Opinione scritta da Zine

57 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2
 
Avventura
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Zine Opinione inserita da Zine    04 Gennaio, 2015
Top 500 Opinionisti  -  

Mediterraneo

“Il Dio del deserto” è un mezzo, per Wilbur Smith, di condurci nuovamente in un regno che ama e di cui ha scritto copiosamente, riscuotendo successi internazionali. Sto parlando, come ovvio, dell’Antico Egitto, con i suoi faraoni, gli alti dignitari, la magia e la cultura di una società tanto distante da noi eppure mai priva di uno spiccato fascino, dovuto anche alla commistione sempre presente di afflato divino anche nei momenti più quotidiani.
Riprendendo le fila delle avventure del nobile Taita, Smith ha elaborato un intricato gioco politico che gli dà l’occasione di immergere il lettore in altre due culture dell’antichità: quella mesopotamica e quella cretese.
Il romanzo narra delle nuove imprese di Taita nella lotta contro gli Hyksos, insediatisi da tempo nel nord dell’Egitto, allo scopo di restituire i suoi domini al Faraone. A questi scopi politici affianca il suo ruolo di tutore delle due giovani sorelle della famiglia reale, Tehuti e Bakatha.
Il suo azzardato piano prevede di mettere l’uno contro l’altro il re degli Hyksos e il Supremo Minosse di Creta, momentaneamente alleati, tramite un’azione militare ingegnosa al limite della follia. La mossa riesce, rendendo Taita l’uomo più importante d’Egitto; il passo successivo è assicurarsi il favore dei cretesi per dare agli invasori il colpo di grazia. Cosa potrebbe superare la possibilità di imparentarsi con il Faraone sposando le sue sorelle?
Taita conduce le due giovani nel lungo viaggio verso lo sposo destinato, ma i suoi piani si scontreranno contro i sentimenti delle ragazze, mentre alcuni misteri riguardanti la sua natura più che umana troveranno inaspettatamente risposta.
Con una prosa svelta, leggera e adatta alla lettura più interessata come a quella più distratta, Smith tesse un complicato arazzo il cui scopo principale e non particolarmente dissimulato è quello di raccontare le antiche civiltà del Mediterraneo. Attraverso gli occhi di Taita e delle sue protette ci viene offerta una panoramica completa di città, forme di governo e costumi, in un viaggio difficile e irto di ostacoli.
L’amore per la Storia permea il romanzo, sovrastando quasi sempre una vera ricchezza di trama, anche se va sottolineato che l’autore – il quale ha non pochi anni di mestiere alle spalle – sa come utilizzare un linguaggio semplice per non oberare i lettori di dettagli interessanti solo per lo storico.
I personaggi del romanzo, pur se caratterizzati, tendono a essere prevedibili, corrispondenti a “tipi” predefiniti al servizio dell’intreccio predeterminato, poco vivaci. Le principesse sono indomabili fanciulle pronte a tutto, capaci di diventare in poco tempo espertissime guerriere pur conservando il piglio monello di due bambine viziate. Anche i loro sentimenti d’amore sembrano più dettati dal capriccio che da sentimenti profondi, creando pochissima partecipazione.
Il protagonista, devo ammetterlo, è stato difficile da digerire. Taita è autocelebrativo quasi in ogni frase che pronuncia, un Cicerone tra le piramidi. Si scoprirà più avanti che ne ha ben donde, i suoi poteri sono più che umani; nondimeno, questa vanità esibita, il disprezzo o la pietà con cui giudica quanti gli stanno attorno (perfino quando ha una buona opinione di qualcuno), le affermazioni di tono razzista, lo rendono talmente antipatico che si fatica a proseguire nella lettura. E’ difficile provare empatia verso un personaggio tanto arrogante.
Nel complesso, una lettura leggera, di qualità altalenante. Un buon romanzo “da spiaggia” o per rilassarsi senza dover riflettere troppo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    17 Agosto, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Santa Maria del Mar

Attenendosi alla Storia come unica protagonista, sulla scorta di romanzi ormai datati ma sempre eccezionali e sinceri come “I pilastri della terra” di Ken Follett, e portando avanti l’obiettivo (non dichiarato ma palese) di raccontare il passato della propria terra attraverso le voce dei suoi personaggi, Ildefonso Falcones scrive il suo primo successo, “La cattedrale del mare”, edito in Italia da Longanesi.
Il romanzo gravita attorno al protagonista, Arnau Estanyol, la cui vita è legata a doppio filo alla costruzione della chiesa di Santa Maria del Mar e attraverso le cui vicende si viene a conoscere la situazione di Barcellona in particolare, ma in fondo della Catalogna tutta, nel XIV secolo.
Arnau è figlio di un servo della gleba, la cui moglie è stata stuprata e usata come serva dal signorotto locale. Il padre salva il neonato da morte certa e fugge con lui a Barcellona. Se riusciranno a vivere in città un anno e un giorno senza farsi catturare, saranno dichiarati cittadini e uomini liberi. Grazie ai tanti sacrifici del padre, che si mette a lavorare per il parente Grau Puig, Arnau riesce a crescere e a diventare un bambino sano e volenteroso, anche se la vita è aspra e dura, piena di umiliazioni.
Presto Arnau dovrà affrontare il crudele mondo degli adulti, adotterà come fratello minore un bambino sfortunato quanto lui e vedrà morire il padre in uno dei tumulti cittadini. Comincerà allora la sua faticosa strada da uomo, prima come bastaix (scaricatore di porto e portatore di pietre per la chiesa), poi come soldato e quindi come ricco e influente uomo cittadino. Conoscerà le donne fondamentali della sua vita, alcune per la gioia, altre per ostacolare il suo cammino. La rovina, però, è sempre dietro l’angolo e Arnau è destinato ad affrontare più prove di quante possa immaginare.
Ne “La cattedrale del mare” viene dipinta una Barcellona d’altri tempi, che si può respirare sotto la superficie della città odierna e il cui carattere orgoglioso e conscio dei propri privilegi si evidenzia nelle battaglie combattute con il governo centrale per ottenere di nuovo una sorta di indipendenza. La città prende vita nelle pagine del romanzo, contendendo il ruolo di protagonista ad Arnau Estanyol da una parte, e al tempio in costruzione, quella Santa Maria del Mar che si erge pian piano negli anni della narrazione, tempio alla Madonna e chiesa del popolo semplice, di quei lavoratori legati al mare per la loro sopravvivenza.
La straordinaria accoglienza data a questo scrittore deriva probabilmente dalla schiettezza con cui lascia trasparire da ogni riga il suo intento didattico, più che narrativo, sempre con uno stile semplice, di dialogo con il lettore più che accademico e pedante. Le informazioni vengono elargite ad ampie mani ma non risultano mai noiose, né ridondanti.
Questo è al contempo il suo pregio e il suo difetto. Per quanto Falcones crei dei personaggi dotati di una vita propria e li renda capaci di suscitare affezione ed emozioni nel lettore, non si può fare a meno di notare come in parecchi punti la psicologia e le azioni degli stessi prendano una piega più o meno forzata, quando l’autore decide di introdurre un argomento specifico nella narrazione. Tornano, così, personaggi magari perduti molto tempo prima, che prendono a comportarsi in maniera differente da come li si era conosciuti, ora al servizio di una svolta narrativa pensata a tavolino.
Questo rende un po’ meccanico il progredire della vicenda, lasciando la sensazione che l’autore ogni tanto giochi al massacro col povero Arnau; nei momenti in cui le disgrazie al protagonista si affastellano senza requie, solo per poter indagare fino in fondo le conseguenze di una norma dell’epoca o per introdurre un evento che ha segnato la storia di Barcellona, in quanto lettrice ho provato una certa irritazione e il contatto con il romanzo si è sfilacciato.
In generale, comunque, un romanzo piacevole e molto più godibile di tanti dello stesso genere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    29 Luglio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Il crollo a tre quarti

Reduce dalla lettura di “La cattedrale del mare”, in cui avevo trovato nella scrittura di Ildefonso Falcones dei lati positivi che speravo potessero evolversi nelle opere successive, mi sono accinta alla lettura degli altri due romanzi scritti da questo autore.
“La mano di Fatima” non mi ha favorevolmente colpita, anzi. Per quanto la prosa fosse scorrevole e l’argomento di sicuro interesse (la rivolta moresca in Spagna), non ho avvertito alcuna affezione per i personaggi. L’elefantiaca dimensione del romanzo non ha aggiunto nulla alla trama e il mio interesse è scemato sempre più col proseguire della lettura. Contrariata, in quanto ritengo che questo autore spagnolo sia capace di ben altro, mi sono intestardita e ho caricato a testa bassa il terzo romanzo, “La regina scalza”. Il rapporto con questa storia è stato più intenso, ed ecco quindi la recensione.
Il romanzo prende in esame due piaghe rimaste nella storia d’Europa come macchie indelebili, su cui però spesso si fa un colpevole silenzio. Ricordiamo senza fallo gli orrori dei lager e dei genocidi del XX secolo, ma ci siamo scordati che episodi analoghi si sono verificati a più riprese nell’arco dei secoli, nella civiltà occidentale.
“La regina scalza” tratta sia della schiavitù dei neri, deportati dall’Africa e mandati a lavorare nelle piantagioni coloniali americane, diventando meri oggetti di proprietà la cui unica possibilità di essere liberi – di norma – era la morte, sia le contraddizioni e l’emarginazione del popolo zingaro, giunto in Europa da qualche secolo e fin da subito perseguitato per il disordine sociale di cui si è sempre fatto promotore.
Falcones cerca di gettar luce su questi aspetti imbarazzanti della storia spagnola (e non solo) facendoci vivere la situazione dal di dentro, scegliendo come protagoniste una schiava liberata, la bella e insicura Caridad, e la sfrontata zingarella Milagros, cui la vita insegnerà che i capricci hanno breve vita e la dignità è molto difficile da conservare.
Attraverso l’arco di alcuni anni, si dipanano le vicende di queste due amiche. La prima, abituata a subire e ad eseguire gli ordini, riscoprirà la propria femminilità, la bellezza dei propri canti dolorosi, la capacità di scegliere da sé il proprio destino, e troverà un uomo da amare senza essere costretta a diventare un oggetto sessuale, una bambola muta e obbediente. La piccola Milagros, ballerina e cantante assisterà invece all’arresto e alla persecuzione della propria gente. Impuntandosi su un matrimonio sconveniente con una famiglia rivale, pagherà sulla propria pelle la scelta sbagliata, perdendo la libertà e la dignità.
Falcones tenta l’azzardo di scegliere due donne come protagoniste, e riesce nell’intento di renderle vere e profonde, capaci di attirare il lettore nelle loro vicende e far desiderare di saperne di più, di leggere ancora qualche pagina prima di posare il libro sul comodino. Le descrizioni storiche e geografiche sono inserite con maggiore naturalezza rispetto alla prima opera, a volte perfino con l’utilizzo di dialoghi, mai troppo didascalici.
Lungo la trama si muovono molteplici personaggi, tutti dotati di una personalità propria, ben definita. L’orgoglio gitano si respira in ogni riga che Falcones dedica loro, pur nella descrizione priva di tatto dei loro difetti e dei loro mille modi di aggirare la legge. La pena e la desolazione di Caridad rispecchia il vuoto della schiavitù. La musica è il legante delle loro storie, espressione del dolore come della gioia, arte meravigliosa che restituisce umanità anche ai reietti, agli ultimi della società.
Le note dolenti iniziano a un centinaio di pagine dalla fine. A parte il crescendo di violenza (le descrizioni molto grafiche di stupri e omicidi non mancano e, a mio avviso, sono spesso gratuite), sul finire ho ritrovato i difetti che mi avevano fatto storcere il naso con “La cattedrale del mare”. I personaggi mutano considerevolmente in funzione di ciò che l’autore ha deciso di fare accadere e psicologie così ben modellate pagine prima sfumano e si sfaldano ai bordi, facendo perdere il contatto con le vicende narrate.
Si chiude con un finale quasi poetico, un’immagine toccante ma appiccicata sopra una chiusura frettolosa e poco profonda, che quindi non fa dimenticare il pesante calo di qualità dell’ultima parte del romanzo. Un libro divorato solo al 75%.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
131
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.6
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    16 Luglio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Un magico e micidiale blues

Parlare di sé non è mai facile. Ancora più difficile dev’essere tirare le fila di una vita intensa fino allo spasimo, condita di leggende mai dissipate (volontariamente o per fantasia cocciuta di chi ci crede), densa di nomi, storie, fatti anche di portata storica. Un mondo magico e micidiale come quello della musica rock.
Keith Richards, il celeberrimo chitarrista dei Rolling Stones, ci si prova con questa imponente autobiografia, scritta con semplicità e senza fronzoli, senza maschere ma permeata di tutto il primordiale carisma che lo caratterizza. Per una volta, niente biografie scritte da altri, che sanno travisare o arrangiare ad arte i fatti e le parole, tratteggiando un personaggio che spesso si allontana parecchio dall’uomo reale, matto artista sempre sull’orlo dell’autodistruzione ma anche uomo di profondi affetti familiari e convinto assertore del valore dell’amicizia.
Richards condisce la sua autobiografia con alcune foto, private e non, dalla sua infanzia ai giorni nostri, una chicca per i fans. Con un linguaggio scarno ma preciso, racconta la sua esistenza fin dai primi anni d’infanzia, quando viveva con i genitori a Dartford, cittadina un tempo covo di banditi e nel dopoguerra triste angolo di provincia senza pretese.
I giorni di monello del giovane Keith erano già solleticati dalla musica. Il nonno musicista lo portava spesso a veder riparare gli strumenti, constatando il desiderio crescente del nipote per la chitarra. A scuola, la sua bella voce gli aveva valso il ruolo di soprano nel coro, unico raggio di sole in una carriera educativa noiosa, frustrante e densa di soprusi da parte dei compagni, cosa che gli insegnò ben presto a imparare a difendersi (ancora oggi Richards non si separa mai da pistola e coltello, che sa usare con maestria).
Le delusioni e la comprensione che gli adulti erano tutt'altro che infallibili, la percezione dell’autorità delle istituzioni come una prevaricazione dei propri desideri, condurranno Richards a quel fare ribelle che lo farà espellere da scuola mettendolo così nelle condizioni di dedicarsi a ciò che sapeva essere il suo destino: la musica.
Il chitarrista racconta quindi la difficoltosa genesi del gruppo originario dei Rolling Stones, i mesi passati a studiare come eremiti tutti i dischi del blues di Chicago, la difficoltà di ottenere serate e una paga che consentisse almeno di mangiare. Eppure, nonostante la difficoltà, tutti sentivano di poter sfondare, cosa che accadrà con una velocità sconvolgente, portando il gruppo in cima alle classifiche.
Richards non nasconde granché dei guai combinati da lui e dagli altri una volta entrati nel giro della discografia (per quanto il chitarrista non abbia mai amato lo star-system). Donne come se piovesse, un problema sempre più grave con la droga, culminato con una traumatica disintossicazione solo molti anni più tardi. I guai con la legge, veri o ricercati ad arte da quelle forze dell’ordine che vedevano nei Rolling Stones l’epitome della gioventù bruciata da punire e sopprimere. I problemi di una collaborazione tanto lunga fra persone con un carattere dominante e aspirazioni differenti.
Alle vicende della band si allacciano quelle sul piano personale, la famiglia e i figli, cui Richards è profondamente legato. L’autobiografia è una lunga passerella di persone che hanno significato molto per il musicista, un uomo che crede profondamente nell’amicizia e che conserva come tesori coloro che sente vicini al suo mondo e alla sua sensibilità. Molti i lutti, dovuti principalmente al male serpeggiante dell’uso di droga. Si scopre un uomo acculturato, un vorace lettore che sa sorprendere con citazioni imprevedibili.
Stupende le dissertazioni sui trucchi alla chitarra, sui tentativi fatti per scoprire un certo suono, un riff sfuggente, anche se forse apprezzabili solo da chi conosce la musica e suona uno strumento. Bellissimi i momenti di collaborazione creativa con altri musicisti. La prosa conserva sempre un’autoironia che impedisce al testo di diventare stanco o ripetitivo, fornendo numerosi spunti per la risata e coinvolgendo il lettore senza alcuna captatio benevolentiae.
Imperdibile per coloro che amano i Rolling Stones e il panorama musicale degli anni ’60.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    13 Luglio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Involuzione umana

Franz Kafka (1883-1924) ci ha regalato uno dei personaggi più angosciosi e illuminanti sulla condizione dell’uomo all’ingresso del ventesimo secolo. Il suo Gregor, trasformato da un giorno all’altro in un grosso, scomodo e ottuso scarafaggio, è uno dei personaggi più emblematici della letteratura di inizio secolo scorso.
Ne “La metamorfosi”, il commesso viaggiatore Gregor si risveglia scarafaggio, senza sapere come né perché. Non si rende mai pienamente conto dell’assurdità della sua nuova situazione, ma non può fare a meno di notare il disagio e il disgusto della famiglia, che se inizialmente soffre di questa maledizione, presto inizia a vedere Gregor non più come il figlio cui il fato ha riservato un brutto tiro, ma come l’incarnazione di tutti i loro problemi.
Calarsi all’interno delle simbologie di Kafka non è cosa facile e chi desidera cercare di comprendere il significato di molti dei suoi racconti dovrà rassegnarsi a cercare dei testi di critica che li vivisezionino, oppure accontentarsi delle suggestioni personali che hanno preso vita durante la lettura.
Alcuni temi balzano agli occhi anche senza bisogno di conoscere la vita di questo tormentato autore oppure il lavoro di analisi dei critici. La percezione dell’autorità come una prigione che soffoca l’uomo, ne inaridisce lo spirito e lo trasforma in un essere abietto o infimo, ad esempio, spicca non solo ne “La metamorfosi” ma anche in altri racconti. I superiori sul posto di lavoro, così come figure importanti dell’esercito o del governo sembrano nate solo per vessare i piccoli, l’uomo “medio”, colui che si trova a dover abbandonare ogni sogno o velleità personale per adeguarsi a ciò che è socialmente utile o accettato. Anche le figure parentali appaiono di norma sotto il loro profilo negativo di prevaricazione e incomprensione verso i figli, simbolo di un’autorità più quotidiana ma non per questo meno restrittiva e castrante.
Quasi sempre, i racconti sembrano parlare un linguaggio comprensibile solo allo scrittore, come se fossero stati scritti ad uso e consumo del creatore. Si presentano al lettore come scrigni ermetici difficili da schiudere. Utilizzando spesso il linguaggio atavico della fiaba unito a una modernità disarmante, Kafka crea atmosfere di fortissima inquietudine.
L’identificazione con un animale compare più volte. Gli esempi più palesi di tale tendenza sono, come già detto, “La metamorfosi” e il racconto “La tana”. In entrambi i casi, l’animale prescelto ha abitudini schive, fa parte degli “ultimi” oppure desidera solo nascondersi al mondo. Incapaci entrambi di comunicare, il primo perché ha perso la parola e il secondo per la paranoia con cui guarda al mondo e a ciò che circonda la sicurezza della sua tana, vivono entrambi in una bolla di pensieri senza espressione, incapaci di farsi capire e al contempo sempre meno in grado di comprendere quanto sta loro attorno.
Un disagio crescente, profondo, che disumanizza e fa presagire il disastro come unica soluzione possibile. Una lettura impegnativa, dalle forti suggestioni.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienza e tecnica
 
Voto medio 
 
4.6
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    27 Giugno, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Il mistero della Vita

Si sentano liberi di leggere questo saggio anche coloro che con le scienze ambientali non hanno mai avuto molto a che fare. Il fatto che faccia parte di una collana scientifica e che tocchi un argomento tanto spinoso potrebbe far temere di trovarsi tra le mani un trattato tecnico incomprensibile per i profani, oppure un testo con deliranti profezie apocalittiche sul futuro della nostra Terra e poco realistiche proposte di cambiamento nelle nostre abitudini quotidiane.
Niente di tutto questo. “La liberazione dell’ambiente”, edito da Di Renzo Editore, è stato scritto da Jesse H. Ausubel con un linguaggio quotidiano, narrativo, direi confidenziale. Una lunga chiacchierata con il lettore, senza mai tentare di impressionarlo con le proprie conoscenze scientifiche ma cercando – piuttosto – di stimolare curiosità verso i campi di ricerca su cui ha speso un’intera vita.
Il percorso scientifico di Ausubel, infatti, abbraccia fondamentali ricerche riguardanti la situazione ambientale, lo sfruttamento delle riserve energetiche e la biodiversità.
L’autore inizia la sua informale chiacchierata rievocando l’infanzia e le proprie origini familiari, di cui ha potuto confermare con certezza la provenienza anche grazie alle più moderne tecniche di analisi del DNA. Nato e cresciuto in America, ha scoperto di avere origini italiane e turche, sempre di famiglia ebraica; ha potuto così affiancare i dati scientifici ai racconti dei nonni, fuggiti dall’Europa prima delle persecuzioni della Seconda Guerra Mondiale e ambientatisi negli Stati Uniti, terra delle opportunità.
Opportunità che l’autore ha cercato di utilizzare al meglio fin dal periodo scolastico, vissuto in maniera creativa per realizzare progetti e condurre esperimenti, pur in un ambiente che prediligeva le materie letterarie a quelle scientifiche. All’università, piuttosto che concentrarsi su un percorso di studi univoco (come è d’obbligo qui da noi), ha preferito tentare un po’ di tutto e seguire ogni corso che stimolasse la sua curiosità, ampliando la propria “visuale” e aggiungendo agli studi perfino la pratica del teatro, scritto e messo in scena. A concludere questo periodo pre-lavoro, un viaggio in Europa che gli dà la possibilità di destreggiarsi con parecchie lingue straniere.
Il primo incarico importante per Ausubel si consuma alla Conferenza Mondiale sul Clima delle Nazioni Unite, dove il giovane scienziato può applicare anche le sue conoscenze di organizzatore di eventi, oltre che avvicinarsi per la prima volta alle neonate scienze ambientali.
L’esperienza lo porta di nuovo oltreoceano. Viene inserito nel gruppo di ricerca dell’Istituto Internazionale per i Sistemi Applicati, con sede in Austria. Qui ha l’opportunità di lavorare accanto a scienziati provenienti da tutto il mondo, perfino da oltre il blocco sovietico, in un ambiente di scambio e collaborazione che lo convincerà del ruolo della scienza come distruttrice di barriere politiche ed economiche. Là incontra il suo mentore, il fisico italiano Marchetti, e indirizza definitivamente i propri interessi verso il settore ambientale ed energetico.
Nei primi anni ’80, infatti, è un fiorire di ricerche che mutano radicalmente l’atteggiamento globale verso l’ambiente. Studi sull’emissione di gas serra e sul riscaldamento globale, un’analisi sistematica dei problemi ambientali e proposte razionali per un’efficienza dell’utilizzo delle risorse, in maniera da restituire al pianeta ampie zone vergini.
Ausubel racconta un’avventura emozionante quando tratta del progetto di censimento della vita marina, iniziato alla fine degli anni ’90, che lo ha portato a solcare gli oceani per anni alla ricerca di tutte le specie marine conosciute e a stimare una cifra esorbitante di creature ancora da scoprire. La missione è stata condivisa dal regista francese Jaques Perrin, che ne ha tratto il film ambientale “Océans”.
Ancora, lo scienziato si è imbarcato in una catalogazione del DNA delle specie viventi (il DNA barcoding) e nella stesura di una vera e propria Enciclopedia della Vita, un lavoro in progress disponibile on-line, oltre a una ricerca sul Carbonio Profondo che potrebbe rivoluzionare le teorie sull’origine della vita sulla Terra.
Un testo spigliato, intrigante e permeato di simpatia, adatto a qualunque tipo di lettore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    14 Giugno, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Un cammino

Bianca Garavelli, stimata esperta dell’opera di Dante Alighieri, è anche scrittrice di romanzi e racconti. La sua passione per la letteratura non le concede di essere semplice spettatrice e critica della produzione altrui, ma la spinge a cimentarsi nella narrazione, offrendo al lettore un sorprendente spaccato su un universo immaginifico multiforme, a volte anche selvaggio e brutale, figlio di molteplici influenze e di una sensibilità particolare.
La prima cosa che salta agli occhi è il debole della Garavelli per il fantastico, per la deviazione dalla norma. Con un gusto forse più maschile che femminile, l’autrice immerge i suoi personaggi in realtà che convivono con il mistero – quando va bene – se non con il puro orrore, il paranormale. Nelle sue opere, il confine tra la realtà materiale e piani d’esistenza più elusivi, incorporei, di rado manca. Il contatto a volte è delicato, pieno di una speranza quasi fanciullesca, innocente come il prodotto della fantasia di un bambino. La commistione provoca gioia, la capacità di guardare al futuro sotto una nuova luce.
Più spesso, l’inserirsi di questo mondo “altro” è violento e porta sofferenza, esperienze traumatiche, a volte anche la morte. Le forze che si aggirano ai limiti della nostra capacità di percezione possono essere troppo dirompenti e selvagge per essere controllate e spingono alla follia.
Se questa è la parte “maschile” della prosa di Bianca Garavelli, elementi di Terra e di Fuoco che si manifestano nella sua scrittura, non meno evidente e dotata di una sua peculiarità è la sua parte “femminile”, come a voler chiudere il cerchio degli Elementi.
Pur nei temi a volte forti, l’autrice conserva una dolcezza di donna che trova espressione nel trattare dei rapporti interpersonali, in temi più vicini al mondo dei bambini. Il suo approccio alle esperienze infantili, ai sentimenti di lutto o di malinconia da rielaborare (come in “Le rose di dicembre” o “La bambina che amava i rondoni”), viene messo in atto con rispetto e profondità di sentimenti, una partecipazione emozionale che commuove senza scadere nel melenso, perché sincero e non ricercato ad arte. Si evince, poi, una sorta di timidezza della Garavelli quando si parla dei rapporti uomo/donna, come se l’autrice trovasse in questo difficoltà di espressione non presenti in altri casi. Si avverte un leggero ritrarsi, come un non volersi scoprire. In questi momenti, evidenti soprattutto nel lungo racconto “L’amico di Arianna”, la prosa diventa più ermetica, meno spontanea, come se l’amore fosse qualcosa di troppo elusivo e complesso per essere adeguatamente espresso a parole.
La raccolta di racconti che vi vado a presentare, “L’oscurità degli angeli” edito da Giuliano Ladolfi Editore”, si muove lungo il fil rouge del mistero che si insinua nella vita di tutti i giorni.
“L’amico di Arianna” è una storia d’amore tormentata, un viaggio nella follia che si spinge al di là del possibile, creando un ponte straordinario tra essere umano e animale. Tutto ruota attorno alla figura del lupo e ai suoi istinti di feroce cacciatore, che trovano una risonanza nell’anima di una ragazza appena affacciatasi alle gioie della vita. “Qui tollis peccata mundi” è un racconto più breve, decisamente arcano, che ruota attorno a un’altra figura animale: il gatto. Una piccola storia disturbante, sfaccettata.
“Le rose di Dicembre” narra di un miracolo natalizio per un bambino che ha in cuore un desiderio impossibile. “Amnesia” è una bravissima parentesi di tempo dilatato, distorto, privo di connotazione. Un momento di totale scomparsa di ogni ricordo, che si scioglie in dolore al tornare della memoria. “L’olivo della strega” riunisce elementi magici con il tema del ritorno alle proprie radici, alle tradizioni di famiglia. La ricerca del sé del passato, dei momenti in cui ancora il futuro non aveva preso una precisa direzione, accomuna i successivi due racconti: “Treni”, la visione di un bivio fondamentale; “Gli anni”, la ricerca di un ricordo, lacerati tra la paura e la speranza di trovare tutto come un tempo.
Chiudono la raccolta “La bambina che amava i rondoni”, una vera e propria fiaba sul finire dell’estate, ambientata nella sua Vigevano, e “E sua nazion sarà tra feltro e feltro”, omaggio a Dante e alla sua Commedia.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    15 Mag, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Il coraggio della sfida

