che ti aspettavi?” e il ragionamento scatta, sia che ci si trovi d’accordo oppure no, sia che si condivida o meno la visione di Roth. Un libro simile, che suscita tale ragionamento e tali passioni, non può essere considerato alla stregua degli altri, ma questo vale sia per gli aspetti negativi che per quelli positivi, e allora vale il metro di giudizio non più assoluto ma del singolo, a seconda della propria morale, della propria verità personale, della propria maniera di interpretare il Mondo.
Ognuno legge Pastorale a suo modo e ognuno lo interpreta a suo modo, un libro del genere non può essere considerato oggettivamente ma solo soggettivamente, poiché non è uno di quei testi che o lo si odia o lo si ama, ma entrambe le cose: Pastorale la si odia e la si ama, ci attrae e ci repelle e nessuno può arrogarsi l’onniscienza imparziale necessaria per giudicarlo senza anteporre il soggetto giudicante alla frase: “io lo considero”, “io penso”, “a me è…”, e un libro che riesce a eleggersi sopra alla mischia a tal punto non può non essere annoverato tra le più grandi opere del nostro tempo.
Tuttavia, proprio per il fatto che nessuno può possedere la distaccata imparzialità necessaria per giudicarlo, anche il sottoscritto non può esimersi dal dire la sua e ribadire il concetto che Pastorale Americana non è un libro comune che si può odiare od amare, ma un libro che si odia e si ama contemporaneamente e purtroppo, per quel che mi riguarda, dal basso della mia riacquisita soggettività, devo ammettere che, vuoi per il punto di vista dell’autore, vuoi per la mancanza di concretezza, o di onestà, vuoi per l’eccessivo cerebralismo, purtroppo devo ammettere di averlo odiato molto più di quanto l’ho amato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cosigliato a tutti, perchè comunque, malgrado tutto (ma proprio tutto), questo libro è e resterà per sempre, nel bene e nel male, un patrimonio dell'umanità
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
2.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    10 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Punto Omega... bersaglio mancato!

Uno stile eccessivamente pretenzioso che mal s’accorda a un racconto che, pur puntando ad avere un importante risvolto filosofico, in realtà non riesce andare oltre il banale. Questa è l’impressione che rimane di Punto Omega a qualche giorno dalla sua lettura.
DeLillo sembra aver confezionato un romanzetto in fretta e furia confidando più sulla sua ben nota abilità di scrittore che su una storia ben architettata. Ma se il suo stile unico, la sua accattivante prosa iper – realistca, le sue indiscutibili abilità insomma (e sono realmente tali), più volte hanno messo in secondo piano la trama, alle volte fin troppo scarna, dei suoi scritti, in questo racconto non bastano, non sono proprio sufficienti.
In Punto Omega c’è troppo poco, ecco tutto.
E dire che la premessa era buona, l’idea di base, e in definitiva la storia stessa, il dramma parallelo da (e con) pellicola Hitchcockiana, i due approcci alla vita, quello del giovane e quello dell’anziano e così anche le interpretazioni di recenti fatti d’attualità, erano trovate potenti, interessanti, ma il resto… Dove sono la ricerca, il ragionamento, l’approfondimento dei temi a cui l’autore ci ha abituato? E l’introspezione dei protagonisti, riflesso della sua? Dove sono, che fine hanno fatto? In Punto Omega hanno ceduto il passo ai vaneggiamenti filosofici, alle opinioni appena accennate e mal spiegate, alle discussioni qualunquiste o, ancora peggio, alle discussioni qualunquiste su fatti specifici, ai punti di vista da sabato pomeriggio in coda dal barbiere.
E non mi si venga a dire che è proprio questa la forza del libro: la ricerca di una deontologia di vita tra le fonti d’ispirazione che la società di massa ci mette a disposizione, i luoghi comuni e il rifiuto di questi con l’anziano protagonista che si isola in un deserto; se così anche fosse è mal spiegata e ancora una volta poco approfondita.
E non mi si venga a dire neanche che in realtà tutto il racconto non è altro che un unico grande approfondimento, un dialogo interiore dell’autore che riflette sui grandi temi della vita, questa è una qualità che si può ascrivere a qualunque romanzo, a qualunque autore: la stesura stessa di un romanzo, perfino il più commerciale, implica un costante dialogo interiore, e se qui per forza di cose, ricordiamoci che stiamo sempre parlando di uno dei più grandi scrittori contemporanei, questo dialogo risalta un po’ più che altrove, non è per un’ eccellente peculiarità di DeLillo, ma per una semplice prerogativa che da uno come lui ci si aspetta venga sempre soddisfatta, costantemente, proprio perché stiamo parlando di uno dei “più grandi.”
Da uno del suo calibro ci si aspetta che la poliedricità del ragionamento non sia l’arrivo di un romanzo ma la base su cui far evolvere la trama, le vicende. Da uno come lui ci si aspetta poi che i concetti siano netti e definiti e che, perfino nella rappresentazione dell’umana incertezza, nella dualità Dostoevskijana delle molteplici nature degli uomini, questi concetti siano ben distinti, magari contrastanti e sofferti, ma precisi. E l’autore di solito ci riesce: in un romanzo come Underworld, per esempio, la poliedricità di sguardi sulla realtà viene addirittura oggettivata e resa assoluta, diventa l’impalcatura su cui si erge la società descritta nel libro (e di conseguenza l’impalcatura su cui si erge anche il libro); e l’impalcatura stessa diventa poi il punto di vista definito dell’autore: le molteplici interpretazioni del mondo come unica possibile spiegazione del mondo stesso, le tante nature umane che confluiscono nell’unica, vasta, singolare opinione di DeLillo.
