Opinione scritta da Domitilla Ganci
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Voci dalla Suburra
“Addio Monti”, titolo evocativo e suggestivo che rimanda, però, a quanto di più lontano possiamo immaginare dal contenuto di questo romanzo d’esordio del giornalista Michele Masneri, bresciano di nascita e capitolino d’adozione.
I “Monti” del titolo, sono quelli di uno dei più antichi e noti quartieri di Roma: rione Monti. E’ l’antica Suburra menzionata già da Orazio, informe agglomerato urbano della Roma imperiale, che ha attraversato i secoli rimanendo uguale a sé stesso. Terra di prostitute e balordi, un buco nero dentro la città antica, degradato e ignorato dai più fino a pochi anni fa e che oggi, invece, supera Trastevere (ormai alla deriva, declassato a terra di conquista del turismo notturno più aggressivo e alcolico) e diventa nuovo oggetto del desiderio nell’ immaginario della rampante classe radical (finto)-chic romana e non.
Giornalismo, cultura, imprenditoria, spettacolo, un circo policromo di cui si narrano personaggi e figuranti, fotografati con perfida ironia nell’ atto estremo dell’offerta di sé, attraverso complicati riti di cui l’autore illustra, con spassosa precisione, tutti i passaggi.
Il libro, sebbene più lieve e frizzante, potrebbe essere l’omologo letterario del film premio Oscar di Sorrentino (benché scritto in tempi non sospetti), perché sempre di Roma si parla e sempre ne esce un ritratto feroce e impietoso della città, di una certa sua fauna che ne abita misteriosi anfratti.
Bandito dagli inarrivabili quartieri vip di Roma Nord, escluso dalla vera, inaccessibile high society dall’ allure più chic , questo “ceto riflessivo” si propone in un ambiente più basso, un tessuto sociale molle, cedevole, una buona società de noantri ,che è un coacervo di opachi individui che smaniano in cerca di una fetta di visibilità, all’ arrembaggio di una remota possibilità di scalata sociale.
Un romanzo contemporaneo in cui l’alternarsi delle voci narrative, ad un ritmo rapidissimo, dà luogo ad una prosa originale, che è l’elemento del libro più interessante. Un canone linguistico che mescola con abilità romanesco, linguaggi settoriali, slang metropolitano, che si modella, plastico, sulla psicologia dei personaggi. Qualcuno ha fatto riferimento alla prosa di Arbasino. Certo è che riuscire a seguire il ritmo forsennato dei dialoghi è quasi un’impresa!
La storia si svolge tutta dentro un supermercato (“la pregiatissima Sma dell’Amba Aradam”), uno dei rarissimi del centro storico di Roma, due amici, un giovane gigolò, che è anche ghost writer (voce narrante che resta senza nome) e una giornalista un po’ depressa (Gloria), si incontrano per caso, si scambiano confidenze e si raccontano gli ultimi gossip. Saranno loro a portarci fuori da lì, a tracciare per noi la geografia di riferimento per questo nuovo ceto sfacciato e cafonal che si aggira tra Cortina e Favignana ma non disdegna, all ’occorrenza, le spiagge di “Cape Cod” (Capocotta nel popolare litorale di Roma sud) o Santa Marinella (altrettanto popolare, ma a nord della capitale), sempre, però, con il corredo giusto: abiti costosi e finto-sgualciti, BlackBerry (vintage, più cool e meglio dell’i-phone), Adelphi che spuntano dalle borse (di tela) insieme a Limes o Micromega e a inserti culturali dei vari quotidiani opportunamente spiegazzati.
Lo sguardo sornione dell’autore si posa disincantato su questo universo: giornalisti free-lance, scrittori con poco talento e molte ambizioni, attori di fiction di seconda e terza categoria, dame della nobiltà capitolina cadute in disgrazia, sciure del nord-est con tanti soldi e poca grazia, tutti alla ricerca spasmodica dell’evento, della serata giusta, della mostra o del concerto imperdibili.
Poi ,dal magma indistinto, emergono, sempre portate a galla dalla chiacchiera infinita nel supermercato, delle sagome che svettano sulle altre e il romanzo racconta alcune brevi, grottesche storie. Un immobiliarista senza scrupoli che, sfruttando i luoghi letterari pasoliniani, vende ad ingenui acquirenti col mito neorealista, presunti “loft” in quartieri degradati gentrificati, un talentuoso giornalista economico sfinito dalla smania di denaro e che ormai scrive solo marchette, un presentatore tv che sbaglia battuta, finisce nel fango, ma poi risorge dalle sue ceneri. Figure dimenticabili, ma che danno l’idea di cosa sia un certo ambiente della nostra società.
La trama, abbastanza evanescente, (ma non era sulla storia che l’autore voleva concentrarsi) è, dunque, un’infinita conversazione, che attraversa modi e luoghi di questo ceto mutevole e fluttuante, inframmezzata dalle esilaranti pause in cui Gloria è alla ricerca della sua spesa, anch’ essa adeguata ai canoni del ceto d’appartenenza (kamut, tofu, polpettine di alghe bio, ecc) e durante le quali i due protagonisti, fermi davanti alle casse, osservano pensosi il microcosmo che li circonda (“…middle class, cassiere isteriche, dentiere impiegatizie digrignanti, non c’è traccia di quel dominio dei sensi che era un tempo questa Sma, punta di diamante della Grande Distribuzione Romana”).
Un romanzo irriverente e feroce, che diverte e fa riflettere, ritratto spietato e tagliente di un’epoca di cui tutti, un po’, facciamo parte e condividiamo le pene.
Una curiosità: l’editor del romanzo è un certo Nicola Lagioia che, mi pare, abbia vinto un certo premio di recente, con un romanzo che sembra ricalcare, spostando appena le coordinate geografiche e inserendo abilmente l’elemento noir, l’ indagine di costume del libro recensito.
Interessanti incroci letterari.
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Gabbie dorate
Il racconto di un percorso intimo e segreto, che si perde nelle pieghe di un’anima randagia, in quel modo sottile e sotterraneo che segue chi non riesce ad esporsi, chi fatica a rendere manifesta la propria diversità e sceglie piccole isole di ribellione, tutto sommato conciliabili con una vita “dentro”, rispetto alla fuga o alla provocazione.
Questo è l’ultimo romanzo di Letizia Muratori, giornalista e scrittrice romana che, già dagli ultimi romanzi, comincia ad affermarsi, come merita, al di fuori della ristretta cerchia della cultura capitolina.
La storia parte in modo lento e, soprattutto, ha un inizio che non è un inizio, il lettore si trova già dentro una situazione: l’autrice lo introduce subito in un interno e lo lascia seduto tranquillo ad osservare i personaggi come se dovesse riconoscerli, e non incontrarli per la prima volta, mentre parte, da un luogo invisibile, la narrazione.
Il tempo della storia è spezzato, non conosce linearità se non per alcuni passaggi lunghi nei quali la scrittrice lascia intravedere gli antefatti, dando al lettore la possibilità di orientarsi…ma non troppo! “Animali domestici”, infatti, è un testo complicato, una storia in cui si innestano altre storie, in cui i personaggi vagano nel tempo, vanno e tornano con i loro spezzoni di vita cercando di incontrarsi e stabilire connessioni, rapporti, incontri.
Il romanzo è una storia non di fatti, ma di trasformazioni interiori, di persone che seguono percorsi che, spesso, non li portano da nessuna parte se non all’ interno di sé stessi, per accettare ciò che è difficile accettare, per fuggire in un altrove interno e costruirsi un luogo dell’anima dove trovare rifugio.
I rapporti sono difficili: amori familiari persi nell’ incapacità di essere presenti, amori fraterni confusi e disperati, amori di coppia ambigui, incerti.
C’è una protagonista che compare e scompare, lasciando spazio ad una pluralità di personaggi che fanno di questo romanzo una storia corale.
Letizia, scrittrice nervosa e sofferta, una vita sentimentale disordinata e una tendenza insopprimibile ad accucciarsi in interni pericolosi, è intrappolata in un caleidoscopio di sentimenti difficili da gestire. Al centro della vicenda (anche se tutti i fatti appaiono, in fondo, decentrati) un amore ambiguo e particolare: la relazione sghemba con Edi Sereni, personaggio perno del romanzo. Poliedrico e sfuggente, musicista mancato, giornalista, ex cronista di guerra, figura mitologica presente in tutta la vita di Letizia (“…mi fece uno strano effetto, come se il resto sella mia vita fosse stato solo uno scherzo, e la relazione con Edi, che aveva mantenuto i tratti di una parentesi segreta, si fosse allargata a comprendere tutta la realtà…”), Edi Sereni è il padre di Chiara: la sua amica d’infanzia, che ricompare nella vita di Letizia evocato proprio da lei, a distanza di anni, quando cede al desiderio di rivederlo e decide di inviargli la copia del suo ultimo libro, con dedica.
La migliore caratteristica del romanzo è, per me, in certe descrizioni di personaggi minori lievi e sospesi come gli anziani zii di Edi, costretti a vivere, in vecchiaia, come marito e moglie e per questo incattiviti e quasi impazziti di rabbia e rancore, o la piccola Chiara, incompresa da bambina, irrisa e umiliata nel suo mondo di dislessica non riconosciuta e divenuta un essere fragile e selvatico, consolata solo dai cani randagi a cui salva la vita portandoli nel suo rifugio, o i nonni inglesi di Simonetta (altra amica d’infanzia di Letizia), che attraversano i sanguigni quartieri di Roma con il loro distacco anglosassone un po’ snob e il loro sorriso remoto.
E’ curioso come l’autrice riesca, poi, ad abbandonare, repentinamente, storia e protagonisti per seguire personaggi sui quali inciampa per caso e che riesce a tratteggiare con pochi schizzi precisi e accattivanti (“…la signora del quinto piano che aspettava l’ascensore…viveva sempre su una soglia. Annodava sacchetti davanti a uno zerbino…scendeva furtiva in scarpette color panna e giacca rossa, stringendo tra le dita laccate d’albicocca, vaschette di polistirolo”) che ci proiettano all’ istante sulla scena, al fianco di Letizia, incastonandoci nel preciso momento che ha deciso di raccontarci: nelle sue emozioni di ragazzina, nel cortile dell’università o nel suo peregrinare tra case, cantine e letti promiscui di adulta irrisolta.
Sono presenze evanescenti, ma in un testo così eccentrico si allineano ai personaggi cardine della storia, acquisendo spessore e profondità che altrove non avrebbero.
E poi ci sono i luoghi. La poesia dei luoghi dal sapore vagamente gozzaniano: appartamenti “ricettacoli di oggetti abbandonati”, cantine umide che conservano vecchie poltrone coperte da lenzuola che hanno accolto infanzie lontane, terrazze condominiali, soggiorni con pareti decorate da stampe di balene, negozi di antiquariato. Interni che conservano umori, dolori, età di chi li ha abitati, restituendoli a chi li attraversa in altre epoche, carichi di significati impliciti e segreti.
Sfondo della storia, l’adolescenza di Letizia, che, nel libro e nella realtà, si colloca negli anni ottanta. Il romanzo è disseminato di rimandi a quell’ epoca fatti di oggetti (la crema abbronzante Lancaster, il baracchino) e topoi nostalgici e un po’ stropicciati (“Blade runner”, Grace Jones, i viaggi a Londra con gli spettacoli teatrali al West End).
Originale e inconsueto, è un romanzo da leggere, superando l’iniziale disorientamento, rinunciando a cercare il bandolo della matassa e abbandonandosi al fluire del racconto.
Io a metà del libro sono tornata indietro, all’ incipit e ho ricominciato, proseguendo poi a salti ed assaggi e tormentando le pagine con vergognose orecchie per poter riassaporare i passaggi più intensi o sottolineare le frasi che mi sono piaciute. Un approccio da adolescente che, credo, piacerebbe all’ autrice che parla a quel piccolo ribelle che è in noi e ha dovuto diventare nel tempo, per scelta, calcolo o necessità… un animale domestico.
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Se una notte d'inverno un viaggiatore...
La forza prorompente delle passioni, è il tema che attraversa in modo sofferto e drammatico questo romanzo breve di Lev Tolstoj, pubblicato nel 1891.
E’ un’opera singolare e controversa appartenente al secondo periodo della produzione letteraria del grande scrittore russo, quello successivo alla cosiddetta “conversione”: dopo un’intensa crisi spirituale, Tolstoj aveva vissuto una profonda trasformazione, che si era conclusa con l’abbandono della religione ortodossa in favore del cattolicesimo, cui aveva aderito con una modalità totalizzante, al limite del fanatismo, che lo aveva portato a rivedere molte delle sue convinzioni in merito alla morale e alla vita in generale e che ne aveva influenzato profondamente tutta la successiva produzione letteraria. Abbandonando il concetto di natura come energia vitalistica, positiva e benigna, Tolstoj mostrava ora diffidenza verso una materia che considerava priva di spiritualità e tesa solo all’ autorealizzazione.
