Opinione scritta da ChiaraLotus
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Trovarsi fra la folla
Ieri ho citato questo libro in una recensione su “Bianca come il latte rossa come il sangue” a cui potete accedere dal mio profilo, così mi è sembrato giusto recensirlo. Su Q-Libri, mi piace infatti intraprendere, insieme agli altri lettori, dei percorsi letterari che attraverso svariate tappe arrivino ad offrire una panoramica complessiva della nostra realtà.
Riepilogo delle puntate precedenti: si parlava di romanzi per adolescenti e dell’incapacità di molti scrittori di cogliere la complessità delle nuove generazioni, spesso rappresentate all’insegna della ribellione contro l’ordine precostituito rappresentato dalla famiglia, dalla scuola e dalla società intesa in senso lato. Lo stereotipo del giovane che non ha voglia di studiare e pensa solo a divertirsi, purtroppo è vivo in molta letteratura dei giorni nostri, compreso il tanto osannato New Adult. Sia in “Uno splendido distastro” sia in “Easy” si assiste a risse e festini. D’Avenia ha una sensibilità diversa, ma a mio avviso ancora troppo ingenua.
“Qualcuno con cui correre”, invece, è un libro che può essere letto ed apprezzato da tutti, giovani e meno giovani, in quando racconta gli adolescenti con un linguaggio adulto, ma non per questo meno capace di cogliere la loro essenza, in tutte le sfumature possibili.
Assaf lavora al canile per le vacanze estive. I suoi genitori sono in viaggio negli USA, ma questo momentaneo clima di anarchia familiare non lo porta allo sbando. Al contrario: le sue lunghe giornate trascorreranno all’insegna di una rocambolesca ed avventurosa ricerca per le strade di Gerusalemme, sulle tracce di Tamar. L’obiettivo, è quello di riconsegnarle il suo cane.
I due protagonisti sono due giovani propensi al sacrificio: il sacrificio in nome di un desiderio, di un sogno o di uno straccio di ideale che – per quanto effimero e connesso con la giovane età – assume importanza proprio perché capace di indirizzare la vita verso uno scopo. Questo romanzo ha il merito di far capire ai giovani quanto può essere importante fissare delle mete, degli obiettivi da raggiungere. Non importa se essi sono considerati dagli altri assurdi o irrealizzabili: i sogni assumono un valore solo perché esistono. Ogni desiderio, se vissuto con entusiasmo e non con avidità, può diventare una sorta di illuminazione.
Può, questo romanzo, essere considerato un “road movie” anche se i personaggi si muovono a piedi ed in un territorio piuttosto ristretto?
Non saprei. Anche se si parla soltanto di brevi spostamenti il valore metaforico del viaggio – inteso soprattutto come percorso di formazione – rimane comunque molto vivo. Attraverso le numerose tappe del loro percorso, Assaf e Tamar riusciranno a crescere e maturare alimentando tra loro un rapporto energetico che trascende la conoscenza fisica.
Proprio i rapporti fra gli esseri umani rappresentano il fulcro della narrazione. I legami fra genitori e figli, fra fratelli e sorelle, fra amici e addirittura fra cognati, sono fondamentali per lo sviluppo delle vicende. Il rapporto con gli adulti è vissuto – nonostante piccole e grandi disobbedienze disseminate qua e là - all’insegna del rispetto, dell’aiuto reciproco, della collaborazione. Se ci sono dei “buoni” o dei “cattivi all’interno della storia, questo “status” dipende solo ed esclusivamente dalle loro azioni, non dal ruolo sociale, e si erge al di sopra dei conflitti generazionali. Il male e il bene sono due concetti universali. Le persone incarnano dentro sé queste due energie facendo predominare l’una o l’altra a prescindere dall’età, dal genere, e da altre variabili esterne all’individuo. L’essere umano, è umano a prescindere, ed anche se ridotto ad una larva distrutta dalle droghe.
Già… le droghe. Esse vengono mostrate nel loro lato più devastante e distruttivo, mai associate al divertimento ed allo sballo. Il ritratto che emerge è quello di un eroinomane ridotto ad uno straccio, alienato e solo. Questa è l’altra faccia delle droghe, non sempre mostrata nei prodotti rivolti ai giovani. E – purtroppo – è anche la faccia più realista.
Considero questo libro un esempio di letteratura pulita, piacevole ma al contempo educativa. Nessun adolescente, dopo aver letto questo libro, potrà fare a meno di sentirsi arricchito. Grossman dimostra che intrattenere, educare e divertire contemporaneamente è possibile, ed esiste una “letteratura trasversale” capace di essere apprezzata da tutte le generazioni.
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Un insegnamento per le donne
Hosseini, nello scrivere questo romanzo, è come se avesse voluto completare “Il cacciatore di aquiloni”.
Il primo libro, infatti, assumeva un punto di vista maschile e raccontava l’essere prima bambini e poi uomini in un paese prima in pace e poi allo sbando.
“Mille splendidi soli” chiude il cerchio e completa l’incastro. Quando penso al rapporto fra questi due libri, mi vengono i ciondoli degli innamorati, suddivisi in due metà che poi vengono unite rivelando un unico gioiello.
Questo romanzo offre un insegnamento alle donne, e lo fa attraverso due protagoniste che hanno in comune solo il fatto di aver sposato il medesimo uomo. Le separa il livello socio-culturale. E le separa l’età.
Se Mariam è ancora figlia di una generazione che punta alla sottomissione della donna, Layla sta pian piano assumendo una nuova mentalità, non ancora riconosciuta a livello collettivo, ma destinata ad offrire nel corso degli anni nuove possibilità. Quella di Layla si può definire un’ “emancipazione potenziale”: esiste nella mente, cerca degli appigli, ma è ancora vittima di un sistema che ne impedisce la concretizzazione.
Esistono molti paesi in cui le donne vivono ancora in una condizione di sottomissione. Altri, ad esempio Turchia e Marocco, stanno vivendo una progressiva emancipazione. Il burqa è vietato in molti ambienti (ad esempio le moschee) e a Rabat il re sta promuovendo un disegno di legge finalizzato all’abolizione della poligamia. Tuttavia, ci sono ancora molti passi da fare.
E questi passi - mi spiace dirlo ma mi baso sulla conoscenza di molte donne musulmane che vivono nel nostro paese - non devono compierli soltanto gli uomini. Per molte giovani che decidono di sposarsi e trascorrere la vita fra le mura di una casa a crescere i figli, questo è infatti un privilegio.
Sapete quante ragazze conosco che lavorano in Italia e non vedono l’ora di poter abbandonare una necessità vissuta come punizione, e trovare il “principe azzurro sul cammello bianco” che le sposi e le mantenga?
Preparare la cena, stare in casa, avere uno che ti scarrozza avanti e indietro perché non hai la patente, è visto come un privilegio. Salvo poi trovarsi sole in ciabatte e con i bigodini in testa, a seppellire l’amore sotto il senso del dovere.
Esistono donne che, cresciute nel nostro paese, liberalmente scelgono questo stile di vita. Io stessa mi sono sentita dire “quando il tuo compagno farà carriera potrai stare in casa”. Poi hanno capito che questa frase, seppur detta in buona fede, mi offendeva. Credo che la dipendenza economica ti imponga di essere, in un certo senso, un oggetto del tuo uomo. E credo che queste donne debbano imparare, prima di tutto, a ritagliarsi un proprio spazio all’interno del matrimonio. Questo spazio deve configurarsi come libertà sia fisica che mentale, come la possibilità di dedicare amore a se stesse.
Spero che questo libro possa insegnare alle donne questo tipo di libertà, invogliarle a studiare, ad arricchire se stesse, ad essere sì brave mogli e brave mamme, ma anche e soprattutto persone autonome. Chi vive all’estero può scegliere. E questa scelta deve essere compiuta anche per rispetto nei confronti di quelle giovani che, invece, sono costrette in una sorta di schiavitù socialmente riconosciuta.
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Un francese, un inglese, un tedesco e uno spagnolo
Il titolo di questa recensione ricorda tanto le barzellette che andavano di moda negli anni ottanta. Un tedesco, un inglese, un francese ed uno spagnolo. Christof, Christopher, Christophe e Cristofòl. Sono i quattro figli del camionista catalano Gabriel Delacruz, quattro giovani fra i 30 e i 40 anni, che si ritrovano dopo che i vicini di casa hanno denunciato la scomparsa dell’uomo. Dopo lo shock iniziale, decidono di ricostruire la sua storia, mettendo insieme i pezzi del puzzle disseminati in tutta Europa. L’obiettivo palese è quello di ritrovarlo. Ma dietro questo intento si nasconde quello più puro e profondo di colmare il vuoto lasciato dall’abbandono inserendovi più dettagli possibili per far sì che la nebbia in quell’immenso spazio possa diradarsi.
Non voglio andare troppo per le lunghe: questo è il libro più bello che abbia letto negli ultimi tempi. L’unico difetto, insignificante se si pensa alla qualità complessiva dell’opera, è che talvolta l’autore si dilunga in alcune digressioni che fanno perdere il filo. Forse il suo scopo è quello di arricchire ulteriormente una galleria già complessa e stratificata di personaggi, luoghi e situazioni. Il troppo stroppia solo relativamente: nonostante sia un po’ prolisso, Jordi Punti riesce comunque ad appassionare e divertire creando storie vive e dense di passione.
Abbandonato a pochi giorni di vita in un mercato, con un biglietto sulla pancia riportante il suo nome, cresciuto nella Casa della Carità sotto lo sguardo severo ma benevolente di Suor Elvira, Gabriel appare subito come un uomo completamente privo di radici. Crescerà nella totale incapacità di legarsi alle persone, ad eccezione dell’amico fraterno Bundò, cresciuto insieme a lui nell’orfanotrofio e collega presso la ditta di traslochi La Iberica. Insieme a Bundò e a Petrolio, Gabriel girerà l’Europa. Conoscerà le madri dei suoi figli. Metterà al mondo tre dei quattro Cristofori e cercherà, per quanto possibile, di andare a trovarli e seguirne la crescita, fino alla tragedia che lo costringerà a fermarsi. Allora i figli saranno abbandonati. Cresceranno accompagnati dal fantasma di una figura quasi mitologica, frutto più della loro fantasia che dei frammentari racconti provenienti dalle madri.