Questo ci sia aspetta da uno scrittore del suo calibro, ma qui in Punto Omega non c’è nulla di tutto ciò.
Il tempo che scorre, la vita che passa, il bene in contrapposizione al male, gli assoluti cosmici, questi sono i temi qualunquisti di cui si parla qui dentro. Questi e il fantomatico punto omega, nicchia al di fuori della realtà e della storia, nicchia in cui rifugiarsi per avere una visione più chiara di…cosa? Della propria vita, di quel che si è fatto e si vorrebbe fare, del nostro passato e del nostro futuro o di quello degli altri, magari del mondo? Deduzioni personali e poco altro; va bene il concetto di sguardo lucido sia retrospettivo che introspettivo, sia soggettivo che oggettivo, ma se poi questo concetto è mal spiegato, poco approfondito, non corredato da esempi attuali, pratici, concreti…
In definitiva che cos’è questo punto omega, cosa vorrebbe rappresentare? Non c’è una risposta ma solo interpretazioni, solo deduzioni, solo opinioni personali del lettore, poiché nel libro se ne parla sì, ma non sufficientemente, poiché nel libro se ne discute sì, ma non adeguatamente.
Grandi temi di facile appeal appena accennati… capaci tutti! Si lancia un amo in acqua, bello, grande, colorato, ma se poi non si porta a riva nulla, se non si riesce a tirare le somme, se non si giunge a nessuna conclusione… Capaci tutti! Be forse non tutti, forse a dir la verità in pochi riuscirebbero a lanciarlo con tale eleganza, a gettare le basi di temi banali con tale stile, ma lo stile come già accennato talvolta non è sufficiente, anzi. Dal padre del post modernismo letterario americano è lecito aspettarsi qualcosa di più.
- E ma c’è il giovane che dialoga con il vecchio nel deserto, è proprio quella la trasposizione delle due nature dell’io che andavi cercando, – potrebbe ribattere qualcuno, - le due nature: la logica e l’istintiva, la concreta e l’astratta, la corretta e la ribelle, la sociale e la antisociale. Non a caso DeLillo sceglie il deserto come luogo d’incontro, poiché elemento aberrante e trascendente: ti circonda, ti pervade, ti estrania dalla civiltà e poi per la sua uniformità, per la sua costante monotonia, si dissolve lasciandoti nel limbo della mente a contemplare una roccia, la sabbia, la tua ombra e ancora una volta te stesso, il punto omega. Il deserto quindi come metafora del cervello, di quelle idee inespresse che rimangono nell’anticamera della mente che magari si percepiscono buone, positive, ma poi si dissolvono come miraggi; questi sono l’approfondimento, l’idea e la spiegazione che andavi cercando prima, questi sono gli elementi di cui denunciavi l’assenza. -
D’accordo, tutto vero, concessa la bontà della location meta/terrena (a cavallo tra il metafisico e l’ultraterreno neuronale dove si concretizzano le nostre elucubrazioni), concessa la rarefatta atmosfera semi meditativa, rimangono pur sempre i dialoghi però, …oh andiamo dai!: il vecchio saggio astioso e disilluso dalla vita che si confronta con il giovane pieno di buoni propositi e aspettative? Banale, pretestuoso, monotono e soprattutto già letto in centinaia di libri.
D’accordo grazie all’inconsistenza del deserto i protagonisti raggiungono questo punto omega, specchio della coscienza a un passo dall’illuminazione, e di che discutono? Della verità universale e di quella personale, del significato della vita e di ciò che accade… Oh andiamo dai! Basta leggere la biografia del santone indiano di turno per approfondire meglio questi temi: questi non sono ragionamenti concreti, questa non è introspezione, ma filosofia a buon mercato insufficiente e inconcludente.
DeLillo non è certo il primo che ha di questi pensieri, che si pone queste domande esistenziali e come per tutti i suoi predecessori che si sono imbarcati in digressioni filosofico/metafisiche anche per lui non è possibile trarre delle conclusione sensate, equilibrate e definitive. E nel libro si capisce chiaramente: incomincia un ragionamento e poi non ne viene a capo, ne incomincia un altro e si blocca di nuovo.
Come terminare allora un’opera così, come concludere una raccolta di pensieri appena accennati e inconcludenti?
Con la figlia. Arriva la figlia del protagonista anziano, arriva l’elemento esterno che mischia le carte in tavola e rompe il rapporto a due tra discepolo e maestro, che fa capire ai protagonisti quali sono gli aspetti importanti della vita reale, del mondo concreto.
Ma lo fa capire ai protagonisti o ai lettori?
Forse solo a DeLillo che si rende finalmente conto di aver costruito un libro sul nulla e per terminarlo non c’è altra soluzione che introdurre il terzo incomodo con la sua storia raccogliticcia e pretestuosa. Di fatti quella della figlia dell’anziano non è un’apparizione appropriata, non è un elemento che si inserisce bene nel racconto, sembra altresì un fattore esterno, un pretesto appunto, come se l’autore l’avesse creata perché si era reso conto di essersi imbarcato in un’impresa più grande di lui e in qualche modo doveva trovare una via d’uscita, una scappatoia. Ma se le scappatoie talvolta sono efficaci, di certo non sono dignitose: la figlia rompe la simmetria domanda - risposta, pensiero – contro pensiero e quando accade qualcosa, qualcosa di concreto, (parlo della trama ora) tutto ciò a cui girava attorno la vicenda, tutto il sofismo metafisico di Punto Omega e i dialoghi sopra i massimi sistemi del mondo vanno a farsi benedire.