Atto d’accusa contro le istituzioni e l’ipocrisia di una vita familiare e sociale basata sull' inganno e la menzogna, “La sonata a Kreutzer” rappresenta l’esposizione delle teorie dell’ultimo Tolstoj sulla morale sessuale. Il linguaggio esplicito e la scabrosità del tema affrontato, sorprendenti per l’epoca, portarono non pochi problemi all’ autore. Solo grazie alla stima incondizionata di cui Tolstoj godeva da parte dello zar Alessandro III, fu possibile aggirare il dissenso delle autorità russe e giungere alla pubblicazione del racconto.
Il protagonista della storia, che si qualifica subito come appartenente all’ agiata nobiltà del paese, durante un viaggio in treno racconta ad uno sconosciuto di aver ucciso sua moglie. Davanti allo sconcerto del viaggiatore, Pozdnysev ripercorre le tappe che in un crescendo drammatico e allucinato lo avevano condotto a diventare un omicida.
I primi capitoli del romanzo, sono una lunga e articolata riflessione sull’ ipocrisia della vita matrimoniale che non è altro che un mascheramento, un inganno, che nasconde la soddisfazione di un istinto animalesco che l’uomo dovrebbe dominare e respingere, consentendosi l’unione carnale solo a fini strettamente necessari alla procreazione.
Attraverso la condanna della bellezza, come forza corruttrice dell’integrità dell’animo umano, lo scrittore giunge a negare il valore delle arti: la poesia, la musica, sono generatrici di una sensualità ingannevole e illusoria che nel tempo disattende le promesse.
La musica, con il suo pericoloso potere di suggestione, diviene la causa della follia di Pozdnysev; la sonata di Beethoven, in cui i due strumenti si armonizzano e si fondono è , per il protagonista, un esplicito richiamo al desiderio sensuale di unione tra i due esecutori: la giovane moglie e l’affascinante violinista Truchacevskij.
Dal momento in cui il protagonista inizia il racconto della vicenda che lo condurrà a travisare il comportamento della moglie, rilevando in lei la colpa inesistente del tradimento, che lo trascinerà nel gorgo della gelosia, travolgendolo e portandolo al tragico epilogo, è impossibile staccare gli occhi dal libro.
Pozdnysev sembra sfuggire di mano al suo autore, abbandona il delirante argomentare dei primi capitoli in cui si identifica con la voce dello scrittore e nella ribellione racconta, prendendo vita dalle pagine con una forza titanica, una storia sconvolgente di lucida follia che incatena alle pagine.
Il ritmo del racconto è serrato, teso, incalzante, la storia avvolge e confonde il lettore con una malìa straniante, che lo porta ad una totale identificazione con Pozdnysev: mentre leggiamo siamo lui. Ci emozioniamo alla vista della sua bellissima compagna, ci agitiamo alla vicinanza del dandy che flirta con lei sotto il nostro sguardo, con lui soffriamo nell’ ascoltare le note lascive del “presto” della sonata, mentre crediamo di vedere gli sguardi d’intesa dei due e le fitte di gelosia ci sorprendono togliendoci il respiro. Anche noi siamo vittime del crescendo di emozioni che travolge Pozdnysev, anche noi, forse, in un momento di annebbiamento, potremmo afferrare quel pugnale…
Il tormento feroce della gelosia è espresso con forza, la potenza dell’ eros e il primato della passione sulla ragione, finiscono per dominare le pagine rendendo Pozdnysev, alla fine, non carnefice, ma vittima della stessa violenza che arma la sua mano.
Se le teorie espresse nel libro sul ruolo sociale della donna sono inevitabilmente ancorate al contesto storico-sociale in cui l’ autore è vissuto, l’ analisi dei sentimenti e dei rapporti uomo-donna è tragicamente attuale e ci colpisce con la forza della sua modernità.
Omicidi passionali, raptus, pulsioni distruttive, ossessioni morbose, amori malati, sbagliati, costellano tragicamente la cronaca dei nostri giorni, rendendo questo testo, che illustra il percorso di una drammatica perdita di consapevolezza che sfocia nell’ assassinio, incredibilmente attuale.
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Suggestioni d'Africa
Soffia il vento bollente del deserto su questo romanzo breve di Carlo Lucarelli.
La trama, letta in fretta sulla quarta di copertina, mi sembrava proprio adatta per la stagione (strana stagione, ma pur sempre estate…).
Si tratta di un giallo storico, insolito per argomento ed ambientazione. Lo sfondo è l’Africa orientale nel corso del periodo coloniale. La dominazione italiana dell’Eritrea alla fine dell’ottocento, è una parte della nostra storia non molto conosciuta e piuttosto interessante. Un sogno di grandezza a imitazione delle altre potenze europee dell’epoca, in cui l’Italia si cimentò con spavalda sicurezza e mezzi inadeguati, naufragato lentamente e indecorosamente.
L’argomento è caro a Lucarelli, che lo ha già trattato, nel suo precedente, corposo romanzo “L’ottava vibrazione”, di cui questo racconto raccoglie e rimescola alcuni elementi.
Siamo nel 1899, la storia si svolge tra Massaua e Asmara, i personaggi si muovono come sospesi in un’ atmosfera lenta, dilatata, ora sfiniti dalla canicola di Massaua, ora storditi dall’ubriacatura dell’ aria rarefatta dell’ altipiano di Asmara, dove sorge, opulento ed esagerato, lo sfavillante “Albergo Italia”, deputato a celebrare la grandezza italica nella colonia.
Politici, imprenditori, dame dell’alta società, soggiornano nel lussuoso hotel, che però ospita anche oscuri e ambigui figuri, come il faccendiere Antonio Farandola, trovato impiccato nella sua camera proprio a poche ore dall’ inaugurazione della sfarzosa struttura.
Subito, sul posto, accorrono il capitano Colaprico, al comando della Compagnia Carabinieri reali, appena insediatasi ad Asmara e il suo assistente locale, il carabiniere eritreo (zaptiè) Ogbà.
Colaprico, trasferito in Africa dalla Sicilia dopo una frettolosa e sospetta promozione proprio nel bel mezzo delle sue indagini sulla morte del marchese Notarbartolo che “…avevano coinvolto questa cosa chiamata maffia”, conosce bene gli intrighi e non si lascia persuadere nemmeno per un istante da questo curioso suicidio.
Ogbà, avvezzo a destreggiarsi con furbizia e sensibilità tra i “t’lian”, i “so tutto io”( cullu ba’llè), riesce ad entrare nell’ indagine, contribuendo a risolvere il caso con rapidità e acume, ritagliandosi nel romanzo un ruolo determinante.
Strana coppia di investigatori Colaprico e Ogbà, che in un crescendo di intuizioni e colpi di scena risolverà il caso, che sembra lambire persino alcune alte cariche del Regno d’Italia (boh, cronache di un tempo che torna!).
A dire il vero i primi capitoli mi sono sembrati abbastanza pesanti (per essere un romanzo breve). Non riuscivo ad entrare nella storia e l’uso massiccio di termini in tigrino, la lingua eritrea parlata nella colonia, benché conferisse alle pagine un sapore esotico, rendeva faticoso seguire la vicenda.
I pensieri dei personaggi che popolano la colonia (indigeni, ma anche italiani), sono inframmezzati da termini in questa lingua e da espressioni rese in vari dialetti italiani, probabilmente affinché riusciamo a calarci nello spirito che animava questo microcosmo sperduto in terra d’Africa, dove lingue e dialetti si confondevano in un carnevale di personaggi e situazioni.
Andando avanti le pagine mi sono apparse più lievi e la storia più coinvolgente ( o forse ho solo memorizzato le parole più usate!).
Mi è piaciuto il modo in cui l’autore ha scelto di caratterizzare i personaggi del romanzo: il fascino lontano e selvaggio del fiero popolo eritreo, la prosopopea degli italiani, dominatori per caso e per poco, ma anche la sgualcita presenza dei semplici soldati della colonia, in un paese inospitale e remoto .
Tra tutti mi hanno colpito ualla, la ragazza indigena “monella più che prostituta” che vive con leggerezza anche le situazioni più al limite e il capofuriere Russo, con il suo strascicato accento partenopeo e la tranquilla, incosciente naturalezza con cui affronta anche le situazioni più rischiose e sfuggenti. Mi sono sembrate le due facce di una stessa medaglia, i due aspetti di un saper vivere alla giornata, scanzonato e leggero, adatto a tutte le latitudini ( indicativo il verbale della deposizione di Russo in merito all’ omicidio)!
Margherita, la sensuale e misteriosa avventuriera di cui Colaprico s’invaghisce, porta con sé l’alone di una femminilità antica, trascorsa, perduta, con il suo profumo d’acqua di rose, il suo fruscio di sete, la pelle diafana. Forse è un personaggio un po’ stereotipato, ma comunque intrigante.
Bella l’immagine di Debaroà, la terra che Ogbà ha dovuto abbandonare perché infruttuosa e che ne attrae intensamente i pensieri non appena vi fa ritorno (“…guardava la discesa che scivolava giù irsuta e dura come la schiena di un animale, i cespugli radi come ciuffi di pelo, i sassi bianchi come ossa, fino alla spianata in fondo, con l’albero avvinghiato al terreno, le radici piantate nella polvere come le dita di una mano aperta”).
Al di là dell’epilogo giallo (forse non è la trama più riuscita di Lucarelli), la conclusione, in cui lasciamo l’immagine del capitano Colaprico dissolversi in una scena seppiata, sfumata e sospesa, mi è sembrata poetica e suggestiva, proprio adatta al resto della storia.
Sul profilo facebook dell’autore, c’è una magnifica immagine d’epoca della rada di Massaua, dove mi è piaciuto immaginare il capitano Colaprico che osserva, immoto, il piroscafo che si allontana, portando via per sempre la bella Margherita.
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Maschere nude
Una storia crepuscolare e intima, che rispetto all’ intreccio del giallo, privilegia il racconto di un insolito percorso di vita e coinvolge con i suoi toni sfumati e malinconici.
Forse l’autore aveva in mente, ancora una volta, di abbandonare un terreno sicuro e conosciuto, per avventurarsi su strade nuove e questa poteva essere la prima di una serie di avventure narrative che potevano portarlo anche lontano, ma non lo sapremo.
In questo breve romanzo, al racconto della vicenda umana del protagonista, si affianca una lunga, dolente riflessione sul valore dello sport in un tempo, il nostro, in cui la gloria, l’urlo della curva, la considerazione della squadra, passano in secondo piano rispetto al mero ritorno economico, possibilmente immediato ed esagerato, che soppianta ogni altra aspirazione di una generazione cinica e senza sogni.
Silvano, “Silver” per chi lo ricorda sul ring, è stato una promessa della boxe.
Il precoce successo nello sport, lo aveva riscattato da una vita difficile. Cresciuto in un quartiere periferico e sbiadito della città, frequenta con scarsa convinzione la scuola superiore, impegnato più a menare le mani che ad applicarsi nello studio, quando, dopo l‘ennesima scazzottata, viene notato da un allenatore di boxe che ne fa, in breve tempo, un piccolo campione.
Ma Silver, inesperto della vita e assetato di successo, si lascia invischiare in un affare poco chiaro, finendo la sua breve, folgorante carriera, in cella.
La sua vita è spezzata in due: prima e dopo l’esperienza del carcere. Solo l’amore paziente e tenace della sua compagna e il calore familiare riusciranno a curare ferite tanto profonde.
Silvano, dopo la reclusione, si sente un uomo di serie B e conduce una vita discreta, defilata (squarci della vita di provincia, vengono proposti dall'autore con pennellate rapide e precise che ci fanno "vedere" momenti quotidiani del protagonista, come se sedessimo al bar accanto a lui), fin quando suo figlio Roberto, giocatore di calcio nella squadra cittadina, imprevedibilmente, diventa “Il Grinta”, acclamato e osannato dai tifosi, ricercato da club prestigiosi, proiettato verso il successo.
Ma quando Silver inizia a godersi, orgogliosamente, quel figlio campione, la storia sembra improvvisamente accartocciarsi su se stessa e ripetersi.
Silver non lo può accettare, non può permettere al Grinta di commettere i suoi stessi errori.
Una serie di fortuite coincidenze, giocheranno a suo favore, permettendogli di adoperarsi perché suo figlio emerga dal gorgo in cui sembra essere precipitato.
Per Silver sarà anche, finalmente, un’occasione di recupero del proprio valore e della propria dignità agli occhi del figlio, per il quale, a causa del suo passato, è stato sempre motivo di imbarazzo.
La seconda parte del romanzo, tutta incentrata sullo spericolato tentativo del protagonista di impedire che si compia sul campo sportivo l’ennesimo imbroglio, è effettivamente abbastanza improbabile, però le pagine scorrono veloci, mentre seguiamo Silver che organizza una spettacolare, incredibile messinscena per salvare suo figlio.
Intanto, cadono le maschere di quanti hanno allestito un ignobile teatrino, che nasconde ai più il vero gioco, quello sporco, che si svolge dietro le quinte, a mezza bocca, nel sudore e nella concitazione degli spogliatoi.
Il lungo, amaro monologo interiore del protagonista, colpisce e rende questa storia interessante e ricca oltre la trama, che forse presenta dei punti deboli.
Il delicato rapporto padre-figlio, è raccontato con attenzione e coinvolgimento.
