Opinione scritta da upsilamba
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il linguaggio dell'inconscio
Conglomerati è, come tutte le opere di Andrea Zanzotto, un mondo in cui immergersi, si rimane rapiti dalle atmosfere che vengono create dai molti elementi surrealisti ed ermetici che sembrano dipingere lo scenario di un sogno. Tuffarsi nella lettura di queste incredibili poesie, permette di meravigliarsi di fronte ai tanti significati sintetizzati in una singola parola e di sentirsi smarriti di fronte all’uso originale, anticonvenzionale della lingua italiana (che a volte viene abbandonata per lasciare spazio a citazioni in latino, in dialetto veneto…). Questo grande poeta riesce a “giocare” con le parole, dando vita a delle poesie-sogno che sembrano parlare il linguaggio onirico, con le sue contraddizioni, i suoi neologismi, la sua passione conflittuale. Anche il modo di collocare le parole nello spazio risulta originale, così alcune poesie sembrano quasi disegnate nello spazio.
Spesso mi sono persa in alcune poesie, andando al di là del significato, ho cercato di cogliere una particolare atmosfera, un colore, un’emozione, una temperatura, elementi nascosti nella sospensione di un “a capo”, nelle punteggiatura ridotta ai minimi termini, nelle allitterazioni e nelle metafore.
L’opera si compone di otto sezioni: “Addio a Ligonàs” , Tempo di roghi”, “Fu Marghera (?)” , “Il cortile di Farrò e la paleocanonica”, “Fiammelle qua e là per i prati”, “Isola dei morti- Sublimerie”, “Versi casalinghi” , “Disperse".
Le poesie presenti in questa opera, ci appaiono come sublimi conglomerati, a volte spigolosi, che si stagliano in una modernità fatta di "chimici spettri", "mal protesi nervi", "labirinti lerci", in un mondo bruciato e sporcato dai "commerci", ma salvato e illuminato dalla poesia che nasce nei "silenzi già amati".
Consiglio la lettura delle poesie di questo grande poeta a tutti coloro che desiderano emozionarsi, disorientarsi e immergersi nel linguaggio dell’inconscio attraverso il quale Andrea Zanzotto riesce a mettere in parole ciò che spesso rimane sotterraneo e non detto.
(trovo geniale anche la traduzione della poesia in dialetto che ironizza sugli atti mancati, su quei momenti di distrazione “quando il perdersi è come una scintilla”)
"Un grigio compatto
perfetto quasi commovente
nel suo voler attutite attutire
a null’affatto impedire
Un grigio che ha in custodia
ogni forma ogni norma
che lascia ogni sospetto ed ipotesi
in sospeso, in arrivo, agli occhi schivo
Un tenue nerofumo grigio da tutte le profondità
ci accompagna senza darlo a vedere
non lascia tregua e ci trasforma
anche nolenti in tregua e
polvere polvere inumidita rabbonita di sere:
furono, torneranno.
Ho camminato per ere
in questo fecondo deresponsabilizzante
elisir di grigi dolori
(questo è solo un vago sospetto)
(esterno)(non arrivato)
(forse reietto)"
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c'erano una volta, le donne.
L'autrice riscrive, reinventa e reinterpreta tredici fiabe in modo originale e anticonvenzionale. Le protagoniste sono donne ben diverse da quelle descritte nelle fiabe tradizionali: non troviamo principesse sognanti il principe azzurro o messe in pericolo da streghe e matrigne cattive, ma donne "moderne" il cui lieto fine è la possibilità di auto-determinazione.
La lettura di queste fiabe, ci permette di pensare all'essere donna senza censure e senza stereotipi, ai cambiamenti interni che nel viaggio della vita trasformano e ci rendono quello che siamo, quello che abbiamo deciso o potuto essere.
Possiamo provare a indovinare le fiabe originali come Cenerentola o Biancaneve, che hanno cambiato titolo, forma e significato, ma che derivano da esse, come se le stesse protagoniste delle fiabe originali abbiano subito un cambiamento, una evoluzione, diventando più reali e quindi più complesse e, secondo me, più affascinanti.
"Il racconto della scarpa" affonda le sue radici nella fiaba di Cenerentola, che è stata reinterpretata in chiave introspettiva: è la descrizione della vita interiore di una figlia che si trova ad affrontare il dolore e il senso di solitudine e vuoto per il lutto della propria madre.
Così le cattive sorellastre diventano i "cattivi" pensieri legati al profondo senso di colpa che spesso è legato al lutto di una persona amata.
"le grida erano tutte dentro di me. Fai questo, fai quello, pigro ammasso di sudiciume", è così che si sente la nostra Cenerentola: un ammasso di sudiciume, come se sentisse che il suo mondo interno è crollato e si è sporcato con la morte della madre, madre che sembra persa per sempre, "cercavo la voce di mia madre, ma non riuscivo a sentirla in mezzo a quel clamore".
Solo immergendosi nel dolore e nel senso di solitudine, non sfuggendo ad esso cercando di non pensare, la protagonista sembra poter trovare una via di uscita, recuperando dentro di sè l'immagine materna, "l'albero della madre".
