Opinione scritta da DieLuft
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Per (s)fortuna era gratuito
Se state pensando di acquistare una versione di questo "raccontino", il mio consiglio è quello di tenersi i soldi in tasca. Anzi non leggetelo proprio, nemmeno se vi arriva a casa gratuitamente come nel mio caso. La storia è quella già trita e ritrita del colpo di fulmine, raccontata in maniera pessima, con uno stile decisamente troppo semplice e contornata da dialoghi monosillabici del tutto privi di coerenza o sostanza. I protagonisti sono i soliti adolescenti stereotipati da fiaba: il bellissimo lui e la bellissima lei che si innamorano a prima vista. Sono stramazzata a terra dopo neanche due capitoli tanta era la noia. Il libro è talmente banale da non possedere nemmeno abbastanza materiale per poterne fare una recensione anche minima. Lo sconsiglio all'umanità intera, questo non un libro: è una bozza per sceneggiatura per un filmuccio in puro stile americano.
Momenti trascurabili
L'acquisto di questo libriccino è stato compulsivo: la tipica situazione nella quale ci si trova "casualmente" vicino ad una libreria e, sebbene si disponga di poco tempo, non si può rimanere sordi a quella vocina interna che intima di portare a casa qualche nuovo amico. Così ci si ritrova a soppesare velocemente vari libri e, senza rifletterci abbastanza, si acquistano quelli che si ritiene abbiano un gran bel titolo. Almeno questo era il pregiudizio che mi ha aiutato ad infilare nella borsa questo libro. Se ne avessi letto la sinossi, probabilmente lo avrei riposto sullo scaffale. Eppure, dopo aver terminato la lettura, credo di potermi ritenere soddisfatta di questa spesa compulsiva. Il titolo ha in sé quel giusto tocco che lascia credere che tratti in breve di un qualche argomento filosofico o che filosofeggi in generale. Ci si carica dunque di una grande aspettativa nei confronti del libro, lo si inizia a sfogliare e... Un agglomerato di aneddoti e di situazioni di vita quotidiana. Si rimane spiazzati, specialmente dopo aver creato quella specifica aura attorno. Più e più volte mi sono ritrovata a pormi la stessa domanda: "Ma dove diamine si nasconde quel contenuto che cerco?!". E dopo tanti quesiti retorici si arriva alla conclusione che il tanto altisonante contenuto è lì davanti agli occhi, proprio in quegli aneddoti che raccontano i momenti di trascurabile infelicità, in quegli eventi marginali o meno nei quali rimaniamo sconcertati, un po' tristi magari, in quegli attimi nei quali ci poniamo delle piccole e banali domande retoriche, anche un po' stupide. Sono situazioni, piccoli dilemmi che compongono la nostra giornata e passano inosservati forse proprio perché non carichi di un'emozione o sentimento pieno. L’autore ci rammenta che anche ciò che reputiamo trascurabile ha una dignità, fa parte di noi come persone, riempie i piccoli interstizi nella nostra quotidianità, nonostante siano momenti che non godono di una specifica importanza sia che non l’abbiano in generale o sia quando siamo noi stessi a togliere loro valore.
Religioni pagane e materialismo spirituale
E il punto ultimata l'ultima pagina è stato: "Siamo sicuri che questo libro abbia qualcosa da raccontare in fondo?". Non saprei e non voglio formulare un giudizio definitivo.
Cercare di dare un senso a questo libro è stato un po' come cercare di dare un senso alla catena di suicidi delle sorelle Lisbon. Mancano troppi frammenti e gli elementi a disposizione non sono di facile interpretazione. Ho cercato e ricercato le simbologie, una traccia ma nulla. Ad un certo punto ho iniziato a pensare che le sorelle non fossero mai esistite, che fossero divinità alternative ideate dai ragazzini che narrano le vicende, e che questi ultimi le avessero inventate per riempire le loro esistenze (vacue almeno quanto quelle delle Lisbon). L'assenza di nerbo, di materia vitale in tutto il libro, avrebbe potuto spingere al suicidio tutti, allora perché solo le ragazze decidono di assecondare questa atmosfera? Una madre dispotica, instabile ed un padre ancor più impalpabile delle sue figlie possono rappresentare un motivo valido? Più valido di quanto l'apatia generale del quartiere non rappresenti da sola?
Ho trovato quasi offensivo tutto quel chiacchierare dei personaggi attorno alle sorelle Lisbon. Tutti lì a debita distanza, fermi ad origliare, ad osservare la surreale situazione col binocolo, ad allungare le orecchie per carpire i discorsi, a formulare sentenze senza interpellare di persona i veri interessati. Tutto sintomatico di una società che mormora, suppone, sputa giudizi senza mai conoscere per davvero ciò di cui sta parlando. Una società che crea, accudisce e diffonde i propri mali e poi non vede l'ora di lanciare quanti più servizi ed interviste riesca a fare.
Il coro dei narratori assiste alla tragedia come nelle rappresentazioni dell'antica Grecia ma nella tragedia moderna, fallisce non riuscendo a comunicare realmente con essa. Questi ragazzi, che cercano di rintracciare a debita distanza temporale le vicende, trattano la materia "Lisbon" quasi fosse una reliquia; le sorelle sono visioni estatiche di un qualcosa di superiore. Le osservano in attesa di una rivelazione, le pregano attendendo una risposta ma invano. Le sorelle Lisbon sono esseri spirituali nel materialismo decadente dell'America degli anni Settanta, che terminano con l'immolarsi egoisticamente. Nemmeno gli psicologi hanno la giusta chiave di lettura per le loro esistenze instabili e precarie, per dare una giusta sentenza al loro gesto.
Religione e paganesimo, materialismo e spiritualità uniti in un suicidio reale e metaforico che merita più letture ed interpretazioni.
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Dipingere con la penna
“Comincia un altro giorno di realtà. Si ricomincia, come sempre”.
“Continuavo a ripetere, come se pregassi:
‘Ce la farò, ce la farò ad uscirne. È solo questione di tempo.’ “
Secondo incontro-scontro con Banana Yoshimoto, seconda volta che chiudendo il libro, l’autrice ti lascia alquanto perplesso. Forse più che perplessità, è lo stare sospesi tra la comprensione e la superficie delle cose. Però è una sensazione piacevole, un po’ come quando bevi giusto quel goccetto in più e riesci a percepirti contemporaneamente dentro e fuori il corpo.
Lo stile di questo libro è veramente apprezzabile e con la sua semplicità ben si presta al narrare le vicende dei personaggi. In alcuni momenti assume un qualcosa di infantile, si carica di un’ingenuità che ben si addice anche all’età ancora acerba delle figure che popolano il libro ma, soprattutto, aderisce pienamente alle forme della situazione ancora irrisolta che portano dentro.