L’ultimo libro di Benni, appena uscito nelle librerie, è un dittico: una coppia di racconti con due fanciulle per protagoniste. La prima è “Pantera”, imbattibile fenomeno del biliardo, presentataci attraverso gli occhi adoranti di un adolescente in fase ribelle che si è fatto assumere come cameriere nell’inquietante e magica sala da biliardo dei Tre Principi, ove la misteriosa giocatrice regna incontrastata. La seconda è Aixi, una ragazzina che vive sulla costa, sensibile e selvaggia, il cui padre sta morendo di un male incurabile e il cui destino sembra essere quello di adeguarsi alle abitudini delle sue coetanee, per cui lei non prova alcun interesse.
Non è facile cercare di classificare la scrittura di Benni. I temi trattati sono adulti, a volte persino rudi, grezzi, quasi volgari. La forma narrativa, invece, si avvale della struttura della fiaba, con le sue figure archetipiche e le atmosfere oniriche, ove tutto diventa possibile. Ne risulta una favola destinata agli adulti, che parla il linguaggio della narrativa d’infanzia affrontando tematiche profonde che solo una psiche formata può arrivare a comprendere.
“Pantera” potrebbe tranquillamente trasformarsi in monologo teatrale e d’altronde Benni è altrettanto famoso come fecondo scrittore di teatro. L’autore titilla l’emozione, stimola la capacità di vedere personaggi e ambientazioni come se prendessero forma tangibile davanti agli occhi del lettore. Non è possibile rimanere indifferenti quando vengono pizzicate corde tanto profonde e con tale maestria. La tensione emotiva delle sfide al biliardo, la complessità del cuore di una donna, gli affetti perduti e il coraggio di ribellarsi al destino…Una commistione di età e di atmosfere che costruisce un mondo al contempo brillante e immerso in un fango torbido, oscuro.
La sensazione si avverte con estrema chiarezza in “Pantera”, costruito volutamente in un luogo liminare ove la vita di tutti giorni viene lasciata da parte per immergersi in una sorta di grotta oscura dove vincere è tutto, come succede al ragazzo che adora Pantera, il quale cerca in ogni modo di sporcarsi, di affondare, diventando membro di un mondo sotterraneo che però sa creare i suoi eroi. Nell’apparente leggerezza del secondo racconto, questa oscurità di manifesta in maniera più subdola, sottile, nelle consuetudini banali e consumistiche che tolgono spontaneità all’infanzia, come un veleno che corrode la magia dell’essere bambini.
Le protagoniste di entrambi i racconti sono giovani donne che la vita non ha graziato di particolare fortuna. Pantera è reduce da un’infanzia di soprusi da parte del padre, giorni di sofferenza che sono diventati leggenda e di cui nessuno conosce davvero i particolari. E’ stato allora che la piccola ha imparato a giocare a biliardo con il suo tocco micidiale, trovando da sé un territorio in cui essere padrona, imbattibile e intoccabile signora. Il suo personaggio inarrivabile è stato costruito ad arte e il nero di cui si veste serve a caratterizzarla quanto a nascondere il vero sé agli occhi di coloro che la sfidano.
Non è un caso se l’unico momento di cedimento le verrà dal suo opposto e complementare, quel magnifico giocatore vestito di bianco (un David Bowie campione di biliardo) che per la prima e forse unica volta le farà apparire una vita a due qualcosa di desiderabile invece che una condanna da evitare.
Aixi vive sola con il padre ormai malato terminale. La madre li ha lasciati, stanca della dura vita del pescatore, delle privazioni. Aixi vive ancora in un mondo in cui sogno e realtà convivono, una spiaggia di personaggi segnati dalla vita, che sanno vivere di espedienti e conoscono i segreti del mare e delle sue creature. Quali sogni può conservare ancora questa ragazzina che tra poco perderà tutto ciò che ha sempre amato e in cui ha creduto? Un atto di coraggio e incoscienza sarà la sua sfida all’ineluttabilità delle cose, un’affermazione di se stessa contro il destino e le trame di chi dovrà occuparsi di lei.
Una parola sulle illustrazioni di Luca Ralli, bellissime immagini in bianco e nero con un tratto dal sapore vintage, che si sposano alla perfezione con l’atmosfera dei racconti. Per quanto sia evidente l’intento fumettistico e quasi caricaturale delle illustrazioni, questo non toglie alcuna dignità all’opera di Ralli, che anzi interpreta in chiave grafica proprio quella ironia e quell’atmosfera da sogno che fanno da fondamenta ai racconti.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    02 Mag, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Quel maledetto dono

Questa è la storia di Daniel Torrance, un uomo speciale che da bambino è scampato agli orrori di un hotel infestato di mostri ma che da adulto non è riuscito a sfuggire all’alcol e alla droga. Per ripulirsi e tornare a rispettare se stesso, Danny frequenta gli Alcolisti Anonimi e lavora in una casa di riposo per anziani, ove diventa famoso come Doctor Sleep per la sua capacità di accompagnare serenamente i pazienti al momento della morte.
A sconvolgere la vita ancora dissestata di Danny ci pensa Abra, una bambina col suo stesso dono, presa di mira da una tribù di vampiri della “luccicanza”, il potere psichico che li caratterizza. Il Nodo è sulle tracce della ragazzina e vuole ucciderla come ha già fatto in passato con tanti altri bambini. Inizia una lotta micidiale che riporterà Danny nei luoghi più orribili della sua infanzia.
Ovviamente, l’uomo che ha scritto “Shining” non è lo stesso che ha scritto “Doctor Sleep”. Sono passati molti anni, la scrittura di King si è modificata e i tempi sono cambiati. Questo si respira anche nel nuovo romanzo, che ha un modo di procedere e un carattere molto contemporaneo, in contrasto con le atmosfere anni ’70 che si respiravano all’Overlook Hotel.
Questo giusto per tenere buoni i puristi che avranno storto il naso al pensiero di un seguito di una pietra miliare nella storia dell’horror. King ha semplicemente risposto all’impulso di conoscere cosa è successo al piccolo Danny una volta cresciuto. “Doctor Sleep” è un romanzo a sé stante, leggibile anche senza aver gustato il capolavoro che l’ha preceduto.
Non mi soffermo sull’abilità di King nel tratteggiare personaggi e situazioni, non ce n’è bisogno. Voglio però sottolineare il coraggio dell’autore nel recuperare un “buono” per antonomasia e ficcarlo a testa in giù dentro una delle vite più schifose che ci si possa sognare per un bambino speciale e coraggioso. L’alcol che ha irretito e tradito suo padre ha chiesto di pagare dazio anche a Danny, imprigionandolo nella stessa maledizione e quasi cancellando tutti i suoi doni, ivi compresi l’intelligenza fuori dal comune e il buon cuore.
Danny è diventato un perdente, un rifiuto della società che avrebbe deluso sia la madre, ormai morta, che l’amico Halloran, perso di vista da un pezzo. Nessun lavoro che duri più di qualche giorno, la bottiglia sempre accanto, droga quando capita e ogni tanto una rissa scatenata da quella stessa nebbia rossa che ha fatto di suo padre uno dei mostri dell’Overlook. Un fallimento su tutta la linea. Chiunque sarebbe stato più clemente con un proprio, affezionato personaggio. Non King. La realtà fa quasi sempre schifo, e Daniel Torrance non si sottrae al calcolo delle probabilità.
Tirarsi fuori dalla palude e cercare di non morire prima dei quarant’anni prevede un cambio di domicilio, di frequentazioni, un impegno costante e senza sconti. Un vero e proprio riaddestramento presso la Alcolisti Anonimi, un lungo percorso di accettazione di se stessi e dei propri errori. E’ in questo che brilla il vero coraggio di Dan. Affrontare i mostri, salvare bambine in difficoltà, è certamente straordinario. Eppure, di solito il vero coraggio si dimostra nei piccoli gesti della vita di tutti i giorni. Nelle rinunce. Nel tener duro quando si vorrebbe solo annegare. Nell’offrire a chi sta peggio di noi la nostra presenza e il nostro aiuto, anche se fa soffrire. King è sempre un maestro nel tratteggiare persone vere e non stereotipi bidimensionali.
Abra è la versione del 2000 di questo bambino speciale ormai diventato grande. I suoi poteri sono immensi; la spaventano, ma le danno anche una sensazione di potenza che Danny non possedeva e che la rendono più arrogante e spericolata, meno capace di suscitare istinti protettivi. In alcuni momenti, anzi, perfino chi la aiuta è spaventato dalla forza che può mettere in campo e dall’aggressività senza freni con cui affronta chi la attacca. Un prodotto della società contemporanea, che rende i bambini molto meno innocenti di un tempo.
Come sempre, King si sbizzarrisce nel creare i “cattivi”, mostri che si nascondono tra noi travestiti da normali esseri umani. Peggio, un tempo lo erano davvero! Ora, cambiati dall’essersi nutriti dello “shining” come un vampiro del sangue, ne conservano le fattezze ma non la mentalità. Si spostano con camper superaccessoriati, sono ricchissimi e potenti, vivono in una tribù elitaria che gira gli Stati Uniti alla ricerca del cibo che li terrà sempre giovani. Un orrore subdolo perché celato sotto spoglie innocue, sadici torturatori di bambini speciali che non provano nulla verso le vittime ma sono ancora capaci di sentimenti l’uno per l’altro.
Una storia che forse si ammorbidisce troppo sul finire, ma che costringe a divorare una pagina dopo l’altra, come il Re ci ha abituati.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    15 Aprile, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Cerchia elettiva

In un futuro non troppo lontano, nello sfacelo sociale a cui hanno condotto le sconsiderate politiche occidentali, un gruppo di illuminati decide di portare il proprio attacco alla Cuspide, che nell’ombra governa le sorti del mondo. Chi per vendetta, chi per lucida scelta, chi per ideali di libertà, questi compagni si uniscono in una micidiale battaglia che possiede risvolti forse più profondi e antichi di una semplice rivoluzione del sistema: una lotta tra Luce e Tenebra, che affonda le sue radici nei sogni e in un passato ricco di poteri ormai dimenticati.
Questa immane saga italiana, scritta da Renato “Mercy” Carpaneto e suddivisa in tre volumi che non esito a definire mastodontici, è costruita con non comune intelligenza e coerenza. L’autore apre molteplici parentesi, inserisce nella narrazione moltissimi personaggi, eppure riesce a dipanare la storia riallacciandone tutti i fili anche dopo lunghe digressioni.
Non mancano, infatti, i momenti in cui ci si allontana – apparentemente – dalla trama principale. In un continuo passaggio tra il presente e il passato, l’autore ci svela fatti a volte molto lontani dal centro dell’azione. Inizialmente, il lettore può avere la tentazione di chiedersi se ce ne fosse la necessità, magari guardando alla “pausa” con sospetto e un certo fastidio. A lungo andare, ci si rende conto che non uno di questi “fuori-pista” è inutile o corollario. Ogni vicenda narrata va a legarsi ai fatti principali, andando a formare un’importante frammento del mosaico finale.
La lotta senza quartiere de “La Mano di Gloria” non nasce, come ovvio, da un giorno all’altro, né i personaggi si riscoprono paladini di una nuova giustizia senza esperienze pregresse che li abbiano condotti a tale decisione.
L’autore racconta le loro origini, dà ampio spazio alla storia delle famiglie che hanno dato i natali ai nostri eroi. Anche volendo fare i pignoli e i critici a tutti i costi, si rimane comunque affascinati e la lettura continua a scorrere senza problemi.
Il segreto, oltre a una buona prosa, risiede nella caratterizzazione dei personaggi. Ogni personalità de “La Mano di Gloria” è ben delineata, approfondita e peculiare. I protagonisti si fanno persone in carne e ossa, plausibili e perciò facili da amare o da odiare dal lettore. Uno spaccato di umanità varia, a volte portata perfino all’eccesso nelle imprese eroiche o malefiche di cui si fa promotore, eppure di rado sopra le righe o poco credibile. D’altronde, si sa che l’essere umano è capace di grandi cose quando i suoi intenti sono chiari e ha trovato la forza di tradurre le parole in azioni.
Il difetto dei romanzi, se vogliamo chiamarlo così, risiede nella stessa intelligenza con cui la storia è stata costruita. Si tratta di una lettura per pochi. Il gergo sfocia spesso nell’aulico e nel ricercato. Questo denuncia l’elevata cultura dell’autore (un soffio di speranza per la letteratura italiana) ma porta in superficie anche il calcolo con cui la prosa è stata ricontrollata e sistemata in fase di editing per ottenere una qualità lessicale di livello superiore, minandone in qualche punto la spontaneità. Abbondano i termini desueti, i sinonimi oggi quasi del tutto caduti nel disuso.
Per quanto la cosa possa ricordare con nostalgia la prosa dei primi del Novecento, e per quanto io apprezzi la cultura quando ne trovo, questa scelta opera una decisa discriminazione sul pubblico adatto a immergersi tra queste pagine. Il lettore medio, infatti, non è in grado di reggere la lettura di un simile romanzo. Le primissime pagine, una lunga descrizione, sono già in grado di fare da spartiacque tra chi avrebbe bisogno del costante supporto di un vocabolario e chi può permettersi di proseguire la lettura. Anche le molte digressioni richiedono un elevato livello di concentrazione nel lettore. Carpaneto sa passare facilmente a una scrittura più gergale, quotidiana, ma la si raggiunge dopo un buon numero di pagine, quando ormai il legame col romanzo si è instaurato o già interrotto.
Anche le ampie trattazioni sociali e politiche sono un’ulteriore sfida, che selezionano un gruppo ancora più ristretto di lettori appassionati, appartenenti a una cerchia fatta di interessi e ideali comuni.
Una saga che sceglie i suoi, scritta con magistrale abilità, e affiancata da un concept-album degli IANVA, il gruppo di cui l’autore è cantante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    13 Marzo, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Il Tempo e le Stelle

“L’ostinato silenzio delle stelle” è una raccolta di racconti di respiro fantastico/fantascientifico che ha le sue radici nella partecipazione dell’autore al concorso nazionale RiLL, in cui si è distinto più volte. Per dare maggiore lustro a un talento che, secondo questa associazione, va tenuto nella debita considerazione, gli è stata data l’opportunità di pubblicare una piccola antologia di racconti, alcuni mai passati sotto gli occhi della giuria del concorso.
Malerba costruisce i suoi racconti ambientandoli in spazi prettamente fantascientifici come in contesti quotidiani o – addirittura – storici, facendo sì che il fantastico si insinui nella realtà cui siamo abituati e arrivi a sconvolgerla.
Molto efficaci alcune intuizioni. La prosa, in generale, è buona. L’autore non si perde in descrizioni pedisseque, né in parentesi aggiuntive su personaggi che vanno compresi semplicemente tramite la lettura. Non spreca parole, va all’osso dell’immagine o del concetto su cui fonda i suoi racconti. Purtroppo, si nota in più di un’occasione un uso improprio di alcuni termini unito a piccoli arcaismi leziosi nella costruzione di alcune frasi, dettagli che avrebbero dovuto essere rivisti prima della messa in stampa. Quando Malerba è “sul pezzo”, infatti, queste stonature spariscono, facendo capire che l’autore possiede ancora un buon margine di miglioramento.
L’uso delle proprie passioni come materiale su cui fondare i racconti è massiccio, non sempre condivisibile. La passione per il Giappone, per esempio, traspare in diverse occasioni ma spesso si manifesta con un fiorire di termini in lingua nipponica che possono solleticare un lettore a sua volta appassionato, ma confondere e annoiare chi non se ne intende. Un eccessivo, anche se innocente, sfoggio di erudizione all’interno di un’opera di narrativa non è mai una scelta felice.
Si passa da monologhi interiori a storie più convenzionali, in una ricerca di forme narrative che non si pone dei limiti. Alcune idee sono innovative, quasi sorprendenti. Altre danno l’idea di non essere state sviluppate a sufficienza e al termine della lettura lasciano l’impressione di qualcosa non perfettamente compiuto.
In generale, il gradimento risulta ondivago, ma non per questo negativo. Le storie di Massimiliano Malerba meritano la pubblicazione; hanno solo bisogno di un ulteriore lavoro di cesello.
La raccolta si apre con “All’alba”, una storia ambientata in un episodio chiave della storia giapponese e incentrata su un duello, un passaggio all’età adulta. Il guerriero scelto per tale duello, però, si rivelerà essere più che umano. La passione già citata per il Giappone si manifesta di nuovo, più avanti, con il racconto di pura fantascienza che dà il titolo alla raccolta: “L’ostinato silenzio delle stelle”. L’autore prova ad immaginare come e quanto i sogni di un uomo sotto sonno indotto, impegnato in una missione spaziale, possano sostituirsi alla sua vera vita e alle sue vere emozioni.
Un rapporto vagamente malsano con l’autorità emerge in due racconti, molto diversi fra loro. In “Il funzionario”, un uomo si confronta con colui che dovrà farlo morire, come previsto dalla legge. In “Il colloquio di lavoro”, invece, Malerba giostra con straordinaria bravura un colloquio come fosse un duello, in cui le parole e le forme retoriche sono le armi che spilleranno sangue.
“L’ombra” , “Nella notte assetata” e il racconto di chiusura “Corrispondenze” si fondano sui paradossi temporali, evidentemente un tema molto caro all’autore. “Le stelle d’inverno” parla del periodico ritrovamento di creature aliene, mentre “L’uomo lunare” è una spiritosa indagine giornalistica su un uomo che crede e ha fatto credere di aver posato piede sulla Luna.
Chiude la raccolta una breve intervista all’autore, per inquadrarne meglio i gusti e la personalità.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    20 Gennaio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Guerra di trincea

Trovo sempre encomiabili le iniziative volte a riportare l’attenzione sulle pagine più drammatiche e fin troppo spesso dimenticate della nostra Storia. Ancora di più, quando si tratta di offrire a una voce del passato la possibilità di comunicare a un pubblico più ampio, di raccontare le proprie vicissitudini, le esperienze vissute. Ho avuto il piacere e l’onore di lavorare per alcuni anni in un Museo della Memoria e sono particolarmente sensibile all’argomento.
Quanti di noi, in un cassetto o in qualche scatolone riposto in cantina o soffitta, conservano ancora i cimeli e le lettere dei nostri nonni e bisnonni, soldati di guerre che sembrano al contempo lontanissime negli anni e drammaticamente attuali?
Franco Garrone si concentra sul diario di un sopravvissuto alla Prima Guerra Mondiale, un Bombardiere del Re che ha trascorso gli anni dal 1916 al 1918 sul fronte a combattere contro gli austriaci e poi sul Caucaso, chiamato sul nuovo fronte per meriti di guerra. Il soldato Augusto Fantato tenne un diario dettagliato delle sue avventure, sfruttando al massimo l’istruzione elementare ricevuta, lasciando ai suoi nipoti un’eredità inestimabile di vita vissuta.
Scritto in stampatello e corredato di disegni e di numeri ben delineati, come per una passione nascosta per la gradevolezza grafica della pagina scritta, il diario di Fantato è rimasto per molti anni un semplice cimelio di famiglia, ma l’impegno di Garrone ne ha fatto un libro vero e proprio, intitolato “Un uomo a metà” ed edito da Edizioni Amande.
Il giovane Augusto, lasciati i campi per lavorare nelle ferrovie, ritorna a casa per vedere la madre spirare nel suo letto. Traumatizzato dal lutto, il ragazzo si licenzia e si arruola nell’Esercito, in totale disaccordo con il padre e gli amici. Il trauma è stato troppo forte e la perdita incolmabile gli ha instillato nell’animo la voglia di morire. Combattere per la Patria gli pare il modo migliore per farlo onorevolmente.
Di stanza alla caserma di Novara, Fantato si distingue durante l’addestramento per la propria mira. Una dolce simpatia per una ragazza del posto non mitiga le sue drastiche intenzioni ed essere scelto come Bombardiere del Re lo riempie d’orgoglio.
Inizia così la sua drammatica esperienza al fronte, ove viene a contatto con la morte e la disperazione. Il fato, però, sembra volerlo privare del destino che si è scelto. Piano piano, il suo cuore torna a vivere suo malgrado. Le lettere di Lisa, la morte di tutti i suoi ex-colleghi di lavoro, l’aver salvato e accudito due bambini scampati per miracolo a un bombardamento, gli restituiscono il valore della vita e lo portano a sperare nel futuro.
Il testo, strutturato come un racconto aperto rivolto al nipote, si conclude con la copia di alcune pagine del diario originale, che consiglio di non sfogliare pigramente ma di leggere con attenzione, per gustare la vera scrittura di Fantato, con gli errori ingenui e i termini desueti della sua epoca, commovente traccia del passato.
Per quanto abbia apprezzato l’idea e l’impegno profuso in questa iniziativa, resta qualche appunto da fare all’autore. Purtroppo la prosa scivola via con eccessiva velocità, consentendo ben poco di soffermarsi sugli avvenimenti e sui sentimenti del soldato Fantato. Per quanto un’operazione di pura inventiva sarebbe stata poco rispettosa, una maggiore analisi del diario avrebbe sicuramente offerto spunti per conferire più profondità alla narrazione.
Anche il linguaggio ha le sue pecche. Piuttosto spesso l’autore sceglie di mettere in bocca ai personaggi frasi troppo costruite per essere credibili. L’analisi della scrittura del soldato attesta che il giovane si esprimeva in maniera corrente, non con un linguaggio a volte troppo intellettuale. Inoltre, di quando in quando, l’autore utilizza alcuni termini in maniera impropria o imprecisa. Piccoli difetti che non fanno apprezzare appieno la lettura di questo testo; rimane comunque un bellissimo documento per tutti gli appassionati.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    05 Gennaio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Una definizione sfuggente

In un volume che è al contempo libro d’arte, compendio di citazioni letterarie, poetiche e filosofiche e saggio d’analisi di un concetto che definire sfuggente è poco, Umberto Eco tenta l’opera ardita di offrire al lettore, artista o meno che sia, una Storia della Bellezza.
Il concetto di “cosa è Bello” ha attraversato le epoche in una continua mutazione, seguendo i cambiamenti sociali e di pensiero. Il concetto di Bello, perciò, è lungi dall’essere immutabile e riassumibile in una sequenza di norme oggettivamente stabili. Bellezza è soggettività, per quanto molte correnti abbiano cercato di renderla asservita alle leggi della razionalità.
Ad aggiungere complicazione alla faccenda, il Bello in una determinata epoca è sempre stato lontano da una caratterizzazione univoca, come spesso ci viene insegnato a scuola. Le diverse arti e il pensiero filosofico hanno di sovente seguito strade e standard differenti pur nello stesso contesto sociale e storico, creando un mosaico non regolare di concetti e gusto tra cui è difficile districarsi.
Il volume “Storia della Bellezza”, edito da Bompiani, parte con il curare proprio l’estetica del prodotto editoriale. Un bel formato quadrato per un mattone di oltre quattrocento pagine in carta lucida, con immagini di alta qualità a colori per un prezzo accessibile. Un’ottima scelta, vista la considerevole mole di foto di opere d’arte che costella il saggio di Eco.
Il testo è diviso in capitoli che riassumono un periodo storico o una specifica corrente di pensiero, dall’antichità dell’epoca classica alla società dei mass-media del giorno d’oggi. Il linguaggio non è semplice, né i temi trattati sono alla portata di tutti, ma una lettura paziente e le numerosissime citazioni dalle fonti sono sufficienti a superare l’apparente ostacolo.
Quasi ogni autore o testo citato da Eco, infatti, trova il suo spazio in uno specchietto a fondo pagina, quando non cattura completamente la scena occupando più pagine di seguito. Questo consente di seguire con maggiore consapevolezza l’evolversi del discorso e offre spunti di approfondimento di grande interesse. Sono citati testi storici, scritti di importanti filosofi, ma anche brani di poeti e romanzieri che hanno affrontato i temi cardini dell’estetica del proprio tempo.
La cosa che salta all’occhio è che il genere umano si è quasi sempre barcamenato attraverso tre estremi, nel proprio gusto verso il Bello: la proporzione (razionalità pura), il movimento (l’imperfezione che crea attenzione e stimola la mente dell’osservatore), la decadenza (il fascino dell’orrido, della trasgressione, della morte).
Attraverso il lungo viaggio di Umberto Eco, queste tre facce si ripresentano più volte, non sempre pure e incontaminate, ma ciclicamente tese a imporsi sulla “visione” degli artisti e dei committenti. Un picco estremo in una di queste direzioni tende, dopo un certo periodo di tempo, a far vertere l’ago della bilancia su un altro estremo, come se avvenisse una sorta di “rivolta silenziosa” nei confronti di ciò che si sta imponendo come dogma.
Le cose si complicano con l’approssimarsi degli ultimi due capitoli, dedicati alla contemporaneità. Entrare nel XX secolo, e quindi nella società del consumismo e dei mass-media, disintegra ogni certezza su cosa sia Bello, in un mosaico apparentemente insensato di stili, idee, concetti e apparenze. La modernità ha sdoganato ogni possibile versione della Bellezza, facendo coesistere concetti anche diametralmente opposti, in una totale libertà di scelta e adesione a canoni dalla durata incerta (brevissima come illimitata).
Il “finale” del saggio vuole essere comunque costruttivo, ma alla sottoscritta lascia un po’ l’amaro in bocca. Quando tutto è Bello, niente è Bello. Quale sarà la nostra prossima strada?