Quando i quattro fratelli si conoscono, non c’è rivalità fra loro. Questo è un altro aspetto che mi è piaciuto. Nessuna diffidenza, nessun conflitto: solo complicità e comunione d’intenti nel ritrovare il padre. Sono loro i narratori della storia. Anche questa trovata è a mio avviso molto originale. Non si parla né in prima persona singolare, né in terza persona, bensì in prima persona plurale. Non mi era mai capitato di leggere un romanzo con questo stile narrativo e devo dire che l’ho trovato coinvolgente, solo a tratti vagamente artificioso.
Tuttavia, in certi punti della storia, l’autore è costretto a cedere la parola ad un singolo personaggio creando delle voci soliste. Così Christof, Christopher, Christophe e Cristofòl raccontano in prima persona l’assenza di Gabriel, ripercorrono le autostrade d’Europa alla ricerca del proprio passato, consapevoli del filo sottile che li lega a quel padre così evanescente ma al contempo così presente. Gabriel è infatti un uomo dalla genetica forte, che ha saputo imporsi sui DNA delle quattro madri, dando vita a dei ragazzi che gli somigliano, e si somigliano fra loro. Anche il collega camionista Petrolio (a cui la mania di frequentare i circoli di emigranti spagnoli sparsi in tutta Europa ha regalato l’incontro della vita) e la prostituta Carolina/Muriel si uniscono al coro. Si tratta di due individui fondamentali per lo sviluppo della storia, che conferiscono un’ulteriore fascino ad una vicenda che ha a tutti gli effetti il merito di farci conoscere una porzione consistente di mondo.
La storia descritta in Valigie Smarrite non è solo quella di Gabriel e dei suoi figli. Il romanzo racconta circa cinquant’anni di storia, ma il contesto socio-culturale ospita le vicende dei singoli individui senza mai sovrapporsi ad esse. È una cornice. È un contorno. Ma è fondamentale per comprendere tutti i cambiamenti di cui il nostro continente è stato protagonista.
Per chiudere la recensione, vale la pena fare un piccolo cenno al titolo. Valigie Smarrite. Credo che queste due parole riassumano il senso filosofico del romanzo. Nella vita infatti, a ciascuno di noi viene portato via qualcosa, o qualcuno. E, per compensare, cerchiamo – a volte senza alcun diritto – di riprenderci ciò che ci è stato tolto. Ma il senso dell’esistenza umana si può trovare solo in un delicato equilibrio fra il dare e l’avere. Ed è questo che Gabriel dovrà imparare.
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Commedia sociologica
Un libricino che si legge in un pomeriggio. Una commedia divertentissima, che fa ridere dall'inizio alla fine ma al contempo spinge a molteplici riflessioni su diverse tematiche di carattere sociologico.
La vicenda si ambienta in un condominio a Piazza Vittorio, un quartiere multietnico della nostra capitale, dove immigrati ed italiani convivono in modo relativamente pacifico fino a quando un losco individuo di nome Lorenzo Manfredini, detto "il gladiatore", non viene trovato ucciso.
Allora l'autore, sicuramente dotato di capacità narrative molto elevate, ci propone diverse verità: la verità di ciascun condomino che, sulla base della sua cultura e della sua educazione, nonchè di quelle norme sociali apprese più per tradizione familiare che non per volontà. Tutti credono di sapere chi sia il colpevole. Le convinzioni limitanti che imprigionano la loro mente hanno la meglio sull'effettiva ed ormai sopita capacità di pensare e di riflettere.
Ciascun personaggio è, in un certo senso, uno stereotipo. Ma l'autore riesce a farlo ergere sopra il ruolo di mera macchietta connotandolo con un'identità ben definita, precisa, estremamente delineta. In poche parole, la caricatura in questione diventa portavoce di una mentalità realmente esistente, di cui il lettore è perfettamente consapevole. Sorridere di tanta precisione, diventa inevitabile.
Così abbiamo la signora Benedetta Esposito, napoletana piena di superstizioni e convinta che l'assassino sia qualche immigrato, l'iraniano Amir Iqbal Allah che decide di chiamare il figlio Roberto, per evitargli la confusione fra il nome e il cognome di cui lui stesso è vittima, la peruviana Maria Cristina Gonzales, badante di una signora di ottant'anni e terrorizzata all'idea di perdere il lavoro.... E tanti, tanti altri nomi, altri volti che si intersecano, altre voci che si uniscono al coro. Fra di esse, ne spicca una: quella dell'olandese Van Marten.
Ebbene si: molti italiani guardano con disprezzo gli immigrati e, nel loro sguardo, c'è sempre un malcelato senso di superiorità. Ma cosa succede quando loro stessi devono essere giudicati dal figlio di quell'europa ricca ed organizzata, incapaci di comprendere le lungaggini burocratiche ed il "catenaccio" che ha distrutto il bel calcio?
Un libro consigliato per comprendere i condizionamenti culturali di cui ciascuno di noi volente o nolente si trova ad essere vittima, sia nell'esprimere un'opinione, sia nel riceverla da altri. Un romanzo che fa ridere fino alle lacrime, ma porta anche molte riflessioni. Ed insegna ad avere una mentalità più aperta.
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Cene eleganti, con donne gentili
Perchè quel votacco in "piacevolezza"?
Esso non dipende certo da un'opinione negativa sul libro, che al contrario si "legge bene", grazie ad uno stile secco e referenziale, propriamente giornalistico. A disturbare, è proprio l'argomento. Si tratta infatti di un saggio finalizzato a documentare, in modo dettagliato e preciso, l'inchiesta sul caso "bunga bunga", riportando la cronologia dei fatti e confutando tutte le fandonie che i protagonisti hanno raccontato per difendere la loro (ormai stracompromessa) immagine.
Nonostante l'orientamento politico mai celato dell'autore, non ci sono opinioni e giudizi "politici", nè c'è manipolazione del pensiero e disinformazione: la documentazione utilizzata è verificabile, è agli atti dei processi. Colaprico si limita ad aggregarla in un unico testo, ordinare i fatti cronologicamente e raccontarli così, nudi e crudi, lasciando il lettore assolutamente libero di farsi un'opinione.
Non viene menzionato, se non a titolo referenziale, il ruolo politico di Silvio Berlusconi. Non si parla di conflitto d'interessi, di morale, di immagine da difendere sul piano internazionale. La questione viene posta, a mio avviso, più sul piano sociologico.
La "società dell'immagine" che il signor B. ha contribuito, anche grazie alle sue televisioni, a strutturare e definire, ha superato per l'ennesima volta il limite del buon gusto. Dopo il Grande Fratello e dopo Vallettopoli, il valore morale di certe esponenti del genere femminile ha percorso un ulteriore gradino in discesa. La mentalità da reality show che punta al maggior risultato in termini di fama e denaro con il minimo sforzo ha portato ad una vera e propria legittimazione della prostituzione.
Le pagine (numerose) relative alle intercettazioni fra "le donne gentili" e le loro famiglie, hanno il potere di far accapponare la pelle. Si legge di madri che, con gli occhi a forma di euro, domandano alle figlie ventenni quanto siano riuscite a guadagnare, le esortano a chiedere di più, a fare tutto quello che Lui chiede. Non ci sono smorfie di disgusto, solo appoggio, sostegno, e tacito consenso.
Un libro interessante, che io consiglio perchè tutti hanno il diritto di conoscere una realtà tanto aberrante. Solo un consiglio: se sei una donna onesta, pulita e con una morale salda la tua sensibilità può essere profondamente urtata. Questo è successo a me.
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Tra speranza certezza ed illusione
I voti che ho dato a questo libro possono sembrare contraddittori, ma unendo in un unico discorso le diverse motivazioni che do a queste scelte potrete avere, del libro, una visione complessiva.
Non mi colloco infatti nè fra quelli che lo ritengono spazzatura nè fra coloro che lo esaltano come il libro del secolo.Credo che conoscere la Legge di Attrazione sia fondamentale per adottare uno stile di vita orientato verso la positività, ma questa forza magnifica non deve essere intesa in senso semplicistico.
Ho dato 3 allo stile: un voto medio, senza infamia e senza lode. Il linguaggio è infatti lineare e molto piacevole. Coerentemente con i contenuti, si cercano allegria e positività. Però, in generale, non è nulla di eclatante. Forse il linguaggio scelto è il più adatto a trasmettere il messaggio di base tale per cui il simile attrae il simile.
Il contenuto merita il punteggio massimo: come ho evidenziato poco fa, infatti, la conoscenza della legge di attrazione può essere molto importante per orientare le persone verso uno stile di vita orientato all'abbondanza alla positività, alla gioia e all'autorealizzazione.
Noi, infatti, siamo come magneti che attiriamo nella nostra vita situazioni il linea con i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro umore. Questo perchè siamo ENERGIA, e l'universo stesso è ENERGIA: dall'incontro di queste forze, nasce la nostra realtà.
Per creare la vita che desideriamo, occorre dunque fare in modo che i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti siano allineati e coerenti con i nostri desideri.
Ad esempio, una persona che ha la povertà nella mente e si concentra sulla mancanza, non potrà mai diventare ricca.
Questo libro dunque può essere utile per aiutarci a mantenere un atteggiamento positivo, per affrontare la vita in modo diverso e trovare una chiave fondamentale per avvicinarci ai nostri desideri più profondi e più intimi: monitorando la mente, che spesso crea inganni, e concentrandoci su ciò che desideriamo, andare incontro a questi obiettivi diventa più facile.
Se ci pensate bene, il contenuto di questo libro potrebbe avere un valore spirituale altissimo.
Tuttavia, esso viene affrontato in modo troppo semplicistico trasformando una verità che potrebbe veramente cambiare la vita delle persone in un mero strumento di marketing.
è da qui che nasce il voto 1 per l'approfondimento.
Perchè le persone dovrebbero saper conoscere ed utilizzare la legge di attrazione?
Per stare bene, innanzi tutto.
Per avere fiducia in sè stessi, per raggiungere degli obiettivi, per non farsi sopraffarre da quella mente che per la filosofia orientale è considerata ingannatrice e meschina, responsabile dell'allontanamento dell'uomo dalla verità.
In questo libro, invece, sembra che lo scopo della legge di attrazione sia soltanto uno: consentire agli esseri umani di realizzare i propri desideri. Il segreto potrà farci diventare miliardari, perdere 20 kg, trovare l'amore della vita, basta solo concentrarsi su ciò che si vuole.