…E il lettore tira un sospiro di sollievo, poiché la pazienza ha un limite e già è abbastanza improbabile che due perfetti sconosciuti condividano un appartamento nel deserto per parlare di guerra e pace, di relativismo assolutistico e di assolutismo relativistico, ma se poi fosse arrivato un terzo oratore impregnato di cerebralismo compiaciuto…si correva veramente il rischio di perdere il lume della ragione!
Per forza dunque per concludere il romanzo occorre la vicenda realistica della figlia dell’anziano protagonista, ma questa vicenda è scollegata, marginale, e fino alla fine completamente inutile; per essere più precisi fino a quando tutti e tre, il giovane oratore, il vecchio e forse DeLillo stesso, non si rendono conto che è molto più importante, interessante e accattivante questa storia di tutta l’aria fritta che si legge nelle prime novanta pagine del libro.
In definitiva in Punto Omega sembra quasi che l’autore abbia ceduto alla tentazione dello scrittore alle prime armi, la tentazione di creare un’opera omnicomprensiva, un opera massima che contempli ogni aspetto della vita, e solo quando è arrivato a pagina novanta si sia reso conto dell’errore e abbia tentato di chiudere in qualche modo la storia anteponendo al romanzo una confusa premessa ad effetto e un finale thrilling che in qualche modo rimandasse a quella premessa. Il risultato definitivo è quello di due storie in una, scollegate, rattoppate in qualche modo e per nulla soddisfacenti.
Ancora una volta, va bene parlare di massimi sistemi del mondo, ma non di tutti, se ne scelga uno e si approfondisca l’argomento, parlare di tutti e venirne a capo è un’impresa titanica per chiunque, figuriamoci per qualcuno che si prefigge di farlo in cento pagine! E poi di nuovo, cosa c’entrano con la figlia?!
Due vicende separate, su due piani di versi, quella concreta e quella astratta, legate “ufficialmente” da una parentela, ma “ufficiosamente” da qualcosa tipo: “sì, sì parliamo dei significati profondi della vita, ma quando in questa vita succede veramente qualcosa, tutte le ricerche interiori vanno a farsi benedire in favore della realtà contingente, dei fatti concreti e violenti.”
A onor del vero viene il dubbio che sia proprio quest’ultimo il significato del libro, il messaggio che vuole comunicarci l’autore, la sua distinta e netta presa di posizione: ogni pretesto è buono per divagare sulle cose che contano ma quando accade qualcosa si capisce in un battito di ciglia cosa conta veramente. A onor del vero viene questo dubbio, ma di nuovo è solo un ipotesi frutto di deduzioni personali indimostrate e forse indimostrabili. E se qualche supposizione sussurra all’orecchio della coscienza di andare oltre le apparenze del libro, qualcun’altra suggerisce di smetterla di arrampicarsi sui vetri per tentare di riabilitare il lavoro di uno scrittore per cui si nutre una grande stima.
Sempre a onor del vero è giusto ammettere che, come in molti altri scritti dell’autore anche in questo ci sono degli aspetti interessanti: punti di vista, dialoghi, l’atmosfera surreale; e sono interessanti anche alcuni contenuti e ragionamenti, leggasi le divagazioni sul ruolo più o meno attivo che ha avuto l’America nella Guerra del Golfo, per esempio, ma, di nuovo, dove è l’approfondimento? Il lucido ragionamento, il netto punto di vista di una mente che nell’arco di settant’anni ha maturato un’esperienza di fatti vissuti tale da potersi creare una propria filosofia di vita, un proprio schema di pensiero concreto? E DeLillo non è uno scrittore da spiaggia, possiede una sua individualità cerebrale, una sua visione del mondo, anzi è proprio questa, e la capacità di riportarla sulla carta stampata, che l’han reso famoso, basta leggere le altre sue opere per rendersene conto. Dove sono queste cose?
Non qui, di certo non in Punto Omega, qui non si notano, qui c’è troppo astratto e troppo poco concreto e come spesso accade in questi casi (perfino i grandi non ne sono immuni), la narrazione perde di consistenza, lo stile appare pretenzioso e il libro perde sostanzialmente di valore.
Vero, ammetto che qualche personale incertezza interpretativa persiste, purtroppo pero le inconfutabili certezze di trovarsi di fronte a un semi passo falso dell’autore sono molte di più.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    09 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

La staticità di un dipinto allo scorrere del tempo

Sono convinto che sia completamente inutile sforzarsi anche solo di commentare, figuriamoci recensire, uno dei più famosi e importanti romanzi del '800, poiché aggiungere qualcosa di nuovo alle migliaia di revisioni già prodotte nel corso degli ultimi cent'anni sarebbe un impresa quanto mai improba in cui solo il più arrogante dei critici letterari potrebbe cimentarsi, figuriamoci qualcuno che legge per hobby. Forte delle mie convinzioni dunque mi limiterò ad elencare qualche estemporanea considerazione formulata durante la lettura, certo che quanto dirò risulterà totalmente banale.
E' un romanzo "teatrale". Usando questo aggettivo non mi riferisco ai contenuti della trama o allo stile affettato, caratteristica quest'ultima vera e del tutto giustificabile dalle consuetudini del tempo in cui venne ideato, mi riferisco bensì all' architettura dell’opera; l’impressione è che Dostoevskij, scrivendo forse il suo romanzo più celebre, ha scelto fin dal principio di impostarlo all'insegna dell'ordine e della rigidità: non vi sono variazioni temporali, se non quelle dettate dalla cronologia degli eventi, non vi sono rimandi, antefatti, o spiegazioni a posteriori, tutto si svolge in ordine, preciso, pulito. L’intera vicenda potrebbe essere suddivisa in tante piccole e singole scene, tutte ben delineate e tutte ben distinte le une dalle altre. Ogni capitolo una scena diversa, ogni capitolo un episodio differente, esattamente come i tempi di una pièce teatrale, tempi che qui non sono aggrovigliati o confusi ma precisi ed immobili, e non semplicemente tratteggiati ma dipinti con contorni ben marcati.
