Opinione scritta da LaFataRibelle

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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    04 Ottobre, 2016
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I tuoi tentacoli e le mie ali

C'è un prima, c'è un dopo, e poi c'è Medusa: sempre in agguato, sospesa nel tempo, come la strana creatura fugace di cui porta il nome.
Come medusa, ella è assieme impalpabile e forte, omaggiata di un nero veleno: quella bellezza fiera ed ombrosa, ancor più travolgente perché cresciutale addosso negli anni sporchi della sua inconfessabile vita. È giovane, Maddalena, giovanissima, e per la terza quarta ennesima volta incrocia il suo sguardo con quello di Norma.
Norma: altro nome altra corsa, involucro candido per una perfezione che non c'è mai stata, per una regola violata in segreto contro il resto del mondo. Anche la bionda padrona, donna d'oggi piovuta nell'ieri, anche lei ha il suo soprannome: è “Mouche”, petulante e minuscola mosca.
Così si ameranno le due donne, due pianeti e destini opposti e riuniti: Norma in preda alla smania ronzante, al delirio di avere e mai perdere l'altra; Medusa col suo fare sincero, rassegnata al fuoco urticante che la spinge a non esser più sola.
Melania Mazzucco fa di quest'opera un romanzo di continue antinomie, di confronti tra epoche, condizioni sociali, ambizioni e sentimenti. C'è la struggente poetica di Mouche, racconto d'amore nel racconto d'amore, contrapposta alla schiettezza tenera di quell'amante che neppure s'interroga sulla propria passione: come le suggerirebbero i versi gelosamente privati della sua compagna, “esisti, e il resto è ciò che accade”. L'importante è dunque solo quell'esistere, ma tutto il “resto”, l'universo che le circonda, è governato dall'uomo flemmatico e calcolatore sposato da Norma, e che fin troppo facilmente immaginiamo di opposta attitudine a quella del suo nome gentile: Felice. Politico impegnato, padre assente eppur padrone, è il ritratto perfetto dell'uomo-mostro odierno: all'apparenza signore, ma alla fine soltanto una belva.
E al gioco delle antinomie si mescola il gioco al massacro: certi stralci, di una vita e dell'altra, feriscono in profondità, con una crudezza e devianza quasi impossibili da sopportare. Il libro è ampio, forse eccessivamente, e dunque potremmo dirci che alcuni dettagli non hanno gran senso di essere: ma la loro stonatura, il loro perenne riecheggiare attorno alla vicenda centrale, credo siano invece utili e quasi necessari. Solo grazie alla loro presenza, e al rifiuto ch'essi suscitano nelle nostre coscienze, possiamo realmente commuoverci per quella bolla delicata e irreale in cui Mouche e Medusa sanno incontrarsi. È questa parte dell'opera, descrizione femminile della donna attraverso la donna, che collocandosi nel suo generale contesto mi fa ritenere “Il bacio della Medusa” toccante e bellissimo.
Come l'immagine di quell'abbraccio in cui i due corpi si fondono: talmente stretto e viscerale da far avvertire, ai fortunati coinvolti, il cuore dell'altro come il proprio cuore, traslatosi a destra.

“Ti guardi allo specchio, chiudi un occhio e hai l'impressione che sia l'altro ad ammiccarti, quello sbagliato, quello giusto, chissà.”

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Qualsiasi libro ben scritto sulle tortuose vicende degli amori osteggiati
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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    24 Settembre, 2016
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E poi un'ipotesi incompiuta e reale