Un po’ come in "Norwegian Wood" di Murakami, i personaggi sono apprezzabilissimi, molto vicini a noi, totalmente sprovvisti di particolari talenti ma ricchissimi in termini di umanità. Essi vivono le piccole vicende quotidiane che potrebbero accadere anche a noi, e uniscono questa quotidianità a pensieri che chiunque potrebbe formulare in quelle situazioni. Ecco perché sento di poter dire che lo stile giapponese è sublime in questo contesto: sono capaci di poetare con gli elementi che spesso noi occidentali lasciamo fuori, etichettiamo come non strettamente importanti. Inoltre è sempre da gustare l’abilità di questi scrittori nel dipingere letteralmente le figure, una pennellata alla volta, senza mai avere però la descrizione fisica completa. Sono gli impressionisti della carta e dell’inchiostro.
La storia filo conduttore del libro è veramente semplice -forse addirittura banale se ci proponiamo di leggere con superficialità- e verte per lo più sulle perdite affettive vissute da personaggi di giovane età. Sarebbe quindi troppo affrettato concludere con quest’etichetta. A mio parere questo libro mostra come, in modi anche bizzarri e surreali in certi punti, l’essere umano per il quale il tempo si è fermato con la perdita, riesca a trovare dentro di sé una forma di coscienza antica che gli intima di procedere ancora.
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- Vuole accostarsi alla letteratura contemporanea giapponese con letture piacevoli
Ribadirsi il contesto
Una piccola recensione per un piccolo testo, che si inserisce nel filone utopico e verte sul dialogo tra il cavaliere Ospitalario ed il nocchiero Genovese, due figure che l’autore utilizza per dare il via alla descrizione dell’isola-città del Sole e dei Solari, i nativi di questo luogo ipoteticamente perfetto ma inesistente.
Con mio rammarico, ammetto che non ho saputo apprezzare fino in fondo questa cinquantina di pagine, poiché non ho potuto fare a meno di paragonarlo in continuazione ad altre letture di altre repubbliche “utopiche” fatte in precedenza, in particolare alla lettura de “L’Utopia” di Tommaso Moro. Proprio rispetto a quest’ultimo, il testo sembra avere personalmente uno spessore minore, peggio ancora, sembra una copia bella e buona riuscita però molto male.
I punti in comune tra i due autori sono molti, a cominciare dall’introduzione della città che viene scoperta casualmente dall’uomo di mondo qual’è Genovese. In seguito, sempre tramite il dialogo tra questi due personaggi, veniamo a conoscenza degli usi e costumi di questo luogo lontano. Ma mentre in Moro, coloro che ascoltano il racconto, si fermano a ragionare e a discutere le differenze tra la civiltà utopica e la loro, il maggiore (ed unico) interlocutore rappresentato da Ospitalario, si riduce semplicemente a fare domande o a richiedere che le sue curiosità vengano soddisfatte.
Dal nostro punto di vista poi, la civiltà del Sole per quanto utopica, assomiglia più ad una società gerarchica e di controllo, quasi distopica, nella quale tutti fanno a capo a qualcuno con autorità maggiore, qualsiasi questione è regolata dalle alte sfere che impartiscono le direttive in base a calcoli astrologici. Inoltre più si sale la scala sociale, maggiori sono i benefici dei quali si può godere. I Solari sono decisamente più sottomessi all’autorità degli Utopiani, che godono di una libertà maggiore e proprio in merito a questa libertà, sono meno propensi a infrangere le leggi… Cosa che del resto non infrangono nemmeno i Solari, solo che la loro obbedienza appare molto più cieca.
Un altro elemento che a mio parere pone “La Città del Sole” su di un piano inferiore, è il costante accostamento di elementi reali e poco utopici con elementi che si potrebbero definire fantastici. Trovo faticoso conciliare i benefici maggiori di una classe superiore, l’usufruire di donne gravide/sterili per “sfogare i propri istinti” con l’utopia, come del resto non vedo come possa essere possibile che dei bambini nel giro di pochissimo tempo riescano ad inglobare un sapere pressoché enciclopedico. Diciamo che per leggere con un minimo di attenzione, è necessario ribadirsi molte volte il fatto che questo libro ha poco a che vedere con la realtà così come la conosciamo e interpretiamo noi. Bisogna sottolinearsi costantemente il periodo storico che ha dato i natali al libro e, sopratutto, ricordarsi che si sta leggendo utopia.
Sarà anche il libro più famoso dell’autore ma non è probabilmente il miglior testo con il quale accostarsi al filosofo, nonostante contenga molti degli elementi a lui cari.
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Nella comprensione
Duecento pagine d'intensità e trasporto emotivo del tutto inaspettati. Nonostante mi sia sentita "ingannata" sin dalla prima pagina, questo racconto è stato in grado di sorprendermi e ripagarmi di tutte le fatiche e tutti i compromessi che ho dovuto fare con l’autore, con il tipo di impostazione, con la storia e il suo protagonista... Praticamente col libro stesso.
Avviare la lettura è stato talmente impegnativo da rasentare il ridicolo, suscitare lo sdegno e l'autoironia. Rileggere ad oltranza gli stessi due capitoli in oltre un mese (dopo gli innumerevoli tentativi già avviati in precedenza) è stato materia di autocommiserazione per una che si autoproclamava con orgoglio "fervida lettrice".
Ho acquistato il libro in modo compulsivo, conoscendo vagamente la storia e commettendo lo stupidissimo errore di scambiare l'autore per il protagonista. Sono sviste che si pagano col prezzo del disgusto, perché quando si crede di iniziare la lettura di un'opera autobiografica e invece ci si ritrova nel mezzo dei tentativi di rintracciare la vita altrui, la delusione è dietro l'angolo. E questo è stato il primo impatto con il libro: la delusione nel leggere quello che mi pareva si delineasse sempre più come un reportage su di un giovane morto in Alaska e delle buone impressioni che aveva lasciato nella gente nella quale si era imbattuto. Niente filosofia, nessun discorso in prima persona... Solo descrizioni paesaggistiche, mappature degli spostamenti e collezione di impressioni.
Una volta finalmente accostumata allo stile e quasi superata l'iniziale illusione, ciò che ha iniziato a deludermi è stato il personaggio stesso di Alexander Supertramp alias Christopher J. McCandless. Dopo averlo etichettato come eroe della sua stessa storia, artefice del suo destino, Krakauer, cambiando interlocutori, inizia a ripercorrere il passato di Chris e lì ci si rende conto di quanto un "outsider per scelta" possa cadere nella stereotipizzazione. Premetto che le storie dei personaggi alla "Jack London/Thoreau/Tolstoj“, che vanno a vivere per strada o nei boschi volontariamente, non hanno mai attirato le mie simpatie o consensi. E meno che meno quelli che lo fanno perché hanno una storia irrisolta con la famiglia, problemi con figure paterne autoritarie, non sanno scendere a compromessi, fanno scempio dei loro naturali talenti e si ribellano nei modi più "alternativi". Perché è questo che, superficialmente parlando, ho creduto essere alla fine Alex/Chris: il tipico ragazzo che scappa dalla famiglia, conduce una vita diametralmente opposta a quella dei genitori e fa tutto questo solo per sfregio, per testardaggine, per mancanza di un livello minimo di umiltà, convinto di essere nel giusto. Neppure il suo inserimento nei miti americani di una vita nella wilderness o della ricerca della felicità sono riusciti in un primo momento a distrarmi da questa etichetta.