Le scene dunque sono statiche, nonostante i personaggi del romanzo compiano azioni, ciò è possibile poiché il loro agire è il medesimo degli attori su un palco, che si muovono sì, ma solo nell’ambito della scenografia di quel momento.
L’azione non è assente ma è appena accennata, il più delle volte sottintesa tra un capitolo e l'altro, poiché ciò che preme all'autore non e' tanto divulgare i fatti che costruiscono la singolare vicenda del Principe/Idiota, ma la causa: cosa vi e', o vi è stato, dietro a questi fatti, e con essa la psicologia dei personaggi.
La psicologia, l'introspezione, non è forzata, non è giustapposta alle scene attraverso la descrizione dei protagonisti, ma è soltanto lambita dalla trama nei dialoghi e nelle interazioni che questi implicano.
Il narratore e' assoluto, anzi più che assoluto: totale, tanto che si prende la libertà di dialogare anche con il lettore, esattamente come talvolta fa la voce narrante, e fuoricampo, a teatro.
Dunque, leggendo l'Idiota, non ci si trova difronte un testo dalla trama avvincente intercalato da una profonda introspezione psicologica, al contrario ci si trova difronte a dei panorami, dei magnifici quadri, dentro i quali, o davanti ai quali, si svolge una scena, per lo più un dialogo e grazie a questo dialogo il lettore apprende cosa e' accaduto prima, e cosa potrebbe accadere dopo, quando cioè tra una scena e l’altra è calato il sipario, quando tra un tempo e l’altro gli attori si sono ritirati dietro le quinte per un rapido cambio di costume.
In questo sta la grandezza del romanzo: tutto viene evinto attraverso le interazioni tra i singoli soggetti, attraverso quello che dicono e quello che non dicono, attraverso la loro postura, attraverso i loro gesti (attenzione l’autore che nei panni della voce narrante si pone dopo i fatti accaduti e ce li descrive inizialmente a grandi linee, non è un eccezione al meccanismo dialogo/sipario sopra descritto, ma un semplice stratagemma per introdurre il lettore, anche se ormai parrebbe più opportuno chiamarlo spettatore, per introdurre il lettore alla vicenda.) e i personaggi, quei complessi, stupendi, realisticamente ridicoli se non addirittura fastidiosi, attori del dramma, al pari delle scene e della storia, li si scopre pian piano: attraverso le cose che dicono e come le dicono, attraverso le cose che pensano e come le pensano e nessuno, nessun lettore, riesce farsi un idea della complessità di quei caratteri fintanto che gli attori/protagonisti stessi non se ne fanno una e ancora però quell' idea non e' un assoluto ma un semplice punto di vista, del tutto soggettivo e del tutto personale.
Quanti leggendo del Principe Myskin han pensato che in realtà e' il più saggio di tutti per poi subito dopo ricredersi e considerarlo un idiota? Tutti, vero? Esattamente come han fatto gli altri protagonisti del romanzo, esattamente come le persone con cui lui ha a che fare; ed e' naturale che sia così perché noi lo vediamo attraverso gli occhi degli altri e a seconda di chi siano gli altri, noi lettori, ci facciamo un'idea differente.
E se nell'incessante dipanarsi della vicenda sta la grandezza del romanzo, nella rappresentazione singolare e totale dei personaggi sta la grandezza dell'autore che riesce a fare di sé un narratore assoluto, che potrebbe descrivere e giudicare vita, morte e miracoli di ogni singolo interprete del dramma, eppure se ne tiene fuori, lasciando agli altri, ai suoi "attori",così come ai suoi lettori, tale compito e ognuno percepisce il romanzo nella maniera che meglio s'accorda alla propria indole, e ognuno si fa un'idea dell'accaduto nella misura in cui si trova più d'accordo con un personaggio rispetto ad un altro. Proprio come accade tutti i giorni nella realtà.
In queste caratteristiche, e solo in queste due, sta la bellezza del romanzo. Dire infatti che la storia in se sia originale, al giorno d'oggi, sarebbe mancare di obbiettività e dire poi che i fatti narrati siano importanti, con quanto accadeva in quel periodo nel mondo attorno alla loro vicenda... e con quanto accade ancora oggi, sarebbe a dir poco ingiusto.
Certo, qualcuno potrebbe sempre obbiettare, e a ragione, che l'autore, scrivendo delle peripezie amorose di giovani benestanti che patiscono le intromissioni della viva forza dei sentimenti di alcuni soggetti provenienti dai ceti inferiore, in realtà ha raccontato di una società Russa in subbuglio, dove il malcontento delle classi medie fa da contrappunto al progressivo disfacimento dell'aristocrazia ereditaria, dove un principe in rovina in una società dominata dai bassi istinti può essere ancora definito nobile solo grazie alla bontà dei suoi sentimenti, dove il valore del singolo individuo conta più dei valori della gente con cui s'accompagna, della gente di cui, solo per nome ma non per scelta, fa parte. Potrebbe obbiettare questo, potrebbe obbiettare che, dunque, per estensione raccontando della singola vicenda ha parlato di tutta la Russia. Certo, e potrebbe anche aggiungere che l'intento di Dostoevskij non era quello di creare un romanzo che descrivesse i profondi cambiamenti politici, economici e sociali che aveva vissuto l'Europa con la rivoluzione francese, e che presto avrebbe vissuto anche la Russia, ma quello di narrare una vicenda a suo modo e a suo tempo singolare, punto e basta. Certo... E sarebbe assolutamente lecito pensarla così ed entrambe le obbiezioni sarebbero oggettive e più che giustificate, tuttavia, parlando soggettivamente, davvero qualcuno non pensa che la vicenda in sé sia piuttosto banale? Che al giorno d'oggi tutti quei comportamenti, pensieri, timori, dettati dall' etichetta, dai costumi del tempo, dal galateo, non siano leggermente superati? Tutte le missive tra i protagonisti, i viaggi per confrontarsi a quattr'occhi, gli appuntamenti segreti tra spasimanti, stabiliti tramite intermediari fidati e malfidati, e il dramma finale dell'incomprensione... oggi con un paio di messaggini non sarebbe forse tutto risolto?