Faccio presente che questo volume ha un gemello, “Storia della Bruttezza”. Da mettere subito in lista acquisti!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
131
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    05 Gennaio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Custodi del futuro

L’eccezionale scoperta di Riccardo Donati promette di essere anche la sua condanna. Conducendo nuovi studi su una copia del Roman de la Rose, il giovane insegnante scopre alcune righe autografe del grande Dante Alighieri. Il passo successivo è un impulso a cui non si può sottrarre: trafugare il manoscritto dalla biblioteca per poterlo studiare con maggiore calma e capire se il suo futuro sta per essere illuminato dalla luce radiosa di una scoperta fondamentale.
Purtroppo, questo atto dà il via al crollo della vita di Riccardo, che si vede dapprima seguito, quindi in pericolo di vita. Uomini sconosciuti gli stanno alle calcagna, probabilmente a causa delle terzine del sommo poeta. Sarà una donna, Agostina, a salvargli la vita e aiutarlo nella fuga, grazie a una rete di amiche molto speciali pronte a nasconderlo. L’importanza delle terzine, però, supera ogni previsione: si tratta nientemeno che di una profezia, vergata da Dante stesso, che ammonisce contro un’imminente catastrofe.
Questa, in breve, la trama di “Le terzine perdute di Dante”, scritto da Bianca Garavelli e pubblicato da Baldini&Castoldi. Il romanzo si articola in un alternarsi tra le vicende di Riccardo Donati al giorno d’oggi e la Parigi che ospita Dante durante il suo esilio da Firenze, quando viene in contatto con filosofie passabili d’eresia e prende il via la stesura dei messaggi più profondamente spirituali della sua Commedia.
Contrariamente a romanzi come il “Codice Da Vinci” di Brown, scanditi in un’alternanza da feuilleton che dopo un po’ perde di mordente, gli spostamenti dal presente al passato non si danno il cambio di capitolo in capitolo – se non nelle primissime fasi – ma seguono con più armonia il dipanarsi delle vicende narrate, legando le vicende di Riccardo a quelle dantesche.
L’autrice si muove con disinvoltura e palese amore all’interno del mondo di Dante Alighieri, immergendo il lettore in una Parigi antica e stimolante, fatta di dibattiti intellettuali, inquisizioni e scontri all’arma bianca. Il poeta si palesa come uomo toccato dal dono della visione e per questo ambito da ogni “fazione” del pensiero spirituale. Saranno le donne della sua vita, Beatrice e Marguerite Porete, a condurre Dante verso la missione cui è predestinato.
Il protagonista odierno, invece, è il prototipo dell’intellettuale, il topo di biblioteca a suo agio solo in mezzo ai libri, che si trova gettato nei peggiori guai della sua vita. Pavido, debole, fondato sul raziocinio ma labile di sentimento, Riccardo non è esattamente l’uomo ideale.
Non stupisce, quindi, che la sua guardia del corpo in questa storia dai ruoli invertiti sia proprio una donna. Sportiva, decisa, mascolina quando serve ma dotata di un fascino degno del suo sesso (che il protagonista faticherà parecchio a percepire), Agostina è l’angelo custode di Riccardo e lo tirerà costantemente fuori dai guai. Si scoprirà poi che l’amica di sempre altri non è che un membro della confraternita al femminile (i cui nomi iniziano tutti per A) che da sempre protegge il messaggio dantesco e combatte perché la terribile profezia non si avveri. La Ragione priva di sentimento, la corsa alla conoscenza a qualunque costo, diventa il nemico da combattere per evitare la distruzione.
La donna è figura centrale in questo romanzo, incarnazione angelica che conduce al divino e sprone in grado di consentire l’espressione di quanto di meglio si cela nell’animo e nella mente dell’uomo. Sia la congrega di donne che si stringe attorno a Riccardo per difendere lui e la sua incredibile scoperta, sia le due fanciulle che segnano la vita di Dante, consentono ai protagonisti di sbocciare, di trovare la loro via nel mondo.
La prosa attenta e concreta della Garavelli perde un po’ di tono in alcuni momenti di dialogo, più che altro nelle parentesi di Riccardo Donati. Di quando in quando, la parlata si fa un po’ artificiosa, poco spontanea. Inoltre, capita che Riccardo commetta imprudenze troppo palesi, con l’evidente intento di condurlo a determinati eventi della trama, cosa che avrebbe dovuto essere condotta con mezzi più sottili.
Un modo non banale di approcciare il mistero storico, condotto da una scrittrice che possiede una vasta cultura letteraria utilizzata senza autocelebrazione. Una scrittura alla portata di tutti, che apre le porte alle meraviglie celate nell’opera dantesca ai lettori di qualsiasi livello culturale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantasy
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Zine Opinione inserita da Zine    22 Dicembre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Passione senza moderazione

“Wolf’s Eyes” racconta la storia del giovane Stray, un italiano dal passato misterioso. Esperto di arti marziali e pratiche orientali, logorroico e simpatico appassionato di heavy metal, il ragazzo porta con sé i semi di un disastro planetario, ma ancora non lo sa. Il suo viaggio negli Stati Uniti, in una California che non lo accoglie esattamente a braccia aperte, gli porterà l’amore ma, soprattutto, la scoperta delle sue vere origini. Il potere risvegliato dentro di lui è però il veicolo dell’Apocalisse, una guerra divina iniziata prima che la memoria dell’Uomo potesse registrarla. Riuscirà a impedire la catastrofe e a salvare le persone a cui tiene?
La scrittura di Antonio Moliterni è acerba, ancora adolescenziale. Frequento il mondo delle fanfictions (storie scritte dai fans basate su fumetti/film/libri già esistenti) da molti anni, e il livello qualitativo medio nell’ambiente è proprio quello che ho ritrovato in questo libro. Una storia scritta con passione ma ben poca maestria.
Il lato positivo di questo romanzo è che è stato scritto con sincerità. E’ palese in ogni riga come l’autore ami la sua storia, la senta propria e la racconti senza artifici letterari, per il puro piacere di condividere la propria invenzione fantastica. Questo, purtroppo, non rende meno pesanti i difetti di “Wolf’s Eyes”.
La trama si fonda su cliché ormai conosciuti, benché sia interessante l’idea di creare una mitologia primordiale precedente la creazione del genere umano. I personaggi principali, per quanto simpatici, più che seguire la propria psicologia si piegano agli eventi per come li ha decisi l’autore. I personaggi corollari, poi, sono incarnazione di “tipi” talmente prevedibili da poter essere etichettati senza sforzo al primo incontro.
Gli errori sintattici sono molti e ingenui, e su questo punto la mia critica va anche all’editore, che non ha evidentemente fatto alcun lavoro di editing sul romanzo. Si nota anche dai numerosi segni di “a capo” rimasti in mezzo al testo dopo l’impaginazione finale e altri refusi sparsi qua e là.
I dialoghi oscillano pericolosamente tra due estremi che hanno ben poco a che spartire e che rendono frammentaria l’atmosfera di questo fantasy.
Nei momenti scanzonati, infatti, le battute si sprecano, in un insistere su un sense of humor molto personale che non avrebbe dovuto essere così imposto, in quanto non tutti i lettori possono viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda dell’autore, né aspettarsi ironia (per quanto simpatica) ogni volta che uno dei personaggi apre bocca. La storia è ambientata quasi per intero negli Stati Uniti d’America, ma il gergo, le frasi fatte e gli atteggiamenti sono decisamente italiani.
Quando l’autore abbandona il dialogo pungente e amichevole, si cade in una serietà da saggistica portata all’estremo. Il più grave difetto di questa storia, infatti, sta nell’uso che Moliterni fa delle proprie passioni, infilate a forza all’interno della trama. L’interesse per la matematica, per la statistica, per l’heavy metal, per il significato dei nomi, per le discipline orientali…Tutto è stato riversato nel romanzo come in un grande calderone.
Ora, lungi da me criticare la decisione di parlare di ciò che si sa. Ho sempre pensato che sia un’ottima strada da seguire, soprattutto per uno scrittore emergente, in quanto più facilmente darà sapore di verità alla sua prosa e concorrerà a farlo esprimere al meglio. C’è modo e modo di utilizzare le proprie passioni ai fini della storia, però, e Moliterni si concede il peggiore. Il protagonista, infatti, diventa un’enciclopedia vivente che ad ogni minima sollecitazione ambientale si lascia andare a filippiche lunghe pagine intere in cui sciorina con dovizia di particolari nozioni specifiche slegate dalla narrazione, anche se in parte applicate poi allo sviluppo della trama. Il fatto che persino i personaggi corollari lo prendano in giro per questo suo modo di fare, non aiuta a renderlo meno pesante.
Ingenuità di chi forse scrive per la prima volta e deve ancora fare molta esperienza come narratore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    18 Dicembre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Sia fatta la Sua volontà

La scrittura di Francesco Amato è più nera della copertina scelta dall’editore. Più torbida, fonda, brulicante di Male. E’ relativamente facile narrare l’orrore. Molto meno lo è renderlo plausibile, lasciare che vi si immerga la vita di tutti i giorni. Durante la nostra esistenza incontriamo ripetutamente situazioni e persone che vivono al limite di questo mondo di tenebra. Spesso superano addirittura il confine, eppure non ci soffermiamo, lasciamo che l’esperienza scivoli via senza toccare davvero i nostri sensi se non nel subconscio, dove crediamo di essere in grado di nascondere la polvere sotto al tappeto.
Eppure, se ci fermiamo a pensare, quanti episodi di quotidiana malvagità ci sfilano davanti agli occhi? Il pregio della narrazione letteraria è quello di costringerci a soffermarci anche su ciò che non desideriamo vedere, sui volti nascosti e sui pensieri reconditi che portano al caos, alla follia, alla morte. Amato ci getta in una pozza di sangue e pazzia e ci lascia immersi fino al collo per tutta la durata di “Compartimento 11” (Tullio Pironti Editore).
Con una encomiabile maestria, l’autore tratta argomenti difficili che presuppongono una riflessione preparatoria di elevata profondità. Il piccolo Daniele vive in un paese campano ancora impregnato dei riti e dei precetti del cattolicesimo, in una famiglia in cui la devozione profonda della madre si scontra con la possessione diabolica della nonna, una folle che cita a memoria passi biblici e che è stata protagonista di un impressionante esorcismo.
La morte della madre e un’esperienza umiliante gli faranno valicare il confine della follia e lo renderanno certo di essere destinato a compiere dei rituali di sangue per mondare (e mondarsi) dal peccato.
Non è dato sapere se le visioni del bambino, le voci che sente e la trasfigurazione degli eventi quotidiani dipendano da un reale contatto con piani “altri” oppure se si tratta di un manifestarsi della tara ereditata geneticamente dalla nonna impazzita. Fatto sta che il piccolo crea attorno a sé un mondo parallelo che lo allontana sempre più dalla realtà e che lo spinge ad addentrarsi in una tenebra fitta, continuamente nutrita dalle azioni orribili perpetrate dagli adulti che lo circondano (il lubrico Padre Boris, la madre gettatasi sulle rotaie, la folle legata al letto dal proprio marito perché non faccia del male a se stessa e agli altri).
Il valore del sangue quale veicolo del ciclo vita/morte e la sacralità del rito del sacrificio si radicano in Daniele in un’estasi religiosa, diversa dal godimento meramente sessuale del macellaio che lo introduce al piacere dell’uccidere ma ugualmente esaltata e pericolosa. Il momento del trapasso della vittima diventa omaggio a Dio e portale verso stati di trascendenza che possano dare un senso a un vivere già condannato, corrotto.
La narrazione si sposta avanti e indietro nel tempo, in un fluire sconnesso di ricordi. Ciononostante, la prosa pulita di Amato non cede alla confusione. L’intreccio è perfettamente impostato, senza momenti di incertezza o incongruenza.
Per tutto il romanzo rimane senza risposta certa l’identità dei compagni di ventura di Daniele, quella Compagnia Dannata – la Banda degli Angeli – che lui costituisce in orfanotrofio accanto a Isabel, Emma e Altro, altrimenti detto Il Copista. Un gruppo dedito a sacre missioni di sangue, ognuno dotato di una personalità ben definita e di un ruolo preciso. Persone reali? Fantasmi di una mente malata? Oppure molteplici facce di un’anima in pezzi?
Sarà il commissario Elio Tortora a dover dare una risposta a questi quesiti, più un attonito spettatore di un dramma troppo grande che un vero antagonista, sullo sfondo di una tratta ferroviaria che è diventata ormai parte delle vicende sanguinose del protagonista.
Un romanzo viscerale, che chiede di essere letto senza interruzioni. Una lettura sofferta, intelligente e spietata.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
4.4
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    12 Novembre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Il duro lavoro dell'attore

Il metodo Stanislavskij: tutti coloro che si sono avvicinati al teatro anche solo a livello amatoriale ne hanno sentito parlare. Moltissimi attori e registi si vantano di utilizzarlo, ma gran parte delle volte si tratta di un fraintendimento di ciò che chiede tale metodo. Non si tratta, infatti, della semplice, totale immedesimazione nel personaggio, come molti credono. Il metodo è composto da molte fasi, gran parte delle quali razionali e costruite a tavolino, che si uniscono a una ricerca dell’immedesimazione nella parte. E’ un percorso difficile e anche rischioso per la psiche dell’attore, che deve esercitare un grande controllo su se stesso.
Konstantin Stanislavskij nacque 150 anni fa in Russia e fin dall’infanzia fu educato al mondo teatrale e musicale. Attore e regista, non soddisfatto del manierismo che imperava nel teatro del suo tempo, si applicò per creare un metodo di lavoro alternativo, che portasse a una recitazione più “naturale”. Non disinvolta, ma volta a ricreare la realtà, senza artifici o esagerazioni innaturali. Scrisse due tomi in cui riassunse il suo pensiero sul teatro tramite lezioni: “Il lavoro dell’attore su se stesso” e “Il lavoro dell’attore sul personaggio”. I suoi insegnamenti confluirono nel metodo Strasberg dell’Actor Studio, che però travisò non poco il pensiero di Stanislavskij. A oggi, sono ben pochi coloro che possono affermare di usare davvero questo metodo.
Lo scopo dei due tomi è offrire uno scorcio su quello che dovrebbe essere il training di un attore secondo Stanislavskij, un percorso fatto di compiti ben precisi, recupero e utilizzo delle emozioni, totale consapevolezza di quanto avviene una volta sul palco.
“Il lavoro dell’attore su se stesso” è una sequenza di lezioni viste attraverso il punto di vista di un allievo, nuovo iscritto alla scuola. Il regista Arkadij Nikolaevic Torcov (che poi è Stanislavskij stesso) cercherà attraverso esercizi ben mirati ed esperienze a volte complesse di mostrare alla classe cosa si richiede ad un attore e quali sono le trappole a cui prestare attenzione.
La prima cosa che Stanislavskij ricerca, infatti, è la verità dell’interpretazione. Vero sentimento, vera intenzione. Niente manierismi né cliché, che trasudano finzione e costituiscono solo un codice artefatto che con la recitazione c’entra poco o nulla. Un conto è acquisire il mestiere ed essere in grado di replicare la medesima performance più e più volte con la stessa partecipazione; un altro è recitare in maniera meccanica e vuota, pensando solo a portare a casa il risultato.
Nella prima sequenza di lezioni, il lavoro di Stanislavskij si basa soprattutto su questo: verità d’azione e di sentimento. I temi trattati sono molteplici e cercano di dare voce a tutti i campi di lavoro dell’attore su se stesso che secondo Stanislavskij sono fondamentali.
Viene mostrata, ad esempio, la differenza tra una recitazione inutilmente enfatica e senza scopo e la stessa scena recitata con un obiettivo ben preciso. Si dà grande importanza alla stimolazione dell’immaginazione. Per un attore è fondamentale andare oltre ciò che è scritto sul copione. Occorre essere in grado di immaginare un prima e un dopo, un contesto, saper visualizzare quanto circonda il proprio personaggio.
Parla poi di due temi estremamente importante: il compito e “il magico se”. L’attore, in scena, non deve aggirarsi senza scopo. Esistono compiti psicologici e compiti fisici che vanno definiti fin dall’inizio. Questo non solo rende molto più efficace la recitazione in scena, ma costituisce anche un aiuto non indifferente per la memoria. Utilizzando il “…e se…” come stimolo alla creazione e visualizzando con precisioni i propri compiti in scena, l’attore stimola al contempo creatività e un piano d’azione che gli consenta di mantenere sempre la concentrazione oltre una certa soglia.
Viene stimolata la memoria emotiva. Un attore deve essere in grado di riportare alla mente sensazioni, emozioni e sentimenti che possono essergli utili nella costruzione del personaggio. Non è necessario aver vissuto le stesse esperienze di colui che si interpreta: basta trovare una chiave personale che metta l’attore sulla sua stessa lunghezza d’onda. L’emozione rievocata può diventare un danno per l’attore, se lasciata libera di esprimersi senza razionalità. L’attore deve sempre avere il controllo sulle proprie emozioni, per impedire che queste si manifestino in modo tale da rovinare la sua performance. L’attore è veicolo dell’emozione, non serve a nessuno che ne sia sopraffatto. Questo è il più grande fraintendimento a cui il concetto di immedesimazione può portare.
Il secondo volume è una raccolta di appunti più o meno codificati lasciati da Stanislavskij in forma non definitiva e segnano un’ulteriore evoluzione del suo pensiero, che conferisce maggiore importanza ai compiti fisici quali catalizzatori dell’immedesimazione psicologica. Vengono prese in esame alcune messe in scena, a volte sotto forma di lezione ed altre come flusso libero di pensieri.
Due letture essenziali per chi si occupa di teatro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    30 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Le due anime dei luna-park

Il primo, vero amore ha in sé un potere straordinario. Può riempirci di una gioia incontenibile, di sogni meravigliosi. E’ in grado di dare la forza di sopportare molti sacrifici pur di ottenere la felicità con la persona amata, ogni ostacolo può essere superato con la semplice tenacia. Allo stesso tempo, il primo amore può trasformarsi nel nostro peggior nemico. Se questo sentimento puro e potente viene improvvisamente svilito e il suo filo rosso viene tranciato dall’altra metà, ci si ritrova sperduti, feriti a morte, in balia di pensieri autodistruttivi.
Certe emozioni sono in grado di scuotere profondamente un adulto, figuriamoci un ragazzo alla sua prima, vera esperienza amorosa. Devin ha messo tutto se stesso in questo amore, solo per vedersi lasciare quasi con indifferenza. Ora, svuotato e sconvolto, privato di tutti i suoi progetti per il futuro, il ragazzo ha un gran bisogno di ritrovare la voglia di vivere e di sanare le proprie ferite. Cosa può esserci di meglio che andare a lavorare in un parco di divertimenti, dove il prodotto più venduto è proprio la felicità?
King ha una passione per i luna park. A parte la maschera di clown di It, incubo tra i più vividi creati dall’autore americano, ricordiamo emblematica anche la piccola giostra che fa da sfondo nel prologo de “Il talismano” o l’appuntamento del protagonista di “La zona morta” con la fidanzata, appena prima dell’incidente che cambierà la sua esistenza. Il parco di divertimenti è un luogo liminare, dove l’allegria e il gioco vivono in una dimensione a metà tra il sentimento spontaneo e il business. Chi vi lavora è al servizio della gente e al contempo si approfitta della credulità e delle mani bucate del visitatore.
Fidarsi o non fidarsi del magico mondo colorato che promette tanto divertimento? Questo ambiguo sentimento, già evidenziato da scrittori come Ray Bradbury (non a caso, a sua volta legato ai temi dell’infanzia e all’ambivalenza del mercato legato al divertimento e al gioco), conferisce all’ambientazione di questo romanzo un’aria decadente e di incerto equilibrio che ben si adatta con lo stato d’animo del giovane protagonista.
Devin viene a conoscere entrambi i volti di un luna park: sia la sua versione estiva, piena di gente, musica e di frenetico lavoro allo scopo di divertire, sia il volto invernale, fatto di silenzio spettrale, duro lavoro di manutenzione e attesa. Questo coincide con i due aspetti del suo sentimento, a ben guardare. Dapprima tutto sembra luminoso e gaio, benché pervaso da una sottile sensazione di forzatura; quando la maschera gioiosa cade, rimangono solo solitudine e desolazione.
Per quanto sia fondamentalmente una storia basata sull’amore adolescenziale e sulla crescita, King non si fa mancare quella nota paranormale che l’ha caratterizzato durante la sua produzione letteraria. Nel caso di Joyland, esso si manifesta nel mondo tangibile tramite tre canali.
Il primo è una chiromante di dubbia capacità, lavorante a Joyland, che però sarà in grado di mettere in guarda Devin da alcuni incontri e situazioni che condizioneranno il suo futuro. Il secondo è incarnato in un bambino, malato, residente con la giovane madre in una casa sulla spiaggia, lungo la via per Joyland. Il bambino è molto più adulto della sua età, consapevole della propria morte imminente e dotato della capacità di vedere nei pensieri altrui e di scorgere ciò che esiste su livelli diversi da quello terreno. Il suo coraggio e la sua amicizia saranno fondamentali per Devin.
Il terzo canale è quello che ha fatto sperare ai più che il racconto vertesse sull’horror: a Joyland c’è un fantasma. Non si tratta di una leggenda, c’è davvero! Una giovane donna, uccisa da un misterioso killer all’interno del Trenino dei Fantasmi, ancora intrappolata dopo la morte all’interno della giostra.
Queste incursioni nel paranormale, però, sono molto delicate, quasi un corollario alla storia di Devin. King dà molta più importanza ai suoi sentimenti, al legame con Joyland, con il bambino e alla presa di coscienza che è necessario andare avanti anche quando si crede di non avere più voglia di vivere. Un finale forse un po’ affrettato porta a svelare anche l’oscuro mistero che si cela dietro al parco di divertimenti che per un anno gli ha fatto da casa.
Un King ispirato, anche se il binario non è quello dell’horror. Un bel romanzo, dolce e avvolgente come un abbraccio.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    27 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La Porta tra due mondi

I diari di viaggio sono un genere poco gettonato, in questo periodo, ma personalmente li ho sempre amati. Non solo ti portano in luoghi lontani; ti avvicinano all’anima di individui che non conosci. Ti permettono di accostarti alla loro esperienza personale, alle loro avventure come alle domande e ai pensieri che nascono durante esperienze vissute tanto lontano da casa. Da essi si può imparare qualcosa, o trovare spunti di riflessione anche importanti.
Il viaggio fatto da soli non funziona come fuga dal nostro quotidiano, dai problemi che ci assillano, ma offre la possibilità di valutarli e ragionarci sopra da un punto di vista più calmo, oggettivo. Un viaggio può aiutare a trovare soluzioni, a conoscersi meglio attraverso il nuovo che ci circonda, a dipanare quei nodi che le abitudini hanno intrecciato dentro di noi.
In “La mia Istanbul” di Francesca Pacini, edito con Edizioni Ponte Sisto, ho trovato il connubio desiderato di bella prosa ed esperienza di viaggio, verità dei fatti e cammino spirituale. La scrittrice non solo dipinge a tinte vivide una città che è diventata la sua meta d’elezione, una seconda casa che non cessa mai di affascinarla e arricchirla, ma ci permette di accostarci a temi che oggi sono di estrema attualità e che ci vengono proposti senza il filtro dei pregiudizi occidentali: la società moderata musulmana, il ruolo e le abitudini delle donne, la cultura islamica in generale.
Una prosa a tratti onirica, ogni capitolo è un dipinto realizzato usando le parole come colori. L’amore di Francesca Pacini per ciò che descrive e per il suo viaggio – dell’anima e del pensiero, oltre che del corpo - è palpabile in ogni frase e le restituisce quell’afflato di sincerità che il lettore non può che apprezzare, godendosi la proprietà di linguaggio e la sua musicalità non solo nel piacere della bella scrittura ma godendo dello sforzo – non artificioso – di rendere con le parole più adatte, gli accenti migliori, ciò che è stato veramente visto, respirato, gustato. Soprattutto, amato.
Istanbul, per sua natura, è un ponte tra Occidente e Oriente, un luogo liminare ove si uniscono due continenti, da una parte e dall’altra di un braccio di mare che ha visto accadere innumerevoli gesta degli uomini. Come tale, conserva in sé numerose contraddizioni e mostra al visitatore sia la sua parte musulmana tradizionale che quella più spregiudicata e godereccia dei quartieri del divertimento. Occorre capirne entrambi i volti per entrare nell’atmosfera di questa città magica, ricchissima di Storia e segnata da sanguinose battaglie.
Ogni parentesi di questa esperienza crea un momento di meditazione, dà forma a una domanda su cui sarebbe il caso di fermarsi a riflettere per il tempo necessario ad aprire la mente a diverse forme di pensiero, a culture differenti. L’odio e l’incapacità di accettare le altrui abitudini derivano soprattutto da una cecità radicata dalla convinzione che il proprio modo di vivere sia il solo a poter essere etichettato come “giusto”. La Pacini si avvicina alla realtà musulmana con la mente aperta, senza rinnegare le proprie tradizioni ma disponibile a cercare di comprendere quelle altrui.
Riveste per lei grande significato la possibilità di approcciare un nuovo modo di concepire e vivere la femminilità, senza intenti polemici ma in un’analisi personale di ciò che è diventato il corpo della donna nella cultura occidentale e la valenza che riveste invece nella cultura musulmana. Come sempre, ciò che non si ha possiede un fascino tentatore. Per le musulmane, il desiderio di una maggiore libertà di costume. Per la donna occidentale senza pregiudizi, un ritorno a quel minimo di pudicizia, di consapevolezza delle differenze oggettive tra uomo e donna e quel rispetto reciproco senza ostentazione del corpo che le lotte femministe hanno travisato e cancellato, andando oltre gli intenti iniziali e appiattendo, in qualche modo, la figura della donna.
La mistica sufi riveste un ruolo essenziale nell’attrarre costantemente la Pacini a Istanbul. Il fuoco interiore dei dervisci, la loro danza che unisce al trascendente e supera le leggi della materia, conserva per lei un’importanza fondamentale, conducendola – insieme ai riti dell’hammam – a percepire una dimensione spirituale più ampia, lontana dal tran-tran frenetico del mondo materiale.
Il contatto con le povere ma dignitose famiglie curde, con modi di vivere tradizionali e con donne tentate dall’Occidente, le interminabili camminate lungo le strade sempre imprevedibili di Istanbul, conducono Francesca Pacini – e noi con lei – in un viaggio di sogno, un’esperienza che disgrega e rinnova, in un tentativo riuscito di mettere in parole un’affinità elettiva.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
Zine Opinione inserita da Zine    23 Ottobre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Saga genetica