A rendere speciale Chris e a dimostrarmi il fatto che stavo ragionando in maniera del tutto convenzionale e aderente ai luoghi comuni è stato Krakauer stesso. Con il semplice riportare i commenti sulla morte di Christopher, ha acceso in me l’idea che stessi leggendo il libro in una prospettiva del tutto scorretta, che stessi ricercando un tema errato, che volessi un “outsider secondo i miei canoni e ideali”. Quando Chris cessa di riferirsi a se stesso come un’altra persona, come Alex, diventa ineffabile, il suo diario diventa un capolavoro di alta spiritualità.
Una volta giunto alla piena maturazione del suo viaggio -che è insieme ribellione, ricerca e crescita personale- la natura lo “ricompensa” con la morte del suo corpo fisico. Nonostante persino nel libro, la morte del protagonista sia stata suggerita come una svista dovuta alla sua ignoranza, poiché ignaro della “tossicità stagionale” di alcune parti vegetali; ho preferito leggere l’accaduto come se la natura stessa avesse voluto scegliere e fondersi con il suo asceta all’apice della sua comprensione.
Siamo sicuri succeda solo a Natale?
Con questo terzo libro di Corona nella mia libreria, mi consacro completamente a questo scrittore italiano, forse l’unico autore che è stato in grado di appassionarmi veramente, nonostante le sue “bizzarrie” narrative.
Mi dispiace “rompere le uova nel paniere” a tutti coloro che giudicano questo piccolissimo tomo come un flop dell’autore. Personalmente questo raccontino non ha nulla da invidiare alle altre storie di Corona. A chi non è piaciuta, consiglio di andarsi a leggere le primissime pagine, quelle scritte in col carattere in italico. Dove si trova un autore che mette nero su bianco il contenuto del proprio libro? Non ci fa nemmeno fare la “fatica” di ragionare sul significato di ciò che andremo a leggere… Più facile di così non riesco ad immaginare nulla, è di una semplicità addirittura disarmante a momenti. Che storia doveva inventarsi, così articolata od aulica, per parlare di un argomento così quotidiano e ben palpabile? È talmente evidente che anche scrivere una recensione diventa un mero accessorio, quasi un’azione vana.
L’espediente della storiella natalizia sulla falsità del perbenismo di questa festività può sembrare leziosa e già letta. Ma la novità di questo racconto è che Corona ci mette tutto sotto il naso, chiaro e tondo, e certamente non si ferma solo lì: va ben oltre il Natale. Una feroce critica alla società di tutti i giorni, raccontata come solo Corona sa fare, con il suo narrare tutto come se fosse una fiaba. Ho amato e riso insieme a questo libro, che mette mette a nudo non solo le coscienze di tutti i “buonisti a tempo determinato”, ma anche la società mediatica oggi che con la sua smania di scoop e di notizie, ci mette davanti allo schermo e sulle riviste tutta una serie di personaggi che si proclamano esperti, ma alla fine non ne sanno niente di meno e niente di più di un gruppo di vecchiette pettegole o di un paese che chiacchiera. Lì sullo schermo per dare certezze inesistenti, instabili ed inutili visto che non si hanno prove e soprattutto, questi interventi non sono stati richiesti da nessuno… La notizia del Bimbo scomparso è l’ennesimo motivo per creare business, e non c’è nulla di scioccante nell’accettare il fatto che nemmeno il Natale successivo alla sua sparizione, il Bambin Gesù non si presenti al suo posto nella mangiatoia.cMa l’umanità descritta dal libro è cieca, pretende di trovare un responsabile della sparizione, non importa chi purché questo reo l’aiuti a non fare i conti con se stessa. Un colpevole qualsiasi -anche Satana va bene- purché non debba essere costretta a puntare il dito contro se stessa.
A che serve il Bambin Gesù, metafora del vero amore incondizionato e privo di ogni giudizio, quando questo tipo di amore non esiste più nemmeno a Natale? Tanto meglio sparire dalla circolazione. Per sempre.
Non voglio sprecare una parola in più per consigliare questo libro che si dovrebbe leggere non solo a Natale (magari durante il mega-pranzo-con-parenti) ma da rileggere anche durante il resto dell’anno.
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The Dark Side of the Moon
Ho trovato questo volumetto a casa ed è inutile dire che il titolo mi ha subito incuriosito. Aprirlo poi e leggerlo è stato come ritrovare un pezzo del puzzle, una specie di manuale sulla vita quotidiana. Ma di cosa tratta? Sostanzialmente il testo è frutto di uno studio condotto in Francia, composto da una decina di saggi che riguardano l’individuo moderno, questo povero “martire” oramai sempre più inserito in una macchina che lo sta consumando lentamente. In particolare, si focalizza su uno degli elementi che lo sta sgretolando nella maniera più vile e subdola possibile. Questo mostro dell’ombra è la visibilità, quel meccanismo che spinge tutti noi a cercare al di fuori della nostra persona, una qualche forma di appagamento personale, che ci fa sentire vivi solo quando riusciamo a raccogliere il maggior numero di “Like” sulla nostra foto appena pubblicata, che ci spinge a “postare” sulla piazza un numero esorbitante di informazioni personali -anche inutili- affinché tutti riconoscano la nostra esistenza terrena. Succede sotto gli occhi di tutti e succede tutti i giorni. E la cosa più raccapricciante è il fatto che compiamo queste azioni nella maniera più naturale e normale possibile, tanto che non sembriamo nemmeno più pienamente coscienti di ciò che il pulsante “pubblica” rappresenta in sé. E lo facciamo tutti, indistintamente, non ci sono vinti o vincitori.
Il saggio, per quanto noioso e ripetitivo dopo un certo punto, è una manna dal cielo e sono contenta che finalmente si sia iniziato a pubblicare studi di questo genere, perché credo che, ora come ora, la conoscenza del fenomeno social debba essa stessa diventare “social”. Basta con questo pubblicare stati d’animo, foto e pensieri senza un minimo di criterio, basta con questa mania dell’essere sempre “on-line” in modo anche invasivo, solo per dire “Ehi! Guardami! Guardami!” come fanno i bambini di cinque anni che cercano attenzioni dai genitori. Tutti esistiamo anche senza social networks, solo che ormai in una società dell’apparenza, Essere è diventato l’inutile e succube zerbino del fratello Apparire. Anzi è diventata un’identità aristotelica: Apparire è uguale ad Essere. E tutto ciò succede con la nostra tacita approvazione, questo dobbiamo ricordarcelo. Abbiamo uno strumento potente nelle nostre mani come lo è Internet, ma siamo ancora troppo infantili per utilizzarlo nel modo migliore.