Il tessuto narrativo, attraverso i numerosi flashback, svela lentamente la storia di Silver, mentre la sua voce ci accompagna in un percorso doloroso, fatto di un sogno di provincia naufragato troppo in fretta, di una vita all’ ombra della colpa, che si riprende le poche vittorie, con interessi troppo alti da pagare.
Intenso e toccante.
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Esercizio di stile
Decifrare il titolo enigmatico ed evocativo di questo romanzo è ciò che mi ha spinto a leggerlo, nonostante la storia, che intuivo abbastanza drammatica, non mi avesse attirato.
I primi capitoli del racconto, mi hanno sorpresa. Per quale strano motivo un’autrice, tra l’altro
all’ epoca agli esordi (quindi con tutto l’interesse a proporre qualcosa di nuovo, che si distingua e attiri l’attenzione), esegue una copia precisa dell’inizio di un altro celebre romanzo per presentare il suo lavoro?
Chi ha letto il libro avrà immediatamente notato la perfetta sovrapposizione di questa storia con “Non ti muovere” della Mazzantini.
Beh? Che significa?
So che molte scuole di scrittura creativa, consigliano di ispirarsi a trame note per iniziare a cimentarsi nell’ arte della narrazione…ma si tratta di esercizi! Poi non si viene pubblicati!
Comunque dopo un po’(un bel po’…), il racconto si allontana dal “modello”, per virare verso un dramma a tinte fosche.
La storia è quella di un amore controverso e complesso: quello tra Viola e Carlo.
Diversi, distanti, separati da anni di menzogne e ipocrisia, condividono un’esistenza borghese, tiepida e rassicurante.
Saranno destinati ad incontrarsi davvero, solo nel momento più crudele e drammatico della loro vita.
Viola è una donna contemporanea, che cela dietro una facciata di apparente determinazione, una grande fragilità, fatta di paure e insicurezze.
Vive una situazione comune: ha una figlia adolescente, un lavoro creativo e soddisfacente, una suocera noiosa e petulante.
Ma Viola ha un animo tormentato e un passato nebuloso che le ha lasciato strascichi pesanti. Viola è stata una “cattiva ragazza”, sfrenata e disinibita, a caccia di esperienze forti. L’amore puro e paziente di suo marito non è bastato a redimerla: Viola non è una madre di famiglia, è ancora un’adolescente egoista, insoddisfatta e immatura che si occupa dei suoi cari in modo superficiale e poco attento. Le è rimasta dentro l’inquietudine che la spinge verso una vita parallela, fatta di incontri disordinati e occasionali, che le lasciano solo un grande vuoto nel cuore.
Un brutto giorno sua figlia Luce viene ricoverata: è in fin di vita per una grave epatite, ma Viola tarda a raggiungerla perché mentre sua figlia muore, lei è in un letto sconosciuto, distratta e lontana.
Il racconto prosegue attraverso continui salti temporali: dal capezzale di Luce agli anni della scuola, all’ incontro con il marito, alle scelte sbagliate, fatte senza convinzione, trovandocisi dentro, senza sapere bene come e perché.
Nel flusso di coscienza che sgorga dalla paura, dal senso di colpa che la annichilisce, Viola si costringe a ricordare e ogni episodio la sfinisce e la annienta, mentre parte una corsa contro il tempo che la porta alla ricerca spasmodica di un espediente per salvare Luce.
Nonostante una trama abbastanza inverosimile, il romanzo finisce per coinvolgere e si legge d’un fiato (quantomeno per la curiosità di sapere dove si vuole andare a parare!).
Secondo me resta poco convincente l’estremizzazione dei personaggi: Viola, figura negativa per tutto il romanzo, subisce un rapido e maldestro processo di santificazione negli ultimi capitoli, Carlo il marito, fastidiosamente perfetto nel suo ruolo di mammo , risulta irreale, trasfigurato dal quotidiano sacrificio del tollerare le stranezze della moglie, Angela l’amica-sorella è (non a caso!) un angelo morbido e protettivo che non mette in discussione le scelte schizofreniche di Viola, anzi, inspiegabilmente, le condivide e le avalla, la suocera chiusa e rigida nel suo ruolo, è un personaggio piatto e stereotipato.
Mah, non vorrei dare giudizi affrettati su questa autrice, che mi sembra goda comunque delle simpatie di molti lettori, ma questo romanzo mi ha lasciato parecchie perplessità.
Proverò a leggere il suo ultimo libro (o penultimo, mi sembra una scrittrice particolarmente prolifica) sperando, almeno, in qualcosa di più originale.
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La vie en rose...
In estate aumenta la necessità di una letteratura leggera e disimpegnata, magari che faccia anche un po’ sorridere e distragga dalla quotidianità.
Perciò, alla ricerca di un intermezzo “light” gradevole ma decisamente lieve, mi sono lasciata attirare da questo librettino dall’ aria allegra: copertina rosa shocking e titolo accattivante.
Negli ultimi tempi, sono in aumento i libri che raccolgono impressioni, esperienze e commenti provenienti dai diari in rete e relativi ai più disparati argomenti : questo volumetto si inserisce proprio nel solco della scrittura figlia dei blog.
Il filone delle neo-mamme disperate, che si barcamenano alla meglio tra pargoli-marito-lavoro-vita sociale di cui Claudia De Lillo mi sembra la maggior esponente, è davvero molto ricco.
Certamente gli argomenti non mancano!
Dalila Bonelli, la giovane autrice, è la mamma ventiquattrenne di Giò, un tenero bebè foriero di cambiamenti epocali nel disegno della sua vita.
Dopo una brevissima autobiografia, che ci ragguaglia sui motivi che hanno determinato il deragliamento del suo progetto esistenziale da prima archeologa donna direttrice di un sito di scavo in India, a desperate housewife nostrana, l’autrice parte verso straordinari racconti che spaziano dalle terrificanti feste di compleanno portatrici di indicibile caos domestico (oltre che di ingombranti, quanto inutili doni impossibili da smaltire o riciclare), alle interminabili file al parco giochi, ai periodici incontri con nonne pop, proiettate nel futuro ma ancorate ad ataviche, bizzarre usanze di cui il piccolo Giò è inconsapevole, innocente vittima.
La galleria di genitori metropolitani che la Bonelli poi ci presenta, è spassosa e irriverente: mamme - veline con pargoli raccapriccianti al seguito, papà distratti incapaci di reperire immensi, evidenti pacchi di pannolini nell ’armadio, mentre la “produzione” del lattante supera il livello di guardia, mamme kamikaze che si sopravvalutano e affrontano la spiaggia da sole con eserciti di bambini (figli-nipoti-figli di amici), altre che si sottopongono a terrificanti sedute notturne di zumba inguainate in improbabili tutine stretch, pur di tornare in forma…
Le situazioni descritte sono quelle che ognuno di noi può incontrare giornalmente, complicate, per un certo periodo della vita, dalla presenza di un piccolo despota (o più di uno!) che nasconde le chiavi della macchina, si ammala regolarmente in tutte le feste comandate e spadroneggia nelle notti di estenuati papà e mamme che dovranno immancabilmente affrontare, il giorno dopo, la consueta giornata lavorativa.
Tuttavia questa lettura, pur nella sua leggerezza, non mi ha convinto del tutto.
L’ironia è materia delicata e sdrucciolevole, facile scivolare e scendere di livello. Mi sembra che l’autrice, pure molto divertente in episodi come quello del banco salumi al supermercato o in quello in cui racconta della breve permanenza del prezioso cucciolo di chihuahua di cari amici, presso la casa della sua giovane famiglia, si abbandoni, in alcuni capitoli, a considerazioni davvero banali e scontate, o si soffermi su alcuni particolari che definirei superabili, sfociando in sottolineature grevi, grossolane (utilizzando un lessico fin troppo “spontaneo”) che, secondo me, non divertono e risultano di dubbio gusto.
Peccato…
Credo, comunque, che sotto l’ombrellone questa macchia rosa possa trovare un posticino (consigliatissimo il costume in tinta!).
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"Chiedi chi erano i Beatles"
“Quello che mi resta è solo lo sfondo: un paesaggio senza figure.”
Watanabe Toru ha trentasette anni ed è in aereo, appena atterrato in un aeroporto europeo, quando le note di una musica che distingue improvvisamente in sottofondo, lo aggrediscono e lo travolgono con l’ondata inaspettata dei ricordi: è la malinconica “Norwegian Wood” dei Beatles, amata da Naoko, fragile e infelice amore dei suoi vent’anni.
Di lei, che lo aveva costretto a promettere che non l’avrebbe mai dimenticata, emerge dal passato solo “…un paesaggio senza figure”, perché nonostante il desiderio di mantenerne il ricordo, gli è necessario del tempo per lasciar riaffiorare la storia complicata di quegli anni e quel volto amato, ormai sbiadito.
E’ un lungo flashback che riporta il protagonista indietro di molti anni, all’ epoca della sua vita universitaria a Tokio, la storia narrata in questo particolarissimo romanzo di Murakami, nato dall ’ espansione di un suo precedente, suggestivo racconto, intitolato “La lucciola” e ripreso nel romanzo.
Questo autore è noto per il suo “realismo magico”, per le atmosfere surreali, oniriche che dominano i suoi racconti, ma qui scende prepotentemente nella vita, costruendo una storia intensa, saldamente ancorata ad una realtà, che mostra al giovane e inesperto protagonista il suo lato più duro.
Sebbene sia stato scritto nel pieno degli anni Ottanta tra la Grecia e l’Italia (l’autore ce lo dice nella prefazione, forse perché il temporaneo distacco dal suo paese ne ha favorito la scrittura ) il romanzo è interamente ambientato in Giappone.
Sullo sfondo delle contestazioni studentesche, sul finire degli anni sessanta, il giovane Toru si trova ad essere disincantato spettatore di un mondo che cambia in modo repentino. Il tentativo di sovvertire istituzioni e cultura da parte delle giovani generazioni, che attraversa tutto il periodo storico, nel libro si affianca al desiderio, da parte dei giovani nipponici, di aprirsi all’ Occidente e soprattutto a quella cultura pop che attraversa tutto il romanzo con continui riferimenti alla letteratura, alla cinematografia e soprattutto alla musica (pop ma anche classica e jazz ).
Il desiderio di confronto con la cultura d’oltreoceano, di cui probabilmente i più giovani all’ epoca subivano la fascinazione, è qualcosa che appartiene certamente all’ autore, conoscitore dell’Occidente, traduttore di opere statunitensi, che ha vissuto e vive spesso in America e in Europa. Non sappiamo quanto ciò appartenesse effettivamente ai giovani giapponesi degli anni sessanta.
I personaggi del libro sono profondamente intrisi di cultura occidentale, forse eccessivamente. Nel romanzo solo il cibo (ampiamente menzionato) è orgogliosamente giapponese!
Non è un racconto di facile lettura, nonostante lo stile di scrittura dell’autore fluido e scorrevole.
Per essere un romanzo di formazione, un racconto di adolescenza, la storia è davvero cupa e le atmosfere sono brumose, grigie. I personaggi sono immersi in un lattiginoso universo dove domina, onnipresente, la morte.
L’educazione sentimentale del giovane Toru avviene nel confronto continuo con esperienze dolorose: suicidi, malattia mentale, cancro.
Anche le numerose ed esplicite scene erotiche non trasmettono alcun messaggio vitalistico o gioioso, ma nella storia mi sembra abbiano quasi una funzione consolatoria: i personaggi fanno sesso per stabilire un contatto con l’altro, per sfuggire al senso di solitudine, per liberare la propria anima dal peso del dolore.
Molti dei personaggi sono condannati a seguire, senza reagire, un destino che sembra già tracciato: l’amico Kizuki, morto inspiegabilmente appena diciassettenne, la dolce, delicata Naoko, prigioniera dalle “voci” dei trapassati che la chiamano incessantemente, il torbido compagno di studi Nagasawa, consapevole del suo carattere duro e cinico eppure incapace di aprirsi ad un diverso modo di affrontare la vita.
L’unica voce fuori dal coro è Midori, la vitale ed esuberante compagna di corso di Toru, che sopporta una serie di tragedie familiari ma che nel suo modo confuso e ribelle, è però capace di dominare il dolore e proiettarsi in un futuro positivo e pieno di speranza in cui cerca disperatamente di attirare il dubbioso e indeciso Toru…
Solo alla fine Toru si appropria della storia, compiendo finalmente delle scelte e calandosi completamente nell’ adesione alla vita.
Anche l’ultima scena, attaccata e criticata da molti lettori, credo che sia un passaggio di rinascita, attraverso il quale Toru si congeda definitivamente dai fantasmi del passato( Reiko non ne è che lo strumento, per entrambi è una scena catartica).
Confesso di aver avuto bisogno di rileggere alcuni capitoli e passaggi perché il libro mi “arrivasse” e per decifrare le sfaccettature dei diversi personaggi.
Consiglio di leggere la bellissima prefazione di Giorgio Amitrano solo dopo la lettura del libro.
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Sei personaggi in cerca di...
“Rimini” è il progetto più ambizioso di uno degli autori italiani più amati e controversi degli ultimi decenni: Pier Vittorio Tondelli.