Il DNA è un acido nucleico contenuto, per l’appunto, nel nucleo delle cellule. Esso contiene la completa sequenza genetica di ogni essere vivente. Formato da due nucleotidi a doppia elica, si compone di gruppi fosforici, uno zucchero a cinque atomi di carbonio (il desossiribosio) e quattro diversi tipi di basi azotate, in grado di “incastrarsi” come chiave e serratura a coppie ben precise: adenina con timina, citosina con guanina. Dalla sequenza di incastri tra queste basi nascono le informazioni genetiche che danno all’individuo le caratteristiche basilari della sua specie e quelle personali che lo differenziano da chiunque altro.
Il DNA è un mistero potente e un’arma potenzialmente pericolosa, un miracolo che non cessa di stupire. Può servire a guarire malattie e a conservare specie in via d’estinzione come può costituire un mezzo di controllo sociale terrificante. Non stupisce che sia diventato motore di numerose fantasie letterarie. Il romanzo – o meglio, raccolta di racconti legati tra loro - che vado a presentarvi, fa della manipolazione del DNA il suo tema portante.
“DNA” di Rodolfo Viezzer, autore de “L’Uovo” che ho recensito qualche tempo fa, è edito in Italia con Aracne Editore. Racconti che inizialmente sembrano slegati l’uno dall’altro, tenendo la manipolazione del DNA come unica cifra d’unione, vanno pian piano assemblandosi in una narrazione univoca, in una storia completa vista attraverso molti occhi.
Nel primo racconto, si assiste all’efferato omicidio di un bambino. Solo le tracce di DNA scoperte sul giocattolo che portava con sé potrebbero dare indizi sull’identità dell’assassino. Le indagini della polizia vanno a intrecciarsi alla ricerca genetica di una scienziata cinese e porteranno a scoprire un triste segreto e ad un commovente atto d’amore.
Il secondo si immerge in un immaginario futuro in cui si è instaurato un nuovo regime autoritario con mire di conquista e controllo del mondo. L’arma definitiva, silenziosa e micidiale, consiste in un micro-ritrovato della tecnica installato nei corpi umani su scala mondiale e in grado di dare morte istantanea con la sola attivazione a base genetica. Le armi, però, sono sempre a doppio taglio…
La terza storia è una finestra su una piccola comunità gioiosa, che ha lasciato un mondo in guerra, grigio e diviso in caste ben precise, per trasferirsi su un altopiano lontano da tutto e tutti e vivere in pace, a contatto con la natura. Tutti sanno, però, che la magia potrebbe finire in qualsiasi momento. Se venissero scoperti, avrebbero solo due scelte: o rientrare nella schema sociale, o fuggire.
Nel quarto racconto, si scopre che i potenti della Terra hanno trovato modo di clonare se stessi per ottenere il potere, anche se i risultati non sono ancora ottimali e le grandi menti rischiano il cortocircuito. Nel successivo, una privilegiata che perde il suo status e viene esiliata in mezzo ai Verdi (la plebe condannata al lavoro), scopre che la vita vera è molto diversa dall’esistenza meccanica e liofilizzata che ha sempre vissuto e l’esperienza si trasforma in una corsa verso la libertà.
La sesta parentesi vede di nuovo protagonisti i cloni dei governanti, ormai attivi in più copie per volta, unire le forze per creare un super-dittatore. Nell’ultimo racconto, si assiste alla ricerca della città dei rifugiati, ormai diventata una specie di leggenda.
Purtroppo, contrariamente a “L’Uovo”, in questo caso Viezzer non riesce a centrare il bersaglio. Le sue idee sono ottime, molto vivide e interessanti. Non c’è banalità nei processi che lo portano a costruire le trame dei suoi racconti. I temi sono importanti, profondi, vanno a scavare nella psiche umana e nei meccanismi sociali, mischiando alla letteratura una denuncia della decadenza che caratterizza il consumismo e della tendenza mai sopita all’autoritarismo.
Proprio per questo motivo, però, la forma racconto diventa un’arma a doppio taglio. Le trame sono di troppo ampio respiro per essere contenute in così poche pagine. Ne risulta una trattazione affrettata, un rincorrersi di avvenimenti troppo celere che lascia disorientati e spesso insoddisfatti. Cose che avrebbero bisogno di quaranta pagine per essere espresse vengono concentrate in cinque. Questo taglia le gambe a una possibile affezione ai personaggi e non permette di soffermarsi a riflettere per un tempo congruo sugli argomenti sollevati.
Inoltre le pecche grammaticali e sintattiche sono molte, c’è un uso smodato del punto esclamativo e i dialoghi sono artificiali; queste caratteristiche vanno ulteriormente a rovinare l’effetto generale della raccolta.
Un vero peccato: i semi erano di ottima qualità, ma la pianta è cresciuta debole.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Zine Opinione inserita da Zine    24 Settembre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Troppa carne al fuoco

“L’isola dei monaci senza nome” narra le vicende del giovane Cristiano d’Hercole, figlio di una donna cristiana e di un pirata musulmano, che passa per essere custode di un segreto in grado di mettere in crisi la cristianità. Il giovane ignaro sarà edotto dal padre Sinan solo al momento della morte di quest’ultimo, durante un’incursione volta a rapirlo. Egli abbandona il nome cristiano, torna alla vecchia religione e si imbarca alla ricerca del segreto paterno, animato più da vendetta che altro, legato volente o nolente a grandi nomi storici e alle tensioni fra Occidente e Oriente.
Chi sarà il primo ad arrivare al grande segreto, al Rex Deus? Riuscirà il giovane Sinan ad avere la sua vendetta e l’amore della bella Isabel de Vega, della quale è invaghito?
Purtroppo, quando un genere invade il mercato, decidere di scrivere un romanzo che appartenga a quella famiglia diventa rischioso. In primo luogo, avviene un’inflazione dei temi portanti che già di suo può condurre a noia il lettore assiduo. In secondo luogo, la prevedibile comparazione con altri romanzi dello stesso genere chiede un livello qualitativo medio-alto per poter soddisfare gli appassionati.
Simoni non raggiunge questo risultato. La sua proprietà di linguaggio non basta a mascherare la scarsa profondità dei personaggi e la pretestuosità della trama, che diventa un coacervo di rimandi ai temi più inflazionati del mistero storico: i Templari, il Sator, le sette segrete, i catari…
Tutto ruota attorno a questo “segreto”. Veniamo catapultati nelle sue spire fin dal principio, senza introduzione, senza possibilità di trovare più aree di interesse nella nostra lettura. Tutto e tutti si muovono in funzione del segreto che distruggerà dalle fondamenta la religione cristiana. La cosa riesce a farsi un tantino snervante già dopo cinquanta pagine, perché i continui rimandi con frasi a effetto lasciano comunque il lettore all’oscuro in un continuo stuzzicare senza offrirsi, come una carota che continui a oscillare davanti al nostro naso: tentiamo di morderla finché non cominciamo a perdere interesse.
La prosa di Simoni è stilisticamente molto buona, chiara e precisa. E’ la sua capacità narrativa che presenta delle pecche. I suoi personaggi sono molto bidimensionali. Ci vengono presentati sotto una certa ottica, mossi da determinate intenzioni e guidati da sentimenti ben precisi, e tali rimangono per tutta la durata del romanzo. Non ci sono parentesi che possano creare un’affezione verso coloro di cui si seguono le avventure e manca totalmente una crescita psicologica che conferisca loro maggiore spessore. Il giovane Cristiano/Sinan passa in poche pagine da insicuro figlio adottivo del Signore di Piombino a spietato corsaro vendicativo, uso a ogni arma, alla navigazione e all’arte dell’intrigo come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita.
Inoltre l’erudizione storica dell’autore si manifesta nel modo peggiore, vale a dire con una sequela ininterrotta di termini specifici inerenti l’arte della navigazione, l’abbigliamento, le armi e le istituzioni religiose e di governo che possono risultare ostiche al lettore medio e non danno nulla di più alla storia in sé, conferendole anzi una certa aria da saggio storico non particolarmente piacevole. Non vi sono descrizioni chilometriche, questo no, ma il tono complessivo dà l’idea di rivolgersi a un pubblico con un elevato livello di istruzione umanistica, contrariamente al tema e alla promozione della casa editrice, pensata invece per la massa.
Un romanzo d’avventura non particolarmente riuscito.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Solo a chi è profondamente appassionato di storia della pirateria
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    14 Settembre, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Nei panni di un bandito

“Per interposta persona – Il ritorno del Passatore”, edito da Italic, narra le rocambolesche vicende di un giovane romagnolo che, a causa di una perfetta omonimia con il bandito ottocentesco Stefano Pelloni (citato anche da Pascoli in “Romagna”, che l’autore ha omaggiato all’inizio del libro), con il tempo finisce per credersi la sua reincarnazione e avvia una carriera di ladro scaltro e vendicativo, prendendosi con la forza quelle soddisfazioni che la vita gli ha negato.
A mettergli i bastoni fra le ruote, un uomo non meno intelligente di lui: l’ispettore Randello, convinto della colpevolezza di Pelloni fin dal principio della sua carriera di ladro, gli starà sempre addosso per approfittare della prima sbavatura nei suoi piani e sbatterlo in galera.
Questo nuovo Passatore, pur con le sue ingegnose parentesi criminali, conserva in realtà un’ingenuità che fa quasi tenerezza. Abituato a vivere in estrema povertà, cresciuto senza davvero conoscere gli affetti familiari, ha un rapporto sbagliato sia con il denaro che con il suo prossimo, gentil sesso in testa.
La maschera del Passatore gli offre inaspettatamente un modo per rapportarsi con il mondo da vincitore, invece che da vinto. Gli dà il coraggio di tentare bizzarre avventure amorose, lo spinge alla rivalsa verso coloro che ostentano il proprio denaro. Lo fa sentire potente, imprendibile, finalmente in grado di confrontarsi con il mondo da una posizione di superiorità. L’anonimato del lavoro al bar gli torna utile e si prende le sue soddisfazioni materiali con una certa parsimonia, tutto sommato.
La fame di sfide, però, lo porta a rischiare sempre di più e sempre più spesso, pur sapendo di avere un mastino alle calcagna (e in questo il ladro si eleva nel rispettare profondamente il proprio avversario “dalla parte della legge”). Forse c’è un inconscio desiderio di essere fermato, tanto da sbandierare il proprio soprannome agli ultimi rapinati, come lasciando un biglietto da visita ad uso e consumo dell’ispettore Randello. Una personalità vera e vivace, profondamente italiana.
Venturini trova nella scrittura in prima persona una forma narrativa che gli è congeniale e che valorizza la territorialità della parlata, pur senza volute insistenze sul gergo dialettale e con la premura di fornire spiegazioni dei termini locali quando utilizzati. Il tutto, però, inserito con eleganza nella narrazione stessa, senza note a piè di pagina.
Molti dei difetti presenti ne “Il ritorno degli Dei” qui scompaiono del tutto, palesando una maturazione dello scrittore e una pregevole attenzione dell’editore per il prodotto. A una trama valida e interessante, infatti, Venturini aggiunge una prosa senza difetti sintattici o refusi di stampa, permettendo finalmente una lettura scorrevole che consente al lettore di godersi senza ostacoli le trovate dell’autore e le vicissitudini di questo particolare protagonista.
Dalla prosa di Venturini emerge un amore tutto italiano per il cibo. Pur senza diventare parossistico, il piacere della buona tavola traspare dalle righe – mai mancanti – che descrivono i pasti dei personaggi, un soffermarsi che con poche parole sa risvegliare il senso del gusto e renderci partecipi di questa esaltazione per il gusto e la vista.
Altra trovata interessante, la sfilata di personaggi che frequentano il bar di Pelloni e che costituiscono uno sfaccettato spaccato di umanità nostrana. Dal professore di fisica al venditore di gioielli, dall’impiegato di banca al beghino affetto da cleptomania, dalla ragazza con mire di convivenza alla donna volgare e subdola che tenta ogni uomo che entra nel locale. Ognuno di loro ha qualcosa da dire, il proprio contributo da dare. Spesso il giovane criminale parla citando i propri clienti, che hanno sempre qualcosa da insegnargli, qualche perla di saggezza o sapienza con cui arricchire la propria cultura.
Una lettura davvero piacevole, una bella conferma del talento di Massimiliano Venturini.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    26 Agosto, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Antichi miti sulla riviera adriatica

“Il ritorno degli Dei” di Massimiliano Venturini, edito da Il Ponte Vecchio, è un connubio non comune di giallo all’italiana e fantascienza, condito con un pizzico di cospirazione internazionale e un palese amore per l’arte.
L’ispettore Raul, appassionato di archeologia, viene chiamato d’urgenza a causa di alcuni misteriosi omicidi avvenuti nelle valli di Comacchio. Le vittime sono state ritrovate sepolte o affogate, con la testa avvolta in una rete da pesca e un reperto di matrice greco antica ficcato in bocca. Gli indizi sono pochissimi, la collaborazione della gente del posto verso un ispettore che proviene dalla riviera romagnola molto scarsa e Raul si trova a dover utilizzare spesso metodi poco ortodossi per cercare di districarsi in questa complicata faccenda.
Quando, finalmente, qualche informazione riesce a trapelare, Raul scopre di essere finito dentro una catena di eventi molto più grandi di lui. Tra società segrete greche, antiche aspirazioni naziste e reperti sorprendenti, Raul si troverà a fronteggiare il più grande segreto della Storia umana.
Dare un giudizio univoco su questo romanzo è difficile, in quanto il prodotto letterario riunisce in sé parecchi pregi e altrettanti difetti, rendendo complesso trovare un sistema di valutazione che riesca a tenere conto di entrambi.
Partiamo dai pregi. Venturini costruisce un giallo all’interno di un contesto prettamente italiano. Per quasi tutto il romanzo non si ravvisa alcun intento di scimmiottare romanzi e telefilm americani, che possiedono uno stile peculiare per ciò che concerne indagini di polizia, omicidi e mistero. Se ne sono letti e visti troppi per poter sopportare una brutta copia di matrice italiana. Venturini non cade nel tranello e ci presenta il territorio della riviera con tutta la sua quotidiana normalità. I personaggi sono italiani al cento per cento, rustici e un po’ maneggioni, sempre pronti a vivere in un limbo fra la legalità e i propri interessi.
Gli sforzi per creare un giallo tutto italiano sono evidenti e apprezzabili per un genere che sta ritagliandosi la sua buona fetta di mercato editoriale.
Il protagonista è non convenzionale. Venturini non fa nulla per mitigarne l’arroganza e la tendenza ad aggirare la legge per i propri comodi, creando un uomo plausibile e antipatico le cui vicissitudini si seguono volentieri, forse proprio perché non viene richiesto al lettore di partecipare emotivamente alle sue vicende.
Il fantastico fa il suo ingresso con un tema non nuovo ma inaspettato vista l’ambientazione “casalinga”: il decimo pianeta e la stirpe di divinità – forse aliena – che fece dell’Uomo un essere in grado di evolversi in civiltà progredite. Inoltre Venturini incentra gran parte della storia sul mondo dell’archeologia, parlandone con perizia e offrendo maggiore spessore intellettuale alla trama.
I tasti dolenti, purtroppo, inficiano la possibilità di una lettura scorrevole e godibile fino alla fine. In primis, l’autore e l’editore non hanno controllato a dovere le bozze prima della stampa. L’uso della punteggiatura è spesso errato; sono presenti parecchie ripetizioni e refusi che danno la sensazione di doversi impegnare in una corsa a ostacoli. Questo è un peccato, perché il lessico di Venturini è, al contrario, non scontato e molto gradevole.
I rapporti uomo-donna sono stereotipati, poco credibili, nonostante la giustificazione del carattere poco espansivo del protagonista. Di quando in quando, inoltre, le informazioni storiche elargite dall’autore diventano vere e proprie parentesi esplicative che sanno di saggio e risultano eccessivamente slegate dalla narrazione.
Il vero problema del romanzo, a parte gli errori, è il finale, accelerato fino allo spasimo e strappato alla radice italiana per cercare di tirare le fila della troppa carne messa sul fuoco, una sorta di trasformazione in film d’azione con conclusione pre-apocalittica. La filippica finale del protagonista esprime troppo palesemente i pensieri dell’autore in merito ai temi trattati e risulta fuori luogo.
“Il ritorno degli Dei” sarebbe molto più godibile dopo una decisa correzione delle bozze. Venturini, comunque, ha il talento di creare trame interessanti, che stanno scomparendo dal mercato. Un autore a cui dare un’altra possibilità.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    23 Agosto, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Epidemia dell'orrore

“Ring”, prima di diventare un fenomeno cinematografico di primaria rilevanza sia in patria sia negli Stati Uniti (con un remake che fa acqua da tutte le parti), è un inquietante e innovativo romanzo dell’orrore scritto da Koji Suzuki, pubblicato in Italia da Nord nel 2003.
Tutto comincia con la morte misteriosa di alcuni ragazzi. Il giornalista Asakawa, zio di una delle vittime, si imbatte per caso negli strani dettagli che uniscono i quattro decessi in maniera sospetta: tutti i ragazzi sono morti alla stessa ora per quello che il medico legale ha giudicato come arresto cardiaco improvviso. Inoltre, i giovani si conoscevano e frequentavano al di fuori della scuola.
L’istinto di giornalista di Asakawa lo spinge a indagare su questa vicenda e lo porta a recarsi nel luogo dell’ultima gita del gruppo di amici, una struttura di vacanza e svago in una località di montagna. Là, cercando indizi, trova un’inquietante videocassetta.
Il video, formato da immagini apparentemente innocue eppure capaci di scombussolarlo, termina con una maledizione: chi ha visto la cassetta morirà entro sette giorni, a meno che…Fine. Il resto del messaggio è stato cancellato. Asakawa non può prendere sottogamba la minaccia insita in quelle poche parole, classificandole come un macabro scherzo. Dopotutto, gli ultimi ad aver visto il video sono morti davvero!
In preda al panico per la mancanza di indizi su cosa fare per salvarsi, Asakawa coinvolge nella sua indagine l’amico Ryuji, scienziato e filosofo, un uomo dalle abitudini torbide e la mente acuta che guarda il video di sua volontà e trascina l’amico terrorizzato nella ricerca di colei che ha creato quel filmato con la sola forza dei propri poteri psichici: la bellissima Sadako, morta molti anni prima in circostanze misteriose.
Forse, ritrovare il corpo di Sadako e darle sepoltura annullerà la maledizione. Oppure no?
Narrata con una prosa fresca, senza fronzoli, fatta di frasi dirette e concise, la storia si dipana in una corsa contro il tempo, seguendo il crescendo d’ansia del protagonista e svelando senza false ipocrisie gli anfratti più bui e vergognosi della psiche umana.
C’è poco da simpatizzare sia con Asakawa che con Ryuji, il primo pusillanime e pronto a cedere al panico in ogni momento, il secondo sgradevole e cinico anche di fronte alla morte. Eppure, questi due amici sono pur sempre il baluardo di un’umanità che è minacciata dal Male incombente e in quanto tali sanno offrire scorci inaspettati di una profondità di sentimenti che li redime e li fa eroi di una battaglia impari.
L’innovazione nel romanzo di Suzuki risiede nella commistione tra i cliché dell’horror propriamente detto – fatto di maledizioni, morti orribili e macabri ritrovamenti – con il più sottile sintomo di inquietudine dato dai misteri della scienza e dalla malattia, flagello che le spiegazioni mediche non hanno potuto eliminare dal novero delle cose più terrificanti che possano capitare a un essere umano.
Come fanno notare gli stessi protagonisti del romanzo durante una discussione, i virus sono esseri naturali, eppure completamente alieni. Pare si siano sviluppati da geni cellulari pervertiti, eppure sono i peggiori nemici di un organismo vivente. Intelligenze aliene, assassini con una capacità di sviluppo, riproduzione e adattamento incredibile. Questi aspetti, replicati dallo spirito rancoroso di una ragazza morta che vuole vendicarsi sul genere umano, danno vita a un orrore senza precedenti, da cui nessuno può ritenersi al sicuro.
Questo aspetto della storia viene completamente cancellato nella versione americana, snaturando la trama e facendola diventare una semplice sequela di scene “ad effetto”, l’orrore fine a se stesso senza capo né coda. La storia continua con altri due romanzi, “Spiral” e “Loop”. Buona lettura!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    18 Luglio, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La sapienza universale

La sete di conoscenza è uno dei tratti distintivi della mente umana. Per ottenere la Conoscenza e il potere che ne deriva, gli uomini hanno sorpassato i propri limiti, hanno scatenato guerre e messo in discussione religioni. Adamo ed Eva, nella tradizione veterotestamentaria, sono stati cacciati dal Paradiso Terrestre per aver assaggiato indebitamente dall’Albero della Conoscenza.
Esiste (nella realtà, non solo nella finzione letteraria) un testo misterioso e affascinante chiamato Codex Gigas. Esso è un manoscritto illustrato di immani dimensioni, redatto nelle vicinanze di Praga da un monaco penitente (probabilmente attraverso venti e più anni di lavoro), entrato nella multiforme collezione dell’imperatore alchimista di Praga, Rodolfo II d’Asburgo, e passato successivamente nella mani degli svedesi durante la Guerra dei Trent’Anni.
Il testo si poneva l’ambizioso, quasi eretico proposito di racchiudere in un singolo testo l’intero scibile della conoscenza umana ed è famoso per una peculiare illustrazione del demonio, accompagnata da alcune pagine scurite in maniera misteriosa, cosa che ha dato origine al nomignolo “Bibbia del Diavolo”.
E’ da questa curiosità storico-artistica e dal desiderio di narrare un periodo ben definito dell’Impero Asburgico che nasce “La Bibbia del Diavolo” di Richard Dübell, edito in Italia da Piemme, a metà tra il romanzo storico e il mistery esoterico. L’autore confessa che, in origine, il suo scopo era narrare del controverso sovrano che fece di Praga la capitale della magia, dell’alchimia e dell’astrologia, passando alla Storia come un collezionista maniacale (celeberrima la sua Wunderkammer, le cui meraviglie sono ormai sparse un po’ in tutta Europa) e un pessimo governante. Si è trovato, alla fine, a contare maggiormente sui personaggi nati dalla sua fantasia, i quali però si muovono in un mondo realmente esistito, a fianco di personaggi di indubbia valenza storica, politica e religiosa.
La Bibbia del Diavolo, scritta da un monaco penitente che ha stipulato un patto col demonio, è un terribile concentrato di conoscenza volta al Male. Esiste un Ordine di monaci il cui compito è custodirla e nasconderla a chiunque, anche in seno alla Chiesa stessa. I giovani Agnes, Cyprian e Andrej, ognuno per propri motivi, vengono coinvolti nella lotta sanguinosa per il possesso di questo codice, trovandosi infine a combattere insieme per la propria vita e affinché esso non cada nelle mani delle anime traviate che lo stanno cercando per utilizzarne l’infinito potere.
La prosa di Richard Dübell è estremamente piacevole, immediata, senza né fronzoli né tentativi di educare il lettore offrendogli dettagli storici a mucchi, bensì inserendo una panoramica della situazione sociale e territoriale legata al progredire della trama, che rimane centrale e mai messa da parte a favore di lunghe descrizioni. Questo porta a conoscere l’Impero e il clima della Controriforma in modo progressivo, mai invadente, come se si narrasse di un qualunque mondo fantastico da scoprire poco a poco e non di un periodo storico da insegnare come se si fosse a scuola.
I dialoghi sono molto spontanei, vivaci, decisamente moderni, senza alcun tentativo di renderli più ricercati o arzigogolati nell’illusione di offrire in tal modo la sensazione di trovarsi in un passato lontano. Questo permette un’affezione immediata ai personaggi, senza alcuna barriera dovuta alla lontananza temporale e culturale.
Una particolarità di Dübell è nel suo suggerire più volte gli avvenimenti, invece di raccontarci ogni singolo istante. Spesso la vicenda si dipana per episodi, con parentesi di silenzio su ciò che è accaduto nel frattempo; di questi avvenimenti non narrati si ha notizia tramite accenni successivi. Questo modo di raccontare può non essere gradito a chi è abituato a seguire una narrazione lineare e dettagliata, ma possiede un suo fascino (pare di seguire un testo teatrale, che ovviamente pone l’attenzione solo sui fatti salienti della vicenda, o i frammenti di un sogno). Anche l’ormai abusato tema delle oscure trame di alcuni rami della Chiesa Cattolica non risulta troppo fastidioso né eccessivamente stereotipato.
Un bel connubio di Storia e Mistero, una boccata d’ossigeno tra i tanti romanzi dello stesso genere che hanno fatto “flop”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    16 Luglio, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