Oltre a spiegare in modo papale papale cosa sta accadendo dentro e fuori il “surfista di Internet”, il testo si concentra molto su piccole nozioni filosofiche, anche sulle ormai disturbate relazioni di spazio/tempo, eternità/esistenza e sulla loro inversione di significato che contribuisce anch'essa al sostenimento di questo tipo di società. Banale ad un certo punto è il fatto che si affermi che l’unico vero vincitore di tutta questa situazione è colui che “lava i panni sporchi in casa propria”, chi non pubblica e che quindi è l’unico vero coltivatore di un Sé individuale. Personalmente non credo che esistano santi su questa Terra, tutti siamo vittime e tutti siamo carnefici. Non si salva nessuno, punto. Comunque, a parte determinate considerazioni di questo tipo, è un saggio veramente utile perché dà una spolverata su questo meccanismo che ci comanda “a nostra insaputa”, e lo fa nella maniera più semplice anche se leziosa e ripetitiva a volte.
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Come NON pensare l'Africa.
Binyawanga Wainaina è un autore del tutto sconosciuto in Italia e “Un giorno scriverò di questo posto” è uno dei suoi primi lavori pubblicati nel nostro Paese. Ammetto per prima di non averne mai sentito parlare e, per gusto personale, non avrei mai acquistato un libro del genere, ma dopo l’ultima pagina mi posso ritenere contenta e ringrazio colui che me lo ha indicato per avermi iniziata ad un nuovo tipo di visione.
Generalmente non mi piacciono i romanzi che parlano o sono ambientati nelle ex-colonie. Non ho mai voluto leggere nemmeno uno di quei titoli, ho sempre trovato la loro trama un po’ troppo razzista di base e pensato che alla fine il protagonista non è un vero “uomo”, visto che appena può torna alla sua amata civiltà dopo la spericolata “gita”. La trovo una concezione un po’ troppo bigotta per i miei gusti, decisamente sulla linea del “noi siamo i bianchi buoni e civilizzatori, voi siete i selvaggi di colore variegato”. Non voglio negare che all’epoca fosse ritenuta una concezione giusta, ma per il mondo nel quale viviamo noi comincia ad essere un po’ leziosa. Ma come ho detto, è solo una questione di gusti e opinioni personali.
Quest’opera invece è stata in grado di sorprendermi. In primis perché è scritta da un autore del luogo (e non dall’europeo di passaggio); secondo, è incredibilmente recente e, terzo, è stata in grado di demolire con le sue 250 pagine un milione di pubblicità sugli aiuti umanitari e immagini collettive. Questo romanzo autobiografico non ha certamente la solita trama di un uomo che vive in Africa e racconta una storia sulla vita in capanna, circondato da molti bambini che non sa come sfamare o istruire. No, Binyawanga racconta la sua storia ed il suo Kenya da un punto di vista del tutto inaspettato per la nostra visione. L’Africa non è il Sahara, non è la savana, non sono i Maasai, la mancanza di acqua corrente nelle case, il sottosviluppo o la sottonutrizione: la realtà che egli ha conosciuto è quella di una bella casa piena di ogni comfort, una famiglia (di soli 6 membri) amorevole e multiculturale, di un ottimo livello d’istruzione per lui e tutti i suoi fratelli. L’Africa, o meglio, il Kenya è uno Stato del tutto simile ad un qualsiasi altro Paese dell’emisfero Nord, con le sue grandi città e le sue aree di povertà; le sue zone industriali e quelle rurali. La differenza? Probabilmente nessuna, forse si potrebbero citare le rivalità politiche tra varie tribù, ma la storia della corruzione dilagante nella classe politica e quella delle lotte per la stabilità del Paese sono praticamente identiche anche alle nostre. Il tutto contornato dalle battaglie quotidiane dell'autore con se stesso, le vicende personali e la finale decisione di diventare uno scrittore.
Non vorrei dilungarmi oltre sul contenuto perché da solo meriterebbe di essere letto.
Ad essere sincera, lo stile non è stato del tutto di mio gradimento perché ricco di parole in Kiswahili che a volte non vengono spiegate o tradotte e quindi si perde un po’ della magia. Secondo perché, in certi punti, c’è abbastanza confusione tra le vicende interiori o quotidiane dell’autore e le vicende politiche e vorrei cogliere l’occasione l’occasione per sconsigliarvi l’acquisto dell’opera in lingua originale. Inoltre non nego che è stata un po’ dura continuare a sfogliare il libro per una persona che ha solamente un’infarinatura generale su questo Paese. Comunque sono ancora convinta che le parti più piacevoli, profonde ed anche divertenti si trovino specialmente nei capitoli nei quali l’autore parla del proprio passato, raccontato attraverso gli occhi di se stesso bambino che scopre ed interpreta il mondo con l’innocenza di un piccolo uomo.
Non è un vero e proprio consiglio di lettura. Credo sia più che altro un invito a rivedere l’Africa da come viene proposta dalle pubblicità o come l’abbiamo dipinta noi nell’immaginario collettivo.
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Okay? Mah...
“Romanzo” carino ma decisamente sopravvalutato. L’argomento cancro è un tema estremamente delicato da maneggiare e Green ha decisamente oltrepassato il limite tra l’accettabile e la prostituzione letteraria. Se c’è una cosa che credo un po’ tutti abbiano sicuramente capito quest’anno, è che se un libro produce un film, vuol dire che quel romanzo è anche interessante ma i suoi temi sono trattati in modo superficiale; che contiene della profondità ma quella profondità è sovrastata da degli elementi del tutto inutili, aggiunti solo per farlo diventare un momentaneo best-seller. Mi spiace sottolineare la cosa, ma la “letteratura” americana scade di anno in anno con questa continua produzione di sceneggiature che fanno la gioia solamente di chi il denaro se lo intasca. Qui in realtà c’è solo da mettersi le mani sui capelli. E con questo pensiero in sordina e il fatto che al fine di mantenere una relazione di buon vicinato (sennò manco lo avrei comprato) ho fatto lo sforzo di leggerlo, dono anch'io il mio “contributo”.
Innanzitutto questo è un libro falsamente verosimile ed ampiamente surreale. Si vede lontano un miglio che Green ha avuto pochissimo a che fare col cancro e conosca la malattia solo in generale. Come ci si può permettere di parlare di un tema così delicato e di inserirci dentro un farmaco sperimentale (proveniente dalle improbabili Green Pharmaceutical Industries) che permette ad un malato terminale di sopravvivere così a lungo? Voglio dire, andatelo a raccontare ai malati in oncologia, vorrei proprio vedere le reazioni. Ma sorvoliamo sul fatto che Green fa lo scrittore, non è un medico, non ha mai trascorso notti in bianco in ospedale affianco di un parente morente e passiamo poi alla storia d’amore adolescenziale. No, decisamente no. Sarà perché sono una persona fondamentalmente cinica, ma questo è l’elemento che maggiormente ha rovinato il libro. Perché affiancare l’amore a due personaggi che sono stupendi solo quando NON si incontrano?