Si dice sempre, per saggezza proverbiale, che con i “se” e con i “ma” la storia non ha diritto di realizzarsi: ebbene, in Vittorio Sermonti, dantista e letterato classe 1929, tutta questa sapienza di repertorio (abusata peraltro dai genitori) deve aver sganciato la molla dell'ispirazione autobiografica.
“Se avessero”, titolo evocativo ed astutamente incompiuto, prende le mosse dalla vicenda del maggio 1945, durante il quale tre giovani partigiani minacciano di denuncia e di morte il fratello maggiore FM (al secolo Rutilio Sermonti), reo di militanza tra le file del Duce e del Führer. Vittorio, irrequieto quindicenne, è lì ad assistere, crescere, familiarizzare con un nemico fanciullo e ben poco temibile: la sparatoria mancata lo condizionerà forse più che a tutti gli altri, stipati in quel vano dove avviene l'improvvisa fatidica irruzione.
L'ingresso milanese di via del Domenichino, col suo mestissimo mobiletto giallo e un numero variabile di porte e individui, è il punto di partenza e continuo ritorno di una narrazione sadicamente involuta: si fatica, lo si ammetta, a star dietro ai periodi dell'autore, eccessivo nell'inutile complessità della scrittura. Quando poi leggerlo diviene piacevole, forse perché ormai avvezzi, forse perché finalmente soccorsi da un testo più agile, ci si rende benissimo conto dell'ovvio: nell'”ingressino” (come lo chiama V.) tutto nasce, sì, eppure subito muore.
E non solo perché il fatto non sussiste (“se avessero” presuppone per sua stessa natura che non abbiano), ma anche e soprattutto perché non suscitano certo scalpore biografico, quei tre fucili puntati sul petto di chi poi sarà esponente di punta del deprecabile movimento neofascista.
È dunque la persistenza del non accaduto a dare avvio alla storia: non accaduto quale pretesto per raccontare invece i tanti e intensi accaduti della Storia con la “S” maiuscola, accanto a quelli ad essa strettamente legati, nati nel ventre della famiglia e nel percorso di vita dell'ottantasettenne ragazzo di una volta.
I personaggi di levatura culturale e politica che costellano le pagine vi si affacciano in un quasi incognito di falsa modestia (“non li cito al completo per non vantarmene troppo”, potrebbe essere la morale), col solo ausilio delle loro iniziali, in un gioco enigmistico per qualcuno non poi tanto semplice: svetta però, tra gli altri, un PPP dal precoce talento calcistico che altri non può né vuol essere se non Pier Paolo Pasolini.
Vi sono scelte e prospettive opinabili in questo libro, in quest'esistenza intellettuale e multiforme: nessuna vera condanna per il fratello, una stima evidente del proprio essere, un raccontare gli altri raccontando anzitutto se stessi. Non si può però negare che, nelle vesti di umili lettori, si rimanga coinvolti dagli eventi, dalle riflessioni, dai toni brillanti di questo testimone nostalgico di una giovinezza fiduciosa e appassionata: nostalgia che in realtà (almeno è ciò che passa) pare nulla di fronte al raggiungimento della quiete dell'animo, ambita condizione che per Sermonti ha nome “Occhi Pescosi”. È Ludovica la proprietaria di un simile sguardo, ed è per lei che si percepiscono forti l'amore e la gratitudine, rivelati con delicata ironia dall'uomo che le rinfaccia di avergli nascosto in silenzio tutta la voglia di morire.

Contorto e saccente quanto saggio e curioso, l'autore candidato allo Strega un po' ci assomiglia, nel trarre dal lento scorrere del mondo la stessa identica conclusione cui infine giungeremmo anche noi: se si tratta della nostra vita, della vita strettamente personale, un evento cancellato, riuscito, variato nella sua identità modifica il futuro soltanto parzialmente. Soltanto per noi. Così che la storia, nel nostro sentire, sarebbe capace di apparire (rispetto a quanto davvero accaduto) esattamente identica eppure profondamente diversa.

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Se si apprezza la sintassi tortuosa senza legarsi al contenuto, "Senti le rane" di Colagrande; in quanto alla materia di racconto, consigliato soprattutto a chi segue lo stesso Sermonti.
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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    13 Febbraio, 2016
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L'anima della natura, a Marina non basta