A caccia di sorrisi

Ci vuole un bel coraggio per lasciare tutte le proprie sicurezze, un lavoro fisso e le abitudini di una vita e decidere di girare il mondo alla ricerca della conoscenza e della felicità, con la sola sicurezza di una vasta rete di amicizie internazionali costruita negli anni e le proprie abilità di artista di strada, sempre pronto a esibirsi per grandi e piccoli pur di strappare un sorriso.
Luca, il protagonista del romanzo-diario “La fortuna viene a chi sorride”, questo coraggio lo trova. Anzi, si mette in viaggio con una gran gioia nel cuore, desideroso di immergersi nell’atmosfera di Paesi lontani e conoscere gente nuova, abitudini differenti.
Assistiamo così alle sue peregrinazioni e leggiamo dei suoi contatti con gente di tutto il globo.
Per Luca (che poi altri non è che l’autore stesso sotto pseudonimo) i sorrisi sono il motore che fa girare il mondo. Le cose belle, la fortuna, sono attratte da chi sa sorridere e lui se ne rende prova vivente più e più volte durante l’intera narrazione.
Dopo un paio di tappe europee, Luca parte per l’India, dove peregrina da un luogo all’altro assaporando le abitudini del luogo, la cordialità della gente e dove trova conoscenze vecchie e nuove, tra cui giocolieri suoi colleghi. Ci porta in Thailandia, in Australia, e poi di nuovo nel Sud-Est asiatico, in un viaggio del corpo e dell'anima che lo riporterà in Italia per una fortunata (appunto) intuizione: un male invisibile gli sta minando la salute e minaccia la sua vita. Serviranno tutto il suo coraggio e la sua positività per ricominciare.
Sono due i punti di forza di questo libro, edito da “Il Ponte Vecchio”: il linguaggio e la variegata casistica umana che vi compare. Zaganelli trascrive i fatti e le conversazioni con lo stesso tono informale della vita di tutti i giorni, senza cercare di rendere più “letterario” il suo stile, conservando una freschezza e una immediatezza che si sposano perfettamente con il carattere del testo.
I volti, le voci e le abitudini che ci vengono mostrati di pagina in pagina, poi, sono un dipinto multicolore di un’umanità varia e traboccante di vita. Gente il cui intrinseco valore non risiede solo nella diversa cultura, ma nella capacità – da noi quasi scomparsa – di godere delle cose belle della vita, della conoscenza del prossimo per il puro gusto di avvicinare un altro essere umano, senza interessi reconditi.
A questa gente “bella” si contrappone, anche se non è intento dell’autore creare due categorie, un’umanità occidentale in viaggio per ritrovare se stessa, spesso confusa e non ancora pronta ad aprirsi davvero a esperienze diverse dal consueto se non per una forma di snobismo nel ritenersi “alternativo” e frequentare solo luoghi “di grido”.
La principale pecca, come purtroppo accade fin troppo spesso negli ultimi anni, è una mancata (o quantomeno approssimata) correzione delle bozze. Non mancano errori di battitura e di punteggiatura, che fortunatamente non tolgono nulla alla bellezza di questo diario di viaggio ma sicuramente risultano poco graditi.
Zaganelli ci regala uno scorcio luminoso della sua esperienza di vita. Da leggere tutto d'un fiato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    02 Luglio, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Una nuova possibilità

La fine del mondo. Quella vera, l’Apocalisse che ridurrà a niente la vita sulla Terra e i millenni di cultura del genere umano. Così, in pochi minuti, senza alcun preavviso, ogni cosa viene spazzata via. Non c’è tempo per tentare di trovare una soluzione, una via di salvezza; nessuna occasione per gli ultimi addii.
Un attimo prima c’è la Vita e l’Uomo governa il pianeta. Un attimo dopo, tutto è finito.
L’ecatombe viene vista in diretta da una base lunare, abitata da un piccolo manipolo di scienziati e volontari comandati dal cupo Odama. Spetterà a lui il compito di trovare un significato in tutto ciò, parlare con coloro che ne sono la causa ed essere protagonista dell’annientamento finale…o forse di una rinascita.
Questa, in breve, la trama di “L’uovo” di Rodolfo Viezzer, edito con Aracne, Un breve romanzo che unisce fantascienza e teologia, morale e scienza, in un viaggio tra le macerie di un pianeta che si risveglia sull’orlo della distruzione, non dissimile all’animo dello stesso protagonista, che dalla morte della compagna ha perso ogni interesse alla vita e a tutto ciò che lo circonda.
Secondo molte mitologie, l’Universo nasce da un Uovo. Pensare ai pianeti come gusci di creature che crescono al loro interno aspettando il momento della nascita è al contempo splendido e terrificante, troppo al di là della capacità di visualizzazione del genere umano.
Un essere gigantesco sotto la crosta terrestre provoca, per venire al mondo, l’estinzione di miliardi di vite. Odama si batte attraverso un confronto etico fatto di solo pensiero per insegnare all’intelligenza aliena fecondante quanto aberrante sia questa proporzione, quanto significhi in termine di danno cosmico. Anche una sola vita perduta, con il suo carico di esperienza e ricordi, è un danno incalcolabile.
Odama ed Ave. Adamo ed Eva. Un semplice acronimo, ma non così scontato. Ce ne si rende conto piano piano, proseguendo con la lettura. Ave è morta; era la luce nella vita di Odama, che ora vive senza speranza e senza più legami con tutto ciò che, sulla Terra, gli ricorda lei. Dentro di lui è avvenuto qualcosa di molto simile al disastro che si sta abbattendo sul pianeta e forse proprio per questo riesce a gestire tanto bene la situazione, a far continuare l’attività della base in sua custodia.
E’ l’unico ad avere la forza e il coraggio di indagare, quando si scopre che il cataclisma è stato indotto da creature che attendevano questo momento da milioni di anni.
L’analisi della psiche di Odama occupa nella narrazione un posto non meno fondamentale del destino a cui la Terra e l’Uomo stanno andando incontro, intrecciata indissolubilmente alle sorti del nostro mondo e della specie.
La particolarità di questo piccolo romanzo sta nell’ambiguità del momento, all’interno del flusso del Tempo, in cui tutta la vicenda si svolge. Potrebbe trattarsi del nostro futuro, neanche tanto lontano. Oppure, perché no, di un remotissimo passato di civiltà evoluta cancellata dallo sconvolgimento planetario, poi rinata grazie a una “seconda possibilità” in cui stiamo ricalcando le tappe precedenti…
L’autore non lo specifica. Forse nemmeno intendeva offrire una suggestione simile. Fatto sta che essa nasce nella mente del lettore fin dalle prime pagine e dona qualcosa in più a tutta la vicenda.
Nonostante la necessità di un editing un po’ più attento, una storia di fantascienza costruita con classe, di gradevolissima lettura, che offre molti spunti di riflessione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    29 Giugno, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Ecatombe plausibile

Mauro Corona è uno scrittore senza mezzi termini. Non è il tipo che edulcora il proprio linguaggio quando si mette a fare prosa letteraria. Come parla, così scrive, coinvolgendo il lettore nella sua narrazione come se si stesse ad ascoltarlo seduti a un tavolo dopo cena, vicino a un fuoco, con un bicchiere di vino in mano. Le sue storie sono forti, di pancia. La gente si comporta per quello che è, senza fronzoli né affettazioni artefatte.
Corona si porta dentro in ogni riga le sue montagne, la sua vita volutamente semplice, le tradizioni, in costante contrasto con la società frenetica e cittadina che caratterizza il mondo di oggi. Il romanzo nasce proprio come critica spietata della società moderna e ne descrive il tanto sospirato (e ovviamente tragico) crollo.
“La fine del mondo storto”, edito da Mondadori, prende il via con l’avverarsi del peggior incubo del mondo moderno: l’esaurimento improvviso delle risorse energetiche naturali. Niente più petrolio, gas, elettricità. Niente computer, satelliti, televisione. La fine di ogni tecnologia, all’improvviso, all’aprirsi di un inverno che promette di rivelarsi il più crudele della Storia.
Gli uomini muoiono a centinaia, a migliaia. A milioni. Chi rimane, dà fondo alle risorse rimaste fino ad arrivare al cannibalismo. Questo, in città. Nelle campagne e sulle montagne il dramma è meno pronunciato, grazie alle abilità pratiche della gente che ancora vi abita e vi lavora.
Solo i più forti, coloro che si rimboccheranno le maniche e torneranno a imparare a sfruttare la terra e le proprie mani per sopravvivere, riusciranno a impedire l’estinzione del genere umano. Il lavoro di gruppo, il bene comune, deve prevalere su tutto il resto.
Così sarà, finchè non si raggiungerà di nuovo un relativo benessere. Allora, come nella natura dell’Uomo, il circolo vizioso dell’avidità e del conflitto ricomincerà daccapo.
La scelta del tema ha un sicuro intento polemico, nient’affatto smorzato e anzi rimarcato costantemente all’interno della narrazione. Corona trova aberrante il modo in cui la società moderna ha affidato le proprie sorti alla tecnologia e alle risorse deperibili, facendo cadere nel dimenticatoio le conoscenze pratiche cresciute con l’Uomo, conoscenze che gli hanno permesso di sopravvivere nei secoli e prosperare nonostante la sua indole autodistruttiva.
Non si può negare che il nostro sistema scolastico privilegia le materie teoriche, il pensiero astratto e le arti ( per quanto la Cultura sia un bene ben poco preservato in Italia) piuttosto che il lavoro pratico, sia esso agricolo, venatorio o artigianale. Prova ne è che moltissimi mestieri sono scomparsi e altri si affidano a macchinari che condizionano pesantemente le competenze manuali di chi svolge ancora talune attività.
Con la carestia mondiale di energia, Corona distrugge alle fondamenta una società che ormai si regge sulla mente e la costringe a tornare al lavoro delle mani, all’attenzione verso la terra, i cicli delle stagioni, la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Ci mette di fronte all’ecatombe da cui dovrà nascere l’Uomo nuovo, se non vorrà estinguersi.
Non sono del tutto d’accordo con l’analisi dell’autore riguardo al comportamento dei sopravvissuti una volta compreso che l’inverno in corso potrebbe essere l’ultimo. La cessazione di ogni violenza, ruberia, individualismo; la coscienza del valore del gruppo, il silenzio e la scomparsa di ogni sentimento che non sia mero istinto…Da un lato, a mio avviso, troppo radicale. Dall’altro, utopistico nel pensare che l’Uomo sia davvero in grado di pensare al bene del gruppo senza la presenza di un leader, di qualcuno che conduca in una qualche direzione coloro che non sanno arrangiarsi e hanno bisogno di essere guidati.
Questa visione bucolica e vagamente “comunista” (con grande profusione di parole sull’annullamento del divario tra ricchi e poveri, anche se in realtà Corona attribuisce difetti indifferentemente a entrambe le parti) appare più una speranza di ravvedimento post-tragedia che qualcosa di veramente plausibile. Le insistenze su certi temi rendono la lettura del racconto per certi versi pesante, nonostante l’indubbia maestria di Corona.
Non al livello di altri suoi scritti, utile per riflettere sui livelli di assurdità a cui la nostra società si è arrampicata, danzando in punta di piedi sull’orlo del baratro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato per gli ammonimenti fin troppo veri a darci un taglio con la tecnologia sfrenata. Un po' meno per il tono moraleggiante...
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
2.6
Stile 
 
2.0
Contenuti 
 
3.0
Approfondimento 
 
2.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    06 Giugno, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Poesia cantautorale

Ecco un’antologia poetica molto particolare. I versi che vi sono contenuti e che vengono analizzati dalla curatrice nel testo di presentazione, non nascono dalla penna del poeta ante litteram, bensì dal mondo cantautorale. Non è il primo tentativo fatto in tale direzione, ma quella di Sara Notaristefano è una nuova voce che si eleva per sottolineare come i testi nati per essere messi in musica siano un genere letterario che possiede non solo una sua dignità, ma anche una sua intrinseca bellezza, godibile anche in mancanza dell’elemento musicale, che accomuna questi componimenti alla poesia vera e propria.
E’ sempre esistita la tendenza a sottovalutare la valenza letteraria dei testi per musica, nonostante sia ormai comune trovare le cantiche dei trovatori sulle antologie. La differenza sta nel fatto che esse sono circonfuse da un’aura di importanza per il fatto di essere ormai parte della Storia, mentre la canzone contemporanea viene sottovalutata. L’autrice vuole ribaltare quest’ottica offrendo un’ampia scelta di autori e brani per dimostrarne la piacevole lettura e la valenza poetica anche distinguendola dalla partitura musicale.
Dopo una spiegazione di prammatica su modi e intenzioni della raccolta, si parte per un viaggio attraverso i principali centri di produzione della musica “leggera” occidentale: Italia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia. La scelta può essere opinabile, ma rispecchia il tipo di musica cantautorale che conta le maggiori vendite in Italia.
Per ogni cantautore preso in esame, vengono presentate due/tre canzoni, con il testo intero (niente tagli o scelte di parti significative). Segue una breve nota dell’autrice, di solito volta a fornire qualche dato in più sulla nascita della canzone.
Questo è quanto offre il volumetto, che senza dubbio spingerà gli amanti della musica a riascoltare gli autori citati, magari con un’attenzione nuova. La valenza letteraria dei testi citati, purtroppo, non sempre risulta così palese. Finché si tratta di testi italiani, nulla da dire. I nostri cantautori sono stati (alcuni lo sono ancora) una vera miniera di parole stupende. La magia si perde quando ci si sposta all’estero.
Purtroppo i testi sono stati tradotti con poca padronanza, in soluzioni che non sono né letterali in senso stretto, né possiedono una propria valenza poetica (comunque difficile da gestire per chi poeta non è). Forse sarebbe stato più saggio affiancare alla traduzione il testo originale.
Le note, inoltre, sono di qualità ondivaga. La presentazione è inutilmente costellata di latinismi, caratterizzata da un linguaggio specialistico e volutamente accademico, e la sua lettura risulta ben poco intrigante, non adatta a far da prologo ad un’antologia quanto a precedere un saggio letterario per iniziati. I brevi concetti a conclusione delle canzoni, inoltre, non hanno tutti una vera valenza. Non c’è una linea di condotta precisa sul tipo di informazioni fornite. A volte ci si trova di fronte a una breve valutazione letteraria del testo, altre a qualche nozione specifica (data, momento del debutto). Altre volte ancora non viene fornito alcuno spunto interessante.
In generale, quindi, un’antologia sicuramente intrigante per stimolare un ascolto più attento della forma-canzone, ma senza informazioni interessanti che consentano un’analisi letteraria o storica di qualità.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
61
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    03 Giugno, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La trappola dei ricordi

Oggi vi parlo del romanzo di una mia concittadina, Giuse Iannello, una storia che unisce il mistero storico a quello – forse più prosaico, ma sempre attuale – del funzionamento del cuore femminile. “Il mistero dell’Ermellino”, edito da Albatros, narra la storia di Marisa, una donna arrivata alla soglia dei cinquant’anni e invitata ad una cena di coscritti, organizzata all’interno della Cavallerizza del castello di Vigevano. Qui, tra volti noti che non vedeva da tempo, slideshow di vecchie fotografie e pettegolezzi altrui, il suo passato la riassale, portandola agli eventi che hanno segnato la sua giovinezza e, a conti fatti, tutta la sua vita.
Marisa ricorda il primo, vero amore per Marco, un giovane musicista da cui viene lasciata in favore di un’altra donna, una relazione in cui lei aveva posto tutte le sue speranze e che l’ha marchiata per sempre con un senso indefinito di insoddisfazione. Anche la sua passione per la scrittura viene incanalata solo in parte nella direzione desiderata, quando accetta di lavorare per il signor Bardogli, appassionato di Storia, nell’antico edificio conventuale in Corso Milano.
Proprio in quel luogo, la sua vita cambia…o, quantomeno, si trova a un punto di svolta. E’ lì che conosce Mauro, un uomo che farà di tutto per trovare un posto nel cuore di lei. E’ lì che comincia a farsi domande su se stessa, su coloro che la circondano e sui limiti che lei stessa si pone nel rapportarsi agli altri. Proprio nel convento, infine, verranno ritrovate alcune pergamene risalenti al Rinascimento, vergate da un frate domenicano che narra della propria missione volta a recuperare il corpo del defunto Ludovico il Moro, la cui sepoltura rimane ancora oggi sconosciuta. Questo ritrovamento la coinvolgerà in un’indagine densa di mistero, che chiederà una scelta a suo modo coraggiosa.
Grazie a questo percorso della memoria, la Marisa del presente riesce finalmente a giungere alla risposta che tanto ha cercato. Ma non sarà troppo tardi?
La prosa di Giuse Iannello è fresca, molto scorrevole, caratterizzata dalla capacità di descrivere in maniera “pittorica”, consentendo cioè al lettore di visualizzare con vivida nitidezza quanto descritto senza trovarsi oberati di dettagli. La storia si dipana attraverso le portate di una cena; ogni episodio, quindi, è preceduto dall’arrivo di una pietanza, descritta in modo tale da esaltarne sia l’aspetto estetico che quello papillare, palesando l’intenzione di sottolineare l’importanza del cibo a livello sia sensoriale che sociale, come momento di aggregazione. Grazie a entrambe le sollecitazioni, infatti, Marisa affonda nei propri ricordi e ne pesca le risposte giuste.
Il romanzo è molto sensoriale, con un’insistenza non spiacevole su sapori, suoni, odori e colori. D’altra parte, l’autrice si dedica anche alla produzione artistica, e questo probabilmente ha contagiato il suo stile letterario.
La pecca sta nei dialoghi, che di quando in quando tendono a diventare forzati, didascalici. La necessità di fornire molti dettagli storici al lettore ha generato frasi eccessivamente prolisse e formali, con un uso del linguaggio adatto più al testo scritto che alla conversazione.
L’ambientazione, come già detto, è Vigevano, città un tempo di fervente attività e ora chiusa nella propria sonnolenza, caratterizzata però da un passato storico rilevante. Essa è stata dimora di pregio dei Visconti e degli Sforza, che vi hanno tenuto corte in quello che è ancora oggi uno dei più grandi castelli d’Europa. Giuse Iannello fa omaggio alla propria città e al suo coinvolgimento nei grandi fatti della storia, parlando di situazioni e luoghi cari a ogni vigevanese; crea un’atmosfera di “casa” che ammorbidisce il romanzo e gli dona un che di caldo, di accogliente, anche per chi non conosce i luoghi della narrazione.
Altro tema portante è la valenza del ricordo, che si trasforma facilmente in trappola se vi rimaniamo morbosamente attaccati. Il passare del tempo distorce le cose e porta all’idealizzazione di ciò che si è perso, impedendoci di vivere un’esistenza completa. Marisa dovrà fare i conti proprio con questo fossilizzarsi dell’anima e trovare il coraggio di guardare avanti, portando con sé le proprie esperienze senza rimanere a fissarle, impietriti e nostalgici, per il resto della vita.
Una gradevole variazione sul tema del mistero storico. Rimaniamo in attesa di una seconda opera.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Religione e spiritualità
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    03 Giugno, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Le Streghe in Piemonte


Il libro in questione tratta di un tipo particolare di strega: la Masca, ovvero la strega o lo stregone della tradizione popolare piemontese, detta ghigna fàussa in quanto ‘falsa’, cioè portata a mistificare le cose e in primo luogo il proprio aspetto. Queste streghe (o stregoni, anche se la versione maschile è più rara) possiedono un libro speciale, il Libro del Comando, che le mette in diretto contatto con i poteri oscuri donati dal Diavolo. Grazie ad essi, sanno mutare il proprio aspetto in quello di animali (i tipici abitanti dei boschi italiani oppure animali da fattoria, in special modo maiali e capre) per fare dispetti e cattiverie agli abitanti dei villaggi. Sanno inoltre controllare il tempo, lanciare il malocchio e tutte quelle amene attività da strega che, se non faceva attenzione, finiva sul rogo oppure bastonata dai compaesani infuriati.
Le masche, di norma, si riconoscevano per il carattere asociale, l’aspetto trascurato, spesso associato ad un handicap evidente, come la zoppia, uno sfregio o la presenza di una gobba sulla schiena. Ciò che è diverso, stravagante, fuori dalla norma diventa quasi sempre segno di loschi affari con il Demonio.
Il libro si rivela molto interessante fin dalle prime righe, in quanto offre uno scorcio di vita nemmeno troppo lontana nel tempo eppure ormai remota a fronte dello sfrenato protendersi verso il futuro della società moderna. La lettura apre uno spaccato su un mondo ristretto, pieno di diffidenza e misteri, in cui il nucleo del paese si erge come porto sicuro al centro di un territorio dominato da boschi, strade pericolose e solitarie, colline e strapiombi. Le forze oscure sembrano annidarsi ovunque, pronte a ghermire chi diventa imprudente o attira troppo l’attenzione. Non siamo abituati a pensare in questo modo al moderno Piemonte, eppure basta inoltrarsi nelle colline del Canavese, ad esempio, per ritrovarsi sperduti in un mondo in cui la civiltà sembra un sogno lontano. Non stupisce, quindi, che la superstizione trovasse terreno fertile in luoghi in cui viaggi e comunicazioni con il mondo esterno non erano cosa di tutti i giorni.
L’autore, grazie al lavoro di anni passati ad ascoltare testimonianze degli anziani delle città piemontesi, ha raccolto un’ampia scelta di racconti: esperienze dirette di contatto con le masche e leggende dei villaggi tramandate durante le veglie, momenti in cui la comunità si riuniva e la conoscenza veniva passata ai più giovani. Questo lavoro si è dipanato attraverso più pubblicazioni; nel libro in questione, Bosca si propone di offrire al lettore un’analisi più dettagliata sull’origine della figura della masca, un lavoro antropologico più ampio.
Il saggio si divide in tre parti. Nella prima, l’autore tira le fila dei suoi lavori precedenti e descrive la figura della masca nei suoi tratti più caratteristici, analizzando i cambiamenti del territorio e della popolazione piemontese durante gli ultimi anni e la conseguente modernizzazione della figura della strega, oggi contaminata dalla new age e dalla stregoneria wicca, nonché dal satanismo privo di solida cultura esoterica in voga tra i giovani. Nella seconda parte, Bosca cerca, attraverso relazioni con culture diverse da quella piemontese, di trovare le radici storiche di questa figura folklorica. Una terza parte, infine, raccoglie testimonianze e storie di paese relative alle masche e alle loro malefatte.
Il saggio si legge bene, è scorrevole e adatto a qualsiasi lettore, dal meno avvezzo al tema al più svezzato sull’argomento. Non vi sono illustrazioni o note che possano distrarre: l’autore bada al contenuto, cercando di offrire quanto più gli è possibile senza tanti fronzoli. La scelta dell’argomento, di richiamo regionale e quindi di nicchia, è coraggioso e sottintende la passione di Bosca per la tradizione orale della sua terra. Questa passione si respira dall’inizio alla fine del saggio, rendendo la lettura piacevolissima.
Rovescio della medaglia, la sua cultura regionale tende a contaminare i suoi tentativi di allargare gli orizzonti sulle radici storiche della masca, facendogli trattare alcuni argomenti – come, ad esempio, l’influenza della cultura celtica continentale sulle tradizioni pre-cristiane del nord Italia- con una certa approssimazione e ristrettezza di vedute, come se la sua radicata territorialità non gli permettesse di cogliere tutti i nessi di un puzzle molto più grande. D’altra parte, questo saggio è solo un frammento di un lavoro più ampio. Per dare un giudizio vero e proprio dovrei leggere gli altri libri scritti da Bosca.
A parte ciò, “Masca – Ghigna fàussa” è una lettura che consiglio a cuor leggero.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Religione e spiritualità
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    19 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Molte forme di magia

La Editori Laterza presenta in un bel formato in carta lucida il saggio “La magia nel Medioevo” di Richard Kieckhefer, docente di Storia del Cristianesimo ed esperto di mistica e teologia.
L’autore analizza non solo l’impatto della magia nella società medievale, ma anche l’effettivo fenomeno sociale della figura del mago o negromante sia sul piano reale e storico che su quello immaginario e letterario.
Per prima cosa, come è giusto, Kieckhefer cerca di dare definizione alle varie branche della magia; uno scrupolo che può sembrare ozioso a chi non si è mai interessato alla materia o non è a conoscenza delle accese diatribe in merito che hanno riscaldato gli animi di grandi pensatori sia laici che religiosi per tutto il Medioevo, ma che in realtà cela la chiave per comprendere come si sia giunti alle persecuzioni inquisitorie dei secoli più bui (paradossalmente alla fine di quello che chiamiamo Medioevo, e non ai suoi inizi).
Al principio della nostra analisi, ciò che oggi chiamiamo magia non esisteva in quanto tale. “Magia” era l’arte di dubbia fama di personaggi provenienti dall’Oriente, chiamati appunto magi. Essi erano sempre visti con una certa diffidenza, in quanto non si riusciva a capire quanto del loro potere fosse reale e quanto derivante da trucchi che oggi assoceremmo più a un prestigiatore che alla figura del mago vera e propria.
Il coacervo di superstizioni, riti propiziatori e divinazioni che poi entrerà a far parte del patrimonio culturale del panorama magico, ai primordi del Medioevo era una cosa perfettamente normale. Si trattava di tradizioni dell’antica religione politeista, sradicata e denigrata dal Cristianesimo, che stava prendendo possesso dei territori dell’Impero.
Per farsi largo, essa dovette far dimenticare (e quindi proibire) tutta una serie di piccoli riti domestici e non che facevano ancora affidamento sulle forze della natura, sugli spiriti, tacciando chi ne faceva uso di idolatria e comminando punizioni esemplari. Un altro sistema, usato soprattutto nel nord Europa, era quello di sostituire a festività, divinità e riti pagani una versione cristianizzata degli stessi, per intervenire in maniera meno traumatica ma ugualmente invasiva.
L’affermarsi del Cristianesimo come unica religione, però, non riuscì a distruggere completamente l’abitudine di usare la magia “naturale”, di solito composta da innocenti riti con erbe o oggetti di uso quotidiano, magari benedetti da formule che erano non molto differenti da normalissime preghiere. La magia, a differenza della religione, mira a modificare i fatti invece di affidarsi alla volontà divina, ma i piccoli incantesimi di questo tipo erano una commistione dei due elementi, usata da gente per lo più in buona fede, che voleva solo un favore da Dio e sperava di ottenerlo dicendo le cose giuste e procurandosi gli aiuti naturali necessari.
Di tutt’altro genere era la magia negromantica, il cui scopo era evocare le forze spiritiche (demoniache, per lo più) per ottenerne i favori. Questo era un genere di magia colta, probabilmente nata e sviluppatasi all’interno dello stesso ambiente clericale, in quanto prevedeva conoscenze linguistiche, teologiche e tecniche che una normale persona del volgo non poteva possedere (ma furono tra la gente comune, paradossalmente, quasi tutte le vittime delle inquisizioni che seguirono al proliferare di questa magia “nera”). La negromanzia usava e pervertiva preghiere e riti cristiani per renderli magici e adatti all’invocazione di forze tenebrose.
Altro discorso si poteva fare per l’astrologia, divinazione del futuro tramite il moto dei pianeti, e l’alchimia, ricerca della Materia Fondamentale e dell’immortalità. Entrambe le branche magiche sono progenitrici delle moderne scienze, per cui dobbiamo molto alla ricerca degli appassionati, anche se tra loro vi erano ciarlatani, visionari. La Chiesa tentò sempre di soffocare entrambe, ritenendole sacrileghe, in quanto andavano a indagare in ciò che concerneva solo Dio. Anche l’uso delle erbe guaritrici, l’arte di costruire automi o di congegnare trucchi che ingannassero gli occhi, venivano considerate magia. Non si faceva una grande distinzione e quando scoppiò la fobia nelle streghe le differenze tra magia naturale, divinazione e magia nera scomparvero del tutto.
Dalla controversa magia “reale” nacque poi quella letteraria, di cui i romanzi cortesi sono pieni. Più poetica e favolosa di quella che incuteva timore nella vita di tutti i giorni, la magia cortese rimane la “versione dei fatti” che condiziona la nostra visione della stessa ancora oggi.
Scritto con un linguaggio semplice, alla portata di tutti, e corredato da illustrazioni, “La magia nel Medioevo” è un magnifico volume di cui consiglio caldamente la lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
4.2
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    19 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Creare i propri abiti