Gus è decisamente un ragazzo provato dalla sua situazione ma che comunque ha fatto del suo difficile e delicato passato il proprio punto di forza. Con un’estrema ed invidiabile forza di volontà, si comporta come un giovanissimo vero supporter, capace di contagiare col suo ottimismo chiunque stia con lui. Hazel non sarebbe da meno, se non fosse la protagonista e se solo si fosse perduta nella storiella. Dalla sua presentazione nelle prime pagine, al termine del romanzo, Hazel semplicemente regredisce di pagina in pagina ed ogni sua singola elucubrazione mentale degna di nota, viene puntualmente stroncata dalla presenza del suo grande amore. Per non parlare del fatto che la sua condizione di figlio unico -per di più malato-, la spinge a comportamenti decisamente sgarbati ed decisamente egocentrici. Nonostante abbia l’onore di essere colei che detiene il focus del romanzo, è proprio il motivo per cui esso si allontana dall’essere un Bildungsroman (cosa del resto che non è nemmeno lontanamente).
Per un certo verso, avrei veramente preferito che la storia si fosse concentrata solamente su Augustus e sul decorso della sua malattia, anche a costo di far sembrare il tutto una cartella clinica. Un Augustus puro, con le sue sensazioni, le sue sofferenze, le sue piccole gioie quotidiane ma senza Hazel e senza lo sdolcinato inutile contorno. Quello allora sarebbe stato un vero libro sul cancro e il bagaglio di emozioni che esso comporta. Questo a confronto ha un effetto placebo. Domanda retorica: sarebbe diventato un best-seller così? Avrebbe prodotto un film? Retorica domanda per ironica risposta.
Ma la mia proposta forse è un po' troppo fondamentalista, quindi diamo una chance e allora perché non invecchiare il tutto? Mutare la storiella adolescenziale in una d'amore adulto tra due adulti malati? Forse Gus sarebbe rimasto fedele a se stesso ed Hazel sarebbe stata un po' meno ragazzina in tutto, le emozioni sarebbero state più profonde e il tutto sarebbe stato più reale. Magari sarebbero pure morti insieme, tenendosi la mano, visto che non si è mai sentito di qualcuno che sopravviva ad un quarto stadio di tumore alla tiroide. Ma è pur sempre vero che due adolescenti in queste condizioni fanno più scalpore di una coppia di ottantenni, voi cosa dite? Chi di noi non sarebbe andato al cinema a vedere due vecchietti canuti che si spengono lentamente?
Passiamo infine allo stile. Non so come sia in italiano ma in inglese è anche eccessivamente semplice, fa da specchio al suo contenuto, buono solo per fare un po’ di esercizio.
Detesto essere così aggressivamente ed eccessivamente critica nei confronti delle novità ma detesto ancora di più che temi del genere vengano trattati così alla leggera. Inconcepibile che vengano proposte solo determinate soluzioni letterarie in nome del vile denaro.
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Ripensare la realtà
Buon manuale introduttivo per coloro che si vogliano accostare allo studio -o anche per semplice curiosità- della realtà postcoloniale. Non è troppo specifico nei termini e nemmeno così generico, adatto a qualsiasi livello di conoscenza della materia. Spazia da concetti molto generali come quello di razza, diaspora, emigrazione/immigrazione, per poi soffermarsi sugli esiti concreti delle conseguenze del postcolonialismo: realtà urbane, incroci di culture, conseguenze psicologiche della dominazione europea sulle popolazioni ecc. Ma soprattutto offre molti spunti a livello letterario su autori poco noti e forse non totalmente riconosciuti in un ambito accademico classico.
Ho trovato la descrizione degli studi postcoloniali qui proposta affascinante e stimolante. Il manuale invita a ripensare alla concezione eurocentrica che tutti noi abbiamo un po' insita, rispetto a ciò che consideriamo come altro e dunque lontano da noi. Ho apprezzato molto il fatto che si siano proposti dei focus specifici sulle realtà di ex dominazione inglese, spagnolo-portoghese, francese e addirittura sulla dimenticata "gita in Africa" dell'Italia fascista. Mancano però all'appello descrizioni sui lasciti di Germania, Belgio e Paesi Bassi: nulla di non integrabile con ulteriori saggi in edizioni successive.
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“Credo quia absurdum”
ATTENZIONE!!! QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ELEMENTI DI DISTURBO PER I CREDENTI. INVITO TUTTI COLORO CHE SONO SENSIBILI IN MATERIA A NON LEGGERE LE SEGUENTI RIGHE CHE CONTENGONO OPINIONI PRETTAMENTE PERSONALI E DAI TONI ACCESI.
Le lamentele sono giustamente accettate se si può civilmente discutere poi.
“Credo quia absurdum” ossia “Credo perché è assurdo” come disse Tertulliano nel III secolo e.V (dove la sigla sta per era Volgare), perché se tutti leggessimo la Bibbia nel modo in cui Odifreddi si è prodigato di fare e riportare, tutti -azzardo a dire credenti compresi- si renderebbero conto che in realtà il libro che sta alla base della cultura occidentale, altro non è che un insieme di “assurdità”.
Ovviamente tra la mia affermazione e il fatto di credere che l’opera sia stata ispirata direttamente da dio (o dagli dèi, come appare già dalle prime righe della Genesi in lingua aramaica) ci sta in mezzo la fede, elemento che purtroppo a me è sempre mancato.
In quest’opera, Odifreddi ha trattato la Bibbia come ogni bravo studioso di lettere fa quando si trova davanti un qualsiasi romanzo o testo che sia: lo analizza seguendo la via linguistica, comparando le varie fonti, le varie traduzioni e inserendo ogni brano analizzato all’interno del periodo storico nel quale è stato presumibilmente scritto. Ciò che ne salta fuori è che l’intera Bibbia sostanzialmente altro non è che la storia mitizzata del popolo ebreo. Praticamente il popolo d’Israele ha un proprio testo di auto-celebrazione alla pari dei grandi poemi epici che vennero scritti dai Greci per ricordare le loro battaglie, o dalle odi che i nobili Romani si facevano scrivere per elevare il proprio lignaggio. Su questa linea è comprensibile perciò la falsa validità storica che questo libro può avere ma che tutti difendono come reale. Per non citare la serie infinita di parallelismi che si potrebbero fare tra la Bibbia-storia del popolo d’Israele e miti di culture antecedenti o contemporanee a quest’ultima che ha inglobato e fatto proprie.
E fin qui non ci si trova più o meno nulla di male. Il grande punto interrogativo rimane quello del perché questa raccolta di testi sia diventata alla fine una religione che perdura da più di duemila anni. Perché la Bibbia e non le “Metamorfosi” di Ovidio? Perché se, ad esempio, un libro qualsiasi dell’epoca classica fosse stato trattato alla pari, noi tutti oggi crederemo ancora a Zeus, a Venere o a chi di turno. Quindi, perché tra tutti proprio questo?