Silvia Avallone ama stupire. O meglio, turbare.
Dopo la lettura di "Acciaio", in cui le tensioni e i drammi dell'adolescenza si mescolano a quasi ogni possibile forma di violenza, mentale e fisica, ecco "Marina Bellezza", a integrare con nuovi e (a mio parere) gratuiti "strappi" emozionali il romanzo precedente. L'autrice, pare di capire, ama i contesti sociali estremi: non solo per quanto attiene alle condizioni di vita dei protagonisti, ma anche per i luoghi in cui le vicende si svolgono, chiusi e quasi estranei alla globalità che li circonda.
Là, tutto raccolto nella Piombino sorta presso l'acciaieria, in cui vi è solo rozzezza e ignoranza, e l'unica dolce luce, l'amore di Francesca, si disincanta e affievolisce, perché nessuno sa comprenderla; qui, i personaggi racchiusi tra le cime delle montagne, le storie di ognuno intrecciate alle altre, in pochi ettari di terreno, nell'aria rarefatta. È proprio il paesaggio desolato e scosceso della Valle Cervo, sembrerebbe, a farla da padrone... Andrea che vi sogna un'azienda tutta sua, la comparsa Elsa che spera in un ritorno del popolo alle origini, su quei monti solitari... Ma ogni cosa è fagocitata dalla mole enorme dell'ego della protagonista, quella Marina il cui nome è già un programma, e deduco anche per questo svetti sulla copertina del libro in questione. E tutto passa in secondo piano rispetto ai suoi dolori passati, alle sue ambizioni presenti, alle strafottenze giustificate dal fatto che "ci può stare"... Perché Marina è brava, è bella, è audace... E al fascino e a delle lunghe gambe nude tutto è concesso. Così saremmo portati a pensare che i boschi impervi del Piemonte facciano solo da pretesto narrativo, tanta è l'avversione della ragazza nei loro confronti, tanto il desiderio di spiccare il volo altrove, nonostante sia proprio quella valle, coi suoi pochi e ingenui abitanti, a concederle il carburante per il decollo... E allora perché inserire, a trama già notevolmente avviata, uno stralcio di vita montanara, a cui Andrea si vota per dimenticare lei e pure se stesso? Nonostante nella sua tenerezza e verità rappresenti per me forse il passo più bello di tutto il romanzo, esso è inadeguato nel contesto generale, dove i respiri delle vacche e il vento che soffia forte non trovano senso in maniera soddisfacente... Dunque, chissà che non siano proprio questi, il contrasto tra moderno/sbagliato e atavico/giusto, e più in generale le antinomie, la chiave della storia... Beh, può darsi: ma io li recepisco stonati, e soprattutto sterili... Poiché da tali scontri di personalità e prospettiva è come se non scaturisse nulla; e i personaggi proprio non sanno scrollarsi di dosso, in tutto ciò, la loro aura... Così i "cattivi", come il signor Caucino, non appena corrono il rischio di umanizzarsi vengono prontamente ricondotti sulla via della malvagità... E lo stesso accade ai "buoni", peraltro orchestrati secondo il principio che vede i figli non colpevoli degli errori dei padri. E se ciò è sacrosantissimamente vero, non lo è il fatto che questo spieghi anche tutte le colpe loro proprie... Sarebbe come dire che per tutti i bimbi cresciuti in famiglie ben distanti da quella del Mulino Bianco, fosse normale divenire criminali, pervertiti, alcolizzati... No: le responsabilità si smezzano, tra prole e genitori, nella vita reale... Ma non qui, dove la veridicità è fin da subito labile, anche per la bellezza che Marina, suo malgrado, porta scritta pure sulla carta d'identità. La stessa avvenenza, spudorata e incredibile, delle due protagoniste di "Acciaio", che ce le fa avvertire tutte come distanti, e irreali... E che ci apporta disagio : perché ogni volta va messa in mostra, ribadita, sottolineata da trucco e vestiti volgari, tanto che finisce per esserne deturpata. Dunque, a mio parere, "Marina Bellezza" dipinge un quadro tanto, troppo eccessivo rispetto a quella realtà tutto sommato quotidiana che si prefigge di raccontare. La Avallone smuove, è innegabile, le corde della nostra sensibilità: ma in modo così tragico (esempio lampante la scena iniziale), confuso e ricorrente, che alla fine ci perdiamo straniti, in questo mare di disgrazie... E non sappiamo più a quali scogli appigliarci, perché ciascuno di essi, ciascuno dei personaggi, risulta alla fine spiacevole e oscuro.

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"Acciaio"
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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    09 Mag, 2014
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Di cammei intagliati e ricci di mare porpora

Arturo Gerace trascorre i primi 16 anni di vita in un microcosmo a sua immagine e somiglianza, incantato e inospitale, che la Morante identifica con la pittoresca isola di Procida.
L’assenza della madre, morta nel darlo alla luce, gli instilla nell’animo una sorta di culto sacro per la figura materna, mentre il resto del genere femminile (che ben rifugge la “casa dei guaglioni”, dove Arturo vive, vista la fama di luogo interdetto alle donne) gli pare inutile e brutto oltre ogni dire;
l’assenza del padre Wilhelm, pur vivo ma sempre in viaggio, ne causa invece l’idealizzazione, quale dio meraviglioso e spavaldo, eroe di mille mondi dai capelli d’oro e gli occhi turchini (eredità della madre tedesca, invidiatissimi da Arturo che è moro, suo malgrado, sia nella chioma che nello sguardo).
L’amena esistenza del protagonista viene d’un tratto sconvolta dall’arrivo di Nunziata, giovane napoletana che Wilhelm sposa un giorno di marzo, con grande sgomento del figlio. Questa popolana dal cuore buono e dalla fede inossidabile, poco attraente eppure così bella, permette di svelarci una realtà nascosta: la vita avventurosa e solitaria ha certo temprato Arturo nel fisico, ma lo ha lasciato inerme di fronte alla forza dei sentimenti, che lo trascina in mare aperto come una conchiglia in balìa di onde impetuose.