Quante (o quanti) di noi sanno cucire? Quanti sanno avviare e utilizzare in maniera proficua una macchina da cucire o una tagliacuci? E quanti sono in grado di confezionarsi da soli gli abiti che indossano?
Credo che la risposta sia “pochi”. Le nostre nonne potevano essere delle maghe con ago e filo, ma le nuove generazioni sono abituate a comprare i vestiti in negozio e ad adattarsi a questi. Infatti, non è più l’abito ad essere su misura del corpo di chi lo indossa ma è il compratore che si deve dannare per trovare qualcosa che gli stia bene in mezzo al mucchio di indumenti con forme standard dettate dalla moda del momento. Questo, spesso, porta a trovarsi addosso roba informe, o troppo stretta, o piena di difetti che rovinano le linee del corpo.
Non so voi, ma io ho pensato spesso a quanto più semplice sarebbe se fossi in grado di creare da me vestiti che soddisfino il mio gusto e al contempo mi cadano perfettamente addosso. Inoltre, volendo mettere da parte queste velleità sartoriali, spesso è necessario rifare un orlo, cucire una cerniera, applicare una toppa…piccole riparazioni per cui sarebbe bello non dover più cercare una sarta. E’ questo il motivo che mi ha spinto a comprare l’ “Enciclopedia delle tecniche di sartoria”, edita da Il Castello e scritta da Lorna Knight, insegnante inglese.
Con un formato accattivante, simile a quello di un quaderno ad anelli contenente schede di appunti a tema, e con una grafica colorata e semplice, il tomo invita all’acquisto e sembra subito accessibile anche al principiante.
La prima parte fornisce alcune informazioni di base da cui partire. Per prima cosa, vengono elencati e descritti i ferri del mestiere, il materiale minimo di cui si necessita per mettersi all’opera. Quasi tutti gli strumenti nominati sono presenti anche in fotografia, ulteriore aiuto per consentire al principiante di effettuare gli acquisti senza difficoltà. Viene poi descritta in linea generale la macchina da cucire e il suo funzionamento, comparandola alla più professionale e complessa tagliacuci. Seguono consigli e dettagli su aghi, fili e vari prodotti di merceria, dando una panoramica di ciò che si può ottenere utilizzando lo strumento adatto.
Si passa quindi alla spiegazione della grafica dei cartamodelli e di come apportare le modifiche per adattarli alle forme del corpo. Per fare ciò, viene insegnato dapprima come prendere le misure in maniera precisa e quindi come adoperarle per fare le opportune modifiche. Questa parte è fondamentale per il lavoro successivo, quindi va letta e seguita con estrema attenzione.
Per chiudere questa sezione, vengono forniti consigli sui capi d’abbigliamento più adatti alle diverse corporature, in maniera da esaltarne i pregi e non i difetti, e un elenco dei principali capi d’abbigliamento, con le varianti più comuni.
La seconda parte passa alle esercitazioni pratiche e tratta delle tecniche di cucito. Vengono presentati diversi sistemi per cucire orli o parti d’abito, passando poi ai diversi sistemi per rifinire le cuciture di modo che il tessuto non si sfilacci. Viene insegnato come cucire cerniere, creare pince, applicare elastici e rivestimenti, tutte nozioni utili anche solo per le piccole riparazioni.
La sezione successiva è più complicata e, anche se corredata da disegni che spiegano passo passo come procedere, di difficile comprensione nella lettura se non vi si affianca subito il lavoro pratico. Si parla, infatti, delle tecniche di sartoria vere e proprie. Il testo insegna come procedere nella realizzazione delle varie parti del capo in fase di confezionamento: maniche, cinture, orli, scolli e colletti, applicazione di bottoni, asole e tasche…Gli esercizi sono molti e andrebbero testati tutti su tessuto di risulta per essere sicuri di averli ben compresi, prima di mettersi veramente all’opera.
L’ultimo capitolo offre una serie di idee per decorare i propri capi: dalle cuciture decorative già inserite nei programmi della macchina da cucire, all’applicazione di stoffe, perline o pizzi.
Chiude il volume un elenco dei tessuti in commercio, con breve descrizione e suggerimento sul loro utilizzo più corretto, e un piccolo glossario.
Nel complesso, un ottimo acquisto per chi vuole mettersi all’opera. Seguendo le lezioni passo passo, si può imparare molto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Letteratura rosa
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    15 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Molti modi di essere donna

*contiene parziale spoiler*
Un libro scritto specificatamente per le donne da una scrittrice (Karen Swan) che ha lavorato nella moda per anni e pubblicato in una bella edizione cartonata con copertina rossa dalla Newton&Compton.
I temi trattati in questo romanzo sono molto settari, non è certo una lettura adatta a un pubblico di uomini. Non solo per la centralità della storia sentimentale (che di solito non è nella top-ten del lettore maschio), quanto proprio per la visione totalmente femminile di ogni argomento: dal matrimonio, all’idea del viaggio e dell’esperienza avventurosa, al mondo del lavoro e del mantenimento della bellezza/giovinezza.
Cassie è una bella donna di trent’anni, sposata da tempo con un nobile scozzese. La vita sedentaria l’ha portata a trascurarsi un po’, ma l’arrivo delle sue tre amiche del cuore per la sua festa d’anniversario la convince a fare del suo meglio per mostrare al marito le sue doti. Sforzo inutile: proprio quella sera, Cassie viene a sapere che il marito la tradisce con una sua amica del posto, e che i due hanno addirittura avuto un figlio.
Le amiche di Cassie la trascinano via da casa e decidono di curare il suo tracollo con una terapia d’urto: per aiutarla a trovare un nuovo posto nel mondo, la ospiteranno per alcuni mesi a turno, offrendole un lavoro e nuove esperienze che possano risollevarle il morale e darle la forza di trovare la propria strada. Un aiuto inaspettato arriva da Harry, fratello di una delle ragazze, che promette di fornirle una lista di cose da fare a qualunque costo in ogni città in cui soggiornerà.
Cassie finisce dapprima a New York, dove l’amica Kelly la introduce a forza nel frenetico mondo della moda. Tra abiti neri e tinte bionde, uscite notturne, super-alcolici, corse nel parco e sensuali fotografi di moda, Cassie viene travolta da un’ondata di sensazioni che la lasciano euforica ma non meno confusa di prima. Ne esce però con un regalo prezioso: una sorpresa di Henry, preparata per lei al negozio di Tiffany.
Parigi le si mostrerà tramite la visione della vita dell’amica Anouk, un mondo fatto di placida cura di sé, arte e cucina d’alta classe, ma la colpirà con una delusione imprevista e con il trauma della morte di un amico. Cassie lascia la città in preda all’angoscia.
L’ultima tappa è Londra, dove l’amica Suzy la accoglie in un ambiente familiare, rallegrato dal prossimo arrivo di una bambina. Ma qual è il posto di Cassie? Cosa vuole fare davvero della sua vita? E perché Henry sta entrando sempre più nella sua mente e nel suo cuore, ben al di là delle misteriose liste e dei piccoli doni floreali che la attendono in ogni città? Lui dovrebbe sposarsi con un’altra e lei non ha ancora ottenuto il divorzio da suo marito, il quale desidera riallacciare la loro relazione.
Per Cassie è arrivato il momento di decidere.
L’autrice si destreggia con estrema facilità attraverso l’ambientazione modaiola nelle tre città che fanno da sfondo alla storia, tratteggiando atteggiamenti, piccole e grandi manie, dettami fashion con palese competenza e non senza una sana dose di ironia, cosa che rende molto gradevole la lettura.
Per quanto le “liste” siano compilate dal personaggio maschile di riferimento, le tappe che vi sono segnate seguono quasi sempre un gusto più femminile e delicato di quelle che potrebbero essere - più realisticamente - le scelte di un uomo. Ogni tanto questa femminilità straripante appesantisce un po’ il racconto, rendendolo a tratti zuccheroso, artificioso.
Anche la protagonista di quando in quando diventa difficile da digerire. Spesso si rivela senza carattere, disposta a essere spostata di qua e di là come un oggetto e a fare da cavia a qualunque cosa passi per la testa alle sue amiche (all’autrice, in ultima analisi…). Purtroppo è palese che si tratta di cadute di stile nate dalla necessità di introdurre certi argomenti o il ritorno di alcuni personaggi in certi punti della trama. La meccanicità di taluni passaggi inficia a tratti il godimento semplice e senza pretese che si può ottenere dalla lettura di “Un diamante da Tiffany”.
Nel complesso, però, la prosa della Swan è buona, scorrevole, simpatica. Offre spunti per farsi qualche risata e regala scorci interessanti sul mondo della moda, americano ed europeo. La storia d’amore è un prevedibile ma tenero lieto fine.
Un regalo carino per la fidanzata. Per le lettrici, una parentesi romantica e un po’ scanzonata da concedersi alla fine di una giornata pesante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
60
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
1.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
1.0
Zine Opinione inserita da Zine    15 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Quando i misteri cadono nel nulla

Mostrando lo stesso oggetto, la stessa opera d’arte, lo stesso edificio a due persone diverse, spesso se ne otterrà un giudizio differente, quando non del tutto divergente. Non mi era mai capitato, però, di trovarmi di fronte a una valutazione antitetica -rispetto alla mia percezione di tutta una vita - nel rapportarmi a un’intera città.
“Quattrocento” di Susana Fortes è ambientato a Firenze, una città che per me è sempre stata fonte di speranza nel futuro, ispirazione artistica, infinite possibilità. La Fortes, invece, dipinge Firenze come il nero calderone di ogni bruttura, le vie gorgoglianti sangue di secoli, la tenebra nascosta nell’animo umano. Firenze diventa la dimora dell’orrore, esemplificato nei suoi tragici fatti storici e protrattosi fino ad oggi, come un codice genetico indelebile che maledice l’intera città e i suoi abitanti.
Ana Sotomayor è una studentessa spagnola, alloggiata nel capoluogo toscano, che sta preparando una tesi sul pittore Pierpaolo Masoni, attivo nella bottega del Verrocchio. Visto il suo coinvolgimento con l’episodio della Congiura dei Pazzi, il famoso attentato ai fratelli Lorenzo e Giuliano de’ Medici, la ragazza studia i quaderni lasciati dal pittore affiancandovi ricerche sul tragico evento storico e interessandosi sempre più alla vicenda. Nell’indagine la supporta il professor Rossi, amico di suo padre, uomo schivo e tanto più anziano di lei che diventa una presenza fondamentale nel suo cuore.
Le ricerche di Ana, però, toccano da vicino misteri che devono restare inviolati, mettendo lei e il professore in pericolo di vita. Il tragico passato non ha ancora cessato di influenzare il presente e ci sono verità che la Chiesa non vuole vengano rivelate.
Questa è la trama che si allaccia ai giorni fatidici dell’attacco ai Medici, narrati attraverso gli occhi di Masoni e del giovane Luca, il suo apprendista, in un continuo alternarsi di passato e presente, di una Firenze antica che è arrivata fino a noi con ammodernamenti che non ne hanno modificato la sostanza. Un mistero in cui arte, fede e politica si mescolano al sangue.
Lo stile narrativo della Fortes è piuttosto particolare, una prosa che suggerisce più che raccontare, a tratti poetica, nonostante si soffermi volentieri sul particolare morboso. Il romanzo inizia subito pregno di mistero. Ana è già al lavoro, le sue perplessità sulle memorie di Masoni e sulla congiura sono ben presenti fin dalle prime pagine. Questo toglie qualcosa al romanzo, in quanto il livello di tensione parte già alto e rimane sullo stesso piano praticamente per tutto il tempo della lettura, uniformando troppo la soglia d’attenzione.
Inoltre il giallo è strutturato in maniera tale da lasciare un vago senso di confusione, la sensazione di essersi persi qualche passaggio o di non aver ben compreso gli indizi. In realtà, ciò non è colpa del lettore, quanto della scrittrice. Nella sua foga di creare un alone di mistero, la Fortes inserisce personaggi, indizi e situazioni che quasi sempre brillano per un istante e poi si perdono come meteore, lasciando poco o niente di utile per dipanare la matassa. C’è troppa carne al fuoco, troppe situazioni non risolte. Anche il vizio di infilare qua e là frasi di anticipazione sui fatti futuri (“…se ne sarebbe pentita in seguito…”, “…avrebbe capito troppo tardi…” e simili) dopo un po’ stanca.
A questi difetti si aggiunge un gusto per il macabro, lo splatter fine a se stesso che non trova particolare giustificazione pur nella descrizione del crudo omicidio di Giuliano e nella battaglia che ne seguì. Si avverte un gusto per il sangue, per il torbido, che stona troppo con l’immagine comune di Firenze. Invece di aprirci una finestra sui segreti tenebrosi della città, stuzzicando quindi il nostro interesse, la Fortes vuole costringerci a fare il bagno in pozzanghere di sangue e fango.
Pur con la compagnia di bello stile e proprietà di linguaggio, quindi, si rimane per quasi quattrocento pagine legati a una storia a cui sembra sempre mancare qualcosa, un evento risolutivo, uno scopo vero e proprio. Per quanto mi concerne, un romanzo senza cime né abissi, che rincorre senza particolare costrutto la fame di mistero legato alla Storia che tanto attira il mercato editoriale in questo momento.
Da leggere quando proprio non avete altro sottomano.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
no
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Zine Opinione inserita da Zine    06 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Reportage di sangue

Il grande nemico della cultura occidentale del XXI secolo è, senza ombra di dubbio, il fantasma del terrorismo islamico internazionale. Dopo l’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers e i successivi episodi di violenza più o meno riusciti in giro per il mondo, si è sviluppata una fobia verso l’Islam e in generale verso le popolazioni di fede musulmana che ha esacerbato un clima multi-etnico ancora ben lungi dal favorire l’integrazione e il dialogo.
Il famoso giornalista Antonio Salas, esperto in reportage da infiltrato in ambienti scomodi e pericolosi, ha scritto e pubblicato un romanzo verità in cui racconta la propria esperienza nei circoli del terrorismo islamico. Il reportage si intitola “L’infiltrato” e in Italia è stato pubblicato dalla Newton&Compton.
Salas non è nuovo a questo genere di indagini. Si è occupato in precedenza sia degli ambienti neo-nazisti che della tratta delle donne e dello sfruttamento della prostituzione. La sua tecnica consiste nell’assumere un’identità fittizia ed entrare in contatto diretto con gli ambienti che intende denunciare, diventando un membro di queste realtà pur mantenendosi – con mille difficoltà – all’interno della legalità. In caso contrario, le prove da lui raccolte non avrebbero la stessa valenza a livello giuridico.
In questo caso, Salas ha deciso di farsi passare per un palestinese. La cosa è stata molto più complicata di quanto avesse previsto, perché modificare il proprio aspetto o l’abbigliamento non avrebbe ingannato nessuno ad un esame approfondito.
Ci troviamo dunque a seguire il giornalista mentre si crea faticosamente una nuova identità, studiando l’arabo fino a perderci le notti, accostandosi all’Islam con sempre maggiore rispetto (tanto da convertirsi realmente e farsi musulmano), viaggiando per il Medio Oriente per costruirsi una facciata credibile e venendo bruscamente in contatto con realtà sconosciute fino a quel momento filtrate dal giornalismo occidentale.
Salas tenta nel frattempo di comprendere quali siano e come siano strutturati i gruppi terroristi islamisti internazionali e quali collegamenti possiedono con altri gruppi di ribellione in Europa e America Latina. Viene così a interessarsi enormemente alla figura di Carlos lo Sciacallo, famoso terrorista detenuto in Francia, e questo lo conduce a portare avanti le sue indagini in Venezuela, dove comincia a essere introdotto negli ambienti del terrorismo.
La sua capacità di scrittore, prestata ai simpatizzanti della causa islamica, gli aprirà le porte di molti gruppi altrimenti inaccessibili e gli varrà la fiducia di gente pericolosa, primo fra tutti proprio Carlos lo Sciacallo, che farà di lui il web-master del proprio sito internet.
Qui le cose si fanno realmente pericolose e Salas dovrà lasciarsi alle spalle tutte le proprie ingenuità per immergersi a fondo in un ambiente in cui sono le pistole e la violenza a parlare.
Il reportage di Salas è certosino, maniacale nei dettagli, tanto che la lettura risulta a volte ostica, piuttosto noiosa. Per quanto il tema trattato sia senza ombra di dubbio interessante, questo immane bagaglio di informazioni, date e nomi tende a formare nella mente del lettore medio una gran confusione, con il rischio di decidere di mollare la lettura a metà o di scivolare da un paragrafo all’altro senza troppa attenzione.
Inoltre, la sua nuova vicinanza all’Islam l’ha reso a tratti poco obiettivo. Se andare oltre l’informazione filtrata dagli obiettivi politici dell’Occidente è da ritenersi un atto coraggioso ed encomiabile, pure in alcuni casi si ha la forte impressione che Salas sia rimasto molto coinvolto dall’ambiente che ha frequentato per anni, diventando parzialmente “di parte” per quanto riguarda la situazione islamica.
Una lettura per chi già si interessa all’argomento da tempo e non ne è del tutto estraneo, o per chi non ha timore di mettersi a leggere con accanto un block-notes per gli appunti. Chi si aspetta una grande avventura d’azione, si metta il cuore in pace: non è con questo spirito che si può leggere “L’infiltrato”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    04 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Senza un perchè

Qualche tempo fa, una mia collega di lavoro, appena prima di salutarmi per le vacanze, mi ha messo in mano un tomo di dimensioni ragguardevoli chiedendomi di dirle cosa ne pensavo, in quanto si trattava del suo romanzo preferito.
Credevo l’avrei trattenuto per qualche tempo, perché a guardarlo non sentivo un gran feeling con quel libro. Mi sono messa a leggerlo con la ferrea intenzione di prenderla con calma…da fare non mi manca e ho una scorta di libri nuovi da leggere che non finisce più! Invece, la storia mi ha sorpresa e catturata e mi sono mangiata via il romanzo in soli tre giorni.
“Ti prendo e ti porto via” è un romanzo di Niccolò Ammaniti, edito dalla Piccola Biblioteca Oscar della Mondadori.
Ammaniti intreccia con sapienza la vita di un’intera comunità all’interno del piccolo contesto di Ischiano Scalo, paesino sonnolento dove tutti si conoscono, non c’è mai niente di nuovo da fare, la vita scivola via seguendo sentieri preordinati e sempre uguali.
Nella cittadina spiccano alcuni personaggi che in qualche modo possiedono qualcosa di diverso: Pietro, il ragazzino che non si lamenta mai nonostante la famiglia disastrata; Gloria, la bella e ricca ragazza che preferisce fare il maschiaccio; Graziano Biglia, quarantenne latin-lover con la passione per i Gipsy King e le belle donne che incarna una sorta di leggenda per il paese; la professoressa Flora, venuta ‘da fuori’ e schiva fino all’eccesso.
Le loro vite e i loro sentimenti, attraverso un ingarbugliato sentiero di coincidenze, vengono ad intrecciarsi, ad allacciarsi e poi a scontrarsi, fino ad uno scioccante epilogo.
Spesso, nella vita, ci si trova a farsi domande scomode, a chiedersi per quale motivo succedano determinate cose o la vita prenda quella piega imprevista, irrazionale. La risposta, terribile e vera, è che non c’è un perché.
Le cose accadono e basta, senza alcuna preordinazione o significato recondito, senza che si sia avuto il tempo di preparare una reazione consona o di capire come superare l’imprevisto. Accadono. E ti fregano, magari sul più bello.
Tutta la tristezza di questa verità della vita è insita nel romanzo di Ammaniti, che annichilisce per la lucida visione di fatti che potrebbero capitare a chiunque di noi, in qualunque momento. Purtroppo non è detto che, se sbagli, avrai poi la possibilità di rimediare.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    04 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Oltre le convenzioni

Nathaniel Hawthorne (il vero nome era Hathorne) era un figlio di Salem, discendente di quella dura e intransigente schiatta di puritani che emigrarono dalla natia Inghilterra per fondare nuove comunità sul continente americano. I suoi antenati furono uomini di fede integerrima e pugno di ferro, tanto da essere direttamente coinvolti nella grande caccia alle streghe della cittadina americana.
Lo scrittore, la cui carriera faticò a trovare la giusta via, portò sempre con sé il rimorso per le azioni dei propri antenati, tanto da dedicare alle sventurate vittime di tanta durezza un romanzo che divenne il suo biglietto d’ingresso nella Storia della Letteratura.
“La lettera scarlatta” racconta la storia di Hester Prynne, trovata colpevole di adulterio e per questo condannata a portare per sempre una “A” appuntata sul vestito, in maniera da mostrare la sua colpa a tutti. Hester, lungi dall’esserne distrutta, trova la forza di portare il marchio d’infamia con orgoglio, ricamando una magnifica lettera scarlatta. Si rifiuta di rivelare il nome di chi ha peccato con lei, il padre della sua creatura Pearl, e si appresta a vivere con le proprie forze.
Il suo amante è, per paradosso, l’uomo più pio della comunità, il reverendo Dimmesdale. Egli è divorato dal rimorso, ma non riesce a liberarsi della propria maschera e palesarsi per ciò che è in realtà, facendosi consumare dalla colpa fino a deteriorarsi la salute.
Il giorno della condanna, riappare dopo una lunghissima assenza il marito di Hester, un medico molto più anziano di lei, e prende dimora in paese sotto il falso nome di Roger Chillingworth, deciso a ottenere la sua vendetta sull’uomo che ha giaciuto con la giovane moglie.
Quali abissi raggiungerà il medico per ottenere la sua vendetta sull’anima debole dell’amante di Hester? C’è speranza di perdono quando la colpa è radicata nel cuore di chi ha commesso peccato? Forse l’unica via di scampo è la fuga…
In un mondo in bianco e nero, dove tutto è buono o cattivo e le persone sono rinchiuse in un fare cupo e senza perdono che sembra cancellare ogni colore, la lettera scarlatta di Hester racchiude ed emana il “proibito”, la vita, la passione, una gioia selvaggia che fa paura a chi non si lascia andare a qualsivoglia sentimento. E’ segno di una mente libera nonostante le restrizioni, di un pensiero che si erge sopra le convenzioni.
La piccola Pearl, stravagante e tirannica bambina, è l’incarnazione stessa di quella lettera e come tale viene sfoggiata dalla madre, che pure la teme come teme le pulsioni che l’hanno portata alla colpa. Pearl è l’imprevisto, un piccolo caos vagante, tanto che sia Hester che la comunità spesso si chiedono se dentro di lei non dimori un folletto, oppure il Maligno.
Hester cerca di sostituire negli occhi altrui il suo cuore generoso e la sua arte raffinata al segno dell’infamia, ma esso è ormai legato indissolubilmente alla sua persona, la completa, la rende speciale per chi denigra e per chi prova pietà. Lei è uscita dal grigiore della normalità puritana e non le sarà più concesso rientrarvi.
Paradossalmente, l’impurità è caduta sulla testa di chi possiede davvero buon cuore e un’anima capace di amare, un equilibrio fatto di orgoglio e sentimenti profondi che nemmeno le punizioni o l’umiliazione possono mettere a soqquadro.
La figura del marito di Hester, al contrario, incarna dietro la facciata di una mente brillante di scienziato, membro quindi di una élite che fa della razionalità il suo regno e la sua bandiera, la cruda brutalità, le passioni più sgradevoli, il Male mascherato da Uomo.
La sua piccola deformità fisica diventa segno della deformità dell’anima, come spesso accadeva nella letteratura dell’epoca. Il periodo di vita in mezzo agli indiani pare aver risvegliato e reso forti in lui gli istinti della vendetta, del disprezzo. E’ un uomo che porta la Tenebra con sé.
Il reverendo Dimmesdale è l’uomo pavido, sensibile ma timoroso del proprio sentire, troppo legato all’apparenza per poter competere con il coraggio di Hester, per quanto la ammiri e la aiuti nell’ombra. La sua colpa consuma all’interno e i segni non mancheranno di mostrarsi agli occhi più attenti.
Uno spaccato sugli orizzonti limitati delle intransigenti comunità a fondo religioso, una storia di catene dell’anima e passioni negate.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    02 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Adolescenza all'inferno