Ne ho iniziato la lettura in modo distratto, piluccando dalle pagine senza troppo entusiasmo: non volevo che l’alone che ancora circonda l’autore, prematuramente scomparso e che la morte sembra aver consegnato repentinamente ad un universo mitologico, senza che si fosse svolta una analisi completa ed obiettiva della sua produzione letteraria, potesse condizionarmi.
Il libro, però, richiede attenzione e coinvolge per la necessità di seguire un intreccio ricchissimo e ridondante e non perdere le sfaccettature che contribuiscono a delineare i personaggi presenti in questo affresco brillante e multicolore di un’epoca, forse ancora troppo vicina per essere inquadrata nella giusta prospettiva.
Il romanzo presenta un’architettura complessa, si tratta di un racconto corale, in cui, sulla storia del giovane cronista Marco Bauer, si innestano altre cinque vicende che hanno come sfondo la Rimini infuocata e chiassosa di un’estate qualunque degli anni ottanta.
L’ambizioso giornalista Bauer crede di avere tra le mani l’occasione della sua vita professionale: la direzione del supplemento estivo del quotidiano per cui, fino ad allora, ha lavorato come oscuro e secondario scribacchino. A questa, che è la vicenda più importante e presto si trasformerà in un delicato giallo politico, con l’affacciarsi nella trama dell’omicidio di un senatore dal passato misterioso, si affiancano la storia di un’antiquaria tedesca alla ricerca della sorella adolescente scomparsa da alcuni mesi, le patetiche avventure di un suonatore di sax nelle accaldate notti della riviera, la rocambolesca impresa di due aspiranti registi in cerca di finanziamenti per realizzare un film, la storia di una pensione a conduzione familiare dall’ ascesa, ai tempi del boom economico, al rovinoso fallimento che accompagna anche la disgregazione familiare e infine la parabola discendente dello sfortunato scrittore Bruno May.
Frenetica, effervescente, trasgressiva ma in quel modo nostrano e provinciale che caratterizza certi panorami italiani, la città accoglie le vicende dei protagonisti che si muovono in un percorso che è, alla fine, di ricerca esistenziale. L ’ambientazione in cui ciò avviene è però stridente, dissonante rispetto all’ importanza di questa “missione”.
Le storie si alternano e si intersecano nella canicola, in un dedalo in cui è facile smarrirsi; alcuni personaggi procedono su strade parallele, mentre altri si incontrano in brevi momenti della narrazione e altri ancora si sfiorano, ignorandosi, sotto gli occhi perplessi del lettore, in un vortice dove tutto, in un momento, si scompagina e si riassembla.
Il romanzo è un incontro di generi e tematiche: una commedia ironica, un ritratto drammatico e irriverente del fallimento delle ambizioni e dei desideri di una generazione che ha vissuto coltivando sogni eccessivi, un racconto pulp, un delirante percorso attraverso una galleria di “vinti”, dove la sconfitta lascia intravedere la possibilità, svelata a tratti dall’ autore, di una via salvifica attraverso la ricerca di assoluto (rappresentata ora dalla figura del monaco Padre Michele, ora dalle suore di clausura di Sant’ Agata), un romanzo erotico in cui le scene d’amore omosessuale esplicitamente descritte, costarono allo scrittore attacchi violenti da parte della critica dell’epoca e addirittura l’annullamento di importanti appuntamenti che avrebbero incrementato la promozione del libro.
Pregio del romanzo sono le parti descrittive, che rendono il clima di ingenua sicurezza di quegli anni e l’atmosfera sfrenata e trash di un periodo irripetibile. Indimenticabile la caratterizzazione di alcuni personaggi, tra cui spicca la figura intensa e dolente di Bruno May, probabile alter ego dell’autore.
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Cartoline da Parigi...
Cosa ha a che fare lo scrittore ungherese Kondrad Azais, straordinario ed eccentrico genio della letteratura, con l’Istituto di medicina legale di Roma?
Tutto inizia con una richiesta di interdizione da parte dei perfidi figli dello scrittore, per i consueti motivi ereditari. Ma Azais non è affatto pazzo e ha dalla sua la piccola, stralunata e inquietante nipote Clara.
Secondo episodio delle avventure della caotica e goffa dottoressa Alice Allevi, l’ anatomopatologa creata dalla frizzante penna di Alessia Gazzola. Questa volta Alice si trova a far parte dell’equipe medica che deve decretare le effettive condizioni di salute mentale dello scrittore Azais. Ben presto però, dalla compilazione di una noiosa perizia, si passerà alle inaspettate indagini su due misteriosi delitti.
Cosa è accaduto ad Azais? E chi è Amélie Volange? La sua morte, violenta e inaspettata, è del tutto casuale o nasconde oscuri segreti, che tornano dal passato dello scrittore, insieme ai fantasmi troppo a lungo nascosti dal tempo, che reclamano ancora attenzione e tornano a tormentare la famiglia Azais da una Parigi malinconica e remota?
La dottoressa Allevi si troverà invischiata in questo intricato doppio caso e sentirà l’insopprimibile necessità di apportare il suo contributo (naturalmente non richiesto!) alle indagini.
Anche questa volta Alice è circondata dalla consueta miriade di personaggi: la sua famiglia, la deliziosa coinquilina giapponese Yukino, l’evanescente fidanzato giramondo Arthur, la melodrammatica Cordelia, l’arguto ispettore Calligaris, i colleghi, i superiori e tutte le figure che ruotano attorno all ’Istituto di medicina legale, sede lavorativa di Alice, sui quali ovviamente spicca il dispotico e affascinante dottor Claudio Conforti dallo sguardo magnetico e dall’ eloquio tagliente come un bisturi, che attira la giovane dottoressa come una calamita, minando pericolosamente il suo precario equilibrio sentimentale.
In questo episodio la Gazzola ha sviluppato maggiormente il lato giallo della vicenda, costruendo una trama intricata e appassionante, sfruttando un argomento inusuale quale il plagio letterario. Attraverso una serie di flashback abilmente incastonati nello svolgersi della vicenda, l’autrice, mentre ci conduce alla ricerca di indizi, tra autopsie e reperti sospetti, procede su un binario parallelo a raccontare la storia dello scrittore Azais, con la sua turbolenta giovinezza, la passione divorante per la letteratura, il legame fortissimo con l’amico-rivale Olivier Volange, spezzato dall’amore travolgente per la stessa donna, sullo sfondo di una Parigi retrò, carica d’incanto.
La prima parte della storia avvinghia l’attenzione del lettore con un ritmo incalzante che attira inesorabilmente e porta a voltare le pagine con voracità, cercando di inquadrare tutti gli aspetti della vicenda: l’ oscura famiglia Azais, i limacciosi rapporti tra i suoi componenti e Alice che si muove maldestra tra le pieghe di un racconto dai mille risvolti.
Alcuni aspetti del romanzo mi sono sembrati particolarmente riusciti. La descrizione della dimora dello scrittore, con la sua molle e sontuosa decadenza, l’atmosfera d’altri tempi che vi si respira (compreso il ricorrente profumo di torta!) e la caratterizzazione di alcuni personaggi, come quello della tormentata quindicenne Clara, arroccata nella sua stanzetta di bambola, con i suoi occhi pieni di segreti e i suoi tormenti di adolescente fuori dagli schemi, sono stati resi con grande abilità.
Nella seconda parte del romanzo, però, la tensione scompare e alcuni passaggi appaiono piuttosto lenti. Mi è sembrato anche che in certi punti la trama cedesse un po’, mostrando delle discrepanze, soprattutto in relazione ad alcune date. In certi punti la storia risulta abbastanza improbabile, con l’aggiunta improvvisa di nuovi personaggi, chiamati sul finale a risolvere dei nodi difficili.
L’ epilogo non troppo sorprendente, lascia un po’ delusi rispetto alla lunga ed elaborata costruzione narrativa da cui si era partiti e che aveva creato aspettative che sembrava dovessero condurre ad altri approdi .
Ciò comunque toglie poco alla generale piacevolezza della lettura, che regala alcune ore di spensieratezza mentre seguiamo Alice nella sua instancabile e rocambolesca attività!
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Due cuori e...un bracco!
Una storia d’amore che ruota attorno a un buffo cane. L’argomento può incuriosire, specialmente se si è in cerca di una lettura poco impegnativa e si ha voglia di qualcosa di distensivo per un freddo pomeriggio invernale . Non conosco l’autore, ma in Germania, suo paese d’origine, è molto noto e i suoi precedenti romanzi hanno riscosso un grande successo, addirittura internazionale.
La storia ha un inizio simpatico: Max odia le feste natalizie ed è in cerca di un dog - sitter per il suo cane Kurt, un bracco tedesco a pelo ispido incredibilmente pigro, del quale è entrato in possesso per motivi, diciamo, professionali e che accompagna le sue giornate di sconclusionato giornalista, con la sua presenza silenziosa e sorniona.
Il destino porta Max ad incontrare l’affascinante Katrin, single per forza e reduce da innumerevoli e grottesche storie d’amore, la cui famiglia, composta dai due anziani genitori, langue nel desiderio sempre più irrealizzabile di vederla felicemente sposata.
Max individua nella ragazza la soluzione al suo problema, colei che gli permetterà di trascorrere le feste al caldo di un’isola esotica, occupandosi del suo amico.
Katrin avrà, invece, la scusa per non andare a trascorrere il Natale (che coincide anche con il suo compleanno) con i suoi, evitando di doverli ancora deludere con i suoi insuccessi sentimentali. Suo padre, infatti, detesta i cani.
Tra Max e Katrin, però, lentamente nasce un reciproco interesse...
Il racconto si infoltisce di personaggi curiosi, mentre la storia d’amore tra i protagonisti non decolla, ostacolata dal ridicolo problema di Max, dovuto ad un tragicomico trauma infantile.
La lettura non è scorrevole, intervallata da continui flashback, che non sempre si inseriscono in modo fluido nella costruzione del racconto; l’ironia della narrazione, è compromessa dall’ insopprimibile necessità dell’autore di spiegare ogni sfumatura comica attraverso il continuo uso delle parentesi.
La storia d’amore è inconsistente, Katrin desidera follemente innamorarsi ma non si capisce cosa faccia scattare l’attrazione verso Max. Lui risulta avere, in generale, lo spessore affettivo di un comodino ed è preso unicamente dalla necessità di risolvere il suo problema, che gli impedisce di vivere serenamente soprattutto l’aspetto fisico delle sue relazioni. Il personaggio del cane Kurt, caratterizzato dall’ esasperante lentezza e dall’ algida indifferenza verso il mondo, viene successivamente stravolto dall’ invenzione, scarsamente credibile,di una doppia personalità, al fine di movimentare il racconto, rendendo però incoerente il suo comportamento e togliendo mordente alla sua figura. Gli altri personaggi sono tracciati con mano pesante, lasciando emergere solo il lato macchiettistico. Nella parte conclusiva la storia è raffazzonata e precipita rapidamente verso il finale, lasciando la sensazione di essersi persi dei passaggi.
È un libro che lascia poco e si dimentica quasi subito, spero di avere altre occasioni per conoscere meglio l’autore sul quale, per il momento, nutro delle perplessità.
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Viaggio in provincia
L’incipit di questo romanzo è senza dubbio accattivante, la narrazione in prima persona rende il racconto subito vivido e appassionante. Che dire della copertina? Irresistibile! Un vecchio muro giallo e scrostato, fili da bucato e…una finestra, persiane chiuse e all’ interno (ovvio!) un intricato segreto.
Le prime pagine scorrono veloci, si vuole subito entrare in contatto con il mondo della protagonista, che è quanto di più lontano da ciò che immaginiamo debba essere l’ambiente adatto ad una storia gialla (ma l’autrice ci avvisa fin dall’ inizio: “Tutti abbiamo vite banali, ma appena le si guarda da vicino sono un forziere di storie..”).
La storia si svolge tra i carrugi di Genova. In un vecchio palazzo, alla vigilia di Pasqua, viene uccisa un’anziana donna, scostante e decisamente poco amata dai vicini, che da poco era andata a vivere con la famiglia della figlia, trasferendosi dal paese: la Marinin.
Nadia Morbelli, che è poi il vero nome dell’autrice, redattrice quarantenne per una casa editrice che si occupa di ricerche storiografiche, single e dalla vita disordinata e un po’ sconclusionata (specialmente secondo i criteri della sua provinciale famiglia), è coinvolta suo malgrado nelle indagini, poiché unica presente nel condominio al momento del delitto.
Da qui partono le ricerche dell’ambiguo vicequestore dottor Prini, figura originale e interessante, dall’ aspetto grezzo e solido, ma elegante nei modi, impeccabile nel vestire, inaspettatamente colto e raffinato. La protagonista resta soggiogata dal garbato gioco di seduzione che Prini porta avanti e che si dipana lungo tutto lo svolgersi del romanzo, intervallando congetture e domande sul misterioso delitto.