Sta di fatto che sono duemila anni che ci battezzano e professiamo la nostra fede in nome di un sconosciuto qualcuno che ha deciso che, in qualche modo da questa raccolta di libri, poteva ricavarci qualcosa (politicamente ed economicamente parlando). Chissà quali sono le motivazioni della stranamente e oscenamente ricca Chiesa, che si interessa di politica e di economia quando con gli affari terreni dovrebbe aver poco a che vedere… Mah…
Da brava figlia proveniente da famiglia cattolica professante, posso affermare di aver letto la Bibbia, antico e nuovo testamento; di aver provato a leggere in senso metaforico il tutto; di essere andata a catechismo per ascoltare le gesta di codesti individui dei quali è dubbia pure la vera e attestata esistenza storica; di aver cercato invano questa fede che realmente da sempre invidio ai credenti… Cosa ne ho ricavato? La stessa identica cosa che Odifreddi ha sottolineato in maniera magistrale: che, ammesso che esista dio, egli è molteplice (e non parlo del discutibile concetto di Trinità), che per primo si prende spesso in contropiede (ammesso che la Bibbia sia stata ispirata veramente da un’entità maggiore e non scritta a più mani da semplici simpaticamente scoordinati tra loro uomini), che certamente non è benevolo (visto che più e più volte castiga il popolo che si è scelto), che certamente una religione è un modo per soggiogare chi “ingenuamente” vi aderisce, o ci capita dentro. Per non parlare del maschilismo che apertamente percorre tutta la storia del cristianesimo: chissà perché dio è descritto principalmente come padre, ha un figlio maschio e le donne, quando si parla di loro, hanno un ruolo di subalterne, mangiano strambe e malefiche mele, sono solamente elementi da bruciare rogo perché si accoppiano col diavolo. Alla faccia dell’amore universale e incondizionato dico io! Questa è un’altra delle manovre politiche per tenere a bada la donna che non si capisce cosa faccia per meritarsi quest’alienazione millenaria.
Al tutto è possibile aggiungere l’aberrante quantità di termini che hanno perso il loro significato originale attraverso la traduzione in greco, successivamente in latino per poi finire con quella in italiano. Comiche le risposte che la Chiesa Santa Cattolica e Apostolica dà quando vengono sottoposti quesiti sul testo. Illecito il fatto che esista ancora l’ora di religione nelle scuole quando l’Italia è uno Stato pienamente laico dal 1984. Ingiusto che venga per forza impartita una sola religione (anche se non è obbligatoria) e non si possa scegliere tra un’ora di Islam, di Induismo o Buddismo oppure, perché no, di libero pensiero e opinioni sull’esistenza di entità maggiori.
Si potrebbe andare avanti all’infinito visto che l’argomento è abbastanza “anzianotto” ed esistono un miliardo e più di cavilli ai quali appendersi per entrambi le parti. In ogni caso consiglio questo libro a tutti, credenti o meno, in primis perché è giusto avere due pareri sull’argomento, secondo perché anche se non cambia la vita almeno ci si fanno due risate.
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Un monocromatico caos
Una piatta confusione. Questa è la prima impressione che ho provato nei confronti di questo libro, e la stessa perturbante sensazione mi ha accompagnato fino all'ultima pagina.
Sono innamorata del genere distopico fin da quando il professore d'inglese al liceo mi mise in mano "1984". Ho deciso di acquistare questo testo sulla vaga scia di quella passione e sono rimasta molto delusa da come si è andato sciupando il genere stesso. Diciamolo chiaro e tondo: questo non è un "romanzo" distopico, non è un fantasy e non è nemmeno un rosa... È un pastiche di non so cosa a forma di libro: prima si inizia con la distopia nel Giacimento, poi si inserisce la fantascienza con Capitol City e infine si terminano gli Hunger Games con la ragazzina confusa dalle proprie emozioni…
Pur non avendola compresa fino in fondo, non nego che l'idea di base del libro non sia interessante (anche se copiata da "Battle Royale" a quanto gira sul social reading), ma l'impressione che ho avuto alla fine è stata quella di una gran confusione di elementi che non ha portato a nulla di concreto.
Stilisticamente è scritto male. Certamente è scorrevole, si legge tranquillamente in mezza giornata o giù di lì, ma il vocabolario usato è minimo e i dialoghi sono molto brevi, essenziali e privi di qualsivoglia spessore. Pur non amando il narratore di prima persona, in questo libro è decisamente essenziale questo punto di vista, specialmente quando ci si trova all'interno dell'arena.
I personaggi hanno un retrogusto acerbo, sono un po' scontati, stereotipati anche se in penombra si scorge del potenziale per evolvere e formulare una personalità propria. In particolare mi riferisco alla protagonista: questa Katniss ha decisamente bisogno di sviluppare uno stato di coscienza maggiore perché da lei dipende quasi totalmente l'intero romanzo. Eccelle nel suo compito di regista nel riportare gli eventi ma decade totalmente come “persona pensante” quando nella vicenda, questi eventi dovrebbero essere sottolineati da un commento deciso o da affiancati da un pensiero. Voglio dire... Diamine ragazza! Vivi in una società di persone che trovano ludico il sacrificio umano! Fammi un commento di più di una riga contro questo sistema! Formula un pensiero con uno spessore maggiore di quello di un foglio di carta!
Poi per quanto riguarda la lettura dei temi posso ben affermare che sono esattamente allo stesso livello dei personaggi: ci sono ma sono ancora ad un livello embrionale, stanno aspettando di vedere pienamente la luce. Se dovete leggervi un libro sul senso di colpa e sulla flebile linea di confine tra carnefice e vittima, leggete la "La lettera scarlatta; se volete un libro che vi parli di come funziona una società totalitaria che ti fa credere che un'oltraggio sia la regola, sia del tutto accettabile, prendete in mano il vecchio caro "1984"... Perché cara Suzanne Collins, questo è in fondo un libro per ragazzi, non tutti hanno la maturità giusta per leggere oltre la storia che hai costruito. È quasi inutile tentare di mettere in sordina determinate tematiche: o le si affrontano in pieno o si scrive una bella sceneggiatura per la gioia del botteghino... Cosa che del resto questo libro ha suscitato. Quindi in definitiva, personalmente parlando, questo non è nemmeno un romanzo, è un testo che va ad aumentare l’odierno e crescente numero di sceneggiature per film tipicamente americani.
Ora grazie a tutto il mercato che si è creato dietro e a questi temi che ci sono anche nella loro assenza, non so se valga la pena dare una seconda chance e comprare il secondo libro, nella vaga e vana speranza che acquisti quel qualcosina che manca, oppure mandare tutto in malora e dedicarsi a qualcosa di maggior valore.