Il periodo adolescenziale è fatto di cime e abissi.
C’è chi, fortunato oppure baciato da bellezza e popolarità, lo ricorda come una sequenza di anni d’oro, ricchi di soddisfazioni, amici e allegria. C’è chi, invece, si vede relegare in un angolo buio perché non dotato di fascino oppure impedito nel socializzare da un carattere timido, introverso.
Per costoro, l’adolescenza può rivelarsi un vero e proprio inferno, una battaglia giornaliera contro i “fighi” della situazione che consolidano il loro status accanendosi sui loro opposti. Gli adolescenti possiedono la crudele spensieratezza dei bambini con l’aggiunta della capacità di ferire degli adulti. Un mix micidiale, capace di infliggere ferite che a volte non sanno più rimarginarsi e si trascinano come incubi per tutto il resto della vita.
Il primo romanzo di Stephen King, “Carrie”, narra proprio di questo volto oscuro dei teenagers, facendoci fare un viaggio da brivido nella vita di un’adolescente americana arrivata al limite di sopportazione.
Carrie White è una ragazzina cupa, chiusa in se stessa, con un aspetto poco attraente e bersagliata fin dall’infanzia dagli scherzi crudeli dei suoi coetanei. A complicare ulteriormente la situazione ci si mette la sua totale ignoranza dei fatti della vita, causata dall’intransigente fondamentalismo religioso della madre, una psicopatica secondo cui tutto è peccato e il mondo verrà presto purgato nel Giudizio Universale.
Tutto inizia quando Carrie ha le prime mestruazioni, tardive, mentre fa la doccia insieme alle sue compagne di classe del liceo dopo l’ora di educazione fisica. L’esperienza è umiliante di per sé ma diventa traumatica per Carrie, che non ha idea di cosa le stia accadendo e diventa bersaglio di un feroce attacco di parole e scherzi crudeli da parte delle compagne.
Questo, aggiunto alla violenta reazione di sua madre che intende punirla per questo nuovo stato di impurità, porta Carrie oltre la sua natura di ragazza inerme e sconfitta, risvegliando in lei un potere che giaceva addormentato nella sua mente fin dall’infanzia. Carrie, infatti, è telecinetica. E’ in grado, cioè, di spostare gli oggetti con la sola forza della mente.
Appoggiandosi a questa sua ritrovata forza, la giovane cerca di tenere a bada la madre (che ormai la crede progenie del Demonio) e di prepararsi all’evento per eccellenza, il ballo della scuola, a cui sarà accompagnata dal ragazzo che le fa battere il cuore, un onesto giovane che si è offerto spinto dalla propria fidanzata, pentita per aver preso parte alla scenata in sala docce.
Carrie riuscirà a ritagliarsi un posto nel mondo? Oppure sarò costretta a imporre la propria forza a coloro che continuano a cercare di schiacciarla, senza sapere di stare per innescare una bomba micidiale?
Con uno stile già sincero e realistico, plausibile, King tratteggia l’imprevisto nella vita di tutti i giorni utilizzando una forma particolare. Alterna, infatti, la narrazione della storia di Carrie ad articoli di giornali, libri e interviste provenienti dal futuro, a distanza di anni dalla vicenda che ha portato alla ribalta il potere mentale della giovane (vicenda che conosceremo, inevitabilmente, nelle ultime pagine del romanzo).
Questi salti nel futuro danno alla storia di Carrie un senso di ineluttabilità, di irrimediabile discesa all’inferno che non lascia alcuna speranza. Leggere il romanzo è come iniziare a correre lungo un pendio. All’inizio la pendenza sembra lieve, ma presto si perde il controllo della propria corsa e si caracolla verso il fondo sapendo che prima o poi si perderà l’equilibrio e lo schianto sarà inevitabile.
La crudeltà racchiude Carrie da ogni lato, fino a costringerla a diventarne parte. La madre è una folle che ha creato un mondo di terrore, in cui Cristo è un Giudice inflessibile e sanguinario e ogni contatto con i maschi è impurità da espiare. I viziati ragazzini del Liceo hanno segnato Carrie come diversa e i suoi tentativi di rientrare nel mondo saranno ostacolati con ogni mezzo.
Un viaggio sulla linea sottile che divide normalità e pazzia, nel mondo di ipocrisie e crudeltà che è così difficile abbandonare anche una volta entrati nell’età adulta.
Carrie è una dedica a tutti gli adolescenti bistrattati e un monito verso coloro che, senza temere punizioni, esercitano la loro forza sui più deboli.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    01 Mag, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

L'amicizia virile VS la Donna

Alexandre Dumas è stato uno dei romanzieri più prolifici mai esistiti, tanto che la sua titanica opera è stata sospettata più volte di essere il frutto di più mani. Comunque la si voglia pensare, resta il fatto che questo autore francese possedeva una fantasia brillante, un sacro ardore nel raccontare storie e nell’ambientarle in contesti storici verosimili. Amava il teatro e scrisse la sua buona dose di commedie. Suo figlio, l’autore de “La signora delle camelie”, non fu da meno.
Una delle opere più famose di Dumas è, ancora oggi, “I tre moschettieri”, un’epica storia di amicizia, duelli e amori ambientata durante il regno di Luigi XIII. Da questo romanzo e dai suoi seguiti (“Vent’anni dopo” e “Il Visconte di Bragelonne”, ambientati durante il regno di Luigi XIV) sono stati tratti innumerevoli sceneggiati e film per il cinema, più o meno riusciti.
Tutta questa attenzione sottolinea la validità senza tempo dei temi trattati dall’autore, la concretezza di questa storia di amicizia fra compagni d’arme e intrighi di corte.
Il romanzo inizia nel momento in cui il giovane D’Artagnan, non ancora ventenne, lascia il suo paesino in Guascogna per recarsi a Parigi e farsi moschettiere, sotto il comando del compatriota Tréville. Il carattere orgoglioso e sbruffone del giovane, però, lo mette nei guai subito oltre la soglia di casa. Per strada finisce per azzuffarsi con un misterioso uomo che fa sparire la sua lettera di raccomandazione e al quartier generale dei moschettieri offende tre soldati, guadagnandosi tre duelli (strettamente proibiti) entro la fine della giornata.
I tre moschettieri, tali Athos, Porthos e Aramis, sono quasi degli eroi, in città. Parteggiano per il Re e la Regina e si dilettano nel dare filo da torcere alle guardie del cardinale Richelieu, vero detentore del potere in Francia. D’Artagnan, invece di duellare con loro, si trova nella complicata posizione di decidere per chi parteggiare quando le guardie del Cardinale li sorprendono con le spade in mano e pretendono di arrestarli. Non impiega molto a schierarsi a fianco dei tre moschettieri, che gli sono più congeniali.
Nasce così una strana amicizia, un gruppo formato dai caratteri più disparati che però riescono a creare un perfetto incastro. Athos, posato e colto, di oscura origine nobiliare; Aramis, affettato e deciso a farsi prete ma coinvolto in un’appassionata relazione amorosa con una nobildonna; Porthos, vanitoso quanto forte, sanguisuga delle finanze delle proprie amanti; D’Artagnan, svelto con la mente quanto con la spada, fulcro e riassunto del gruppo di moschettieri.
Il giovane guascone si innamora della moglie del suo padrone di casa, la signora Bonacieux, e questo lo trascina in un complesso sistema di intrighi di corte che lo spingerà a compiere un viaggio fino in Inghilterra per salvare la Regina da uno scandalo, ordito dal Cardinale. I moschettieri portano a termine la missione, ma i guai non sono finiti. Prima la signora Bonacieux viene rapita, poi D’Artagnan finisce tra le grinfie dell’affascinante e malefica Milady, misteriosa donna alle dipendenze del Cardinale, e infine il gruppo si ritrova a partire per un assedio.
Il finale regala molti colpi di scena inaspettati e, nonostante l’ironia e il sense of humor che pervadono lo stile di Dumas per tutta l’opera, anche momenti di commozione.
Il romanzo sprizza gioia di vivere. L’amicizia fra uomini è il tema portante; le donne sono di volta in volta simboli da venerare, oggetti da usare per raggiungere i propri scopi oppure – tema di fondo – terribili nemiche. Non sembra casuale il fatto che sia la Regina adorata dai moschettieri che la terribile Milady (loro nemica giurata) portino lo stesso nome: Anna. Come dire: due facce della stessa medaglia, i due aspetti della donna che, nei romanzi successivi, si fonderanno vertendo totalmente al negativo la figura femminile.
Una storia di cappa e spada piacevole, moderna nonostante i secoli trascorsi, irriverente e goliardica, una lettura che scivola via come l’olio.
Centinaia di pagine che si vorrebbero leggere d’un fiato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    28 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La Tenebra ineluttabile

Joseph Conrad è uno scrittore polacco naturalizzato inglese che per gran parte della sua vita fece carriera marinara, vedendo il mondo di persona e imparando a conoscere gli oceani, le navi e la gente che vi trascorreva la vita. Questo spiega i temi dei suoi romanzi, tra cui “Cuore di tenebra”.
La sua vocazione di scrittore fa scaturire attraverso la penna questo enorme e complesso bagaglio di immagini, sensazioni, esotici orrori che egli stesso ha avuto modo di sperimentare, come se fossero diventati troppi per tenerli nell’anima.
Il romanzo è strutturato come un racconto nel racconto. Difatti la scena si apre su un’imbarcazione immobile, con l’equipaggio in attesa della giusta marea. Per occupare il tempo, uno dei presenti – Marlow – inizia a raccontare un’avventura che l’ha segnato per sempre, una sorta di mistero che lo insegue e non gli lascia tregua.
Su questo romanzo agiscono tre forze naturali, tre ataviche fonti di potere che l’uomo tenta di dominare senza riuscirci.
La prima è il mare, distesa che conduce in ogni angolo del mondo e che l’uomo solca sulle sue perfette imbarcazioni, ma che ingoia l’incauto e lo sfortunato tanto spesso quanto dà sostentamento e avventura. Il protagonista è un uomo di mare, come lo è stato a suo tempo l’autore, e conosce bene i pro e i contro del mestiere che si è scelto, i misteri che si celano sotto le acque e sopra di essi. Proprio il senso del mistero e della novità spinge alla vita di mare, che poi diventa invece una casa che separa e protegge dalla vita “terrestre”, dai ritmi impossibili.
E’ per inseguire l’avventura e la propria vocazione all’acqua che Marlow fa di tutto per ottenere un posto in Africa, grazie all’interessamento di una zia. L’esperienza nelle colonie, però, sarà ben lontana dalle sue aspettative e lo metterà a confronto con altre due forze a lui sconosciute e terribili quanto l’oceano.
La prima di esse è la foresta africana, muta e solo in apparenza passiva coperta che ingoia, ingloba, porta via dall’uomo ogni barlume di civiltà, di fattività. Posti in quell’atmosfera opprimente, apparentemente priva di senso e di ogni ordine, i colleghi europei di Marlow sono diventati degli esserI indolenti, lamentosi, privi di scopo. La missione di collezionare avorio diventa una sorta di utopia di cui si parla senza metterla in atto, un sogno di gloria che cozza con la malattia e la morte imperanti, con le condizioni di vita devastate dei nativi ridotti in schiavitù.
Marlow lotta contro questa malattia dell’anima dandosi da fare per rimettere in sesto la sua nave, un battello che cade a pezzi, e organizzando la spedizione per recuperare l’unico uomo che sembra suscitare su tutti – amici e nemici – un fascino irresistibile. Kurtz, perso nella giungla, è il più produttivo della squadra e anche il più misterioso, l’unico che sembra ammantato del ruolo di capo.
Sarà l’idea fissa di fare la sua conoscenza a dare a Marlow un appiglio cui ancorare la propria mente per salvarla dal caos imperante, senza rendersi conto che questo stesso proposito sta diventando un’ossessione che lo condurrà verso il detentore della terza forza naturale in serbo per lui, quella più immensa e più agghiacciante: l’oscurità dilagante nel cuore dell’Uomo.
Kurtz è dotato del dono della parola, sa plasmare il mondo e le anime con il solo uso della voce. Minato da un corpo devastato dalla vita nella giungla, pure riesce a dominare le popolazioni native, che lo credono un Dio. Attorno al suo rifugio e negli occhi dei suoi seguaci sono evidenti gli orrori in cui quest’uomo è affondato, alla ricerca degli abissi della propria anima, per affermare il proprio alto scopo e la superiorità dell’uomo bianco su quella giungla di tenebra.
Kurtz, invece, diventa ospite di quella stessa tenebra, che lo divora e ne è parassita simbiotico, riempiendo Marlow di un orrore fascinato che anche nel racconto riuscirà a fatica a mettere in parole.
“Cuore di tenebra” ha l’andamento di un incubo, una sequenza di immagini vivide eppure sfuggenti, mescolate, slegate. Succede ben poco nelle sue pagine, eppure il tempo si dilata all’infinito, pare eterno, incolmabile. Incolmabile, come la tenebra che sta in agguato nel cuore di ogni essere umano.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    28 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Il Vampiro moderno

“Intervista col vampiro” di Anne Rice è un racconto nel racconto.
In una notte qualunque, in cerca di un’intervista interessante, un giovane uomo vive un’esperienza al di là delle sue aspettative: l’uomo dai capelli neri e il volto bianco come porcellana che ha acconsentito a raccontargli la storia della sua vita è un vampiro. Un vero vampiro, che vuole tirare le fila della propria esistenza.
Louis, nato in Francia e vissuto in Louisiana come proprietario terriero, è diventato un mostro notturno ai tempi della Rivoluzione Francese, vittima prescelta per diventare lo schiavo immortale di un misterioso vampiro, il francese Lestat.
Segnato da lutti familiari, ossessionato da domande profonde sulla natura del Bene e del Male, Louis si risveglia come non morto senza aver perso l’anima insicura e tormentata che aveva da vivo. Nulla lo aiuta nella comprensione della sua nuova vita di assassino; sicuramente non Lestat, che sembra un vanesio mostro senz’anima, uso solo a divertirsi a spese delle sue vittime e, più in generale, del mondo.
Gli scrupoli di Louis lo tengono dapprima lontano dalle vittime umane, poi cede al richiamo di una bimba rimasta orfana, che Lestat trasforma in vampira per un gioco perverso. La triade mostruosa vive decenni di fittizia mondanità a New Orleans, la piccola Claudia diventa donna nel corpo di una bambina, e il suo odio montante per Lestat porterà a fatti tragici che costringeranno lei e Louis a partire per l’Europa, alla disperata ricerca di risposte sulla loro natura, sullo scopo della loro esistenza.
Tra colpi di scena e orrori, Louis concluderà il racconto con la dichiarata perdita dei propri sentimenti umani. Ma è davvero così? Il giovane giornalista non può accontentarsi di un finale simile. Le risposte, forse, le possiede solo chi ha dato il via a tutto quanto: il vampiro Lestat.
In questo romanzo degli anni ’70, la Rice dà il via a una rivoluzione della figura del vampiro. Un vampiro nuovo, moderno, fatto per vivere attraverso il flusso dei secoli e la razionale perdita di capacità di credere nello straordinario dell’uomo evolutosi dall’Illuminismo.
Il vampiro di Anne Rice è una creatura che si è calata nel Tempo oltre le fantasie dei romanzi gotici a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo. E’ un abitante delle città, cammina in mezzo a noi, si veste come noi. Solo, possiede poteri e coscienza che si affinano nei secoli, poggiando su basi così nichiliste da consentirgli di vivere senza impazzire nel tremendo flusso del progresso.
I vampiri che affollano incontrollabilmente gli scaffali delle librerie odierne e le pellicole cinematografiche sono cugini di primo grado di questa figura di mostro moderno descritta dalla Rice, ma hanno finito per incarnarne il lato più frivolo, banale, stucchevole, togliendogli ogni grandezza di mostro, di creatura delle tenebre la cui vita è il sangue e quindi, essenzialmente, la morte altrui. Proprio vero che l’uomo contemporaneo non sa più credere negli orrori, né riuscire a immaginarseli nella loro interezza…
Nemmeno l’autrice, purtroppo, è rimasta estranea a questo processo di trasformazione in dandy notturno dei suoi vampiri. Pur conservando una prosa ricca e immaginifica, i romanzi seguenti a “Intervista col vampiro” si fanno via via meno profondi. Il significato si va perdendo, la forma prende piede sulla sostanza.
Louis ha incarnato le domande sulla fede, sul Bene e il Male, personificazione dell’anima in fin dei conti timorosa di risposte, racchiusa in se stessa, venata di meschina ignavia, che è tratto caratteristico della società contemporanea. I romanzi che seguono ruotano attorno alla figura di Lestat e iniziano con la stessa potente verve – offrendoci un protagonista spettacolare che splende come un faro acceso – ma poi vanno perdendo di smalto, in una insistenza verso la decadenza fine a se stessa, una grandeur che si va facendo artificiosa; la messa in gioco di tanti vampiri nella saga toglie loro unicità, li rende meno attraenti, speciali.
La Rice ha continuato a scrivere le biografie dei vampiri corollari alla vicenda principale, ma niente ha più eguagliato la potenza inventiva del primo romanzo, il tormento di Louis, l’incomprensibile sfida al mondo di Lestat, l’orrore ineguagliabile di Claudia, bambina vampiro.
Un incubo contemporaneo, drammatico e profondo. Una lettura da non perdere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    27 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Il futuro è un'avventura

Non è un reportage giornalistico, anche se chi lo scrive è una giornalista in missione speciale presso – nientemeno – la NASA. Troppo umano, troppo personale. Allora un diario? In parte. Sicuramente vi è segnato tutto quanto l’autrice ha fatto, pensato, indagato; tutte le persone che ha conosciuto, le conversazioni, le discussioni, perfino le litigate che hanno costellato il suo lungo viaggio in più riprese. Una cronaca di viaggio, quindi? Un viaggio dello spirito, più ancora che fisico. Un viaggio verso il futuro possibile, verso un mondo che sembra non avere più bisogno del passato, un mondo duro e tecnologico che nella sua apparente freddezza nasconde le scintille di un sogno vecchio come l’umanità: superare se stessi, sfidare Dio.
“Se il Sole muore” di Oriana Fallaci è tutto questo e molto più, ma a conti fatti può essere definito una lunga, dettagliata e toccante lettera a suo padre, acceso nemico dell’avventura spaziale che non riesce a capire l’interesse della figlia per quei dannati aggeggi che profanano lo Spazio e per quegli uomini che non sanno comprendere quanto sia bello e giusto rimanere sul Pianeta Terra.
La Fallaci prese tanto sul serio questa diatriba con il padre da partire per gli Stati Uniti ed entrare a stretto contatto con tutto ciò che concerneva la nuova avventura spaziale. Siamo nei primi anni ‘60, l’uomo si prepara ad andare sulla Luna, la tecnologia si evolve a ritmi frenetici, quasi spaventosi. La società americana si è completamente piegata alla nuova era spaziale: niente è più interessante o utile se non correlato alla corsa allo spazio.
L’autrice si trovò catapultata in un mondo in cui i bambini parlavano di propellenti per razzi con la competenza di adulti, lavorare per la NASA era come far parte di una setta religiosa e ogni traccia di bellezza naturale veniva cancellata per far spazio al nuovo, all’artificiale, a ciò che era veloce e comodo. Un trauma, per una donna cresciuta tra le colline del Chianti, che la farà tendere per qualche tempo verso le convinzioni paterne.
Poi, però, la Fallaci fu messa a contatto con quelli che pensava eroi: gli astronauti. E qui inizia la vera e propria comprensione del sogno dello spazio: dal dialogo e dalla vicinanza con persone alla fin fine normali, a volte anche troppo, ma che per questo sapranno essere ancora più preziose, coraggiose, speciali.
Con il suo solito stile ironico, pronta a prendersi gioco di tutto (perché in primo luogo prende in giro se stessa) come a commuoversi e commuoverci con i suoi sogni e il suo senso del bello, del prezioso da riscoprire nell’uomo, la Fallaci compone una sinfonia di accompagnamento verso la Luna, il Futuro, ciò che diverremo (o che si desiderava diventare…purtroppo non stiamo mai al passo con i nostri sogni).
Questa stupenda lettera al padre è scritta in un italiano inframmezzato da pungenti tocchi di toscano, utilizzato senza remore anche nel riportare parole di gente anglofona che con l’Italia non ha nulla a che fare. E’ il carattere che vi si adatta, il carattere baldanzoso e un po’ incosciente di quegli States che ci arrivano tramite la penna della Fallaci, quel Paese che voleva schizzare nel futuro sui razzi figli delle armi che avevano flagellato l’Europa sotto il nazismo. Un orrore trasformato in sogno, trasformato a sua volta in delirio che non può che avverarsi traumaticamente o sfumare in qualcosa di più calmo e razionale.
Sono le persone, vere e senza filtri, che rendono speciale questo testo che sembra una storia di fantasia ma non lo è: Ray Bradbury, lo scrittore che riusciva a guardare al futuro amando perfino la paura che esercitava su di lui; Donald Slayton, costretto da un minuscolo difetto cardiaco a rinunciare alla Luna e accontentarsi con coraggio di un lavoro dietro alla scrivania; Theodore Freeman, un poeta nella tuta d’astronauta, che morì in un incidente aereo senza aver mai potuto volare nello Spazio; Charles Conrad, detto Pete, sempre pronto a scherzare su tutto e a sollevare il morale a chi gli stava attorno; e Oriana stessa, una donna straordinaria capace di calarsi in questo ambiente per lei straniero fino a diventarne parte e comprenderlo, offrendocene poi un ritratto nitido come una fotografia a colori.
Un libro speciale, splendido, forse uno dei migliori che io abbia mai letto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    27 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Tradizioni celtiche

L’Irlanda è una nazione che si fregia di una storia lunga e travagliata. Una storia fatta di tradizione, di origini straordinarie e magiche, di indefessa resistenza verso la dominazione straniera, di sentimento religioso intenso e profondo.
Se l’Irlanda è riuscita a passare quasi indenne attraverso la dominazione britannica e la sistematica umiliazione delle proprie origini e della propria tradizione culturale è anche grazie ad alcuni letterati della borghesia protestante che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, hanno cercato in tutti i modi di recuperare quanto rischiava di andare irrimediabilmente perduto.
Ecco quindi fiorire studi sulla lingua gaelica, sulla musica, sulla danza e sul folklore, compiuti in modo più o meno scientifico in base ai documenti – filtrati attraverso la straordinaria cultura monastica irlandese, tanto elevata da essere esempio per il resto d’Europa per un ampio periodo del Medioevo – ma soprattutto alla testimonianza diretta dei ceti “bassi”, ancora immuni al contagio della lingua inglese e della industrializzata cultura britannica.
William Butler Yeats (1865 – 1939) fu uno dei più importanti letterati d’Irlanda. Di buona famiglia, protestante, autore poetico e teatrale, portò agli estremi la ricerca del folklore locale, già avviata da altri letterati tra cui la madre di Oscar Wilde, a sua volta scrittrice di fama.
Egli riuscì a raccogliere una considerevole mole di materiale narrativo, in parte mediato dalla penna di altri scrittori, in parte tradotto dall’irlandese e, in alcune occasioni, documentato tramite l’ascolto diretto di individui che raccontavano esperienze personali o di conoscenti. Questo notevole lavoro di documentazione sfociò in due distinte raccolte: “Fiabe e racconti popolari delle campagne irlandesi” e “Fiabe irlandesi”.
La casa editrice Newton Compton ne ha messo in stampa una versione completa, unendo i due testi in un unico volume che prende il titolo dal secondo tomo, un’ottima traduzione che rispetta sia le note dell’autore che le parti nel dialetto gaelico, lasciate come nel testo originale.
Nella raccolta sono presenti leggende, favole (che forse un tempo avevano una diversa forma e contenevano messaggi andati perduti con il tempo) e testimonianze, nonché ballate poetiche e musicali. Questa varietà all’origine dei testi si evidenzia anche nelle diverse caratteristiche della prosa, che cambia continuamente volto.
Si passa dalle narrazioni fiabesche, palesemente letterarie, a racconti dallo spiccato umorismo irlandese, fatto di sarcasmo a volte anche pungente, irrisorio tanto verso i buoni quanto verso i cattivi. Le narrazioni in prima persona conservano un tono popolano e sono molto più inframmezzati da termini ed esclamazioni dialettali, che l’autore si premura poi di tradurre per il lettore. Altre storie possiedono ancora tracce dello spirito epico con cui venivano tramandate in origine.
I temi sono molti e Yeats ha diviso le storie a seconda del soggetto trattato. Gli antichi dei, per esempio, si sono trasformati in fate e folletti, esseri dispettosi o benevoli che entrano sovente nelle faccende umane e che non amano essere oggetto di conversazione. Alcuni spiriti si affezionano alle famiglie e le seguono per generazioni. Altri possiedono ricchezze, altri ancora desiderano solo il male di coloro che sono tanto sfortunati da trovarli sulla propria strada.
Vi sono poi racconti sui Santi e sul Diavolo, voce della potenza cattolica nel Paese. Satana compare molto spesso nelle storie (spesso con il familiare nomignolo Nick) e solo l’astuzia può salvare dal cadere nella sua trappola. Più che il Principe delle Tenebre, sembra un affarista dell’Inferno, a sua volta un folletto dannoso e dispettoso.
C’è anche un capitolo sulle apparizioni di fantasmi, anime inquiete fin troppo desiderose di mostrarsi ancora ai viventi. Si parla, inoltre, dei mondi paralleli, quelli dell’Eterna Giovinezza o della Morte, tracce delle antiche credenze religiose celtiche.
Tutti insieme, questi elementi straordinari vanno a forgiare il muliebre volto di un’Irlanda pagana e cattolica allo stesso tempo, forse l’unico luogo al mondo ove la tradizione celtica è riuscita a sposarsi con la religione europea in perfetta armonia, senza scossoni particolari, ricavando dall’unione qualcosa di speciale che non ha eguali.
Una parentesi di sogni e di sorrisi con qualche brivido d’inquietudine.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    26 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Una perla nell'Oceano Indiano