No, purtroppo non funziona così: sicuramente allineare i propri pensieri ai propri desideri, vivendoli come se fossero già realizzati, è utilissimo, ma mi immagino tante persone sole e disperate che, con in mano questo libro pensano di poter risolvere ogni problema, ignorando completamente il lavoro di pulizia interiore che si deve fare.
Insomma, se utilizzato male questo libro può diventare ingannatorio. Rhonda Byrne rischia di trasformarsi in una sorta di Wanna Marchi. La gente rischia di rimanere incollata ai propri desideri, di fare appello alla legge di attrazione per cambiare la realtà perdendo il gusto profondo dell'essere nel presente e di lasciare che le cose avvengano anche un po' da sole.
La sensazione, leggendo "The Secret", è quella di essere onnipotente. Ma ci sarà sempre qualcosa destinato a sfuggire dal nostro controllo. L'illusione è bella e questo libro lo si legge sognando, finchè la vita non ci riporta alla realtà... E cosa c'è di più bello, di più intenso di un sogno? Quanti altri libri si leggono immaginando un futuro fantastico, e si chiudono con una straordinaria sensazione di serenità?
Da qui il 4 in piacevolezza. Perchè, in fondo, immaginare il futuro che si desidera è una cosa meravigliosa.
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Destini incrociati
Ho letto questo romanzo tutto d’un fiato, in una sola giornata. Lo stile polifonico, con il continuo alternarsi di voci diverse, rende la lettura assolutamente viva e coinvolgente. Il ritmo è serrato. I personaggi sono numerosi, ma ciascuno di essi riceve dall’autrice le attenzioni necessarie e supera lo stereotipo diventando incredibilmente reale e vivo.
L’evento scatenante che porterà numerose vite ad incrociarsi cambiando molteplici carte sul tavolo del destino è un incidente. Mariasole, una giovane donna incinta sta andando in bicicletta a casa del suo uomo (o è meglio utilizzare il gergale “trombamico”?). E’ leggermente ubriaca, i suoi riflessi sono annebbiati ed è investita da un’auto in corsa. Alla guida dell’auto, c’è Pietro. L’uomo sta correndo in ospedale: dopo molti tentativi falliti di avere un figlio, sua moglie sta finalmente partorendo. È l’ansia, probabilmente, è l’emozione per un evento così importante a fargli perdere il controllo del mezzo. Tutto ciò che seguirà, tutti i gesti, le parole, le emozioni e le lacrime dei personaggi, dipenderanno da questo tragico evento. In un solo attimo, le energie improvvisamente si trasformano, e niente sarà più come prima.
È un romanzo fondamentalmente psicologico, in cui si intrecciano tematiche delicate quali la ricerca del sé, l’eutanasia, la pacifica convivenza con la propria omosessualità. Ci sono figure indimenticabili, come Massimo, infermiere, musicista rock-metal, omosessuale, segnato da un trauma profondo ma non per questo meno positivo. La sua gioia di vivere è immensa e la naturalezza con cui vizia il figlio che il suo compagno ha avuto da un’altra donna suscita tenerezza infinita.
La scelta di amare una persona dello stesso sesso è descritta dall’autrice con benevolenza. Meno dolce è la visione della bisessualità. “Ci sono persone…” – si sente dire da uno dei personaggi, anche se non ho il romanzo sottomano e non posso citare alla lettera – “… prepotenti e viziati che prendono tutto quello che vogliono, a prescindere.” Ma, in generale, tutte le emozioni sono legittimate, e colorate di un’intrinseca purezza.
Una lettura semplice, dunque, ma al contempo profondissima. Una bellissima favola, con tanto di morale: la capacità di perdonare è una caratteristica delle persone che amano la libertà, è figlia legittima della decisione di vivere senza catene. E niente imprigiona gli individui più della rabbia e del risentimento. Un libro che si legge da solo, e che lascia in bocca un sapore dolceamaro ed una fragranza di “panino con la porchetta con dentro tutto”, come quello che piace tanto a Massimo!
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La risposta è nella capacità di osservare
Questo libro, come "Le cinque ferite", mi ha dato lo spunto per conoscere meglio me stessa ed andare all'origine di alcune problematiche ricorrenti, o dettagli caratteriali, di cui troppo a lungo sono stata inconsapevole.
Tutto ciò che noi facciamo ha infatti origine nella nostra mente. Ciò che viene filtrato dai cinque sensi ci può rivelare aspetti di noi stessi che non conosciamo.
Il nostro modo di vestire è uno strumento di comunicazione, è rivelatore di alcune tendenze psichiche, emozioni e sensazioni. Chi ha la mania di "tenersi l'abito buono" per le occasioni speciali rischiando di farlo ammuffire dentro l'armadio, forse pensa di non meritarsi tante belle cose. Chi usa sovente sciarpe e dolce vita cerca di proteggere il chackra della gola: c'è energia bloccata in quel punto, e di conseguenza una rinuncia ad espirmere con le parole ciò che di intenso e profondo si sente nel cuore.
Allo stesso modo il rapporto con il cibo è una metafora della relazione che stringiamo nella vita: chi abbonda di sale e di pepe così come chi arriva a stravolgere la natura di una ricetta aggiungendo dettagli personali ama avere le situazioni sotto controllo. Altri, colmano le carenze di affetto con dosi abbondanti di zuccheri. Mangiare troppa carne è causa di scarsa energia vitale, e si fomenta l'aggressività. Per non parlare, poi, del modo di curare e gestire la propria casa, delle parole che si usano e, soprattutto, dei disturbi e delle malattie!
Ciascun problema fisico indica la risposta del corpo ad un disagio della mente. Partendo da una prospettiva olistica, queste due dimensioni non possono in alcun modo essere separate Di conseguenza, chi ha l'impressione di tenere sulle spalle i mali del mondo soffrirà di dolore in quel punto, il mal di testa è causato dalla presenza di troppi pensieri, i crampi ai piedi dalla paura del futuro .... e così via!
Una lettura leggera e piacevole, che può aiutare - in allegria - a far luce sulle proprie mancanze ed i propri punti di forza, con l'obiettivo di evolvere e crescere.
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Fra realtà e fantasia
ATTENZIONE SPOILER.
Ho chiesto l'inserimento di questo romanzo sebbene esso sia del 2004 e - non appartenendo purtroppo alla categoria dei best-seller - ignoro completamente se nelle librerie si trovi ancora. Sicuramente su internet sarà accessibile a tutti.
Questo libro ha un merito importantissimo: sebbene ami storie che effettivamente descrivano situazioni esistenti, è riuscito ad entrarmi nel cuore grazie alla sua sapiente commistione fra fantascienza e realtà.
C'è una periferia. C'è una scuola che raccoglie ragazzini emarginati e pieni di problemi. Immigrati, orfani, lolite, piccoli bulli. Uno di essi sparisce nel nulla. Ci penseranno una spazzina - mentre monitora la strada a bordo del suo camion dell'immondizia - e la sua figlia adottiva che ama chiamarla papà nonostante sia una donna. Agata, quattordici anni, sfreccia sui roller in mezzo allo smog di Viale Monza, difende il suo quartiere, difende i suoi amici. E cerca la verità.
Lo stile è ironico, ma al contempo secco e duro. Il mondo descritto è alienante e negativo. Tutte queste persone, tutti questi ragazzini, sono destinati a fallire perchè devono lottare contro un nemico più duro e potente: ci sono degli individui, sulla terra. Sono individui vestiti di scuro, che nascono i propri volti dietro occhiali neri, non si rivelano mai ma tengono in mano i fili delle vite umane, in particolare dei soggetti deboli, muovendo le loro braccia a proprio piacimento. I corpi sono vittime di questi individui. Ma le anime si ribellano. Milano infatti è infestata dai fantasmi delle vittime di un sistema malato, e queste anime chiedono che sia fatta giustizia.
Impossibile non notare la matrice politica insita in questo romanzo. Si può dire che la Vallorani sia stata una profeta di ciò che sarebbe accaduto negli anni a venire, ma che già era latente ad inizio millennio: l'emergere di una casta destinata a mangiare tutto tagliando fuori che non ha gli strumenti per opporsi. Strumenti economici, sicuramente. Ma anche strumenti culturali e morali.
Per chiudere questa recensione, vorrei raccontare un piccolo frammento della mia storia personale. Può sembrare esagerato, infatti, pensare che un libro possa cambiare la vita ad un individuo. Ma con me è successo esattamente questo. Forse la mia strada era già segnata, forse il mio destino era inevitabile. E questo è stato lo strumento che mi ha aiutata a mettermi sulla retta via. Chi non ha interesse a leggere questa storia, può saltare un paragrafo e smettere di leggere adesso.Non è mia intenzione annoiare a nessuno
Ricordo che lessi questo libro nel settembre del 2004. Vivevo a Milano da 4 anni, ma non ero mai stata a Pasteur, fermata della metropolitana rossa, direzione Sesto San Giovanni. Da studentessa fuori sede, ero abituata a frequentare il centro e i quartieri residenziali in cui abitavano gli amici. In quel periodo, avevo da poco discusso la tesi triennale e aspettavo che i iniziassero i corsi della specialistica. Divorai, in quel mese, un sacco di libri. E ricordo che, appena ebbi finito "Visto dal cielo", mi catapultai a Pasteur a fare un giro con un taccuino, per cercare di rivivere le medesime sensazioni dei protagonisti. Scattai anche delle foto, sebbene non avessi nemmeno la digitale. E mentre camminavo su quelle strade presi la decisione di rendere concreta un'aspirazione che coltivavo da tempo nel cuore: aiutare le persone.
Rimasi molto colpita dal disagio intorno a me. E rimasi colpita dalla descrizione che il libro forniva di certi ragazzini emarginati e soli, in un certo senso vittime di un sistema che mirava a farli fuori, ad escluderli. Io non volevo essere complice delle politiche ecomiche dominanti, della "casta", della società dei consumi.
Lo capii lì.
Lo capii in quel momento.