Appunto…il delitto. Quasi subito ci si dimentica che scopo del romanzo (trattasi di “giallo”), dovrebbe essere quello di condurre il lettore attraverso una ricostruzione mirata dei fatti, che giunga ad aprire squarci nel mistero e farci giungere alla risoluzione del crimine. L’autrice sembra all’ improvviso ignorarlo, partendo per un percorso attraverso la vita di provincia italiana, costellata di fatti, situazioni, personaggi descritti in modo meticoloso e decisamente riuscito. Dall’ abile penna di questa giovane scrittrice, emergono ritratti indimenticabili di personaggi familiari per tutti noi, fotografati nella loro e nostra vita quotidiana, veritieri e irresistibili allo stesso tempo. L'obiettivo dell'autrice si sposta dalla città, al paese dove vive la sua famiglia, con la mamma apprensiva, impeccabile casalinga e immersa in un mondo di preconcetti mai superati, dispensatrice di infallibili consigli etici e morali, che non perdona a Nadia di svolgere un lavoro strano, che lei non riesce a classificare e descrivere e quindi non le consente di pavoneggiarsi con le sue amiche (“…almeno la Carla è professoressa di latino!”) , il papà rassegnato e paziente che si rifugia nel suo giardino, gli amici finto-intellettuali, i compaesani pettegoli e impiccioni, che sotto un leggero strato di modernità, nascondono una visione della vita legata ad atavici pregiudizi. La difficile convivenza con la comunità di immigrati slavi, arrivati ormai da tempo in paese e rimasti ai margini. Gli anziani, che trascorrono le giornate secondo un pigro copione, fatto di soste al bar e di partite alla bocciofila, mentre nulla delle vite dei notabili della piccola comunità, sfugge ai loro sguardi implacabili. E poi un universo di negozianti, commesse, camerieri, venditori, che costellano la vita cittadina di Nadia, ritratti con leggerezza e ironia.
E’ vero, dopo un po’ ci si smarrisce in questa selva di personaggi, perdendo di vista l’origine del romanzo e dimenticando che si sta comunque cercando un assassino. A me però non è dispiaciuto! Ero così presa dalle descrizioni così riuscite di amiche di famiglia, contadini arricchiti e anziane zie, da perdonare all’ autrice di averci tenuto lontani dai risultati delle indagini. Forse questo è il punto dolente. Le indagini, infatti, partite da un banale caso di rapina in casa da parte di balordi comuni, si impennano in un crescendo inverosimile di agganci con intrallazzi politici, commistioni congruppi eversivi di fanatici, traffico d’armi internazionale, rimandi alla guerra in Iugoslavia. Insomma un minestrone abbastanza incredibile e soprattutto in aspro contrasto con lo stile e le premesse del romanzo.
Magari la costruzione del giallo c’è, la struttura potrebbe anche reggere, ma perché mentre ci si intrattiene piacevolmente con vizi e idiosincrasie della provincia italiana, andare a scomodare temi così lontani e impegnativi e spingerli a forza nella trama, provocando antiestetiche protuberanze narrative e inestricabili nodi letterari?
Il romanzo è comunque piacevolissimo, davvero ben scritto, in un italiano accurato e ricco e anche se il ritmo è lento e si incaglia a volte in passaggi non necessari alla comprensione della storia, è riscattato da un lessico scelto con cura e dallo stile originale.
Astenersi giallisti incalliti!
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New generation
Titolo e copertina di questo libro incuriosiscono e attraggono.
Per me il resto lo ha fatto un’intervista radiofonica all’ autore, ascoltata qualche settimana fa, che mi ha spinto a leggerlo al più presto.
Il libro, nelle intenzioni, vuol essere una riflessione sulle nuove generazioni e racchiudere una sintesi su una serie di osservazioni relative all’ evoluzione dei rapporti padre-figlio negli ultimi anni.
Mi aspettavo un lavoro lieve e ironico, dove il sorriso, magari anche sarcastico, prevalesse sulle considerazioni sociologiche, invece, fin dalle prime pagine, il romanzo assume toni malinconici e quasi dolenti.
Le riflessioni dello scrittore, prima che sulle nuove generazioni, mi sembra che vertano sulla propria, in una condanna senza appello di un sogno esagerato e velleitario, che lungi dal realizzare una società nuova, si è arenato, nel corso degli anni, nella distruzione del mito del padre, rinunciando alla fase della costruzione di un'alternativa credibile, rimasta per sempre nei sogni indefiniti di gioventù . La categoria umana cui Serra si riferisce, è piegata su se stessa, langue (essa sì…) in una infinita adolescenza, avvizzita, imputridita, dalla quale si affaccia spaventata a verificare il prodotto della propria immaturità e accorgendosi di aver da un pezzo smarrito la strada, realizza con un moto di terrore di aver infine abdicato rispetto alle premesse, restando assorta nella contemplazione della propria incapacità, sorpresa di non aver così facilmente come pensava, sovvertito la realtà. Il mondo che osserva dalla posizione defilata che si è ricavata, appare così diverso dalle aspettative e così poco comprensibile, da risultare difficile credere che si sia contribuito alla sua determinazione.
Tutto sommato l’osservazione della nuova generazione, quella degli “sdraiati”, produce considerazioni abbastanza indulgenti, Serra li assolve questi ragazzi nuovi, così persi in un mondo che è un guscio tecnologico nel quale galleggiano in una sorta di sospensione spazio-temporale, privi di responsabilità, di obiettivi, di sogni (anche se non credo che tutti concordino con questo ritratto). Certo, i modelli non sono stati dei migliori, quindi…
I punti del romanzo che mi sono sembrati meno interessanti sono quelli in cui Serra racconta tratti del libro che immagina di scrivere sulla guerra globale, che in un tempo non lontano coinvolgerà vecchi e giovani in uno scontro epocale e sanguinoso “La grande guerra finale”(speriamo che non lo scriva sul serio!). Immagini surreali e inquietanti su cui l’autore indugia, a scapito dei passaggi che riguardano le descrizioni dello stile di vita di suo figlio diciannovenne e della sua “tribù”, ad un tempo divertenti e paradossali, dove non mancano momenti più malinconici in cui il distacco tra due dimensioni, due realtà totalmente diverse, diviene per il padre dolore e rammarico, ancora più bruciante laddove il figlio sembra ignorare totalmente i tormenti paterni.
In tutto si inserisce come un mantra, lungo il percorso del testo, l’ invito ora delicato, ora pressante, ora imperioso, affinché il ragazzo segua suo padre in una passeggiata in montagna per raggiungere il Colle della Nasca, località impervia e quasi inaccessibile. Nell’ impossibilità di trovare situazioni consone all’ aprirsi di un dialogo tra i due, questo sembra essere l’ unico escamotage che il padre trova per tentare un avvicinamento al figlio. E’ convinto che con la complicità del paesaggio, della natura possente, scuoterà il ragazzo dal suo torpore, insieme giungeranno a medesime riflessioni, a trovare nella fatica, nella contemplazione del panorama un momento di condivisione.
Le ultime pagine sono davvero belle (anche se non prive di retorica in alcuni passaggi). L’intricato percorso del padre all’ interno delle proprie esitazioni, dei dubbi irrisolvibili sul senso del proprio ruolo e la leggerezza del figlio, si incontreranno in un momento atteso e cercato, in cui forse davvero sarà possibile trovare un nesso tra due mondi al confine, l’uno epigono di una generazione naufragata nelle illusioni, l’altro incerto e perplesso, privo di ancoraggi e riferimenti, condannato a percorrere da solo la scalata verso una realtà inedita e sorprendente, forse totalmente dominata dalla tecnica.
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Giudizio...sospeso!
Dopo il successo dei primi due libri ,“L’allieva” e “Un segreto non è per sempre”, Alessia Gazzola, con questo breve romanzo, torna indietro di qualche passo e ci presenta il prequel della sua nascente saga.
In questo “Sindrome da cuori in sospeso”, conosciamo l’eroina della storia, la giovane anatomopatologa Alice Allevi, quando non è ancora un medico, ma una studentessa di medicina in crisi esistenziale, a causa della difficoltà nella scelta di completare i suoi studi, data dall’ improvvisa consapevolezza di non avere le doti necessarie per accompagnare i pazienti nel corso della malattia. L’emotività e la sensibilità di Alice, infatti, non le permettono di gestire con sicurezza il rapporto con il dolore, pane quotidiano di chi intraprende questa professione. Da qui si aprono una serie di domande sul proprio percorso di vita, che troveranno risposta dopo uno sconvolgente episodio legato alla sua famiglia: Tamara, la giovane badante russa della nonna, viene trovata morta nella sua stanza. Le ricerche sulle cause del brutale assassinio e il contatto con il mondo della medicina legale, svelano ad Alice il sentiero da seguire: i morti non provano dolore, i familiari non hanno più aspettative. La sua strada è questa! Nella confusione del momento e nella perplessità generale, la giovane studentessa trova le risposte alle sue domande. Peccato che tutti la scoraggino: dalla sua famiglia, ai severi personaggi che incontra all’ Istituto di medicina legale, dove decide di chiedere l’internato. Alice è una ragazza svagata, distratta, emotiva: quanto di più lontano dall’ algida e sicura freddezza dei suoi futuri colleghi! Ad esempio del titolare delle ricerche sulla morte di Tamara, Claudio Conforti, fascinoso ricercatore dal piglio deciso e di pochi complimenti, che la reputa completamente inadatta al ruolo. Alice, però, non si lascerà dirottare dalla scelta: dimostrerà volontà e perseveranza e deciderà di realizzare i suoi sogni.
Nel libro attraversiamo la galleria di personaggi che torneranno in seguito e a cui ci affezioneremo: la deliziosa compagna di stanza Yukino, le amiche, i colleghi di studio, i medici dell’Istituto, l’ originale famiglia di Alice, su cui spicca la pimpante figura di nonna Amalia (inizialmente irresistibile ma che forse, in alcuni passaggi della storia, finisce per essere un filino sopra le righe e macchiettistica).
E’ un romanzo lieve, lieve, che si legge in un paio d’ore, leggero e frizzante ma molto al di sotto de “L’allieva” e con una trama “gialla” davvero esile anche per chi non è un integralista del genere! Decisamente, con questo libro, la Gazzola si allontana da quel riuscito tentativo di sperimentare un discorso abbastanza nuovo, quale potrebbe essere il thriller diciamo così…“light”, con una spruzzata di suspense, zero particolari granguignoleschi, un intrico ben congegnato, appena, appena in grado di suscitare qualche brivido, ma con una trama che apre al romance e una quantità indefinita di particolari ironici e leggeri che coinvolgono il lettore in un’esilarante girandola di situazioni surreali, ricordando le storie di Becky Bloomwood della Kinsella o della Bridget Jones cinematografica.
Certamente un prodotto del genere si rivolge ad una fetta di pubblico immensa ed eterogenea, che va dalle appassionate del rosa ai giallisti incalliti in cerca di un sorriso, da chi si avvicina incuriosito al thriller, ma bada bene a non rimanere steso da storie raccapriccianti, ai lettori adolescenti che possono tirare il fiato tra un vampiro e un redivivo eroe mitologico!
Peccato per questo tentativo poco riuscito, che risente di un po’ di stanchezza, risulta forzato nell’ intreccio narrativo e presenta una trama davvero troppo superficiale. Speriamo che la Gazzola si prenda una vacanza dalla scrittura, ritrovi ispirazione tra un tavolo autoptico e un’analisi dei reperti e ci regali al più presto qualcosa di “travolgente”(considerando la goffaggine di Alice, non sarà difficile!).
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Nuddu ammiscatu cu nenti
Ammaliante, lascivo, ambiguo, è un romanzo bellissimo e inquietante, che si dischiude agli occhi del lettore gradualmente, conquistandolo con l’opulenza del lessico e l’intrico della trama. E’ una storia che sorprende per come colpisce i sensi e cattura per l’intreccio narrativo.
Il calore violento del sole, i profumi del misterioso e venefico giardino di Pedrara, i sapori decisi della cucina mediterranea che accompagnano i personaggi nelle loro inquiete giornate . Anche noi siamo lì, con loro, immersi in un universo sensoriale che non ci abbandona fino all’ ultima pagina. E’ un universo a tinte forti, dominato dai bagliori di un passato, i cui sentori maledetti, aleggiano ancora sui personaggi. Racconta il tramonto di una famiglia, che nasconde indicibili e remoti segreti, ma anche celati legami con un nefasto e rivoltante presente, fatto di ricatti e indissolubili vincoli con poteri insospettabili.
Un romanzo che parte dalla fine e solo dopo il dipanarsi degli eventi, manifesta la sua circolarità. Pedrara è in Sicilia. E’ un luogo remoto. Qui, incuneata sotto le alte pareti di roccia dei Monti Iblei, lontana da tutto, immersa in una natura molle e lussureggiante, sorge la villa dei Carpinteri. Sono stati, in un passato non lontano, tra i notabili del paese. Ma un po’ discosti. Attraversati da una vena di esotismo che li ha resi, da sempre, misteriosi e distanti.
Ora i loro epigoni, che trascinano altrove vite fallimentari e infelici, tornano alla villa dove giace, nel suo letto di sofferenze, avvolta dai fumi di una strana demenza senile, l’anziana zia Anna. Sono in cerca delle “pietre”: un misterioso tesoro, legato ad un amore illecito tra i loro avi.