D'accordo e' una battuta, tuttavia a qualche mese dalla lettura dell'Idiota permane la sensazione che si tratti ne più ne meno di una romanzo invecchiato male, che, pur narrato in maniera eccelsa, racconta di una vicenda del tutto superflua.
Cosa pretendo, direte voi, e' stato scritto nell'ottocento, all'epoca aveva un senso. Vero, ma e' anche vero che si è di fronte a quella che viene considerata una delle opere più importanti di uno scrittore immortale; i suoi pensieri, le sue considerazioni e in fin dei conti i suoi romanzi non dovrebbero dunque trascendere il tempo e il luogo, così come le opere e i pensieri di Shakespeare, Goethe o Tolstoj, per citarne qualcuno a caso? In "Memorie del sottosuolo"', ne "la mite" e le "notti bianche" Dostoevskij ci riesce, riesce a trascendere il momento e ad eternalizzare le sue parole, ma se ci riesce in tre racconti non sarebbe lecito aspettarsi un simile risultato nella sua opera più importante?
Forse sono influenzato dal fatto che considero Dostoevskij uno dei pochi scrittori, assieme ad Hemingway (anche se sono consapevole che paragonarli e' piuttosto bislacco) e pochi altri, che riesce meglio nei racconti che nei romanzi; che per quanto scriva in maniera strabiliante entrambi i generi, nei romanzi la bellezza delle sue parole sia spesso mimetizzata dall'eccessiva prolissità dei paragrafi; forse sono anche influenzato dalla rinomanza dell’autore e del titolo, forse perfino da qualcos'altro che non sono riuscito ancora a capire e tantomeno esprimere, ma in fin dei conti se devo essere sincero con me stesso considero l'Idiota una mezza delusione.
NOTA
Mi rendo conto con questa recensione di cadere nel vizio tipico del critico letterario il cui solitamente smisurato ego, allorchè riscontri qualche difettuccio in un conclamato capolavoro, lo spinge a sottolineare la singola imperfezione come l'ennesima ignominia di un illeggibile obrobrio, mi rendo conto di stare irrimediabilmente peccando di presunzione, se non addirittura, qui, di lesa maesta, tuttavià non riesco proprio a soprassedere alla delusione che ho provato leggendo un'opera tra le più importanti della storia della letteratura e scoprendo che in realtà i contenuti lasciano alquanto a desiderare. Se vi riesce più facile accettarlo quindi, ammesso che dobbiate e soprattutto che ve ne freghi qualcosa, considerate, come spiegavo all' inizio, questa mia recensione, solo alla stregua di un' opinione personale, soggettiva e del tutto estemporanea. (Che fa dell'oggettività raggiunta attraverso lunghe riflessioni il suo punto di forza... ma sempre del tutto personale ed estemporanea! :-) )

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri capolavori, o presunti tali, della letteratura russa
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    06 Agosto, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Quel qualcosa in più

"Indignazione", è difficile pensare ad un titolo più azzeccato ed è difficile pensare ad un termine più appropriato per descrivere, riassumere e spiegare (o spiegarci) quanto detto da Philip Roth in questo romanzo. E’ infatti quest’ultimo un inno all’indignazione. Ogni singola pagina è permeata da un sentimento di ribellione subliminale, di leggeri sospiri di sconforto che durante il viaggio di pochi mesi del protagonista si trasformano, in un calmo (ma pur sempre ricco di dramma) crescendo, in urla di rabbia contro l’illogicità di tutto quanto lo circonda.
Già, infatti, se non lo si fosse ancora capito in questo libro si parla di “indignazione.”
Ma contro chi? Contro cosa?
Difficile (eppure indispensabile) rispondere, poiche al pari dell’evoluzione geografica e cerebrale del protagonista anche il sentimento fondamentale del libro si evolve e migra posandosi su ogni aspetto della vita del vent’enne di cui Roth ci racconta la sorte.