Così decisi di iniziare un'attività di volontariato in un quartiere simile, con persone fragili come quelle descritte nel libro. Successivamente, altri circostanze apparentementi casuali (nonchè la lettura di altri libri affini, alcuni già recensiti su qlibri) mi fecero trovare il posto giusto in cui realizzare quanto avevo in mente. Ho iniziato ad offrire ripetizioni di italiano gratuite ad adolescenti stranieri. Questa scelta ha cambiato la vita almeno di cinque persone, fra cui la mia. Strade che in quell'ambiente si sono incrociate, vite che hanno trovato un senso, legami che sono nati, aspirazioni che sono esplose, strade che si sono delineate, indirizzi che si sono scelti. Tutto è partito da lì. Tutto è partito da quel libro.
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Un giallo "pulito"
Elda Lanza, l'autrice di questo libro, è stata definita dalla critica la "Camilleri in gonnella".
Prima conduttrice rai, esperta di comunicazione a tutto tondo, ci presenta un giallo classico caratterizzato da uno stile pulito e senza fronzoli.
In un'intervista avvenuta poco dopo l'uscita del libro, l'autrice - di cui non ricordo l'età precisa, ma vale la pena dire che è intorno ai 90 anni - annunciava compiaciuta di avere scritto 400 pagine senza nemmeno una parolaccia.
Questo dettaglio stilistico è al contempo un punto di forza e un limite.
Da un lato, infatti, il romanzo è ripulito dalla volgarità che caratterizza la nostra epoca. Pensando ad una parola che mi consenta di descrivere la scrittura della Lanza mi viene in mente "rilassante": non ci sono voli pindarici, descrizioni agghiaccianti di scene un po' splatter, non ci sono urla e svarioni linguistici. Tutto è lineare, dolce, edulcuorato.
Dall'altro lato, però, credo che il linguaggio, in un romanzo, debba rispecchiare il contesto in cui avvengono le vicende: ad un uomo di quarantacinque anni, un poliziotto a caccia di un assassino, qualche "vaffanculo" prima o poi scappa, o no? Un linguaggio troppo "pulito" all'interno di un giallo crea una sorta di distanza, e limita il coinvolgimento, la partecipazione emotiva.
Tuttavia è sicuramente una lettura piacevole. La ricerca del colpevole all'interno di un condominio permette di incontrare diversi personaggi, alcuni di essi - ad esempio la signora che passa il giorno attaccata allo spioncino per controllare chi sale e chi scende - semplicemente esilaranti. Lo consiglio vivamente a chi ha voglia di una lettura semplice ma nello stesso tempo densa di mistero.
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Guarire le ferite
Essendo il New Adult un genere finalizzato a descrivere il delicatissimo passaggio di un individuo dall’adolescenza all’età adulta, con tutti i cambiamenti che questa fase della vita comporta, ritengo che questo romanzo possa rientrare nella categoria anche se si stacca dai cliché a cui siamo abituati.
Le coetanee di Victoria, in romanzi come “Easy” e “Uno splendido disastro” vanno al college e trovano l’amore facendo i conti con le proprie emozioni non più infantili ed in costante mutamento.
La New Adult protagonista de “Il linguaggio segreto dei fiori” porta con sé una profonda ferita da rifiuto che la rende fuggitiva. Si sente disprezzata dagli altri, ma a sua volta li disprezza e cerca l’isolamento. Si auto-esclude dalla società per paura di ricevere ulteriori delusioni, come quella che le è stata inferta da Elizabeth, l’unica madre affidataria a cui abbia mai voluto bene.
Fortemente convinta di non meritare l’amore, si chiude in un mondo proprio ed affronta la maggiore età con sgomento e paura. Non ha preso il diploma, infatti. Non c’è una compagna di stanza allegra ad aspettarla nel residence per studenti, non ci sono banchi ed esami. Una volta uscita dalla comunità per minori in cui ha vissuto gli ultimi anni, Victoria si trova ad abitare nel parco, in una piccola radura dietro i cespugli. Coltiva i fiori e li osserva crescere. Non decide e non sceglie, non progetta il proprio futuro. Aspetterà che la vita le ponga di fronte delle opportunità e deciderà di coglierle. Un lavoro in una serra. L’affitto di un appartamento. La storia d’amore con Grant. Tutte esperienze destinate a farla crescere e a formarle il carattere. Esperienze vissute come sempre in punta di piedi e con la paura di essere ferita ancora, di perdere tutto.
Victoria è una donna sofferente con il cuore coperto di ghiaccio. Ma non è stata lei a scegliere di congelarsi. Lei vuole soltanto proteggersi, anche se sa mettere una corazza significa rinunciare ad esprimere se stessi. Sceglie l’afasia, dunque. Sceglie di parlare il meno possibile. E trova un altro modo per trasmettere agli altri ciò che sente nel cuore. Sceglie di utilizzare i fiori, con i loro significati reconditi. Questo linguaggio, non certo facilmente comprensibile a tutti, la metterà in contatto con anime affine accompagnandola in un percorso finalizzato alla guarigione.
Questo romanzo descrive con un linguaggio anche troppo semplice la delicata maturazione di una giovane donna nel momento in cui è costretta a fare i conti con le proprie emozioni, con la limitante convinzione con cui ha sempre dovuto fare i conti: io non merito di amare, non merito di essere amata. Ma il muschio può crescere anche senza radici. Ci sono piante che non hanno bisogno di genitori. L’amore è come il muschio. L’amore non si impara. È un’energia che pervade l’essere umano indipendentemente dalla sua storia. Ed è ad esso che Victoria deve aprirsi.
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Tu non altro che il canto avrai del figlio...
Parliamoci chiaro: in tutti questi anni non ho mai trovato un protagonista più bastardo ed odioso di questo Tommaso. Nonostante ciò, non si può fare a meno di entrare in sintonia con lui. L’autrice riesce ad innescare nel lettore un meccanismo di identificazione che, non potendosi agganciare ad elementi oggettivi, punta tutto sulle emozioni. La nostra vita è sicuramente distante da quella di Tommaso: chi di noi è un orfano con doti intellettuali megagalattiche che al primo lavoro ottiene un posto da direttore finanziario e riesce a sposare la ricchissima figlia del proprietario? Ma i moti dell’anima sono comuni a tutti gli esseri umani. Dunque, il concetto chiave per comprendere il romanzo è “realismo emozionale”: quando il lettore non può identificarsi con il carattere e lo stile di vita dei personaggi, l’autore riesce a farlo identificare con i suoi sentimenti. Solitudine, rabbia, scoramento, vendetta, incazzatura, durezza, rigidità. Tommaso prova tutto ciò. E chi sfoglia le sue pagine vede in se stesso proprio ciò di cui si vergogna, e finisce per innamorarsi di questa figura evanescente che non viene mai descritta completamente. Non è menzionato il suo cognome, né è descritto fisicamente in modo approfondito, e proprio da questa nebbia nasce il suo fascino.
Originale la scelta di affidare la narrazione ad un personaggio secondario. Tommaso è ritratto con occhi esterni. Ma non sono gli occhi di un narratore onnisciente, bensì di una donna che l’ha conosciuto, amato ed odiato, e che ne filtra l’essenza più pura. Con questo stratagemma narrativo si riesce a ripulire il personaggio dalla propria stronzaggine e a restituirne un’immagine più dignitosa ed amorevole.
Infine, il titolo rimanda alla poesia di Ugo Foscolo, “A Zacinto”, che definiva “bello di fama e di sventura” il viaggio di Ulisse attraverso le più dure insidie del mare. Il mare di Ulisse è, per Tommaso, la vita stessa, destinata a donare prove e dolori, immensi successi ed immediate ricadute, con un andamento narrativo che ricorda la grande epica.
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Noir metropolitano
Il primo romanzo della serie dedicata all'ispettor Ferraro aiuta il lettore a fare le dovute presentazioni sia con il protagonista sia con la città di Milano e tutti i suoi abitanti.
Per fornire una panoramica completa e spaziare attraverso ambienti svariati, Biondillo sceglie la formula ad episodi. Quattro racconti - ciascuno di essi corrispondente ad una delle stagioni - a cui fanno capo quattro misteri in diversi luoghi della città e dei suoi dintorni.
In estate si assiste all'omicidio di un cane nei casermoni popolari di Quarto Oggiaro, mentre la città deserta boccheggia sotto l'afa. In autunno si cerca di scoprire chi ha ucciso un celebre imprenditore, si entra nella sua lussuosa villa del centro e si studiano con sospetto i volti dei ricchi, sempre controllati dal prode maggiordomo Ambrogio (proprio quello dei cioccolatini!). In autunno ci si deve occupare di una serie di rapine nei supermercati dell'hinterland, e Ferraro inizia a fare il pendolare sui trenini "a manovella" delle Ferrovie Nord. Infine, in primavera,mentre i pollini risvegliano le mai sopite allergie, si scopre il non prorio magnifico mondo delle palestre e dei fitness-club.
Quattro realtà, dunque. Quattro diverse tipologie di persone e di stili di vita. Ma anche quattro differenti risposte al medesimo interrogativo: per cosa si uccide?
Si può uccidere per rabbia, per vendetta, per soldi, per un amore negato, per un'infanzia rubata. Ma può il movente cancellare l'entità del gesto?
Mi piace il punto di partenza che Biondillo decide di adottare (sebbene il medesimo verrà parzialmente abbandonato in "Con la morte nel cuore") tale per cui ciascun individuo possiede in sè una purezza innata, corrotta dai dolori e dalle esperienze della vita. L'autore si mostra a tutti gli effetti come un umanista: conosce la gente, la osserva e la studia. E nonostante tutte le brutture, non può fare a meno di amarla.
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Quando il bene ed il male si confondono.
“In medio stat virtus”, dicevano i latini.
E questo è il classico romanzo medio: storia mediamente interessante, stile mediamente accattivante, una scorrevolezza senza infamia e senza lode.
Sia chiaro, però: ho detto medio, non mediocre.
Lo stile giornalistico dell’autore arricchisce la vicenda con una nota di concretezza. I due protagonisti sono assolutamente affascinanti.
Carmine è un uomo di cultura che, dopo una brutta batosta professionale, entra in un clan camorristico al seguito di un amico d’infanzia.
Marco è un giornalista alla ricerca del pulitzer, ha valori sani ed autentici.
Gli incontri telefonici fra questi due individui sono densi di spunti filosofici, citazioni letterarie, riflessioni sul senso della vita, e sul perché di determinate scelte.
De Mare, giocando con i meccanismi di identificazione, mette a segno un’impresa che solo l’Hitchcock di Psyco e pochi altri sono riusciti a realizzare: porta il lettore a provare empatia e compassione per un assassino, un “venduto”, un uomo che ad ogni “pacco” consegnato alla Camorra si sente morire dentro, ma sa che non può tirarsi indietro, quindi continua. Continua e piange.