Alla ricerca di questo tesoro, si affiancano le loro storie, narrate a ritroso.
Il fango in cui affondano le loro esistenze, non è dissimile da quello in cui la famiglia ha vissuto nel passato, quando, circondata da un lusso stravagante e vistoso, ha condotto le sua vita abbandonandosi agli eccessi voluttuosi di immorali desideri. Come una tara, i Carpinteri portano nel sangue l’ambiguità. Le loro vite avvolte e stritolate dall’ incapacità di stabilire legami sani e solari, condannate ad un’eterna doppiezza, ad occultare sotto una facciata d’ipocrisia insani malanni dell’anima, che costringono ad una vita abbietta.
La patina del tempo non ha celato per sempre gli antichi segreti. Il legame tra passato e presente è Bede. Raffinatissimo ed equivoco fauno senza età, che si aggira per le stanze della villa acconciato come un principe d’oriente, rilasciando al suo passaggio effluvi di lavanda inglese e disseminando indizi di lontane, perverse passioni, chiave di accesso a quel passato segreto e gonfio di verità nascoste. Personaggio meraviglioso, straordinario, dal fascino sensuale e decadente, dalla esasperata sensibilità, che conquista con le sue incredibili vicissitudini, che attraversano tutto il romanzo a annodano insieme i fili della storia.
Indimenticabili le ultime pagine, dense di dolente poesia, che svelano una storia carica di struggente tenerezza e che riscattano un essere puro, generoso, al di sopra di tutto e vittima per amore, che ha vissuto ogni pulsione e sentimento nella sua completezza, travalicando i limiti senza timori, al di là delle convenzioni, con la limpida certezza che possiede chi agisce per il bene e non esita davanti alla paura, fino al sacrificio di sé.
“Si ama nel presente. Mai per gratitudine di un passato felice, e nemmeno nell’ aspettativa di un bene futuro”.
Impossibile collocare la trama di un romanzo in questi luoghi, senza fare i conti con emanazioni mitologiche e fantasmi di personaggi saldamente ancorati alla cultura classica, che attendono solo di essere riportati in vita, dalla penna di scrittori che aprano lo scrigno delle suggestioni letterarie e partano ad ambientare la propria storia nella luce accecante del sole del sud.
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Ancora un giro di giostra
“Ecco tutto. Questa storia racconta le cose della vita.
La storia di un uomo e di una donna che corrono l’uno verso l’altra.”
E’ un libro malinconico, dolente dove non te lo aspetti. Parte con una radiosa storia d’amore tra ragazzi, per poi subire una brusca battuta d’arresto e procedere, nel consueto stile di Musso, per repentini balzi temporali, che coinvolgono i personaggi in un girotondo vorticoso di luoghi e situazioni.
Martin e Gabrielle sono giovani e innamorati, indifesi davanti alla passione travolgente del primo amore, vissuto nella calda estate di S. Francisco, al termine dei loro studi universitari. Nei sentimenti, però, c’è sempre qualcuno più generoso, che non esita ad offrirsi, a mettersi in gioco senza dubbi. In questo caso è Martin, dolce e invitante tende la mano alla compagna perché lei lo raggiunga nei territori meravigliosi del futuro, che si schiude davanti a loro carico di promesse…Qui, però, finisce l’idillio e comincia un’altra storia, ben diversa. Ritroviamo i protagonisti adulti, sofferenti e racchiusi in un dolore che è frutto delle loro scelte. Sono due persone diffidenti e sole, che hanno affogato la rabbia di una vita diversa da quella che volevano nel lavoro, nelle storie sbagliate, nella facilità dell’aiuto chimico: pillole o altro che anestetizzi il cuore e impedisca all’ anima di prendere spazio. Al personaggio di Martin, con il suo doloroso passato, la sua caparbietà e quell’ intima, celata tenerezza, è dato molto spazio nel romanzo. L’autore sembra tenerci, vuole che noi lo amiamo e prendiamo le sue parti. Gabrielle e le altre figure femminili restano sullo sfondo, appena tratteggiate, come un’idea di femminilità più pensata che reale. In tutto ciò si staglia prepotente nella trama, la figura di Archibald, personaggio del tutto inverosimile, leggendario, poetico. Martin e Archibald si troveranno a sfidarsi in una lotta senza esclusione di colpi: la vittoria coinciderà con il più prezioso dei premi.
Il tema delle “Sliding doors”, l’alternativa di scelta, il recupero del tempo perduto, l’aprirsi di possibilità che la vita ha tenuto nascoste e si svelano nei momenti di sconforto, quando si sta per mollare, è molto caro a Musso, che lo propone più volte nei suoi romanzi. Se Gabrielle si fosse presentata a quell’ appuntamento, se avesse accettato l’invito di Martin, cosa sarebbe accaduto? Come sarebbero cambiate le loro vite? Cosa l’ha trattenuta? Un minimo scarto temporale determina spostamenti decisivi negli avvenimenti e nelle sorti dei personaggi. Come farà Martin a ritrovarla? E’ solo casualità la vita, o la volontà può determinare modificazioni radicali nella storia di ognuno. La pluralità di realtà possibili ipotizzata da Musso, qui si spinge alla creazione visionaria di un “oltre” dove tutto sia ancora in gioco. In questo libro, infatti, è più presente che in altri l’incursione nel paranormal, funzionale alla storia, ma che a seconda delle nostre sensibilità, può conquistarci o infastidirci. Per me è stato un passaggio sofferto della trama, mi ha molto toccato, lasciandomi un senso di straniamento.
Il cardine intorno al quale ruota tutta la vicenda, è comunque la paura dei sentimenti, la fuga davanti all’ incertezza, al non saper gestire l’amore. I personaggi sono divisi in due fazioni: coloro che si abbandonano, che hanno la sfrontatezza di affidarsi alla barca che attraversa i mari perigliosi dei sentimenti e coloro che restano a riva, incapaci di avventurarsi, troppo timorosi. La paura di questi ultimi affonda i primi, trascinandoli nel gorgo infinito del rimpianto…
Musso riesce sempre a far riflettere, dal prisma delle sue storie emergono interrogativi che vanno ben oltre l’apparente semplicità delle trame. Come al termine di un giro di giostra, si scende e si prova quella languida ebbrezza da cui fatichiamo a riprenderci.
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Homo homini lupus
Pazienza. La pazienza è ciò che secondo me occorre, nella decisione di affrontare questa lettura.
Il libro appartiene alla categoria del thriller. Quindi il lettore si dispone al susseguirsi di colpi di scena, crimini più o meno efferati, eroi coraggiosi intenti in indagini complesse. Tutto questo nel libro c’è, ma… con molta calma.
Tolto un incipit dai bagliori sinistri, il romanzo sembra, poco dopo, ripartire da capo, presentando coloro che ne attraverseranno la trama, con le loro storie. Il ritmo è estremamente lento. L’autore sembra poco interessato a mantenere desta l’attenzione del lettore, sembra quasi che scriva per sé stesso, buttando giù una quantità di informazioni che forse vorrebbe riorganizzare in un secondo tempo, quindi non ha alcuna fretta di approfondire quell’ assaggio di crimine che ci ha fatto inizialmente gustare. Anzi, con molta tranquillità ci spiega chi sarà l’eroe della nostra storia, senza tralasciare alcun dettaglio: infanzia, studi, vita familiare, amori, vita professionale. Oltretutto il “nostro” di mestiere fa il giornalista economico, che non è propriamente una professione eccitante!
Dopo le prime cento pagine, quindi, al lettore volenteroso ma stremato, capiterà di osservare trasversalmente il volume, considerandone perplesso la mole e domandandosi, mentre cerca di dipanarsi nella giungla inestricabile di nomi nordici, per noi quasi illeggibili, quando accadrà qualcosa di interessante. Quello stesso lettore, però, sa che (nonostante i detrattori) questo è stato un caso editoriale sensazionale e quindi andrà avanti stoicamente!
L’anziano e ricchissimo industriale Henrik Vanger, avvicinandosi al crepuscolo della vita, decide di tornare, per l’ultima volta, sul mistero che ha avvelenato la sua intera esistenza: la scomparsa dell’amatissima nipote Harriet, avvenuta quarant’ anni prima, in circostanze mai chiarite. La particolare indagine, verrà affidata al giornalista Mikael Blomkvist che, reduce da un colossale flop giornalistico, processato e condannato per diffamazione, amareggiato e sconfitto dopo gli eventi che ne hanno sconvolto la vita professionale, accetterà di occuparsi della vicenda. Blomkvist: prima in modo tiepido, poi sempre più coinvolto, cercherà di portare alla luce le verità agghiaccianti sepolte tra le brume inquietanti dell’isola di Hedeby, persa nell’ infinito inverno nordico e quasi interamente abitata dai misteriosi e ormai attempati, membri della famiglia Vanger. Coadiuvato dalla hacker Lisbeth Salander, Blomkvist partirà per un imprevedibile viaggio nel tempo, che lo porterà alla risoluzione del giallo, ma anche a contatto con le scabrose, profonde perversioni cui l’uomo può arrivare per soddisfare i suoi più bassi istinti. Gli schemi entro cui Blomkvist ha incasellato la vicenda umana fino a quel momento, sono destinati a saltare, lasciandolo solo e smarrito dinanzi a interrogativi etici ed esistenziali che lo porteranno a ribaltare totalmente la sua visione dei fatti e delle figure che popolano la vita di ognuno.
Questo è probabilmente il messaggio che questo sfortunato autore (morto poco prima che la sua trilogia “Millennium” riscuotesse il successo planetario), la cui vita è stata segnata da scelte etiche impegnative, quasi eroiche, ha voluto trasmettere ben oltre la storia: quanti volti hanno le persone che incontriamo? Chi sono i nostri colleghi di lavoro, i nostri vicini di casa, ma anche i nostri familiari? Cosa sappiamo di loro? Quanto, delle nostre certezze, verrebbe a crollare se potessimo “vederli” davvero?
La storia nasconde, quindi, enigmi profondi, che hanno a che fare con la natura stessa dell’uomo e pone micidiali interrogativi su quanto l’organizzazione sociale riesca a dominare o reprimere le pulsioni meno limpide degli individui. Come, in quali circostanze esse potrebbero esplodere fuori controllo? Quali strumenti hanno davvero le vittime per difendersi? Sollevando il velo, la nostra ordinata organizzazione sociale apparirebbe, allora, nient’altro che una farsa, di cui i più deboli fanno sicuramente le spese (le donne, citate nel titolo, ma anche i piccoli, i disabili, gli emarginati), in un’inarrestabile e spaventosa spirale di violenza che ingoia ogni illusione, in una disperata selezione naturale in cui i deboli sono destinati a soccombere e in cui le convenzioni sociali non sono che una fragile crosta sopra quotidiani orrori, riportandoci alle impietose intuizioni che Thomas Hobbes ebbe circa la vera natura antropologica già quattro secoli fa ( il suo homo homini lupus mi è tornato prepotente tra i pensieri durante la lettura…).
Quali attori concorrono a delineare questo quadro agghiacciante?
L’economia, lungi dall’ essere possibilità di progresso di un paese, cui i singoli possono partecipare senza distinzioni sociali, non è che un mostro multiforme la cui vera natura resta camuffata da un’informazione falsa e asservita. Multinazionali vischiose, viscidi serpenti dall’ apparente aspetto di azzimati avvocati, finanzieri dal piglio glaciale che, facendosi beffe di regole e leggi, trattano affari e smuovono inimmaginabili risorse, pronte a viaggiare ogni giorno sul filo invisibile della fibra ottica, mentre anche nell’ evoluta Svezia, il potere politico si lascia avvinghiare, pavido e corruttibile, nel mortale abbraccio dell’illegalità.
E quanto la tecnologia ci pone in una situazione di visibilità inconsapevole, in cui ognuno di noi potrebbe essere svelato, rompendo quello scrigno di vetro che ci occulta illusoriamente agli altri e mostrandoci improvvisamente in tutta la nostra ridicola nudità? Dov’è il freno? Dov’è il limite?
La minuziosa, quasi esasperata, descrizione della miriade di personaggi che popolano la trama del romanzo, mira a darci una doppia lettura di ognuno di loro: cosa c’è sopra, cosa appare superficialmente e cosa si cela nelle oscure profondità dell’ animo. Il carattere di ogni figura è cesellato nelle sue sfumature, con un mirabile lavoro di introspezione, perché al lettore arrivino tutti i piani di decodifica delle azioni che compie. Tra tutte la splendida, dolente eroina Lisbeth, indifesa, ferita, violata (l’ho subito affiliata ad una Nikita cibernetica!) che risorge dalle ceneri della più irrazionale, inaudita e gratuita violenza, per riscattare gli ultimi, impadronendosi dei metodi degli aguzzini e, nel sorprendente finale della storia, oscurando la scena al protagonista, rimasto a dibattersi nei dilemmi etici della sua coscienza, sorpreso, nel mezzo del cammin della sua vita, di avere anche lui un prezzo, che qualcuno ha avuto la sfrontatezza di pagare …
Si. Valeva la pena leggerlo e avere tanta, tanta pazienza.