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- sì
- no
- 1984, G. Orwell
- La Fattoria degli Animali, G. Orwell
- Il Signore delle Mosche, W. Golding
- Il Mondo Nuovo, A. Huxley
- We, Y. Zamyatin
Questo momento
Non pensavo di iniziare questo libro così presto ma poche righe della prefazione e sono stata letteralmente conquistata... Perché tutti almeno una volta nella vita abbiamo avuto questo tempo dentro.
Che dire di questo testo? È una novità e come tale o lo si apprezza o lo si abbandona e questo è ben visibile dalle opinioni divergenti presenti in parecchi social reading. Lo stile è complicato e atipico, vero. Si suda parecchio prima di ingranare la lettura e con molta facilità si inceppa, vero pure questo. Ma credo che alla base di tutto ci sia solamente la necessità di rompere uno schema mentale, uno schema di layout di impaginazione dei libri. Se fosse stato scritto in modo "tradizionale", questo piccolo racconto avrebbe perso più della metà del suo fascino e, soprattutto, non sarebbe stato funzionale a descrivere l'emozione di base proposta già dal titolo.
Non so se sia stato per l'influenza della prefazione, o per la simpatia che ho provato nei riguardi dello stato d'animo che ha dato i natali a questo libro, ma sono ben convinta che la vicenda "del giallo" sia del tutto marginale. Ci sono più elementi al fuoco, ci sono cose che non si riescono a tradurre né con le parole né con la scrittura; bisogna leggerle perché, un po' come la nebbia, pur avendo una certa consistenza, allo stesso tempo sono impalpabili, sottili. Quindi no, questo libro non può essere solo un thriller, mi rifiuto di "leggerla" così. Le vicende sono secondarie e allo stesso tempo funzionali alla comprensione di questa nebbia così ingombrante e così incombente.
Passiamo ora a qualcosa di più "solido". Il libro si presenta come una piccola scatola cinese di carta: il tutto è eterno presente, un eterno stare dentro la testa dei personaggi a loro volta immersi nella nebbia fitta di Beaumont. Poche pennellate impressionistiche del paesaggio e dei suoi abitanti, il resto è lasciato allo scorrere di emozioni, impressioni, pensieri. La parola chiave è essenziale. Il testo propone il minimo indispensabile perché la realtà fisica non conta molto se non ad un livello metaforico.
Cosa non mi è piaciuto di questo libro? Beh, in realtà sono veramente pochi e del tutto minuscoli gli elementi che mi hanno dato fastidio. In primis forse l'ambientazione in America. Poteva essere benissimo immerso in un contesto nostrano, sia per la vicenda sia per il paesaggio. Voglio dire, Donato Carrisi scrive piacevoli thriller ambientati in Italia e Mauro Corona inserisce le sue storie in luoghi molto simili a Beaumont e poi... Posso assicurarvi che in Val Padana abbiamo tanta di quella nebbia che potremo darci all'export xD
Di tanto in tanto, ho trovato un po' stridente l'uso della punteggiatura e alcuni rari errori di ortografia. Salvo gli ultimi che possono essere benissimo delle sviste, in certi punti ho trovato la punteggiatura un po' caotica ma magari è un effetto desiderato...
Consiglio a tutti di leggere questo libro con un'attenzione un po' diversa e soprattutto consiglio di staccarsi durante la lettura dal modo tradizionale che abbiamo di pensare un testo, di portare pazienza con le prime pagine e di leggere oltre la nebbia.
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Tenetevi stretti il portafogli
Ho letto questo libro un paio di anni fa sotto un passa parola di una collega, in uno di quei momenti nei quali non sai bene cosa leggere e accetti qualunque consiglio. Ne scrivo la recensione solo perché ho visto che a breve verrà pubblicato quello che credo sia il sequel e mi sento ispirata ad un opera di bontà: perché altri non commettano l'errore di spendere male il proprio denaro... Vi prego, è per il vostro bene!
E' domenica e siete in spiaggia? Avete del tempo da perdere? Bene. Se proprio non sapete che fare, state aspettando che cali la sera ma non volete impegnare la mente questo è il vostro libro.
Banale è l'aggettivo migliore per descrivere questo "romanzo". La storia già dai primi capitoli si rivela essere alquanto scontata, scontatissima. L'idea di fondo sarebbe anche carina ma il suo "fascino" è schiacciato da tutta una serie di "sviste" dell'autrice stessa. Con tutta la mancanza di stima che provo per Moccia... La Trussoni è il suo corrispettivo americano di genere fantasy.
La banalità della storia è data sostanzialmente da una mancanza di articolazione ed approfondimento della trama: praticamente ogni volta che i personaggi si cimentano nelle indagini, il lettore sa esattamente come si svilupperanno le tracce e sopratutto a chi porteranno. I personaggi? Piatti, stereotipati e in certi momenti veramente insopportabili. Il finale poi è di una banalità mostruosa: la protagonista scopre di essere il personaggio più potente, il bene trionfa sempre, immagini gloriose di personaggi che, molto Marvel-style, stanno sopra i grattacieli ad osservare la città... Mancava solo una voce esterna con il "vissero per sempre felici e contenti" a chiudere il quadro.
Quello che mi ha fatto letteralmente imbestialire è stata la totale mancanza di suspense in un libro che è a metà tra un giallo d'investigazione e un fantasy. Non è quello che ci si aspetta quando acquisti un testo di quasi 500 pagine! Certo, fin da quando metti mano al portafogli sai di non star comprando un capolavoro, ma diamine sono pur sempre 500 dannate facciate! Non si possono svolgere intere indagini nel tempo di una tazza di caffè, arrivando quasi subito alla conclusione!
Molto chiaramente: più che un romanzo, questa è la sceneggiatura di un film tipicamente americano. Comprarlo? Assolutamente no.
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Il demiurgo è un ibrido
Romanzo unico nel suo genere, unico perché è il solo romanzo di Kubin, unico perché è veramente difficile spiegare o dare un giudizio al libro.
Forse stridente e angosciante sono gli aggettivi migliori per descrivere Perla, la capitale del Regno del Sogno e ciò che gli accadimenti suscitano nel narratore/protagonista e in noi lettori. La vicenda è letteralmente inafferrabile, il mondo onirico descritto da Kubin è totalmente privo di leggi, di ordine e di logica; è un terreno scivoloso dove il pensiero, così come lo si considera normalmente, trova terreno sterile e non può attecchire. Ed è giusto che sia così, non si può comprendere "l'altra parte" seguendo l'ordinario, lo stabile e il precostituito.
Su questo romanzo si leggono molte recensioni negative e per lo più si soffermano sulla forma che, è vero, non è delle più piacevoli ma al tempo stesso è la più adatta a ricreare l'atmosfera fumosa e sfuggente del mondo da incubo.
"L'altra Parte" è un romanzo che ti lascia tutto e niente, ti porge l'universo e poi lo fa sprofondare davanti ai tuoi occhi.
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Anatomia del dolore
Mi piacciono i libri di Giordano perché sono veri. Non è obbligatorio che una storia che finisce con una distensione, debba avere per forza un un lieto fine. E di questo l'autore pare esserne pienamente consapevole. Giordano scrive di vita "reale", di emozioni che diventano talmente tanto presenti, da esserne le vere "silenti" protagoniste.