Assistiamo quindi alla sua maturazione, così sapientemente raccontata dall’autrice, e viviamo noi stessi l’oppressione del “guscio” procidano, ormai troppo stretto per un corpo che cambia e una mente che brama conoscenza. Siamo invasi, come Arturo, dal continuo rimpianto di tempi e fortune passati, e come Arturo vediamo calare dal Penitenziario un’ombra misteriosa di derisione, che offusca sempre più i bei tratti nordici del padre.

“L’isola di Arturo” è un romanzo di formazione interrotto, potremmo dire, sul più bello (mai sapremo le sensazioni di A. nel toccare per la prima volta una nuova terraferma), con la Morante sempre capace di raccontare grandi storie partendo dal più semplice quotidiano.
Un’opera consigliatissima a tutti per lo stile delicato e “naturale”, la capacità di far riflettere, l’irresistibile figura del protagonista, e soprattutto quel desiderio spassionato di recarsi a Procida una volta finita la lettura…

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"La storia", splendido romanzo sempre della Morante, e qualsiasi altra opera di formazione giovanile (per chi apprezza il genere)...
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Fantascienza
 
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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    14 Giugno, 2013
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La bella e terribile Isla Nublar

La storia di “Jurassic Park” la conosciamo un po’ tutti, e il merito va all’omonimo (e celeberrimo) film diretto da Steven Spielberg.
Animali sconosciuti che appaiono sul continente.
Un’isola del Costa Rica concessa ad un privato per misteriosi esperimenti.
Un importante paleontologo e un matematico cinico e bizzarro chiamati ad ammirare ciò che succede effettivamente ad Isla Nublar, dove la scienza permette (all’insaputa di quasi tutto il resto del mondo) di ricreare dinosauri.
Comincia così questo interessante lavoro di Crichton, che io mi sento di promuovere a pieni voti.
Innanzitutto, come può non affascinare il tema centrale del libro, ovvero la possibilità di essere catapultati in un microcosmo che rispecchia il tempo in cui l’essere umano neppure esisteva? L’idea (improbabile, ma non impossibile) di trovarsi di fronte animali estinti milioni di anni fa è davvero irresistibile, soprattutto per i giovanissimi (ma di questo parleremo più avanti) e per gli appassionati, me compresa.
Altri lati positivi sono sicuramente la caratterizzazione dei personaggi (mitici il matematico Malcolm e il coraggioso Tim) e la scrittura, che vengono curate nei dettagli, e non danno l’impressione di trovarsi di fronte a un romanzo puramente “commerciale” (anche se questo è un aspetto innegabile di “Jurassic Park”, che si preannunciava successo planetario e sceneggiatura kolossal fin dall’inizio); ho apprezzato soprattutto il modo in cui Crichton presenta ogni processo scientifico o ragionamento matematico, rendendoli comprensibili a tutti, anche ai più piccoli. E trovo che proprio la capacità di rivolgersi agli adolescenti sia uno dei pregi maggiori di questo libro, appassionante e avventuroso al punto giusto, senza essere troppo pedante e neanche tanto “crudo”, se si eccettuano alcune inevitabili scene: un libro non impegnato, con cui avvicinarsi alla letteratura dei “grandi”, anche attraverso l’immedesimazione nelle due figure centrali di Tim e Lex.
Insomma, come avrete notato, io sono riuscita a trovare solo aspetti positivi, in quest’opera senza tante pretese intellettuali, ma capace di farci riflettere moltissimo sui progressi della scienza…
Sarebbe giusto creare davvero un parco simile, se fossimo in grado?
Sarebbe possibile gestire forme di vita così imponenti, con le quali non abbiamo mai convissuto?
E se la situazione dovesse degenerare, chi, tra uomo e dinosauro, andrebbe considerato il vero carnefice?