Il protagonista è un antieroe. È un uomo negativo. Ma la sua storia personale lo giustifica. Il lettore non può fare a meno di schierarsi dalla sua parte.
La simpatia si prova anche per Luisa, la donna di Nicola, il boss del quartiere. Sebbene la sua adolescenza si collochi negli anni ’80, impossibile non associarla a tante adolescenti di oggi che vengono spinte dalle stesse madri a tentare la strada dello spettacolo, a discapito dello studio e della cultura.
Superati i trenta, queste giovani si ritrovano sole, volgari e ignoranti.
Ma sotto i capelli neri ed il trucco pesante, ci può essere un cervello che cerca riscatto. E questo riscatto si trova lontano dalla violenza, dalle faide e dal sangue: esso è fra le pagine del libro più dolce e più puro che la nostra letteratura sia stato in grado di partorire: "Il piccolo principe".
Adulti che ricercano la parte più pura di sé, lontani dalla corruzione e dalla sporcizia, seduti al tavolino di un bar in riva al mare, con il sole negli occhi che appanna la vista, e un dolce ricordo che accompagna l’addio.
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Crescere insieme.
Se l’archetipo narrativo si mantiene sullo schema classico ampliamente utilizzato dalla narrativa americana, ci sono spunti estremamente positivi che arricchiscono quella che altrimenti potrebbe risultare una storiella un po’ banale. In questo modo, l’intera vicenda è nobilitata e il risultato è un prodotto molto più originale ed intelligente di quanto non sarebbe altrimenti.
Lo schema di base è comune a molti altri romanzi. C’è un protagonista dalla vita banale ed ordinaria. Un trentunenne senza vincoli e senza obblighi, che cerca per quanto possibile di prolungare all’infinito la propria adolescenza. Ma all’improvviso arriva Dean, il figlio avuto a sedici anni dalla fidanzatina dell’epoca. E tutto cambia: l’ingresso nella tanto allontanata maturità è imminente.
Il protagonista è tratteggiato sapientemente, e la sua vicenda appare ricca di particolari. Malato di epilessia, con un lavoro mal retribuito ed una passione per la musica che mai si è trasformata in un impiego a tutto tondo. Una chiusura forzata su se stesso e tante cose mai dette, ai genitori e al figlio. Perché c’è un macigno che blocca le emozioni e, nascosti dietro un muro, ci si sente protetti.
Inoltre Evan è una vittima: è vittima di scelte altrui. Ed è anche colpevole. Colpevole di non essersi mai opposto a quelle scelte, illudendosi che fossero le proprie.
Sono questi piccoli dettagli della vita del protagonista a trasformare la vicenda offrendo quel po’ di pepe a quella che altrimenti sarebbe una commediola piena di clichè: l’ostilità iniziale del ragazzino, la nascita di una relazione con la “donna perfetta”, l’imminente successo professionale e l’inevitabile happy end. L’autore avvolge la trama con una tenerezza autentica rendendola avvincente.
Un piacevole passatempo, dunque. Una lettura discreta. Ma manca un po’ di sostanza.
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Puoi guarire la tua vita
Solitamente, recensisco su questo sito opere di narrativa. Oggi però voglio dedicare qualche minuto al libro che – sembra esagerato ma è così – ha avuto il potere di cambiarmi la vita o, se non altro, di indirizzarla verso una nuova consapevolezza. Da quando l’ho letto, nell’estate 2010, ho intrapreso un percorso finalizzato a lavorare su quanto emerso da questa lettura e devo ammettere di essere riuscita a togliere – se non del tutto almeno in buona parte – quelle maschere che per molto tempo mi hanno impedito di essere una persona libera.
Questo libro può partire da due presupposti diversi, uno metafisico e l’altro scientifico. Chi crede nella reincarnazione e nel karma, può pensare che ciascun individuo ha sviluppato queste ferite nel corso delle precedenti vite, e sia tornato sulla terra per riviverle e risolverle una volta per tutte. Ma chi si muove da una prospettiva puramente psicologica, non avrà difficoltà a collocare l’origine del male interiore nell’interpretazione che il singolo individuo da a determinate esperienze vissute nell’infanzia. Sebbene esse possano fare riferimento ad episodi più o meno significativi, le ferite che ne scaturiscono possono condizionarci per tutta la vita.
L’esempio classico è quello del bambino che, per la prima volta, viene portato all’asilo: può sentirsi abbandonato dai genitori, oppure tradito. Lo stesso episodio può dare origine a ferite differenti, oppure a nessuna. Ciò dipende dal bagaglio che il singolo porta con sé, dall’educazione ricevuta e dalla propria elaborazione mentale.
Ciascuna ferita genera una maschera, ovvero una serie di comportamenti ripetitivi che ciascuno di noi mette in atto per proteggersi, per evitare di rivivere quel determinato dolore. Anche il corpo si adegua alla ferita ed assume fattezze che ne riproducono le caratteristiche.
Chi ha una ferita da rifiuto, ad esempio, assumerà i modi tipici del fuggitivo: per paura di essere allontanato, tenderà ad isolarsi, alienarsi e chiudersi in se stesso. Il suo corpo di conseguenza tenderà ad occupare meno spazio possibile, ad essere minuto ed evanescente. Il “rigido” (ferita da ingiustizia) spesso è maniacale nella cura del proprio aspetto, ossessionato dall’ordine, dalla dieta e da altre stronz…ehm… stupidaggini affini.
Le ferite possono svilupparsi anche contemporaneamente e condizionarci nel modo di parlare, di mangiare, di lavorare, di relazionarci con gli altri … possono essere più intense nel corso della vita, oppure sparire del tutto. Ma ciascuno di noi in qualche modo è coinvolto in questo gioco della mente.
E come si guarisce?
Se ve lo dico, che senso ha leggere il libro?
Solo una piccola indicazione: là dove c’è la ferita, c’è una mancanza di amore. L’amore può esserci stato negato da altri, oppure da noi stessi. Ma quella – insieme alla capacità di perdonare e perdonarsi – è l’unica cura possibile.
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Non siamo buoni
Leggendo le varie recensioni a “Come diventare buoni” presenti su questo sito, mi accorgo che il vero messaggio contenuto nel romanzo non è stato colto completamente dai lettori, e questo è un peccato.
La crisi di coppia descritta nel libro è sicuramente uno dei motivi portanti, ma strettamente legato a quella che da Hornby viene presentata come una problematica sociale. Abbiamo infatti un giornalista inviperito definito “l’uomo più incazzato di Holloway” e, dall’altro lato, una moglie medico intenta ad auto-celebrarsi.
Curare pustole nell’ano di un pensionato, tuttavia, può garantire alla persona dei “punti bontà”?
In che modo può essere sconvolta la vita della solerte dottoressa nel momento in cui suo marito, per salvare il matrimonio, decide di diventare buono, ma buono sul serio?
Contro il buonismo e l’ipocrisia di una società intrisa di frasi fatte, abbiamo un uomo che da un giorno all’altro decide di regalare i giocattoli dei figli ai bambini poveri, promuove nel quartiere l’adozione di giovani disadattati, porta il pranzo di Natale ai barboni nelle strade.
E sua moglie è costretta a guardare in faccia la realtà: non è sufficiente svolgere una professione socialmente utile per potersi definire una persona per bene. La vera generosità richiede altri principi ed altre caratteristiche, che non possono nascondersi dietro una facciata, dietro una maschera o un ruolo sociali.
L’amore per il prossimo è qualcosa di innato, non si compra al supermercato e può diventare sconvolgente se non trova – intorno a sé – il terreno fertile per poter attecchire nel cuore delle persone.
Questo è ciò che Hornby ci vuole dire: state attenti, non siete buoni, ma non è mai troppo tardi per poterlo diventare.
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La ruota che gira
Se tutte le persone applicassero nella propria vita ciò che questo libro – pur nella sua leggerezza – si propone di insegnare, vivere diventerebbe per tutti più facile.
Lo spunto, infatti, è originalissimo: quattro sconosciuti si incontrano su un tetto in procinto di suicidarsi e, dopo aver raccontato le proprie storie, decidono di rinunciare al proposito.
Le scale vengono scese portando nel cuore una promessa: donarsi aiuto reciproco per riuscire finalmente a superare le difficoltà – apparentemente insormontabili – delle loro ordinarie vite.
Il risultato di questo strano sodalizio è semplicemente esilarante. La storia, raccontata alternando di volta in volta i vari punti di vista, fa sorridere il lettore.
All’interno dei romanzi, la figura del “medioman” fa sempre un certo effetto. E qui ne abbiamo quattro. Quattro sfigati senza cognizione di causa, indipendentemente dal conto in banca, dallo status sociale o familiare, dal genere e dalle altre variabili socio-economiche.
Maureen, che ha fatto sesso una volta in vita sua, e si è trovata un figlio paralizzato.
Martin, incastrato da una ragazzetta smaniosa di diventare donna.
Jesse, che considera il suicidio un atto di ribellione degno dei più grandi poeti maledetti.
E infine JJ, che dopo aver perso il gruppo rock e la fidanzata, inventa una grave malattia per giustificare, agli occhi dei nuovi amici, la sua decisione di suicidarsi: dopo aver ascoltato le loro storie, non ritiene le proprie sventure abbastanza serie.
Sono quattro sfigati paralizzati nell’incapacità di cambiare.
Ma sono quattro sfigati che, unendo le loro forze, riusciranno a dare una bella sistemata al proprio sistema di valori, a cambiare le carte sul tavolo del destino o – molto più semplicemente – a sciogliere quei nodi che li tenevano imbrigliati in una vita completamente priva di amor proprio.
Le situazioni, nella vita di una persona, in fondo evolvono continuamente. Come dice lo stesso Nick Hornby, la ruota sembra ferma, ma gira. E l’unica cosa che un essere umano può fare per essere sereno è dare il proprio contributo a questo eterno movimento.
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Incastro perfetto
Un romanzo semplicemente unico per la sapienza dell'autore che, ormai padrone di sofisticate tecniche narrative, riesce ad incastrare perfettamente vicende differenti che si svolgono parallelamente, passando con estrema disinvoltura dal noir alla commedia.