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Un'allieva difficile
Se qualcuno mi avesse parlato prima di questo libro, certamente non ne avrei rimandato così tanto la lettura. Purtroppo, invece, il titolo lapidario, come nel consueto stile del thriller, unito alla breve biografia dell’autrice, giovane anatomopatologa, all’uscita del libro me ne allontanarono immediatamente: adoro i labirinti del giallo, ma i particolari sanguinolenti di cui, soprattutto alcuni, sono infarciti smodatamente (mi rendo conto che siano funzionali alle storie e necessari, però…), mi impediscono di accostarmici con disinvoltura, pena…infinite nottate insonni! Ma qui il richiamo al genere è solo un pretesto. Il romanzo è frizzante e coinvolgente, ma abbastanza lontano dagli impressionanti “cugini” cui il titolo vorrebbe far riferimento. Fin dalle prime pagine Alice, la protagonista, ci trascina nelle sue tragicomiche avventure, sullo sfondo dell’Istituto di medicina legale ,in cui è specializzanda, attraverso una varia umanità fatta di giovani dottoresse rampanti, assistenti vanitosi come pavoni, irraggiungibili professori universitari, in un mondo abbastanza cinico, in cui ogni “caso”, prima di essere una persona che ha perso la vita, spesso in modo violento e misterioso, è freddo oggetto di studio, utile per dimostrare agli altri le proprie competenze e abilità e progredire nella carriera... Dopo aver avuto a che fare con bisturi e tavoli insanguinati, giovani specializzandi, medici e ricercatori riprendono la propria quotidianità, fatta anche di momenti frivoli, storie d’amore, ripicche, invidie e gelosie, come in un qualunque altro ambiente di lavoro. L’autrice dedica molte pagine alla descrizione di questo mondo, che evidentemente conosce a fondo, che ai più appare inquietante e ricco di un fascino morboso e luciferino, riportandolo ad una prosaica normalità, dove gli attori di questo straordinario teatro, lungi dal trascorrere la propria vita in un lontano lattiginoso acquario, presi unicamente dalle loro macabre indagini, come noi potremmo pensare, vanno a fare la spesa, spettegolano dei colleghi e prendono l’autobus! Fin dall’inizio della storia, Alice ha a che fare con uno strano caso: la morte di una giovane e bellissima rampolla dell’aristocrazia romana, avvenuta in circostanze nebulose e che lei ha incontrato, fortuitamente, poco prima della morte. Tale circostanza allontana Alice dalla freddezza con cui dovrebbe affrontare l’autopsia e i successivi sviluppi delle ricerche. Lo sguardo di Alice davanti al corpo inanimato della sfortunata ragazza è umano e commosso. L’inesperta dottoressa resta irrimediabilmente coinvolta nella storia e Alice non si accontenterà di analizzare campioni e processi biochimici, ma si improvviserà detective, cercando con mezzi propri (e spesso illeciti), di decifrare il mistero. Tra provette e reattivi Alice ci accompagna, attraverso una serie di avventure al limite del credibile, in cui la sua goffaggine e il suo innato talento per cacciarsi nei guai, ci faranno davvero divertire, fino alla risoluzione del “giallo”. Una volta compreso che non ci si trova dinanzi ai complessi casi dei thriller d’oltreoceano, ci si può rilassare e godersi in pace anche le derive rosa della storia (anch’esse abbastanza inverosimili: ma ti pare che Alice, tra tanti, va a incontrare proprio il figlio del suo capo, che naturalmente è bellissimo, di animo nobile e corredato di delizioso accento anglosassone e fascinosissimo lavoro di reporter…ma dai!). Davvero un libro godibile, scritto in un ottimo e piacevole italiano (non sempre capita tra i giovani autori), peccato che si legga così velocemente! Un’unica pecca: non ho capito la necessità dell’autrice di nominare continuamente marchi commerciali di abiti e accessori, che non sono necessari ai fini della storia e appesantiscono inutilmente la narrazione. Boh!
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A volte ritornano...
Le copertine dei libri di Musso non piacciono a tutti i lettori. A me, invece, di questo libro ha attirato proprio quella giovane donna dall’abito svolazzante, che sembra percorrere un sentiero immaginario nel vuoto, sullo sfondo del Golden Gate Bridge di S. Francisco. Mi ha dato un brivido di vertigine e…convinto a seguirla. Non amo molto l’urban fantasy e per fortuna il richiamo è lieve e il romanzo ha solo una velatura che riporti al genere. Per il resto la storia parte in modo leggero e accattivante, sembra proprio l’inizio di una commedia: brillante e divertente. Mi dispongo ad una lettura rilassante, le pagine scorrono veloci, conosco i protagonisti impiccioni che si sono scambiati i telefoni inavvertitamente in aeroporto e che non resistono a curiosare spudoratamente l’uno nella vita dell’altra. Due personaggi originali: uno chef di grido caduto in disgrazia (ma ai nostri tormentatori televisivi non succede mai di perdersi tra una riduzione all’aceto balsamico e un filetto in crosta?) e una raffinatissima fiorista parigina. Nei libri di Musso, però, nulla è come sembra, quindi mi preparo al colpo di scena. Alla fine della prima parte non c’è più niente da ridere…La storia vira improvvisamente e inaspettatamente verso il thriller: la sensazione, mentre si stava mollemente abbandonati in attesa degli sviluppi rosa della faccenda, è lievemente sconvolgente. La bella e delicata fiorista, infatti, rivela un passato a dir poco sconcertante e anche il giovane chef ha degli scheletri nell’armadio niente male! Da qui in poi entra in scena l’inquietante “fantasma” della piccola e sfortunata Alice, che si frapporrà tra i due protagonisti con la sua ingombrante presenza, tornando con la sua lugubre storia dal passato, ossessionandoli, condannandoli ad occuparsi incessantemente di lei. E’ una febbre che finisce col contagiare tutti i personaggi e il romanzo non fa che avvitarsi intorno a lei, che alita sulla storia i miasmi dei ricordi più neri, del furto dei sogni, di un’infanzia caotica vissuta tra le periferie più derelitte di una sconosciuta Inghilterra e varca le soglie della vita per disseminare la strada di Madeline e Jonathan di tracce misteriose che li riportino a riaprire porte che sembravano chiuse per sempre.
Capisco la diffidenza degli integralisti del giallo (spesso un tantino rigidi nei loro giudizi): Musso è sconfinato in un terreno occupato, la landa desolata del thriller è off limits per chi non conosce la parola d’ordine. Feroci mastini ne difendono l’algida integrità! Credo che questo romanzo non faccia per loro. I lettori più “morbidi”, che gradiscono le contaminazioni, ameranno immensamente questa storia, originale e intrigante, che di certo non mancherà di tenere a lungo svegli e vigili nelle lunghe e accaldate nottate estive!
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Una sconfinata giovinezza
Il titolo di questo libro, che risale a qualche anno fa, è fatto apposta per suscitare attenzione. Dopo averlo visto è inevitabile prenderlo in mano e dare uno sguardo alle prime pagine. La storia si apre con una curiosa telefonata notturna e…a quel punto ero già alla cassa!
E’ un romanzo a più voci, in cui ogni personaggio racconta la propria versione dei fatti e ognuno consegna il testimone all’ altro, in una ideale staffetta attraverso trent’anni di storia di una ricca famiglia della borghesia imprenditoriale italiana. Si procede per salti temporali non sempre lineari, perché i protagonisti hanno fretta di riversare sul lettore i fatti e le emozioni, nella ricerca di un coinvolgimento emotivo che non tarda ad arrivare. Difficile non prendere le parti del protagonista Francesco: spirito libero, inquieto, trasgressivo, ma con un retrogusto di fragilità e dolcezza che lo fa parzialmente uscire dallo stereotipo (è bello, studia filosofia, si oppone alla famiglia, viaggia in cerca di sé, insomma non proprio originale...). Subito dopo, però, si scoprono le ragioni del fratello maggiore Flavio, su cui ricade inevitabilmente tutto il peso delle aspettative familiari (l’azienda, il matrimonio, i figli..). Non può permettersi di dire “io no”, come il giovane Francesco che vaga per il mondo in cerca di una dimensione (presumibilmente con i soldi di papà…); deve tirare la carretta e accontentarsi degli scarti: la bella Laura, abbandonata dal fratello senza spiegazioni, diviene la sua infelice e complicata compagna di vita. La prima parte del romanzo è scorrevole, leggera e non mancano dei passaggi frizzanti e degli episodi davvero esilaranti, come l’arrivo di Francesco al matrimonio di Flavio. Mentre si procede nella lettura, la storia diviene sempre più interessante e originale, grazie alla graduale rivelazione, da parte dell’autore, dei veri rapporti che legano i personaggi e allo svelamento dei percorsi emotivi che li hanno condotti al groviglio di situazioni in cui vengono a trovarsi. Nella seconda parte del libro, però, le pagine si incupiscono e il romanzo prende una inaspettata direzione drammatica, che evolve verso la catarsi finale, forse liberatoria. Personalmente, da un certo punto in poi, ho trovato poco coinvolgente il percorso di vita di Francesco, che partendo dal grido “io no!” attraversa i più scontati sentieri della ricerca di identità, incontrando l’oblio degli stupefacenti, il mito americano, l’illusione di un amore salvifico, che definirei “ultraterreno”, data la perfezione dell’amata Elisa (se l’avesse chiamata Beatrice avrei chiuso il libro!), l’approdo consolatorio alla musica, comunque perseguendo infaticabilmente la fuga da sé, che anche dopo una certa età, lo porta al totale abbandono delle responsabilità e a tradurre la sua ricerca nella consueta dimensione del viaggio (Groenlandia, Cina, India, i deserti africani in cerca di un improbabile santone). Ho trovato molto più credibile e “attuale” il personaggio del fratello Flavio, con la sua adesione alla realtà e mi è piaciuta la giovane e arrabbiata Laura delle ultime pagine, che alla fine mi è sembrata il vero alter ego dell’autore. Non conoscevo Lorenzo Licalzi e ho scoperto che ha esordito non molti anni fa; lo pensavo, quindi, dopo aver letto il libro, poco più che adolescente. La sorpresa è stata la foto di un pacioso cinquantenne, che di mestiere fa lo psicologo (forse, prima di pubblicarlo, ha tenuto il libro nel cassetto per un po’…).
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...d'inchiostro, di carta, di sole e d'azzurro: un
E’ una storia originale e curiosa. Lo stile è unico, sia per l’impaginazione, che per la scelta di contaminare la maggior parte dei capitoli con incursioni letterarie d’ogni tipo, derive fumettistiche, citazioni, schizofrenici cambiamenti grafici. Ogni pagina è un’avventura! L’incipit è coinvolgente e particolare: i personaggi della storia emergono, con le loro peculiarità e il loro vissuto, da alcuni articoli di cronaca giornalistica decisamente credibili. Dopo le prime pagine, ci si comincia ad orientare e si mette rapidamente a fuoco il protagonista, che è uno scrittore in preda ad una profonda crisi creativa. La storia si dipana tra lacerazioni interiori e continui flashback che ci trasportano indietro nel tempo. Apprendiamo, quindi, che Tom Boyd e i suoi amici, provengono da un passato doloroso e pesante, da un’infanzia e un’adolescenza divise tra necessità di sopravvivere in un mondo durissimo, nei bassifondi di una città che non fa sconti e non concede deroghe e i sogni di affrancamento da quella realtà e di possibilità di autorealizzazione in un universo altro, in una dimensione meravigliosa e irreale di bellezza, ricchezza, felicità e …straordinariamente tutto ciò nella vita dei “nostri”, accade! L’imprevedibile si realizza, il sogno si innesta in una realtà impensabile, trascinato a galla dalla straordinaria verve creativa di Tom, che pubblica il suo romanzo ed emerge così dalle nere profondità urbane. Allora il lettore potrebbe farsi di lui un’idea: uno che ha conosciuto bande di criminali e malviventi tra i peggiori, che ha visto la sua piccola amica Carole (dolce e silenziosa ispiratrice del suo favoloso primo romanzo) umiliata da inferni familiari di inaudita violenza e che è sopravvissuto ad un simile girone dantesco, sarà senz' altro un duro, uno con il pelo sullo stomaco che nessun evento della vita potrà scalfire…e invece no! Il nostro protagonista si rivela una tenera mammola in balia dei venti, che si fa stendere dalla fine di una storia d’amore! Questo ce lo rende proprio simpatico, e ci fa accettare di buon grado le incredibili, rocambolesche, surreali avventure a cui va incontro. Ad esempio l’improbabile materializzarsi, nel soggiorno di casa, del più sofferto personaggio femminile dei suoi romanzi: la biondissima e scatenata Billie che lo implora di finire la storia che ha lasciato a metà per garantirle la sopravvivenza (letteraria? Reale? Boh!). Che dire, insieme a lei vivrà il viaggio più strampalato della sua vita, un viaggio che sarà anche dentro sé stesso, alla ricerca dell’origine di quella creatività che crede di aver perduto per sempre, ma anche di tutte le persone importanti che hanno attraversato la sua vita e di cosa ognuno ha lasciato nel suo cuore. Fino ad arrivare ad una straordinaria apologia del lettore: amico, complice e vero ispiratore di ogni scrittore. Dopo la prima parte, è come se si aprisse un libro nel libro e parte un nuovo inaspettato percorso che è quello del libro incompiuto di Boyd attraverso i quattro angoli del mondo e tra le mani di una incredibile miscellanea di personaggi. Appassionante, ironico, divertente, a tratti profondo. Un libro da non perdere. Questo Musso mi è proprio piaciuto! Una piccola critica: io mi sarei fermata a pag 367, al viaggio di ritorno di Tom a Los Angeles…non sentivo la necessità del finale!