Così la fatina buona mi sembra rappresentare la capacità riparativa dei "buoni" pensieri, del ricordo della madre, che quindi non è perduta per sempre. Al ricordo della madre è legata la possibilità di ricostruire il proprio sè tramite la buona fatina: "come posso descrivere la trasformazione? il mio vecchio polveroso Io fu filato a nuovo. La donna mi rivestì di blu, danzavo su punte di cristallo". Il lieto fine non è determinato dal principe azzurro, ma da un movimento interiore che permette a Cenerentola di decidere di andare avanti, di vivere "come ballare un valzer senza avere il capogito".
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i canti del caos
I canti del caos, rappresentano un'opera originale che si prefigge l'ambizioso compito di svelare il caos del mondo, di una umanità fatta da personaggi grotteschi e surreali (ma quanto surreali e quanto più reali di quanto possiamo immaginare?). Al di là della trama, che si snoda intorno ai temi della pubblicizzazione di tutto, anche di Dio, e dell'ambiente della pornografia, sono le caratteristiche dei personaggi a incuriosire il lettore, che si trova a riflettere su quanto di "vero" ci sia nelle vicende spesso assurde, violente, surreali che pagina dopo pagina accadono. L'autore dell'opera è il Matto, che si trova a lottare con il proprio editore il Gatto per non perdere il proprio ruolo di narratore, così l'autore stesso entra nella trama del libro e anche il lettore si sente partecipe della storia, come se stesse inventando insieme ai personaggi l'evolversi della storia. la Musa, la Meringa, Pompina e Ditalina, la donna che urla, l'Inseminatore, i trampolieri e i rollers, l'art e il copy, la ragazza con l'assorbente e quella con l'acne e molti altri personaggi contribuiscono a descrivere, generare e inglobare sè stessi e il lettore nel caos.
L'impressione che ho avuto, dopo aver finito i canti del caos, è stata una sorta di visione altra del mondo che mi circonda, la visione moreschiana che guarda oltre l'apparente ordine, quiete, staticità della nostra società per scovare il caos, il rumore, il movimento. Caos che è anche caos interno, descrizione delle forze conflittuali, oscure, spesso violente che agitano gli spazi più profondi della psiche.
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senza protezioni
Leggere questo libro vuol dire essere catapultati nei sobborghi della periferia romana, nel cuore di una Italia del dopo guerra che cerca di ricostruire una propria identità.
Entriamo a far parte di un gruppetto di ragazzi del basso proletariato, che sembrano avere, come unica vera famiglia e casa, solo la strada.
La trama si svolge intorno alle giornate del protagonista, Riccetto e dei suoi “compagni di vita”, al lettore sembra quasi di percepire l’odore, il rumore e i colori della capitale, sembra di essere lì ad ascoltare i dialoghi in dialetto romanesco, a vivere insieme a Riccetto e agli altri ragazzi di strada la banale routine di tutti i giorni che ruota intorno al vagabondare, alla piccola delinquenza, al dormire all’aperto, a legami affettivi molto deboli.
Il lettore può avvicinarsi empaticamente ad ogni personaggio, che appare come vittima di una violenza esterna, intrinseca all’ambiente, violenza che trasforma e impoverisce l’animo umano, il lettore si sente impotente di fronte alla vita che scorre tra le pagine e spesso prova rabbia di fronte all’impossibilità di cambiamento. Le possibilità di vita sembrano infatti essere l’integrazione in una società malata, con le sue periferie sgretolate e sporche o l’annichilimento definitivo.
L'atmosfera del libro: il grigio dei palazzi, la mancanza di possibilità di una vita ricca emotivamente e affettivamente, l'ignoranza e l'assenza di cultura e di un pensiero critico che rendono la vita di ogni giorno sopravvivenza bloccata in una vuota routine, fatta di azioni che sembrano ruotare intorno al vuoto, mi ha ricordato il film "l'odio" di kassovitz.
Pasolini sorprende perchè rimane negli anni di una attualità drammatica, descrivendo uno spaccato di società senza retorica e senza censure, interrogandosi sul vivere senza la protezione di legami affettivi familiari, senza la protezione della cultura, senza la protezione di una società che accolga.
E anche il lettore si sente senza protezioni, messo a nudo, impotente di fronte a una storia che non ci appare così lontana nè nel tempo nè nello spazio.
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le parole delle emozioni
un libro che ho letto tutto d'un fiato, rimanendo spesso senza fiato. un libro che parla dell'amore nonostante l'orrore della guerra, dell'odio nonostante la dolcezza della poesia. Lo stile della Mazzantini mi piace perchè riesce, con un linguaggio semplice, a descrivere la complessità dell'animo umano. Quello che descrive, al di là degli avvenimenti, è il mondo interno dei personaggi, sono le motivazioni profonde che spingono all'agire, che sottostanno al vivere, anche e soprattutto quando vivere diventa difficile. Questa sua capacità di mettere in parole le emozioni, che possono essere sentite, percepite ma solo raramente si riesce nell'intento di descriverle nella loro complessità, mi affascina e mi ha permesso di leggere questo romanzo identificandomi con i vari personaggi, sentendo insieme a loro le carezze e gli schiaffi della vita.