Al centro della vicenda c'è un rapporto simbiotico, a tratti quasi morboso, fra padre e figlio. Rino, abbandonato dalla moglie e rimasto solo con l'adolescente Cristiano, cerca di istillare in lui una mentalità orientata alla violenza ed alla prevaricazione. Ma il giovane riesce ad imitarlo solo in parte. Ci prova: vuole renderlo orgoglioso. Ma dentro di sé è profondamente fragile, sognatore, innamorato e timido. Si aggrappa al padre per “spirito di compensazione” perdendo il contatto con la parte più vera e più pura di un’anima costretta a crescere troppo in fretta, un’anima a tutti gli effetti sola.
E anche Quattro Formaggi è solo. Lui, che cerca il rapporto con Dio ed attraverso di esso – vero o presunto che sia – dissimula la propria follia. Una mente ossessionata può commettere i danni più gravi. E, se all’interno di queste ossessioni, vengono trascinate persone innocenti, le vite di molte persone possono cambiare.
Impossibile non commuoversi davanti all’immagine di un ragazzino che – convinto della responsabilità del padre in un omicidio – cerca di difenderlo con un’emozione che oscilla fra la tenacia e lo sconforto, braccato da un assistente sociale a sua volta troppo fragile, forse superficiale, per poter fornire un aiuto concreto.
Attraverso questo trano ossimoro, il lettore cerca di barcamenarsi pervaso da un profondo senso di familiarità con un mondo troppo simile a quello in cui si trova a vivere, un mondo fatto di lande desolate, di strade periferiche, di luci artificiali, di centri commerciali, di motociclette e di temi sul nazismo. Un mondo buio, laddove i personaggi più duri ed emarginati cercano di ricomprare, per le proprie anime, una parvenza di purezza.
E, soltanto a volte, ci riescono.
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Uccellini, uccellacci...
“L’uccello del malaugurio” è a mio avviso il romanzo più sociologico fra quelli scritti da Camilla Lackberg. Se ne “La principessa di ghiaccio”, infatti, il tema portante era la pedofilia, ne “Il predicatore” e “Lo scalpellino” venivano descritte saghe familiari e delitti che affondavano in un passato remoto, qui si vuole porre l’accento sul presente. Fra tutte le dinamiche dominanti che affollano la nostra società post-moderna, due di esse rappresentano il filo conduttore dell’intera vicenda: l’alcoolismo e l’avvento dei reality show.
Le vicende si dipanano, infatti, proprio intorno ad una trasmissione televisiva in cui un gruppo di ragazzi – poco intelligenti e sicuramente volgari che ricordano tanto i tronisti della De Filippi – devono vivere e lavorare a contatto con la gente del paese. A guidarli, lo psicologo Lars, marito di una poliziotta appena giunta nell’ormai nota stazione di polizia di Fjallbacka (scusatemi qualora non si scrivesse così). Nello stesso periodo, una donna viene trovata morta al volante. Semplice incidente causato dall’ebbrezza, o c’è qualcos’altro dietro? In che modo si collegano le cose?
Come in tutti i romanzi della Lackberg, il ritmo procede serrato, gli indizi sono molti e il lettore deve stare sull’attenti per non perdere il filo. A distrarlo ci sono i numerosi intermezzi relativi alla vita privata dei protagonisti Erika e Patrick. Questi intermezzi sono sicuramente necessari per conferire un lato di umanità a tutta la vicenda e fidelizzare il lettore libro dopo libro, ma se si crea un abuso la narrazione viene rallentata. Si è curiosi di sapere come evolvono le indagini e ci si trova davanti a dieci pagine che descrivono la scelta di un abito da sposa: ma come? Proprio adesso no, ti prego! Questo è, a mio avviso, l’unico difetto del libro.
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Poco pathos, tanta psiche
In questo periodo, ho avuto modo di leggere diversi romanzi di Hakan Nesser. Questo è quello che mi è piaciuto meno.
Solitamente un romanzo giallo adegua il punto di vista del lettore a quello del detective: i due viaggiano insieme e condividono la propria conoscenza. Man mano che la polizia delinea la verità, anche il lettore apprende.
Qui non avviene così: la scelta di utilizzare un narratore esterno onniscente toglie ogni suspance: chi legge, infatti, scopre gli accadimenti in tempo reale, ne sa di più rispetto all’ispettore Barbarotti ed al suo staff. Questo rende, a mio avviso, il tutto un po’ noioso. La parola che meglio di altre delinea il quadro è “piatto”. Senza spessore. Forse ciò dipende dal fatto che Nesser ha deciso di dare la priorità ad altre questioni: ciò che passa nella testa dei personaggi, ad esempio. E lo fa con addirittura troppa cura: tanta attenzione a pensieri non certo sensazionali, finisce ulteriormente per rallentare il ritmo.
Sicuramente è impossibile non provare empatia con Valdemar, sessantenne annoiato dalla vita e considerato una palla al piede. Questa figura fa provare una sorta di amarezza: si capisce che è una persona per bene e i suoi occhi tristi richiamano alla mente tutte le volte che anche noi ci siamo sentiti un po’ inutili e soli.
La tossicodipendenza di Anna avrebbe dovuto avere, a mio avviso, più spazio all’interno della narrazione: della droga si parla relativamente poco. E credo di non aver mai sentito di nessuno che viene sbattuto in comunità per qualche canna.
Il finale aperto conferisce al romanzo quell’alone di mistero che è mancato nelle precedenti 400 pagine. Un po’ tardi, considerando che la presenza di enigmi è – solitamente – la caratteristica che regala verve ad un buon giallo!
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- no

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Un romanzo che merita
Questo è uno dei classici libri che, come amo dire, "si legge da solo". Temi profondi - il tradimento, il senso di appartenenza ad una famiglia, le difficoltà dell'età adolescenziale - vengono descritti con estrema semplicità attraverso lo sguardo lucido e disincantato di Mandorla che, attraverso il passaggio da una famiglia all'altra, scopre pian piano lo spaccato di un'Italia realmente esistente dietro le porte dei condomini di ogni città.
Ci sono degli stereotipi in questo libro, è vero: ciascun personaggio ha una precisa collocazione nel nostro immaginario collettivo. Proprio per questo, abbiamo l'impressione di conoscerli personalmente. C'è la signorina Polidoro, zitella in pensione molto legata ad un ex-studente un po' nerd; c'è un aspirante regista un po' depresso destinato a separarsi dalla moglie, due omosessuali che lottano per i propri diritti, una coppia che nasconde la crisi dietro il Bon-Ton. E poi ci sono i Barilla, la famiglia perfetta che si siede a tavola sempre alla stessa ora senza accorgersi che la loro adorata figlia Giulia ha una serie di relazioni sentimentali con uomini molto più grandi di lei, o semplicemente è un po' zoccola.
Loro, che adottano Mandorla a turno, cercano di farle comprendere com'è la vita. E lei, un po' accondiscendente e un po' scettica, apprende via via diversi stili di vita, sempre accompagnata dalla paura infantile di Porcomondo, il tossico del quartiere ormai fuori circolazione da anni.
E su questo personaggio, che nelle vicende mai compare ma che è in un certo senso fondamentale, due parole vale la pena di dirle. Il suo nome è un'imprecazione. è l'imprecazione silenziosa che si nasconde dentro ciascuno di noi, pronta a saltar fuori in ogni momento. Se è vero che il prezzo che paghiamo per essere persone per bene consiste nel tenere a bada il cattivo che potrebbe mandare tutto all'aria, Porcomondo ben rappresenta questo cattivo: egli è l'anima nera che si nasconde in ciascuno di noi, e che ci spaventa come lui spaventava Mandorla. è quel Mr. Hyde che non vogliamo vedere. Ma le luci nelle case degli altri, nascondono tante, tante ombre.
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Attenzione si piange
"Ogni mattina a Jenin" è un romanzo storico scritto in maniera magistrale, che racconta cinquant'anni di storia Israelo-Palestinese attraverso le vicende della famiglia Abuleja e delle generazioni che, anno dopo anno, si sono avvicendate nel tentativo di difendere la propria terra.
Tre figli palestinesi, Youssef, Amal e "David".
Quest'ultimo, rapito da un soldato israeliano per curare la ferita profondissima nell'anima della sua amata moglie, porterà gli altri ad interrogarsi per anni sulle ragioni della sua scomparsa, in un susseguirsi di lotte e battaglie, di gioie e di immense tragedie.
Nella poetica aristotelica, il concetto di "verosimiglianza" rappresenta ciò che tecnicamente non è reale, ma potrebbe esserlo. Ecco: questo romanzo non è verosimile, ma si colloca nei due opposti estremi.
Da un lato, infatti, c'è la verità, ci sono episodi realmente accaduti, c'è la storia di un popolo che è stato sradicato dalla propria terra, e di un altro popolo in cerca di un paese da chiamare casa. Ci sono due punti di vista politici opposti che si danno battaglia. Nonostante questo libro sia filo-palestinese, non punta a screditare l'altra fazione, ma la nobilita inserendo personaggi ebrei di notevole spessore ed incredibile profondità d'animo, fra cui l'amico d'infanzia del padre di Amal (scusatemi, l'ho letto un paio di anni fa e ora mi sfugge il suo nome) e la madre adottiva di David. La lotta è fra due parti politiche: la bontà e la validità delle persone non dipende dal colore della propria bandiera, ma è qualcosa che si cela nel profondo dell'anima di ognuno.
Dall'altro lato, però, ci sono vicende FINTE. E per finte non intendo semplicemente "romanzate", ma molto distanti dalla realtà. L'autrice è cresciuta negli U.S.A., e ha fatto propri i canoni della narrativa americana che puntano ad una sorta di "sensazionalismo" un po' alla Beautiful. Ci sono separazioni e reincontri ai quali manca solo la presenza di Raffaella Carrà, ma nonostante ciò è impossibile sentirsi distanti. Il meccanismo di identificazione si può trovare anche con vicende estremamenti distanti dal nostro sentire, perchè reali sono le emozioni descritte. Emozioni che gli esseri umani provano e percepiscono in tutta la loro potenza.
Attenzione: si piange. Si piange tanto. E si ride, e si bestemmia. Questo libro è tutt'altro che neutro sotto il profilo emotivo, e quindi merita di essere letto.
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Come se fossero i nostri amici
Lo scorso novembre, un ragazzo residente nel paese vicino alla mia città - Tiziano Chieriotti - fu ucciso in Afghanistan durante una delle cosiddette “missioni di pace”.