Inizialmente ciò che lui prova è l’indignazione più classica e banale, quella contro il padre, il genitore oppressivo. Quella del giovane ormai adulto che comprende di doversi confrontare e scontrare con dei valori che non fa più suoi, che non riconosce più come tali. Senza un compromesso, come spesso accade, questo scontro porta ad una separazione. Ma la separazione dal guscio familiare invece di alleviare la pressione genera nel giovane uomo una nuova e sconfinata serie di soggetti e oggetti contro cui scagliare la propria rabbia. Quali sono questi soggetti? Semplice, la vita e ogni singolo, stupido, importante, facile, complesso problema/rapporto che quest’ultima comporta: il ragazzo va al college, abbandona la casa e se prima l’unica fonte di contrasto era quella genitoriale ora si trova al cospetto di centinaia di fonti, migliaia. Una per ogni singolo nuovo impulso che riceve dalla sua nuova esistenza. Prima i compagni di college, così diversi e così scoccianti, poi i clienti del primo lavoro così irriverenti e disturbanti, poi la prima ragazza così disinibita e pazza (e qui la narrazione pur mantenendosi di alto livello è pervasa di un’ironia che non si può esattamente definire “fine”, ma ciò non di meno azzeccatissima) ed infine i capi, i superiori, coloro che gli impongono una determinata condotta, un determinato modo di essere. Ma al ragazzo, ormai collegiale, questo non è sufficiente: contro tutti, specialmente contro chi è più forte di lui, non si può scagliare, non può combattere e sperare di vincere e allora fa l’unica cosa sensata: rivolge la sua attenzione alla causa scatenante, concentra la luce del suo riflettere sul motivo percui tutto ciò che ai suoi occhi c’è di più assurdo gli viene imposto senza un minimo di logica. E cos’è quel motivo, quella causa che determina la condotta dei suoi compagni, della sua simil-fidanzata, dei suoi professori? Il Sistema, con la S maiuscola, inteso come insieme delle norme, delle regole, delle consuetudini e della tradizione di quel college. E cosa c’è di più illogico della tradizione agli occhi di un giovane con il sangue del rivoluzionario e gli attributi di un bue? (Si noti che la citazione di un animale, ahi lui, castrato non è casuale).
Ecco dunque finalmente un oggetto inanimato, un entità non troppo concreta, contro cui scagliare la propria ira sicuri che tanto questo, per sua natura, non può rispondere per le rime. Ma il ragazzo, che in questa fase sembra più giovane di quando lascia il nido familiare carico di aspettative, fa male i suoi calcoli, poiché il sistema college, e per estensione il sistema sociale dell’America fine anni 50, sono sì un’entità astratta con connotazioni non perfettamente definite e delineate, ma sono anche termini inclusivi, che descrivono e racchiudono in un unico insieme delle persone reali che condividono e sposano le stesse idee e i medesimi valori. Il “sistema college” infatti è costituito dall’insieme degli individui che popolano il college, il sistema sociale invece è costituito niente meno che da la gran parte della popolazione americana; scontrarsi contro quei sistemi equivale scontrarsi contro i costumi, le credenze e i valori del tempo, scontrarsi contro tutte quelle cose equivale a scontrarsi contro un' intera società. E quando il rapporto di forze è cosí impari non si può vincere, al contrario invevce, se la disputa eccede il piano puramente intellettuale e il ragazzo fa il passo più lungo della gamba, non solo rischia di andare incontro a delle ripercussioni sia morali che fisiche ma rischia anche di essere respinto, marchiato come anormale e ripudiato da quella società che odia ma a cui in fondo persino lui appartiene.
Così pare accadere.
Finalmente si penserà dunque che il ragazzo abbia raggiunto il suo obiettivo: estraniarsi totalmente da quell’assurdo ambiente di pregiudizi, preconcetti e valori superficiali che costituiscono il suo mondo, ed elevarsi, finalmente libero, ponendosi come alternativa a tutto ciò che c’è di illogico, tradizionale e ignorante… Eppure non è così. Si scopre, lui scopre, che infondo, forse quel bisogno di combattere, di ribellarsi al sistema, nasce dal bisogno di essere accettato, di essere parte proprio di quel sistema che lui odia tanto.
Forse è così e forse no, è naturale che non sia sicuro, che abbia dei ripensamenti, è sempre difficile auto analizzarsi, specialmente a vent’anni, ma è del resto anche naturale che proprio per questi ripensamenti, proprio nel momento in cui è libero, ma solo e abbandonato, appena il sistema, la società, la tradizione del college, comunque la si voglia chiamare, gli ridà una possibilità permettendogli di rientrare nel caldo e sicuro insieme dei “normali”, appena l’illogica vita comune gli tende nuovamente la mano, lui, assetato di affetti e di contrasti, di superficiali piaceri e illogici sconforti, vi si aggrappi ardentemente.
E il presunto ribelle che finalmente aveva trovato il coraggio alla prima possibilità ritorna sui suoi passi facendosi fagocitare da tutto ciò contro cui aveva combattuto.
Be ognuno trova la sua strada, se a lui va bene così… Dunque finalmente felice? Destinato ad un normale, canonico, roseo, ancorché limitato, futuro?
Così parrebbe, ma la giustizia poetica è in agguato dietro l’angolo, ed è una giustizia quanto mai vendicativa.
E’ vero ora il ribelle è tornato in società, il pazzo ora è sano, ma qualche germe di indignazione l’ha pur sempre con sé. Senza giri di parole: sarà anche come gli altri ora, ma certe regole non le ha mai sopportate, ne mai le sopporterà. Fortuna che ora è parte del sistema sociale, della normalità e questa normalità è molto vasta; nella normalità sono contemplate moltissime casistiche, perfino estreme, perfino controproducenti, eppur tuttavia ancora normali, come per esempio quell’antico adagio che vuole che una volta trovata la legge sia “gabbato lo santo”. Ma il sistema è meschino e la società con i suoi pregiudizi è anche peggiore, con una mano da e con l’altra toglie il doppio: il giovane rientra al college, si affligge quotidianamente con tutte le regole e norme che vuole la tradizione, ma una cosa non l’ha mai potuta soffrire: la funzione domenicale in chiesa. Neppure tanto quella di per se stessa, ma la costrizione di parteciparvi. Fortunatamente il sottoinsieme studenti del sistema società col suo ampio spettro di casistiche “normali” prevede molteplici scappatoie. Cosa c’è di più naturale dunque per il ragazzo, ora semplice studente come gli altri, se non aderire alla normalità? Cosa c’è di più ingenuo e innocuo se non approfittare di una di quelle previste scappatoie? Nulla! Ma com’è detto è troppo ingenuo, innocuo e la giustizia morale, l’atroce arma delle maggioranze è pronta a colpire.