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Viaggio in fondo al coraggio
E’ un volumetto che si affaccia innocuo dagli scaffali delle librerie, tra i classici della letteratura. Valse al suo autore, nel lontano 1954, il Premio Nobel. Nell' edizione Oscar Mondadori, vi appare in copertina il volto di Ernest Hemingway: sguardo intenso, profondo, una delle immagini più note dell’autore. Solitamente consigliato dagli insegnanti di scuola media per avviare recalcitranti e inconsapevoli giovanissimi alla letteratura “alta”, è un libro che va letto due volte almeno nella vita. Forse lo si può anche avvicinare a quattordici anni, ma non so quanto del significato più profondo del testo possa arrivare ad un giovane ed inesperto lettore. Per questo credo che occorra, quantomeno, riprenderlo in mano tempo dopo, per poterne percepire pienamente il senso. E’ un libro che fa soffrire. La lettura, benché breve, è faticosa. Si arranca sulle pagine come si dovesse percorrere una salita ripida, che indolenzisce le gambe e lascia senza fiato.
La vicenda si svolge sulle coste cubane, in un tempo indefinito. L’anziano pescatore Santiago, dopo un lungo periodo trascorso in mare senza aver pescato nulla, decide, anche se ormai fiaccato nel fisico e nello spirito, di riprendere il mare in totale solitudine, privato anche della compagnia del giovane Manolin, che lo ha seguito in mare fin dalla più tenera età, che ha imparato da lui le tecniche di pesca, le correnti, le stelle, ma anche il coraggio, la pazienza, la perseveranza. Il ragazzo non può andare con Santiago, Santiago per i pescatori del porto è salao, spacciato, finito e la sua famiglia non lo lascia più andare con un pescatore che non può garantirgli un futuro. Il ragazzo però, è legato a Santiago da un affetto profondo e soffre per lui, per la miseria delle condizioni in cui si trova colui che è stato per lui più di un padre. Allora fa di tutto per alleviare la situazione del vecchio, gli procura da mangiare, lo accudisce, lo ascolta farneticare di una realtà che non gli appartiene più, con rispetto e complicità, resistendo alla tentazione della compassione. Le attenzioni e la preoccupazione del ragazzo, però, non impediscono a Santiago di avventurarsi di nuovo in mare, con limitatissime risorse e recuperando nelle profondità del suo essere le ultime forze. La vela rattoppata, la camicia rattoppata, sono il simbolo della sua sconfitta. Santiago si aggrappa al suo coraggio, ha solo sé stesso su cui investire, ma nemmeno la derisione dei marinai del porto scalfisce la fiducia nelle proprie possibilità. Il viaggio è dolore, fatica indicibile, fisica e spirituale. Visioni di gioventù, di leoni selvaggi su spiagge bianche, confortano o confondono la mente del pescatore, che nella allucinata solitudine rivede momenti lontani di viaggi in terre remote, che lo riportano ad un giovane sé stesso pieno di forza e vigore (quanto di più lontano dal presente). Visioni di vittorie sportive, il mito del grande Di Maggio che si affaccia alla mente di Santiago con il suo coraggio, l’indifferenza alla fatica, la determinazione; questi sono i pensieri a cui il vecchio può ricorrere per resistere. Le mani dolenti, la schiena spezzata dalla stanchezza, la fame così prepotente da rimanere sullo sfondo, perché il fisico non la percepisce più e Santiago che mangia pesce crudo perché deve farlo, per mantenere le ultime forze: tutto arriva al lettore nel fisico, la fatica di Santiago è la fatica del lettore. Mentre attraversa l’oceano per l’ultima volta, il pescatore si accosta ancora, con rispetto e timore alle forze della natura, che lo sopraffanno e lo schiacciano con la loro indomabile e cieca prepotenza, ma ad esse lui non si ribella, sente di far parte anche lui di un progetto, non è altro che un tassello, che svolge il suo compito in un disegno grandioso, del quale non sente la necessità di spiegare il senso. In questo Santiago mostra la sua saggezza, la mistica accettazione della vita: non c’è rabbia né astio nel suo atteggiamento, non c’è amarezza, solo infinita stanchezza. E’ andata così: il mare ha dato al pescatore, il mare toglie, attraverso le sue creature, ogni illusione di vittoria. Lui, come l’enorme pesce marlin che lotta fino alla fine con fierezza e coraggio, per sopravvivere e sfuggire al suo destino, come gli squali che per sfamarsi divorano il pescespada, decretando inconsapevolmente la sconfitta finale del pescatore, che torna al porto sfinito, trascinando sulla povera barca i resti di ciò che doveva rappresentare il suo riscatto come uomo di mare, non sono altro che personaggi di una scena che necessariamente deve finire così, dove ognuno recita il proprio ruolo e di cui la natura, algida e lontana, rispetto alle pene dell’uomo, è regista.
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Il dono del cuore
L’idea di questo romanzo non è nuova, un racconto a due voci che si dipana lungo un certo arco di tempo, tratteggiando due vite diverse e a volte opposte nella loro complessità, accomunate dal legame più profondo che esista: quello di sangue, le protagoniste sono madre e figlia. Evidentemente il doppio registro è una formula che piace all’ autrice, che già in un suo precedente libro ( “Ma le stelle quante sono”), anche se in modo diverso, l’aveva utilizzata.
L’espediente classico del ritrovamento, più o meno casuale, di una serie di appunti privatissimi appartenenti alla figlia, da parte della madre Giulia, apre il romanzo. Forse l’autrice intendeva portare avanti in parallelo le due storie, ma armeggiando con tempi e personaggi, sembra che la trama le prenda la mano, mettendo in ombra la figura della figlia Mia. Venendo meno, quindi, alle intenzioni iniziali, la storia diventa principalmente quella di Giulia, la madre, perché dopo i primi passaggi del libro, la vita di Mia (che alla fine occupa solo alcune pagine), appare come uno sbiadito e frammentario coacervo di episodi , che concorrono a delineare lo stereotipo della ragazza ribelle, notturna e sregolata, purtroppo abbastanza scontato. Dopo la primissima parte del romanzo, quindi, Giulia strappa di mano la penna all’autrice, decidendo di raccontare la sua storia di ragazza borghese anni sessanta (forse i tempi non collimano perfettamente nel procedere degli avvenimenti), le sue sofferenze familiari, i suoi incubi domestici in un mondo di donne matrioske in cui una “mangia “ l’altra, in un continuo furto di affetti, prigioniere di un tempo perbenista e falso in cui le donne languono in attesa di un principe-maschio-guida, sognato e idealizzato, che regolarmente si rivela il più meschino e fragile degli esseri. Nemmeno una scelta rivoluzionaria per i tempi, come quella di fare il medico, sembra affrancare Giulia dalla sua condizione di sudditanza dall’universo maschile (rappresentata anche dal suo rapporto con il primario dell’ospedale in cui lavora). Mentre la giovane Mia trascorre il suo tempo adolescenziale tra corse in motorino e storie di letto senza futuro, respingendo la tenerezza dell’unico vero amore, Giulia racconta la sua vita, fino ad arrivare ai due incontri importanti che ne cambieranno il corso: quello con una strana suora peruviana (il personaggio più originale, le pagine a lei dedicate mi sono sembrate le migliori) e quello con Miguel, passione estrema, trasgressiva, proibita, che riscatta Giulia, premiando la sua infinita attesa. Giulia diventa Jubia: “pioggia” nella lingua di Miguel “…essere pioggia non è facile, devi concederti solo alle terre che hanno bisogno di te, altrimenti allaghi”. Jubia è il pericolo, il peccato a cui Giulia non sa rinunciare, che rischia di bruciarla per sempre, sottraendola al suo immoto mondo di certezze, ma regalandole quella dolcezza sognata per tutta una vita. E’ questo il dono intenso che la madre lascia alla figlia e che scioglie i nodi del titolo del romanzo. Lo stile di scrittura della Carcasi, forte, ridondante, ricchissimo di citazioni e metafore, è il più adatto a raccontare questa storia al femminile, che comunque al di là dei limiti del romanzo, forse un po’ al di sopra delle possibilità dell’autrice, ancora così giovane, ammalia e trascina nel gorgo più profondo delle emozioni.
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Una travagliata adolescenza
E' un libro molto particolare. Ti ci accosti nella convinzione di incontrare un romanzo di formazione e il titolo accattivante e un po' retorico te lo fa subito pensare: sbagliato!
Fin dall'inizio, l'entusiasmo si smorza. Ogni pagina è attraversata da una tristezza strisciante e limacciosa e la caratterizzazione dei personaggi, non ritratti nella dinamicità di un magico periodo dell' esistenza, in cui tutto è ancora possibile, ma ingessati e statici nel loro modo di presentarsi, raffredda subito l'interesse del lettore che prosegue per dovere e per la curiosità suscitata, a questo punto, dal cercare di capire come si sia potuto tirar fuori una sceneggiatura per un film di successo, da tale deludente racconto.
Il romanzo è in forma epistolare e incontriamo il protagonista Charlie, quattordicenne americano anni novanta, che scrive ad un ignoto amico, il quale non conosce (e non deve conoscere) l'identità del mittente delle lettere. La vita di Charlie non sembra per niente invitante, anche perchè ha da subito a che fare con il suicidio di un suo amico e con altri episodi inquietanti, di una quotidianità non proprio ordinaria. Quello che colpisce è che Charlie registra ogni fatto e racconta al suo inconsapevole amico di penna quanto gli accade giorno per giorno, con distacco e freddezza, quasi non parlasse di cose personali e intime che lo riguardano così da vicino . Manca il cuore! Manca la convinzione granitica di ogni adolescente nella risoluzione di ogni conflitto, nel superamento di ogni ostacolo! Manca la fiducia incosciente e determinata in un radioso futuro, che anche l'adolescente più pessimista segretamente coltiva! Manca anche la rabbia incontenibile, che un giovane può provare a quell'età per le ingiustizie della vita e che è tanto più violenta e assoluta quanto più si è immaturi e inesperti della vita! Charlie appare, al contrario, come un tranquillo pensionato che lancia le briciole ai piccioni nel parco, raccontando ad un passante la sua storia con tiepida tranquillità! Ma insomma, i colori sgargianti dell'alba della vita dove sono?!
A questo punto l'autore si sente obbligato ad inserire nel percorso l'immancabile professore-guida, Bill (citazione scontatissima e insopportabile dell' "Attimo fuggente"), con tutto il suo bagaglio di libri-guida- per- la vita, che ho davvero sopportato male.
Ho faticato a seguire questo giovane ragazzo nel suo percorso attraverso gli imprevisti di questa vita di provincia americana. Per un lettore italiano, inoltre, l'identificazione con questo adolescente d'oltreoceano è abbastanza difficile, soprattutto per la diversità abissale dei college americani da uno qualsiasi dei nostri licei e per la vita completamente diversa e difficile da decifrare che vi si svolge, con i suoi riti, i suoi luoghi e le sue figure di riferimento.
Verso Charlie nasce comunque, immediata, una certa diffidenza. Non si riesce a fare il tifo per lui: la sua figura lascia interdetti e al massimo si prova, per questo ragazzo, una certa pena. Si finisce con l'osservarne le vicende in un modo abbastanza distaccato, come se si muovesse in uno strano acquario, nel quale i sentimenti dei personaggi sono rappresentati, ma non coinvolgono. Tutto accade in un'atmosfera sospesa e vischiosa, in cui viene spontaneo immaginare questi ragazzi nel loro futuro già scritto, di adulti sofferenti, irrisolti, che si porteranno dietro, faticosamente, un passato appesantito da vicende gravi e irreparabili (una gravidanza interrotta, la violenza nei rapporti d'amore, l'omosessualità nascosta e condannata).
Le frasi tipiche dell'adolescenza, che scaturiscono da esperienze, tutto sommato banali, ma che ad ognuno di noi sono sembrate, ovviamente uniche e irripetibili e che oggi, da adulti, ci fanno tenerezza e ci appaiono anche un po' comiche nella loro roboante assolutezza, risultano quasi posticce e fuori luogo, disseminate nel testo tanto per portare il lettore sul terreno desiderato, con l'unico risultato di farlo sentire "imbrogliato"!
Mi dispiace, ma l'autore non mi ha convinto. Ho percepito subito la mano pesante di un adulto che scrive di adolescenza, non con l'incanto del ragazzo che si affaccia alla vita e per cui anche le vicende più tragiche trovano spiegazione in quel girotondo di colori, sensazioni, sentimenti esasperati e assoluti che quell'età porta con sè, ma con il disincanto di un uomo che forse, di quell'età, ha davvero dimenticato tutto ...
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