Mentre i telegiornali decantavano la notizia dell’ennesima strage, su facebook imperversavano commenti qualunquisti “un mercenario, la sua vita non valeva niente” e le solite (pardon!) stronzate figlie di un’Italia ancora poco abituata a trattare come persone chi sceglie un lavoro tanto controverso.
Queste parole vuote e inutili mi facevano imbestialire, poiché mi sentivo profondamente colpita per la vicenda. Ho sempre considerato la vita umana un valore fondamentale. Sono iper-sensibile davanti alle morti di persone giovani.
Proprio nello stesso periodo, mi trovai a leggere questo libro. Era uscito da pochissimo e mi sentii… come dire? Mi sentii capita da Paolo Giordano e dalla sua profonda ed innata capacità di descrivere questi soldati in primo luogo come uomini.
L’autore torinese ha mostrato tutta l’umanità di questi giovani che, invece di andare ad ubriacarsi nelle discoteche, scelgono di rinunciare ad agi e comodità per scivolare in un mondo ostile e perverso. Un mondo destinato a cancellare ogni forma, ogni residuo di dignità.
Spesso i medioman che tanto blaterano concepiscono i giovani soldati come una massa informe. “Il corpo umano” aiuta a vedere oltre il pregiudizio e a comprendere che dietro le divise esistono delle STORIE. Storie vere o verosimili, che meritano di essere raccontate. Ciascuno ha i propri desideri, le proprie motivazioni. Ciascuno ha soprattutto un passato in stand-by rinchiuso nel congelatore nell’attesa di avere finalmente la forza per guardarlo in faccia.
Ho sempre amato i romanzi corali soprattutto per la loro capacità di evidenziare le molteplici sfaccettature dell’umano. E questo libro ci è riuscito benissimo, ponendo l’accento sul conflitto fra i due mondi a cui i ragazzi si sentono di appartenere. Le mogli, i figli e le mamme rimaste a casa vivono nei loro cuori e nel fango buio delle loro tende cercano di ricostruire una parvenza di quotidianità fatta di scherzi camerateschi, visite a prostitute e chat su internet.
Ietri, Cederna, Egitto e gli altri potrebbero essere i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri vicini di casa. E leggendo queste pagine è impossibile non sentirli vicini.
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Un giallo comico
Anche se questo romanzo è del 2005, ho richiesto l’inserimento della scheda perché ha avuto un ruolo molto particolare nella mia esistenza, che l’ha fatto diventare uno dei miei romanzi preferiti.
Pur essendo il sequel di “Con la morte nel cuore” è facilmente comprensibile anche letto autonomamente, perché assolutamente svincolato rispetto al romanzo precedente.
L’ispettore Michele Ferraro sembra, a prima vista, un “medioman”: un quarantenne divorziato costretto a far i conti con il frigo vuoto, con una laurea nel cassetto, con la solitudine non certo da numero primo, ma da persona fin troppo comune, a metà fra due universi spesso in conflitto.
Cresciuto a Quarto Oggiaro, quartiere popolare alla periferia di Milano poco bonariamente definito “il buco di culo del mondo”, fra contrabbandieri e svitati, si ritrova – per scelte d’emergenza – a dover spesso trasportare in caserma i suoi amici di infanzia.
Lui, che si definisce inventore dell’happy hour per aver saccheggiato il buffet di uno dei locali del centro, è un poliziotto che si nutre di una propria, personalissima idea di giustizia e non si tira indietro quando si tratta di danneggiare irrimediabilmente la jeep di un figlio di papà responsabile di aver dato fuoco al giaciglio di un barbone.
Nonostante una routine fatta di caffè alle macchinette con il collega Comaschi, di dentiere scippate e risse fra immigrati, si troverà ad indagare su una presunta faida di mafia destinata ad inaugurare una nuova stagione della malavita italiana.
Vi confesso una cosa: ho letto questo libro tre volte in circa sette anni, pur essendo un giallo!
So che potrebbe sembrare una cosa un po’ da rincoglioniti: una volta svelati tutti i misteri, che gusto c’è?
Per comprendere questa mia scelta, occorre una piccola nota autobiografica.
Io sono cresciuta in una cittadina italiana molto conosciuta ma anche molto provinciale e, dopo il liceo, mi sono trasferita a Milano per frequentare l’università. Nel capoluogo lombrardo ho trascorso dodici anni della mia vita prima per studio e poi per lavoro. Solo nel giugno scorso ho deciso di tornare nella mia terra, perché dalla metropoli avevo già succhiato tutto il possibile, e sentivo l’esigenza di una vita diversa.
Ciò non toglie che questi anni siano stati fondamentali per la mia formazione.
A Milano ho infatti avuto la possibilità di approfondire la mia passione per la scrittura, anche grazie ai molteplici stimoli che sollecitavano la mia creatività. In particolare fra il 2004 e il 2006 avevo l’abitudine di girare con un taccuino, di sedermi da qualche parte e descrivere le persone intorno a me, immaginando i loro nomi e le loro storie. Riuscivo ad ideare un personaggio o una vicenda familiare anche solo guardando nei carrelli della spesa al supermercato: un single impenitente con un sacco di surgelati, una casalinga “alternativa” con un carrello interamente biologico e così via.
Di conseguenza, quando mi sono trovata fra le mani questo libro mi sono sentita in un certo senso a casa: Biondillo offre uno spaccato estremamente realistico della città di Milano. Descrive gli individui, descrive le stradi, scende nei meandri di ogni singola classe sociale e lo fa con un’ironia estrema. Ho riso, leggendo questo libro. Ho riso tanto perché – ve lo posso giurare – Milano è esattamente così. Senza se e senza ma.
La compagnia dei bimbiminkia che fanno gli splendidi fuori dal bar c’è in ogni città. Ma lo stereotipo universale si fonde con la particolarità dell’ambientazione. Si ha quindi la sensazione che possano essere solo loro, e solo in quel momento.
Biondillo è anche molto bravo a descrivere i sentimenti degli oggetti: si prova una sorta di empatia anche per la sveglia che decide di suicidarsi dopo anni e anni di scarpate sulla testa, e per la macchinetta del caffè che si impegna al massimo per elargire una buona bevanda al suo adorato ispettore Ferraro!
Insomma: 500 pagine scorrono fra le dita senza nemmeno accorgersene!
Se qualcuno di voi decidesse di leggerlo, non esiti a farmi avere un riscontro: sono curiosa!
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La peggio gioventù
ATTENZIONE: ANCHE SE NON è RIVELATO NULLA CHE POTREBBE AIUTARE A TROVARE IL COLPEVOLE, CI SONO INDICAZIONI SUI PERSONAGGI E LE VICENDE CHE POTREBBERO ESSERE CONSIDERATE SPOILER.
Ho finito di leggerlo proprio ieri sera e oggi in pausa pranzo sono andata a comprare un altro romanzo, sempre di Hakan Nesser. La mia lettura è sempre stata "a fasi": questa è quella thriller.
Ma Nesser offre un pacato compromesso: i suoi libri non narrano storie intricratissime e pieni di pathos.
Nonostante vengano raccontate delle indagini, esse rappresentano solo un "minimum" rispetto alla totalità della narrazione.
L'attenzione è rivolta soprattutto alla psicologia dei personaggi, alle loro storie individuali.
Maria e Germund, le due vittime, sono tratteggiate nei dettagli. Lei attraverso una - seppur alternata - narrazione in prima persona. E lui, filtrato dagli occhi a volte ammirati e a volte critici degli amici. Un personaggio enigmatico. Antieroico ma comunque impossibile da odiare, proprio grazie agli sprazzi di dolcezza che ogni tanto ci regala, capaci di riscaldare seppur debolmente il cuore e far nascere un sorriso.
Per non parlare poi di Gunnar Barbarotti, ispettore che fonde in sè due diversi popoli. Da un lato, razionalità e freddezza tipicamente nordici. Dall'altro, la passionalità e la verve di un italiano doc, capace di essere geloso ... anche dei morti!
Interessantissimi, a mio avviso, due motivi all'interno del libro:
- Una riflessione teologica su cosa valga la pena di ricercare, all'interno di questa vita. La felicità, oppure il senso? Possono esistere l'uno senza l'altro, oppure sono strettamente connessi?
- Una distinzione concettuale fra la fede che nasce da un profondo bisogno di assoluto e la religione ideata dagli uomini e costituita da istituzioni e dogmi. "Ho abbandonato la religione per non perdere la fede", dice l'uomo che odiava i martedì, spiegando il motivo per cui ha deciso di abbandonare il sacerdozio.
Abbiamo un prete che perde la fede ed un poliziotto che lentamente la ritrova, forse più per "necessità" che per effettivo sentore interiore. Il rapporto con il divino è un tema molto importante e il lettore non può fare a meno di riflettere sul proprio intimo e razionale modo di rapportarsi con la spiritualità.
Unica pecca del romanzo: il traumatico evento che ha portato all'allontanamento del gruppo di amici non assume adeguato spazio all'interno della trama, rimane in un certo senso asettico. Non ha un ruolo fondamentale, secondo me. E l'unico "merito" è quello di far impazzire una delle protagoniste.
Buona lettura
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Un libro consigliato
Io che amo i romanzi realistici mi sono appassionata moltissimo a questo libro, in quanto affronta un tema che è stato fra gli anni settanta e ottanta di scottante attualità nel panorama spagnolo. Non ne sapevo nulla, quindi mi sono sentita culturalmente più ricca.
Ai tempi del franchismo, infatti, molti figli di persone di sinistra, ritenute arbitrariamente inadatte a crescere dei bambini, venivano rapiti alla nascita – spesso con la complicità di suore e infermieri – e consegnati a famiglie politicamente “idonee”.
Questa motivazione politica, all’interno del libro, è completamente assente: si parla soltanto di una truffa colossale, finalizzata all’arricchimento indiscriminato di pochi selezionati individui.
Tale stratagemma narrativo, a mio avviso, compromette parzialmente la vicenda rendendola sostanzialmente asettica ed avulsa dal contesto. È vero che lo scandalo in Spagna ci fu. Ma andava decisamente oltre a quello descritto dal libro.