*Parziale spoiler*
Peter Foxglove, giovane rampante al servizio del Governo britannico, è convinto che il suo viaggio di lavoro a Zenkali, rigogliosa isola tropicale sita tra l’Oceano Indiano e il Pacifico, sarà una piacevole parentesi. In fondo, il suo incarico prevede solo di affiancare tale Hannibal Oliphant, consigliere del re dell’isola, la quale sta per ottenere l’indipendenza dall’Impero Britannico ed è coinvolta in fondamentali trattative per la costruzione di una base di importanza strategica.
Basterà il viaggio d’andata su una carretta del mare comandata da un gigantesco greco dall’ospitalità ingombrante e gestita da un equipaggio zenkalese con la testa tra le nuvole a distruggere le sue illusioni. Zenkali è un’isola tutta matta, i cui abitanti vivono in una dorata, amichevole e prosaica ingenuità. La follia sembra respirarsi con l’aria, perché anche gli occidentali che vi abitano sono tutti molto particolari.
Hannibal è un vulcanico concentrato di carisma e sapienza. Il re si fa irrispettosamente chiamare Kingy, governa con benevolo piglio dittatoriale e ha creato posti di lavoro fondando un servizio taxi con barroccini che sostituiscono le auto e un sistema di posta che consiste nel far correre qua e là dei messaggeri muniti di bastoncini biforcuti per consegnare i Libri (semplici foglietti di carta). Nel tempo libero crea cocktail micidiali.
Il Governatore è un timido senza nulla da dire, sua moglie un’eccentrica sorda come una campana che alleva galline faraone. Il giornale locale è gestito da un irlandese sempre ubriaco che inanella errori di stampa decisamente creativi. I missionari sull’isola vanno da belanti sacerdoti che predicano l’Apocalisse a una Reverenda americana che insegna ai suoi fedeli come costruire case o fabbricare bombe!
In tutto questo caos, Peter ha come unica alleata la giovane e bella Audrey, figlia d’Irlanda cresciuta sull’isola. Si accorge presto, però, di amare Zenkali e le sue bizzarrie; questo lo porta a non avere in grande simpatia il progetto della base militare, fortemente voluta da suo zio e da uno strisciante ministro locale, Looja.
Per puro caso, Peter stesso diventerà la causa di un’accesa diatriba sull’argomento. Durante una gita nella foresta, scopre con Audrey una valle nascosta in cui sopravvivono due specie viventi, credute estinte, di enorme importanza storica per Zenkali: l’albero Ombu e l’Uccello Beffardo, dio ancestrale della principale tribù dell’isola. La notizia fa scoppiare il caos e mette a rischio il progetto di inondazione delle valli per la base militare, facendo affluire a Zenkali un’incredibile quantità di gente pronta a dire la sua pro o contro il progetto.
La moderna lotta tra il Progresso e la Natura sta per avere inizio.
Lo scoppiettante, coloratissimo e dissacrante romanzo di Gerald Durrell ci conduce in un mondo di favola con abbastanza legami alla realtà da far sogghignare anche il lettore meno maligno. L’autore, con la sua prosa al vetriolo capace di dipingere nella mente del lettore tipi assurdi che riescono a incarnare perfettamente caratteri quasi archetipici, un po’ come fossero maschere di teatro, ci presenta un campionario umano del tutto folle, esilarante e dotato di disarmante simpatia.
Allo stesso tempo ficca il dito nella piaga degli arrivisti, i calcolatori, gli affaristi senza scrupoli, che qui appaiono sotto vesti quasi grottesche, come se faticassero nel non rivelare una natura tanto maligna perfino nei tratti nel volto o nella postura del corpo.
Le piccole manie, sull’isola si ingigantiscono tanto da diventare segnali identificativi del ruolo e del carattere delle singole persone, in una vertiginosa corsa verso il delirio.
Le descrizioni naturalistiche non si possono definire meno che meravigliose. Senza sommergere il lettore di dettagli, utilizzando colori così vividi da essere quasi accecanti, Durrell dipinge un’isola-tipo dell’Oceano Indiano e ce ne regala non solo la visione, ma anche il profumo, il sapore, la gioia di vivere. Il suo amore per la natura, i meravigliosi luoghi in cui la vita l’ha condotto, prendono sostanza sotto la sua penna, trasportandoci in un viaggio di favola che aprirebbe il cuore al più grigio cittadino.
“L’Uccello Beffardo” è un romanzo per tutti, un’avventura gioiosa che regala un minimo di ottimismo verso il futuro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    26 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Dalla Cornovaglia al Marocco

*Parziale spoiler*
La vita di Jane sta andando a rotoli. Dopo sette anni, la sua relazione illecita con Michael, marito della sua migliore amica, ha avuto bruscamente fine. Lui le ha dato il benservito, distruggendo ogni sua illusione, regalandole come dono d’addio un antico volumetto sull’arte del ricamo, di cui lei è appassionata.
Ad aiutare Jane a piangere tutte le sue lacrime, nonché a trovare di nuovo la forza di rimettersi in piedi e dedicarsi a qualcosa che non sia commiserarsi, ci pensa proprio il famigerato volumetto. La donna, infatti, scopre che al testo originale è sovrapposto il diario giornaliero di una fanciulla della Cornovaglia, Catherine Anne Tregenna, una ricamatrice dalle grandi ambizioni vissuta nel 1625.
La storia della ragazza, le sue frustrazioni per l’impossibilità di diventare qualcosa in più di una serva in casa di nobili e l’obbligo di sposare il cugino Rob, il progetto ambizioso di ricamare un paliotto d’altare disegnato da sé, portano Jane in un mondo che la aiuta a distrarsi. D’improvviso, sia il presente che il passato la sconvolgono nuovamente. Il marito di sua cugina Alison si suicida, costringendola a raggiungerla nella loro casetta in Cornovaglia. Il diario, poi, cambia improvvisamente rotta per passare al dramma avventuroso: Catherine, infatti, viene rapita insieme a parecchi concittadini da un gruppo di pirati della Barberia, spintisi fino alle coste inglesi per fare bottino.
Come se non bastasse, Michael si mette sulle sue tracce, in apparenza per riallacciare la relazione ma in realtà per sottrarle il volumetto. Il dono è stato un errore, uno scambio di testi, in quanto Michael si era accorto dell’antico diario ed è intenzionato a venderlo e ricavarci del denaro.
Jane, sempre più coinvolta dalle vicende di Catherine, decide di partire per il Marocco, ricalcando il viaggio disperato della ragazza per trovarne traccia laggiù. Scoprirà così, come già la fiera fanciulla diventata proprietà del rais Al Andalusi, una civiltà diversa, piena di sfaccettature ignote, e un uomo che saprà tirare fuori il meglio dal suo cuore, trasformandola in qualcuno di cui poter essere finalmente orgogliosa.
Questa, in breve, la trama del romanzo “Il decimo dono” di Jane Johnson, un intreccio di passato e presente, tra curiosità storiche riguardo alla lotta tra i regni della cristianità e la pirateria musulmana del XVII secolo, nozioni sull’arte del ricamo, magici paesaggi della Cornovaglia e misteri del Marocco. Nel suo costante andare e venire nel tempo, la storia si dipana con una coerenza rassicurante e azzeccata, in un costante parallelismo tra le vicende sfortunate di Jane e le letture dal diario di Catherine prima e dalle lettere del cugino Rob partito alla sua ricerca poi.
Pur con il palesarsi della doppia storia d’amore in terra musulmana (tra Catherine e il suo rapitore, l’affascinante e colto Al Andalusi, come tra Jane e la sua guida locale Idris), la trama non scade quasi mai nella banalità, riuscendo a tenere teso il filo dell’attenzione per almeno tre quarti della lettura. La tensione perde un po’ di mordente, purtroppo, sul finire, come se l’autrice fosse stata costretta a comprimere quest’ultima parte per rimanere entro un certo numero di pagine. Dictat dell’editore o sindrome da “fretta di finire”? Nonostante ciò, il giudizio complessivo dell’opera rimane positivo.
Pur contenendo tematiche più care al mondo femminile che a quello maschile, il romanzo è comunque godibile da un pubblico eterogeneo grazie al clima avventuroso della vicenda, agli splendidi luoghi che fanno da sfondo alle due storie e, soprattutto, all’accuratezza con cui vengono illustrate vicende storiche per noi piuttosto oscure.
Mentre, infatti, non avrebbe suscitato alcuno sgomento un attacco di pirati turchi sulle coste del Mediterraneo, potrà risultare nuovo a molti sapere che i corsari di Salè si spingevano tanto a nord ed erano diventati così aggressivi e spregiudicati da attaccare non solo i navigli che avevano la sfortuna di incrociare la loro rotta, ma perfino i villaggi sulla costa.
Lo scontro tra le due grandi religioni monoteiste, infine, viene dipinto senza pregiudizi o campanilismi, pur se con un occhio di riguardo per la cultura musulmana che in questo caso rappresenta il cambiamento, il fascino di ciò che non si conosce.
Una lettura consigliata a chi apprezza il connubio tra avventura e storia d’amore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantasy
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
Zine Opinione inserita da Zine    24 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Roland racconta

Tra le opere immani di Stephen King, famoso anche per le dimensioni dei suoi romanzi, spicca senza ombra di dubbio la saga fantasy-western de La Torre Nera, scritta dall’autore americano nell’arco di una trentina d’anni e composta da ben sette romanzi.
La storia del pistolero Roland e della sua ricerca della Torre Nera, fulcro degli Universi, insieme al suo sgangherato gruppo di compagni raccolti nei punti di contatto tra i mondi, ha incantato e appassionato i lettori per molti anni, regalando grandi colpi di scena, avventura e molte lacrime. La saga ha avuto il suo corso e si è conclusa alcuni anni fa. Nessuno, a quanto pare nemmeno King, poteva immaginare che Roland non ci avesse ancora detto tutto.
In effetti, il viaggio del pistolero e del suo ka-tet è talmente lungo e vario che i buchi da riempire, volendo, sono tanti. King non sembra avere questo in mente nel mettersi a scrivere “La Leggenda del Vento”, ma il romanzo si colloca in un imprecisato momento di cammino tra il quarto e il quinto romanzo della saga. Si tratta di un piccolo imprevisto che costringerà i protagonisti a una sosta forzata, da riempire in qualche modo…magari con un racconto davanti al fuoco.
Comincia così, con l’arrivo di una micidiale tempesta di gelo chiamata starkblast, questa fiaba tripla, narrazioni contenute l’una nell’altra come matrioske.
Roland, infatti, racconta ai compagni di ventura un episodio della sua adolescenza, il quale racchiude a sua volta la narrazione di un’antica fiaba della sua terra, Gilead, che sua madre gli leggeva quand’era solo un bambino.
L’obiettivo dell’autore è quello di creare una storia che possieda una sua indipendenza dalle vicende della saga originale, in maniera da essere godibile anche da un lettore che non ne abbia mai letto una riga. Un traguardo nient’affatto facile da raggiungere, vista la complessità della storia di Roland e le molteplici caratteristiche fantastiche dei mondi che attraversa.
Per riuscirci, inizialmente King utilizza una prosa più scarna del suo solito, senza indulgere in spiegazioni, riassunti degli episodi precedenti, tratteggi psicologici dei personaggi. Ci catapulta in mezzo a Roland e ai suoi compagni offrendoceli a scatola chiusa, per quello che sono, con un occhio oggettivo che ricorda molto le pagine iniziali del primo romanzo. Non si cerca l’affezione, impossibile da ottenere con poche righe, ma solo di dipingere con poche pennellate il contesto da cui partirà la favola.
Proprio nell’iniziare il racconto di un Roland adolescente, il tono cambia e si fa più morbido, colloquiale, riportando alle reali atmosfere che caratterizzano la storia del pistolero. Il corpo centrale del romanzo, la fiaba che dà il titolo al tutto, è una chicca in cui King fa ciò che gli riesce meglio: confezionare un’avventura in cui speranze e paure dell’infanzia la fanno da padroni.
Roland racconta del suo viaggio a Debaria, nel tempo in cui era ancora un giovane pistolero, alla ricerca di un efferato assassino. Questi, purtroppo, non è un semplice uomo bensì uno skinman, un cambiaforma. Dopo l’ennesimo attacco sanguinoso, Roland prende in consegna il piccolo Bill, unico testimone rimasto in vita che potrebbe riconoscere la vera forma dell’assassino.
In attesa di veder sfilare i sospettati e per tenere Bill tranquillo, il giovane Roland gli racconta una favola che risale alla sua infanzia: la storia del piccolo Tim, un bambino coraggioso che vive ai margini della Foresta Infinita. Per salvare la propria madre dalla violenza del patrigno, Tim farà l’errore di fidarsi di un oscuro figuro venuto da Gilead e si inoltrerà nella Foresta a rischio della vita per incontrare il leggendario Maerlyn e ottenere da lui una cura per i danni alla vista subiti dalla madre. La fiaba è cruda, violenta, poco consolatoria, ma contiene quel grano di speranza di cui ogni bambino – e, di conseguenza, ogni adulto - ha bisogno. Sarà uno starkblast, una tempesta identica a quella che nel presente sta tenendo bloccati Roland e i suoi, ad offrire a Tim la possibilità di ottenere ciò di cui è in cerca. Il cerchio si chiude, le storie terminano una dietro l’altra e il cammino dei pistoleri riprende da dove si era interrotto.
Conoscendo bene la saga, non saprei affermare se King riesce nell’intento di offrire il romanzo anche a lettori ignari della Torre Nera. Per chi ha seguito con amore Roland e il suo ka-tet fino alla fine del viaggio, un dono gentile da leggere tutto d’un fiato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
30
Segnala questa recensione ad un moderatore
Narrativa per ragazzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    24 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Oltre l'armadio

E’ una prerogativa del gioco dei bambini quello di scoprire mondi dietro ogni cosa che a noi pare scontata, quotidiana. Osservandoli nel pieno delle loro attività, la nostra parte adulta scuote il capo con condiscendenza; quella bambina, ricorda e rimpiange la potenza della fantasia, capace per intere ore di modificare la struttura stessa della realtà.
C.S.Lewis, con la saga di “Narnia”, ci restituisce proprio la potenza immaginativa del bambino, creando romanzi che possono essere letti dai più piccoli come da quegli adulti che hanno conservato in sé il senso del gioco e del meraviglioso. Di recente, la saga è tornata alla ribalta grazie alle produzioni cinematografiche della Disney. Esse, pur avendo il merito di aver portato alla lettura dei romanzi le nuove generazioni, hanno parzialmente snaturato le atmosfere di Narnia, trasformando la fiaba e il suo messaggio in qualcosa che somigliasse di più al fantasy eroico, maggiormente in voga al momento e sicuramente più spettacolare a livello visivo.
Le storie di Lewis, infatti, benché annoverino battaglie, storie di cappa e spada, scontri con mostri e streghe, non si basano su questi contenuti con intenti epici simili, per intenderci, alle atmosfere del Signore degli Anelli (il cui autore, Tolkien, fu contemporaneo e amico personale di Lewis), bensì come metafora del diventare adulti, delle responsabilità, della presa di coscienza del proprio ruolo e del coraggio in ognuno di noi, oltre che della lotta continua contro le paure e i cattivi sentimenti.
Tanti anni fa, quando ero ancora bambina, la Mondadori aveva pubblicato nella collana per i più piccoli il primo titolo: “Il Leone, la Strega e l’armadio”. La storia narra di quattro fratelli – Peter, Susan, Edmund e Lucy- separati dai genitori a causa della guerra (siamo nell’Inghilterra della Seconda Guerra Mondiale) e ospiti di un lontano parente. Nella nuova casa, la piccola Lucy scopre un armadio magico che mette in comunicazione con il mondo di Narnia, terra abitata da esseri fatati e animali parlanti, in cui vige sempre l’inverno a causa della maledizione della Strega Bianca. Una leggenda dice che l’estate tornerà quando quattro figli di Adamo ed Eva siederanno sul trono di Cair Paravel, benedetti da Aslan, il Leone che governa su tutto dal suo regno d’oltremare. Lucy e i fratelli vengono così coinvolti nella guerra per il potere di Narnia. A loro è affidato il compito di riportare la vita e la libertà al mondo magico, seguendo il magnifico Aslan, il quale incarna nella sua forma di leone qualcosa di più antico, profondo e luminoso.
Esiste un prologo, scritto più avanti nel tempo e intitolato “Il nipote del mago”, che racconta come Narnia è stata creata e in che modo gli Uomini e la Strega Bianca vi sono giunti.
Dopo il primo romanzo, nucleo della saga intera e bastante a se stesso, Lewis scrive un racconto legato solo parzialmente alle vicende del primo romanzo, intitolato “Il cavallo e il ragazzo”. Esso tratta della fuga di un giovane schiavo e di una ragazzina nobile in compagnia di due cavalli parlanti di Narnia. Tutti loro vogliono lasciare Calormen, un regno simile agli antichi sultanati arabi, per raggiungere la favoleggiata terra magica. Finiranno per fare del loro meglio per salvare un intero regno che sta per essere invaso.
Segue “Il principe Caspian”, in cui i nostri protagonisti ufficiali tornano a Narnia per aiutare il giovane Caspian contro lo zio malvagio, favorendo il suo insediamento sul trono e il ritorno della pace nel regno. La storia, più fantasy delle altre, è caratterizzata dalla dolceamara certezza che Peter e Susan stanno diventando adulti e che le loro avventure nel regno magico stanno finendo. Si passa poi a “Il viaggio del veliero”, in cui Edmund e Lucy tornano a Narnia insieme al recalcitrante cugino Eustachio e seguono Caspian in un viaggio attraverso i mari, verso il regno di Aslan. Si tratta di un vero e proprio percorso iniziatico dello spirito, portato avanti per metafore pensate per un’erudizione elevata. Per un bambino, si tratta solo di un magico viaggio verso la Luce.
“La sedia d’argento” è un’estemporanea avventura di Eustachio, tornato a Narnia per aiutare un figlio di Caspian insieme alla compagna di scuola Jill. La coppia di protagonisti non ha l’appeal di quelli originari, perciò la fiaba è da pensare come testo a sé, basato più sulla sequenza degli eventi straordinari che sull’effetto nostalgia del filone principale.
Si termina, infine, con un finale di per sé drammatico in “L’ultima battaglia”, in cui il regno di Narnia va incontro al suo destino e tutti – anche i più adulti- tornano al cospetto di Aslan, la cui natura finalmente si palesa, rivelando il profondo messaggio spirituale che l’autore ha intessuto fin dal primo romanzo.
Ogni lettura dei romanzi mette in luce nuovi aspetti della scrittura di Lewis. Saltano subito all’occhio l’amore per la fantasia e per i bambini. Segue il messaggio spirituale, fondamentalmente cristiano e basato sulla contrapposizione tra Luce e Tenebre, nella costante ricerca del Bene, del perdono e del sacrificio. Si nota poi la contrapposizione tra Occidente e Medio-Oriente, incarnati dagli Uomini di Narnia e Arken da una parte, e dai Calormeniani dall’altra, in un’atmosfera che ricorda sempre di più il periodo delle Crociate.
Una saga con molteplici piani di lettura, una favola straordinaria e profonda. Buon viaggio!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    23 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

Le fogne dello spirito

Cosa lega il capitano Simonini, notaio e falsario di lungo corso, all’abate Dalla Piccola, schivo uomo di Chiesa? Perché i loro appartamenti sono comunicanti? Cosa nascondono i loro diari e perché la memoria dell’uno presenta inspiegabili momenti di tenebra su cui solo l’altro sembra in grado di fare luce? E cosa c’entrano questi due personaggi con i grandi fatti storici che porteranno alle Grandi Guerre del ‘900?
Simonini, nato nel Piemonte del Regno di Savoia e cresciuto dal nonno, un militare acceso antisemita, sviluppa negli anni un odio viscerale verso la figura dell’Ebreo, nonché una misoginia talmente forte da sfociare nel totale disgusto verso il corpo femminile. L’unico suo piacere è la buona tavola, la cucina di classe, cibo e bevande che possano portare godimento al suo corpo. Per quanto riguarda il resto, odia tutto e non si fida di nessuno, nemmeno degli uomini di Chiesa. Ha poi un’avversione particolare per i Gesuiti.
Questi tristi tratti del suo carattere vanno radicandosi tanto da farlo diventare un uomo subdolo, disonesto, il cui più grande piacere è screditare gli oggetti del proprio odio. Gliene viene data l’occasione: il governo sabaudo si accorge delle sue potenzialità e decide di utilizzarne le doti di falsario per modificare a proprio piacimento le dinamiche e i passaggi del potere in Meridione, ove è in pieno svolgimento la missione dei garibaldini.
Da questo fatto comincia la carriera di Simonini, che lo porterà poi a Parigi e lo metterà in contatto con i servizi segreti di molti governi europei, sempre alla ricerca di documenti falsi che possano cambiare l’opinione pubblica o giustificare decisioni di grande portata internazionale.
Così prende il via l’ultimo romanzo di Umberto Eco, IL CIMITERO DI PRAGA, edito da Bompiani in un’edizione quantomai raffinata. A una sovracoperta che mostra un tenebroso vicolo fin de siècle, si accompagna un cartonato del più immacolato bianco e un testo stampato in caratteri differenti a seconda del narratore del momento (l’autore, Simonini o Dalla Piccola). Inoltre, il romanzo è costellato da illustrazioni, stampe a bulino espressamente cercate e volute dall’autore, in ricordo dei feuilleton (i romanzi a puntate) del XIX secolo. L’impressione è di trovarsi in mano un’opera pensata fin nei minimi dettagli, ivi compresi quelli estetici, e la lettura non delude.
Il romanzo è una finestra spalancata sul mondo del falso storico e della teoria della cospirazione, il corrispettivo letterario del vicolo di un quartiere malfamato, umido e puzzolente, in cui si riproducono e crescono ratti a migliaia, pronti poi a diffondersi come una malattia. Eco mostra attraverso il suo protagonista- un personaggio gretto e repellente a tal punto da risultare odioso fin dalle prime righe- come le teorie antisemite hanno preso forma nell’Europa dei movimenti rivoluzionari, seguendo la pubblicazione e la divulgazione di trattati tendenziosi e prove costruite a tavolino – e ben pagate- per offrire solide basi alle scelte politiche di quegli anni.
Assistiamo inoltre alla nascita delle teorie cospiratorie riguardanti la Massoneria e la condanna del potere dei Gesuiti, che spariscono inesorabilmente dal panorama europeo. Le tesi sulla cospirazione (massonica, comunista, aliena…) del secolo scorso sono dirette figlie di questa fabbrica di Storia, di una Verità decisa da pochi e spacciata per assoluta. L’odio micidiale dell’Europeo nei confronti della minaccia ebraica, sfociato nei pogrom sovietici e nelle persecuzioni naziste, è cresciuto nutrito dal limo malsano di queste invidie, di questi odi atavici supportati da una letteratura malata, dalla compravendita di documenti fabbricati all’uopo.
Il romanzo di Eco è un viaggio buio attraverso la grettezza dell’era contemporanea al suo nascere, sdrammatizzato da uno stile frizzante, caustico. Un’ottima lettura, senza timore di finire nel pantano di troppe nozioni storiche.
E, alla fine, anche il legame tra Simonini e un abate che avrebbe dovuto avere la decenza di rimanere morto verrà svelato…

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Zine Opinione inserita da Zine    23 Aprile, 2013
Top 500 Opinionisti  -  

La Cupola

La più recente attività del colonnello Dale Barbara, per gli amici Barbie, soldato in congedo dopo i fatti dell’Iraq, è stata quella di preparare squisiti pasti allo Sweetbriar Rose. Quando però entra in collisione con il figlio di Big Jim Rennie, secondo consigliere comunale di Chester’s Mill, arriva il momento di cambiare aria e allontanarsi da quel paesino di provincia, all’apparenza uguale a mille altri.
Il suo trasloco – nonché i movimenti di chiunque oltre i confini della giurisdizione- viene purtroppo bloccato da un evento inaspettato quanto sconcertante: su Chester’s Mill cala una barriera invalicabile, un muro che taglia fuori il paese dal resto del mondo. Dopo i primi gravi incidenti dovuti alla trasparenza della barriera, il governo degli Stati Uniti prende il controllo esterno della situazione, affidando a Barbie il comando all’interno di Chester’s Mill e constatando che la barriera è in realtà una gigantesca cupola che si protende per chilometri sopra e sotto la terra. Verranno utilizzate tutte le armi a disposizione per cercare di distruggerla.
Il Governo, però, non ha fatto i conti con Big Jim Rennie. L’uomo, uno spietato opportunista assetato di potere, vede nella Cupola un buon modo per ottenere il potere assoluto su Chester’s Mill. Si circonda di fidatissimi, fa organizzare una milizia composta dai peggiori ragazzacci del paese, complotta con il figlio assassino e a sua volta si macchia di omicidio, scaricando la colpa sulla testa di Dale Barbara. La sonnolenta cittadina di provincia, isolata, diventa teatro della nascita di un regime dittatoriale, di caos, incidenti, suicidi e omicidi che ne sconvolgono l’ordine e le tradizioni.
Solo pochi riusciranno a mantenere la calma pur nella situazione disperata, sostenendo Barbie e aiutandolo a cercare il generatore della barriera. Chi è stato a creare la Cupola? Si tratta di uomini…o di tecnologia extraterrestre? E quale ulteriore tragedia si prepara per Chester’s Mill con l’avvicinarsi di un Halloween di fuoco? Riusciranno gli abitanti a sopravvivere alla Cupola?
THE DOME di Stephen King è edito come sempre dalla Sperling&Kupfer. La scelta di mantenere il titolo originale è, a mio avviso, azzeccata: la parola inglese ha maggiore ridondanza della nostra semplice cupola. Il gigantesco tomo di 1000 pagine è una delle storie ‘comunitarie’ di King, quelle cioè in cui cataclismi e orrori vengono affrontati dagli abitanti di paesi interi, che l’autore ci presenta a mano a mano, lasciando a molti di loro l’opportunità di accompagnarci fino alla fine. Il modo in cui sono presentati e la caratterizzazione precisa tipica di King evitano, fortunatamente, di fare troppa confusione.
Pur se incentrato soprattutto sulla degenerazione della patina di civiltà di cui l’uomo moderno si ammanta in caso di gravi e improvvise calamità, The Dome è un romanzo di fantascienza. Presi dai piccoli avvenimenti ci si dimentica spesso, durante la lettura, di quelli grandi…e forse la cosa è voluta. I protagonisti stessi sono quasi sempre così presi dalla lotta contro Rennie che i segreti della barriera passano in secondo piano, e in questo modo si segue costantemente il loro ristretto punto di vista. L’altro, l’extraterreste, si manifesta davvero solo verso la fine. Per tutto il resto del tempo, ci si chiede quanto ci voglia perché qualcuno rifili a Rennie un cazzotto sui denti e lo lasci ad agonizzare da qualche parte.
Non direi che questo sia uno dei romanzi migliori di King, anche se la sua prosa è sempre molto piacevole e i personaggi sono facili a suscitare affetto (o odio puro). In questo caso, fin dall’inizio si intuisce come può andare a finire e dispiace dire che The Dome non offre molte sorprese, anche se è ben costruito. Quindi, una buona lettura ma non esaltante per chi sa cosa può fare il nostro Stephen.
…trovo Big Jim Rennie uno dei cattivi più irritanti che King abbia mai creato…voi che ne pensate? L’ho voluto morto dalla prima pagina in cui l’ho incontrato!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
50
Segnala questa recensione ad un moderatore
57 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

Il successore
Le verità spezzate
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
L'anniversario
La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele
La compagnia degli enigmisti
Il mio assassino
L'età sperimentale