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la confusione delle lingue.
Questo libro mostra quanto i legami familiari siano importanti nella costruzione della personalità: la giovane protagonista, descritta in modo vivido da Joyce Caol Oates, è cresciuta in un ambiente familiare molto povero, non solo economicamente ma anche emotivamente, il padre è un giocatore d’azzardo che le insegnerà a “giocarsi la vita” senza riflettere, la madre è una donna fredda e svalutante.
Un bambino può imparare a volersi bene e a rispettarsi solo se ha fatto esperienza, fin dai primi mesi di vita, di essere guardato dai propri genitori con amore e rispetto, a Katya questa esperienza è mancata, non si è sentita ri-conosciuta come persona degna d’amore e crescendo non può riconoscere sé stessa come tale né sviluppare un senso del sé integrato e forte. Così Katya guardandosi allo specchio non può pensare “quella sono io” ma solo chiedersi: “ quella dovrei essere io?”.
Leggendo questo romanzo, impariamo a conoscere questa giovane ragazza che appare come disorientata e catapultata nel mondo senza alcuna difesa, che svela la sua profonda necessità di sentirsi amata e quindi ri-conosciuta dagli altri . le sue esperienze infantili le hanno insegnato poco rispetto ai legami di amore e di tenerezza, nutrimento vitale per ogni essere umano, così Katya non può far altro che confondere l’amore con le attenzioni , i regali, i soldi che Marcus Kidder le offre. Marcus Kidder è un uomo anziano e molto stimato dalla comunità e il suo personaggio appare da subito ambiguo e pericoloso.
La relazione tra i due si snoda nella narrazione, tra il desiderio di Katya di essere amata senza sapere cosa questo voglia dire e le ambigue intenzioni dell’anziano Kidder che rimangono perlopiù oscure al lettore fino alla fine.
Questo romanzo mi ricorda l’articolo dello psicoanalista Ferenczi “la confusione delle lingue” che spiega come sia traumatico per un bambino confondere il linguaggio della tenerezza (appartenente alla sfera dell’infanzia) dal linguaggio della passione (appartenente al mondo degli adutli), intendendo il termine passione in senso più amplio non solo come passione sessuale.
L’unica critica che potrei muovere a questo romanzo, riguarda il titolo, perché “una brava ragazza”? è forse un modo per evitare che il lettore giudichi Katya? Avrei scelto un titolo diverso, più vicino al tema della ricerca della propria identità a partire dai legami affettivi.
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il vuoto della guerra
Questo libro è una testimonianza dell'assurdità e dell'atrocità della guerra, testimonianza che ci arriva direttamente da chi, suo malgrado, la guerra l'ha dovuta vivere, subire ed agire. Nicolai Lilin usa un linguaggio crudo e spesso brutale per descrivere la follia di una guerra decisa "ai piani alti del potere", i cui veri motivi sembrano essere perlopiù oscuri a chi combatte, rischiando la vita tutti i giorni. ll protagonista di questo romanzo aveva solo diciotto anni, quando è stato costretto a partire per il servizio militare nel gruppo dei sabotatori dell'esercito russo durante la Seconda campagna cecena, come tanti giovani, chiamati a rispondere al servizio militare, è stato strappato dalla propria vita e mandato, come carne al macello, nell'inferno della guerra, che appare come una dimensione "altra" rispetto alla realtà: un non-luogo con le proprie leggi, con il proprio linguaggio, nel quale non c'è spazio per l'umanità, ridotta a mero istinto di sopravvivenza attraverso la distruzione del nemico. Il nemico perde la propria identità, cade nell'anonimato, diventando materia da distruggere, "monumento" da esibire. Ma cosa accade nella mente di un giovane soldato, risucchiato nel marcio della guerra, costretto ad uccidere per vivere? E' proprio la risposta a questa domanda che si può leggere tra le righe di questa lucida testimonianza: la mente sembra disorganizzarsi, in modo tale da percepire meno emozioni possibili, da pensare meno pensieri possibili, per salvare sè stessa dalla disintegrazione. Senza emozioni e senza pensieri c'è il vuoto e la guerra fuori diventa guerra interiore, distruzione interiore, il soldato per salvarsi non può sentire la paura, la disperazione, il disgusto, può sentire solo il vuoto e agire, agire in fretta e salvarsi. Questa perturbante sensazione di vuoto è descritta molto bene: "Io guardavo in alto e il cielo sembrava vuoto, tutto quanto sembrava vuoto. Mi sentivo abbandonato, solo, intrappolato in un posto maledetto dal quale non esisteva possibilità di ritono", la guerra diventa quindi una condizione interna dalla quale forse non esiste possibilità di ritorno, anche se si riuscisse a ritornare fisicamente a casa.
Questo libro racconta verità scomode e atroci che denunciano per esempio l'uso delle mine anti-uomo nell'esercito russo e le torture sul nemico rimaste impunite. Leggere questo romanzo permette una riflessione profonda sulla guerra, riflettere, pensare è l'unica arma che abbiamo contro quel grande vuoto che è la guerra.
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