Il ragazzo si fa sostituire alla funzione in chiesa, viene beccato.
Il protagonista, ormai non più ragazzo, forse neppure uomo, ma solo essere atemporale, ha perso tutto, ora è completamente estromesso da ogni aspetto della vita comune, lui si è fidato in fine ed infine è stato ingannato. Ora è uno sconfitto perenne, non ha più nulla. Ed ecco, come una malattia latente che quando sembra sconfitta riappare più vigorosa di prima, ecco l’indignazione, la causa di tutto, ricomparire in tutta la sua deprecabile gloria. E il giovane si ritova traboccante odio ma senza un obbiettivo, un soggetto su cui riversarlo.
Anche qui il passo successivo è quanto mai ovvio: senza più nessuno, non può far altro che scagliare l'ira contro l’unica cosa che gli rimane: se stesso, o meglio il concetto di se stesso, l’idea che in quei pochi anni di vita s’è fatto del suo modo d’essere. E dunque ora, solo come un cane, riprende quel lamentoso adagio appena sospirato che lo accompagna lungo tutte le pagine del libro che può essere riassunto con il seguente ennesimo interrogativo: è più giusto indignarsi contro l’illogicità del mondo o è meglio indignarsi contro noi stessi che non possiamo fare a meno di notarla? (Anche qui il cambio di soggetto non è casuale, poiché è vero che il libro parla di un ragazzo, di un qualcun altro, ma le domande che il ragazzo si pone sono le stesse che l’autore ci pone.) E’ lecito dunque essere indignati (e chiunque, per lo meno una volta, per lo meno per una singola cosa lo è stato) o sarebbe più lecito tentare di guardare dentro noi stessi poiché questo sentimento come gli altri nasce esclusivamente da noi? E’ più giusto lamentarsi di qualcosa o cercare di migliorare noi stessi per migliorare poi il resto? Ed infine è più coraggioso urlare, ribellarsi, e gridare la propria rabbia o sopportare per una vita in silenzio tentando di adeguarsi continuamente e costantemente a qualcosa che sappiano essere ingiusto? Cos' è più difficile, cos'è più facile, cos'è più doloroso?
Il protagonista non ha alcuna risposta per noi, lui è solo un mezzo per farci pensare, è l’agnello sacrificale del mondo ideato da Roth, per nulla distante dal reale, lo strumento per farci riflettere sulla nostra natura, su quello che con il nostro intelletto abbiamo creato, su quello a cui ormai siamo abituati a definire consuetudine, fosse anche l’aberrazione di un uomo che costringe un altro, che ha diritto di vita e di morte su un altro, l’aberrazione di una parola inventata che stabilisce cosa è giusto e cosa non lo è, di un sentimento che detta la sorte di una persona predestinandola e in fondo fosse anche l'ironia di quell’assurdo gioco che è l’alternarsi della vita e la morte; cose così comuni e banali da non farci più caso ormai, così semplici da essere scontate, eppure così costrittive da non riuscire a contemplarne l'alternativa. Potere - debolezza, comando - esecuzione, volere - dovere, noi - gli altri, vita - morte, accettare - ribellarsi, cos' è più difficile, cos' è più facile, cos' è più doloroso?
Roth con questo suo romanzo sembra dirci: “signori questa è la vita, non c’è altra possibilità, se vi piace è così altrimenti siete liberi di andarvi ad ammazzare. Badate bene però che poi non vi rimarrà nulla se non la vostra indignazione, l’indignazione per voi stessi, per quanto siete stati stupidi e alla fine addirittura l’indignazione di essere indignati.”
Questo è il significato dell'opera, l'interpretazione dei suoi molteplici eppure unitari contenuti. Più che dei contenuti però mi preme parlare del modo di scrivere. (Per quanto mi renda conto di quanto possa essere assurda questa mia affermazione dopo che ho impiegato più di cento righe per esprimere i concetti a cui rimanda il romanzo!) Per pietà nei confronti di quei pochi, nonchè masochisti, lettori che si sono spinti fin qui tenterò comunque di essere conciso.
Leggendo i libri di Philip Roth, e soprattutto questo, ciò che mi sorprende ogni volta non sono tanto i contenuti, i pensieri, le discussioni interiori che nascono dalle sue parole, ma le parole stesse, o meglio, la scelta di queste, dal titolo all’ultimo termine dell’ultima pagina infatti non c’è mai nulla di più appropriato per descrivere, narrare, spiegare, raccontare quanto riportato nel libro. E’ realmente difficile pensare a uno stile narrativo migliore; i paragoni con altri scrittori a lui antecedenti si sprecano, l’avevo già accostato per un'altra sua opera ad Hemingway, altre volte a Steinbeck, ma in questo caso, a costo di peccare di sensazionalismo (o quant’altro vi paia) affermo che, ebbene sì, qui li supera! Da quei due grandi trae il realismo concreto e oggettivista con cui racconta la vita (per quanto l’autore stesso abbia affermato di essere stato influenzato da altri scrittori, come per esempio Saul Bellow), ma al contempo rielabora tutto aggiungendoci qualcosa di suo, qualcosa di indefinito che per certi aspetti può essere considerato il cosiddetto “messaggio”, la morale per intenderci, ma poi a ben rifletterci si capisce come anche questa definizione sia del tutto imprecisa ed inascrivibile a questo e agli altri suoi romanzi dal momento che, egli stesso, pone molte più domande di quante risposte trovi, dal momento che spesso alla fine lascia il lettore con un senso di compiutezza nell’incompiutezza, come a dire “sì la vicenda umana e la narrazione sono terminate, ora sta a voi stabilire cosa sia giusto e cosa no, cosa fare proprio di quello che vi ho raccontato e cosa no.” Ma se questo effetto non è dato semplicemente dal significato dell'opera non è neppure dato dalla trama o dai contenuti, in sé e di per loro piuttosto canonici, per non dire banali, e neppure dalla sublime accuratezza nel periodare. Tutto è appropriato, d'accordo, dai termini, al ritmo, alla lunghezza delle frasi, ma non è sufficiente, non basta: non sono tanto i singoli aspetti a rendere questo e molti altri suoi libri, particolari, piuttosto la somma di questi più qualcos'altro ancora, qualcosa di impalpabile, indefinibile.