Non si spiega per quale ragione Greta e la madre Lilì decisero di “comprare” Laura: questo secondo me è un altro limite in quanto il punto di vista è biunivoco – si passa dalla protagonista Veronica alla sorella Laura – ma sempre esclusivamente di parte. Una “umanizzazione” del colpevole avrebbe reso, a mio avviso, la vicenda molto più sfaccettata. In questo modo invece ci si sofferma in modo quasi esclusivo su una manichea distinzione fra bene e male.
Nonostante questo però si tratta di un romanzo estremamente coinvolgente e dolce. Lo stile è “morbido”, molto lineare ed estremamente piacevole. Lo consiglio vivamente a tutti.
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Una fan delusa...
Pur essendo una fan di Jo Nesbo, purtroppo devo dire che questo libro mi è piaciuto meno degli altri.
"L'uomo di neve" è forse più commerciale, ma comunque piacevole.
"Lo spettro" è durissimo, ma al contempo dolce, e in grado di entrarti nelle ossa.
Questo libro, invece, l'ho trovato nè carne nè pesce, difficile da digerire e a tratti splatter.
è un romanzo che, a mio avviso, può urtare profondamente chi lo legge, può terrorizzare i "deboli di stomaco", mi ha sinceramente impressionata... e in modo non del tutto positivo. Peccato!
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Alti e bassi
Romanzo sicuramente interessante, nonostante alcune scene irrealistiche che appesantiscono la narrazione, combattimenti che sembrano descrivere - più che la Norvegia dei giorni nostri - un mondo parallelo ... in poche parole, ci mancano solo le astronavi!
Un peccato: le emozioni descritte sono realistiche così come può esserlo il tema della droga. Il soffermarsi su dettagli così distanti dalla sensibilità della gente fa perdere al libro un po' di qualità. Si cerca di avere la botte piena e la moglie ubriaca, accontentando sia gli amanti del pathos e dell'azione pura, sia chi ama le trame fitte piene di elementi "gialli". Il rischio però è di cucinare un polpettone indigeribile.
Oleg è un personaggio che fa tenerezza. Jo Nesbo è molto bravo ad "umanizzare" questo personaggio, restituendo dignità umana a quello che, altrimenti, sarebbe soltanto un "tossico". I continui rimandi all'infanzia, alla sua passione per il pattinaggio, portano l'unica aura di dolcezza in un romanzo fin troppo duro.
C'è una nota di merito, sulla quale come capirete non posso entrare nel dettaglio: il finale SORPRENDENTE a dir poco. Ho passato mezza giornata a dire "no, non è possibile, non ci credo"
Buona lettura :)
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La maledizione del secondo volume
Forse è un caso ma tutte le volte che ho avuto a che fare con qualche trilogia (che si tratti di libri o di film) il secondo capitolo è sempre quello che mi piace meno! è stato così con Ritorno al futuro, Millennium di Stieg Larsson, Il signore degli Anelli e, anche se non ho ancora letto il terzo, finora l'aspettativa è confermata!
In "tu sei il male" il giallo è l'elemento fondamentale e tutto ruota intorno all'enigma di una serie di omicidi, quindi l'attenzione è sempre vita. Qui non è così: nella parte iniziale ci si perde in una serie di giochi narrativi che rendono il tutto eccessivamente pesante e prolisso. è interessante conoscere il ruolo che hanno avuto gli italiani in Libia nel dopoguerra, per cui se si riesce a scindersi dal desiderio di "sapere chi è l'assassino" e semplicemente immergersi in una sorta di manuale di storia, il libro può anche essere piacevole.
Nella seconda parte, il romanzo diventa più interessante. Si riprende la vicenda laddove si era fermata in "Tu sei il male", dopo l'omicidio di Elisa Sordi e si descrive l'Italia degli anni ottanta in modo assolutamente realistico, almeno per quel che riguarda il tessuto sociale: avvento delle tv commerciali, presenza e prevalenza della democrazia cristiana, giochi di potere ecc... Un po' troppo all'americana la descrizione di un certo tipo di malavita che ora non posso descrivere nel dettaglio, altrimenti faccio spoiler. :)
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Progetto ambizioso
Mi sono trovata a leggere questo libro quasi per caso.
A metà novembre, mi ero beccata una brutta influenza e non sapevo come passare il tempo.
Dopo aver rischiato di tagliarmi le vene alla decima pagina delle "sfumature di grigio", ho chiesto a mia madre di fare un salto alla Mondadori. "Sai che con i thriller vai sul sicuro!".
La commessa le ha proposto "Alle radici del male", appena uscito. Ma non avendo letto nulla di questa trilogia, mia mamma ha trovato più sensato farmi cominciare dall'inizio.
Morale?
Una settimana dopo avevo già iniziato il secondo libro.
Nonostante la mole, si tratta di un libro che si legge da solo: una volta che entri nel vivo, non riesci a staccarti finchè non arriva la fine. Il mondo descritto è vicino al lettore: è la nostra Italia, è la nostra storia. Non si ha a che fare con un mondo distante ed asettico, ma ci si sente parte delle vicende narrate, perchè le si è in un certo senso vissute.
Io non ricordo i mondiali dell'82, avevo pochi mesi. Ma essi sono comunque nel mio immaginario attraverso i racconti di genitori, zii e amici che, invece, hanno potuti viverli. Quelli del 2006 invece li ricordo bene. A 24 anni, sei nel vivo delle cose. Le respiri. Ti entrano nelle ossa. Conosco la questione dei ROM. E, fin da piccola, seguo la vicenda di Emanuela Orlandi, personaggio molto vicino a quello della vittima Elisa Sordi. Quindi non c'era nulla di veramente nuovo per me, in questo libro. E ciò può essere un bene, può essere un male. Per me è stato un bene. Mi piace sentirmi vicina alle situazioni, quando leggo.
Per quel che riguarda il giallo, la vicenda è intricatissima. Ma si segue bene. Si segue perfettamente. Costantini è molto bravo a disseminare indizi nel romanzo. Ciascuno di esso viene spiegato, man mano che le situazioni si fanno più chiare. Alla fine, il lettore ha tutto sotto gli occhi. Non ci sono enigmi, non ci sono dubbi.
Interessante anche il rapporto fra il commissario Balistreri e l'amico Angelo: se la fede è una guida, all'interno del libro, questi due personaggi rappresentano il classico concetto manicheo che vede il mondo suddiviso fra bene e male. Sono due lati della stessa medaglia. Sono due individui complementari che finiscono per fondersi in una persona unica e completa, fatta di luci e di ombre.
Sicuramente è una lettura che consiglio a tutti!
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La mente ferita
Un giallo decisamente atipico in quanto l'assassino non è da scegliere fra una rosa di sospetti come avviene abitualmente nel genere, ma viene seguito attraverso un misterioso percorso finalizzato, passo dopo passo, a rivelare qualche dettaglio, qualche elemento in più, che ci porterà a guardare in faccia il suo passato e il suo presente.
Questo romanzo non ha un protagonista: sono molte le teste in cui Nesser di volta in volta entra, descrivendo la loro anima, i loro pensieri. Da Monica, giovanissima amante di un uomo adulto, sedicenne emarginata ma profondamente sensibile, ad Anna ed Ester, due trentacinquenni in carriera che trovano un modo alternativo per conoscere umini, al commissario Van Veteren, che si presenta come un uomo rude, disposto a fare il diavolo a quattro per un'oliva in un panino.Sebbene il narratore sia esterno ed onniscente, sembra di sentire un coro di tutte queste voci, che continuamente si passano il testimone della trama.
Questo romanzo invita ad una riflessione profonda sul valore dell'intelligenza e della cultura: valori importanti nella vita di qualunque individuo, ma che rischiano di arrecare un danno nel momento in cui non trovano un aggancio nella vita relae, nel momento in cui l'individuo sceglie per qualche motivo di isolarsi.
Quindici anni fa, non si sapeva ancora nulla sulle cinque ferite dell'anima (rifiuto, abbandono, umiliazione, tradimento e ingiustizia). è un peccato, in quanto una di esse ha un ruolo fondamentale nel romanzo, e avrebbe meritato di essere approfondita di più.
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Saga familiare classica.
Un bel libro.
Su questo non ci piove.
Però ci sono ... dei però, appunto!
E questi però "pesano" al punto che sono sinceramente in dubbio se consigliarlo o meno.
Tutto il romanzo è basato su un mistero: che fine ha fatto Michael, il giovane rampollo della famiglia Salter?
Tutti i presupposti fanno pensare che sia morto, compresa l’originalissima narrazione in prima persona, direttamente dall’aldilà, con tanto di sottile invidia per il fantasma del prozio David, visto e temuto da tutti.
Il problema è che non si capisce quando: è morto davvero nel lago per mano della zia Ursula, oppure è riuscito a fuggire trovando la fine in un secondo momento?
Questo è l’atroce dubbio che da anni regola la vita della famiglia Salter. L’ansia del non sapere. E la consapevolezza che ciascuno ha a disposizione una “fettina” di verità e, rifiutandosi di condividerla, continua ad alimentare dubbi ed incertezze.
La narrazione si articola su due diversi piani. Uno presente, ed uno passato. Il lettore riesce a mantenere comunque le redini di una trama avvincente. Il ritmo è serrato. La curiosità cresce attimo dopo attimo, e sembra quasi di perdersi in uno stile cristallino e pulito, di fare amicizia con i personaggi, tratteggiati talmente bene da rendere impossibile non entrare in profonda sintonia con ciascuno di essi.
Nella seconda parte, tuttavia qualcosa cambia.
Se fra i lettori di questa recensione c’è qualche telespettatore di Beautiful non è difficile capire di cosa sto parlando. Avete presente gli interminabili dialoghi in salotto fatti di aria fritta nel burro di nebbia? Ecco. Non so quante volte ho trovato scambi di battute come questo:
“Cos’è che sei venuto a sapere?/Cosa ti ha detto tizio?”
“Non te lo posso dire.”
Nella seconda parte ci si perde semplicemente. Lo stile si appesantisce. Le descrizioni diventano interminabile e dense di dettagli non funzionali allo sviluppo della narrazione. Alla fine diventa difficile ricordarsi nel dettaglio “chi sa cosa”, e tutto involve in una sorta di “polpettone” da fare invidia alle soap-opera più noiose.
Questo fa calare un po’ l’attenzione nei confronti del libro che, in questa seconda parte, perde un po’ la sua intrinseca (e sicuramente non indifferente) qualità.
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