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Le altre opere di Crichton, e romanzi di fantascienza (ma mica tanto "fanta-", perchè in futuro uno scenario simile ce lo possiamo aspettare)... Consigliato anche a chi è interessato agli animali, alla paleontologia e ai reperti antichi (io studio archeologia).
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LaFataRibelle Opinione inserita da LaFataRibelle    29 Mag, 2013
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L'uomo che voleva essere soltanto Kees Popinga

CONTIENE SPOILER

Kees Popinga è un uomo come tanti altri, con una famiglia e una casa come tante altre (anche se un po’ meno originali, e un po’ più “decorose”): insomma, l’emblema del conformismo odierno. Ma quando osserva rapito i treni della notte, che abbandonano Groninga per correre verso l’ignoto, si rende conto di volere qualcosa di più.
Inaspettatamente, è Julius de Coster junior, il padrone dell’azienda dove lavora, a offrirgli l’occasione di cambiare vita: gli confida (decisamente “allegro” per qualche bicchiere di troppo) che la ditta è fallita, e che simulerà il suicidio per non rispondere delle colpe e poter fuggire all’estero. Popinga, perso così il lavoro (uno dei punti saldi della sua monocorde esistenza), non si fa prendere dallo sconforto, ma anzi coglie al volo l’occasione e sale a bordo di una delle tanto agognate locomotive.
Prima destinazione: Amsterdam, da Pamela, la prostituta “riservata” di de Coster, che Kees vede come passaggio obbligato dalla sua vecchia alla nuova identità. Non ha però calcolato la sarcastica risata con cui la donna lo rifiuta e, sconvolto dalla rabbia, la strangola con un asciugamano: verrà a sapere che è morta (e non tramortita come crede, o si impone di credere) solo a Parigi, dagli articoli che su tutti i giornali lo definiscono un pazzo e temibile assassino.
Complice una foto segnaletica sgranata, e dunque inservibile, il nostro uomo può tranquillamente aggirarsi per le vie della capitale francese senza essere riconosciuto, ma si renderà conto di dover prendere precauzioni sempre maggiori, visto il cerchio che il “misterioso” commissario Lucas sta stringendo intorno a lui. Nelle numerose peripezie che popolano le pagine di questo romanzo, Popinga incapperà in nuove prostitute, più o meno belle e degne di attenzione, in bande criminali, in cenoni di Natale e Capodanno con finali (forse) tragici, ma quello che più animerà il personaggio sarà qualcos’altro: togliersi di dosso le numerose opinioni che il mondo ha di lui. È proprio per far capire agli altri che è diverso da come lo vedono, che abbandona il tranquillo nucleo familiare (di cui poi inizierà ad avvertire nostalgia): ma entrando a contatto con persone sempre nuove, e diventando oggetto dell’interesse giornalistico, i giudizi sul suo conto si moltiplicheranno esponenzialmente, e allora il “satiro di Amsterdam” tenterà in tutti i modi di togliersi di dosso ogni parere esterno, fino a voler scomparire del tutto agli occhi del mondo.

Simenon ci regala il ritratto di un uomo all’apparenza “normale” che, vedendo sgretolarsi la sua realtà quotidiana, decide di andare incontro alla sorte: una sorte avversa, la quale lo porta a divenire un pazzo omicida agli occhi del mondo (e non è forse additato come “strano” chi, oggi, decide di non seguire la massa?). E così, ogni suo gesto, ogni suo comportamento, viene letto in un certo modo, interpretato come un segno della sua anima “maledetta”; ma il protagonista sa di essere superiore a tutte le considerazioni altrui, e cerca in ogni modo di manifestarlo (con una notevole sagacia, sfidando perfino le autorità). Alla fine, si sentirà però schiacciato dalla consapevolezza che nessuno potrà mai accoglierlo semplicemente come Kees Popinga (invece di volerlo a tutti i costi “inquadrare”), e vedrà precipitare gli eventi fino all’epilogo, peraltro prevedibile fin dall’inizio.

È interessantissima l’evoluzione psicologica del personaggio, che caratterizza tutto il romanzo (e fa passare nettamente in secondo piano sia le altre figure, sia le ambientazioni); ed è a mio parere da notare che già il titolo, “L’uomo che guardava passare i treni”, sia una delle definizioni di se stesso da cui Popinga sente il perenne bisogno di rifuggire.

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Naturalmente le altre opere di Simenon, ma azzarderei anche "Uno, nessuno, centomila" di Pirandello, per la continua ricerca della propria reale identità.
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