Data questa sussurrata eppur concreta inspiegabilità fenomenologica non mi resta che affidarmi alle sensazioni e tentare di fare oggettivo ciò che in realtà probabilmente è niente più che una esperienza soggettiva. Ebbene: quando si leggono i libri di Phili Roth, a differenza di molti altri autori a lui assimilabili per fama, bravura o anche solo numero di copie vendute, non si ha mai l’impressione di buttar via il tempo.
Un po’ poco penserete, eppure no.
Riflettiamoci, quante persone quando leggono prendono la lettura sul serio, intendo come parte della loro esistenza, come strumento per la propria evoluzione personale, come metodo di catarsi sociale volto alla comprensione del reale? E quanti invece usano i libri semplicemente per rilassarsi dopo una giornata di lavoro, per staccare la mente alla sera o per ben disporsi l’animo alle fatiche della giornata, magari il mattino assolvendo alle proprie funzioni corporali?
Io il più delle volte sono colpevole di far parte del secondo gruppo, perfino leggendo dei mostri della letteratura come Hesse o Dostoevskij mi adeguo sempre al costume sociale dei secondi, ma malgrado sia innegabile che si riscontrino maggior spunti nei due sopracitati grandi che in un Ken Follett qualunque (non me ne voglia l’autore e tanto meno i suoi seguaci), persino la lettura di “quei due” la inserisco in quella fascia, in quel secondo ambito puramente intrattenitivo, che spesso si accorda alle quotidiane funzioni fisiologiche degli esseri umani a mo di passa tempo. (Forse è proprio questa la bellezza e l’assurdità della vita: i pensieri più profondi, le riflessioni più importanti avvengono spesso nei momenti più bassi che la natura umana ci ha riservato.)
Con Philip Roth invece no, leggendo i suoi libri, si ha la sensazione costante di fare qualcosa di importante, di non perdere tempo, di dedicarsi costruttivamente ad un’attività propedeutica alla propria crescita individuale. Sì, i libri di Roth trascendono il semplice intrattenimento e si rivolgono direttamente alla nostra coscienza e al nostro intelletto. Ed è questo il motivo che eleva l'autore sopra i suoi simili e lo fa diventare così quotidianamente importante. Tenterò di essere ancora meno comprensibile: nessuno come lui riesce a trarre dal proprio io i pensieri e a oggettivarli presentandoceli sulla carta stampata in modo che noi li si riesca ad interiorizzare, oggettivandoli, proprio mentre stiamo esteriorizzando e per questo rendere l’esperienza personale dell’esteriorizzazione qualcosa di concreto, oggettivo, e soprattutto importante. ...Chiaro, no?
Forse questa mia ultima valutazione potrà sembrare un tantino stramba, eccessiva e fuori luogo, però è concreta e pur traendo dal soggettivo diventa a suo modo oggettiva tanto quanto lo è l’esperienza comune di ogni persona definibile “regolare” tanto d’intelletto quanto di corpo.
Ma a costo di rasentare la scurrilitá, per amore di quella stessa limpida chiarezza, e di quell'intransigente devozione alla causa che non ammette scappatoie, attenuanti, ne tantomeno mezze misure, di cui Philip Roth si fa portavoce, nonchè maestro nei suoi romanzi, voglio essere ancora più specifico e rimarcare ancora di più quella singolare ed imprescindibile peculiarità del suo scrivere che lo rendono unico di fronte a qualunque altro autore del suo tempo: Philip Roth è l’unico scrittore che riesce a rendere importante perfino la cag… mattutina!
Sono propenso a credere che nell'infinito elenco di aggettivi e frasi utilizzate per lodare le capacità di Roth nessuno (direi anche giustamente) ne abbia mai parlato in questi termini. I suddetti termini potrebbero, e a ragione, infatti apparire eccessivi, fuori luogo, ma se la smania di nuovi elogi da rivolgere a uno scrittore è tale da riuscire a stressare una frase fino ad elevarne lo squallore a complimento, be... non occorre davvero aggiungere altro: si è difronte al migliore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
I libri dei più grandi autori di ogni tempo
Trovi utile questa opinione? 
51
Segnala questa recensione ad un moderatore
110 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2 3

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il mio assassino
Valutazione Utenti
 
4.5 (1)
L'età sperimentale
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La vita a volte capita
Valutazione Utenti
 
4.3 (3)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il mio assassino
Valutazione Utenti
 
4.5 (1)
L'età sperimentale
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La vita a volte capita
Valutazione Utenti
 
4.3 (3)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

Le verità spezzate
La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele
La compagnia degli enigmisti
Il mio assassino
L'età sperimentale
Assassinio a Central Park
Incastrati
Identità sconosciuta
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Demon Copperhead