La storia, come nel precedente romanzo, scorre deliziosamente. L'autore non si perde in leziose e noiose descrizioni e preferisce che siano, in un certo senso, le azioni a parlare e a delineare i contorni delle figure e anche dei paesaggi.
Nonostante abbia veramente apprezzato il libro nel suo complesso, non posso dire di sentirmi soddisfatta appieno per la scelta della vicenda. L'aver scelto di focalizzarsi su di un piccola fetta di vita di un contingente italiano in Afghanistan, è il motivo per il quale ho deciso di togliere un voto. Ammetto che è un mio capriccio personale perché ho un'avversione profonda per tutto ciò che riguarda e rappresenta l'Esercito. E questa antipatia è stata rafforzata dalle implicite "frecciatine" che il narratore fa. Le persone comuni vengono spregevolmente definite come "i civili"; tutto ciò che non ha a che fare con pallottole, vestiti mimetici ecc. è declassato a "roba di serie B" (indifferentemente se siano cose o persone). In parole povere, anche se il narratore non è un soldato, la sua voce e la sua mente appartengono all'Arma.
Ciò che mi ha letteralmente creato una sorta di ribrezzo interno è stata l'elevazione della guerra a "rito di passaggio". Essa è per i più giovani la linea di confine tra adolescenza e vita adulta, mentre per i più anziani è motivo per tagliare i ponti con gli errori del passato e ricominciare seguendo "la retta via". Ma caro Paolo Giordano... Con tutto quello che di difficile e doloroso può attraversare una vita, tu "elevi" una cosa così spregevole come una guerra a ciò? Definisci il farsi disintegrare a colpi di bombe come qualcosa di eroico? Vabbè... E infine a coronare il disgusto è arrivato il solito cliquè del soldato donna che è prostituta del gruppo e ovviamente membro più imbranato dell'intera fob. Maschilismo gratuito. Parentesi chiusa.
Concludo dicendo che personalmente, ciò che "ha fatto" questo romanzo, non è la serie di disavventure che accadono al gruppo Charlie, bensì sono gli intermezzi della vita del tenente Egitto e delle sue riflessioni che analizzano il dolore, un po' come se questo fosse un corpo inanime sul tavolo d'obitorio.
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Nobel (?)
Ho preso in mano questo romanzo carica di tutte quelle aspettative che ci si fanno quando si sa che il testo che si sta per leggere ha vinto un Nobel. Così si inizia, ci si informa sul background culturale che ha fatto nascere questo romanzo, sulla "Lost generation", su Hemingway. Poi un lungo respiro e si apre il libro. E quando lo si termina ciò che si sente in bocca è un retrogusto amaro che non vuole passare.
Da quello che è considerato il romanzo-capolavoro di Hemingway, mi aspettavo qualcosa di molto più profondo. Desideravo fortemente che fosse uno di quei libri che ti lasciano un messaggio dentro.
In un primo momento l'ho trovato invece abbastanza piatto e ricco di tutti quei personaggi che non apprezzo nemmeno nella realtà. Non trasmette quel disagio esistenziale che dovrebbe permeare ogni singola parola del testo, non ci sono dialoghi che facciano trasparire la profondità o l'intensità delle emozioni. Niente. Immagino che sia una definizione denigrante e superficiale ma, in breve, ciò che ho letto mi ha dato l'idea di un manipolo di amici che trascorrono il loro tempo a bere, dedicandosi al dolce far nulla. Sarebbe questa la rappresentazione del disagio interiore della "Generazione perduta"? Di una generazione che ha vissuto e combattuto nella I Guerra Mondiale? Bere e vagabondare per riempire il tempo? È pericolosamente vicino a ciò che fanno anche molti rappresentati della mia generazione. Quindi a questo punto esiste una "Lost generation 2" anzi... Una "Lost generation 2.0" che la guerra l'ha letta (forse) probabilmente su Wikipedia... (Mi scuso per le frecciatine ma purtroppo sono tristemente vere).
Poi a distanza di giorni ci ho ripensato, e ammetto che forse la rappresentazione è anche azzeccata sotto certi aspetti. L'unica cosa che ancora mi lascia amareggiata sono i dialoghi, che appaiono alquanto superficiali e vacui. Dov'è la disperazione per la propria condizione?! Dov'è la consistenza di questo dialogare a vuoto? Neppure il personaggio-guida della vicenda, Jacob Barnes, che per certi versi dovrebbe fare le veci di un "eroe" (o di un anti-eroe a questo punto), finisce col essere esattamente uguale al resto della compagnia verso la fine della storia.
Cosa ho "portato a casa" di questo libro? Una piacevole sensazione data dalle descrizioni paesaggistiche e nuovi modi per definire aulicamente ed educatamente alcuni dei miei coetanei.
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Grandi turbamenti
Ancora una volta sono rimasta stupita dalla mia ignoranza: ammetto che in tutta la mia carriera di lettrice e di studente non ho mai sentito nominare nemmeno una volta il nome di James. Mi sono sentita un pozzo di stupidità e non voglio celare che il primo pensiero rivolto all'autore e al libro è stato: "ah, se non lo hai mai sentito un motivo ci sarà...". Poi un po' alla volta, con l'aiuto delle lezioni e con una piccola ricerchina in internet, ho visto che in realtà non è James lo sconosciuto: a lui sono riconducibili opere come Daisy Miller, Gli Ambasciatori, Ritratto di Signora e Il Giro di Vite, titoli già più noti. Così per un po', mi sono data semplicemente della stupida... Mi rimaneva però il dubbio del perché avevo fatto fatica a trovare informazioni su questo romanzo. E il pensiero del "un motivo ci sarà" è tornato a galla. Scoprendo poi che il libro in Italia è andato fuori produzione (potete reperirlo solo in biblioteche o in formato e-book), ho cominciato a solidificare la mia convinzione. Aprendo il libro ho avuto conferma.
Non ho mai letto altri libri di James ma su questo ho le idee chiare. E' un libro molto difficile da leggere per la comunità di lettori del XXI secolo (o forse a me mancano le giuste basi culturali per apprezzarlo). Sta di fatto, che se non si hanno nozioni specifiche in ambito artistico (pittura rinascimentale e del '700), della lingua francese, della Rivoluzione francese e di un'indescrivibile numero di piccole altre informazioni culturali, difficilmente si apprezza lo spessore di questo libro. Nozioni che all'inizio del '900 erano del tutto conosciute, forse per noi e per me un po' meno.
Certamente non ha una trama consistente, l'ho trovata un po' banale con temi ripescati dal Romanticismo e dalla letteratura gotica: una ricca ereditiera americana, malata, alla ricerca dell'amore ma raggirata per mettere le mani sopra il suo patrimonio. Più e più volte si fa notare che non è la trama in sé che rende questo libro un capolavoro, bensì come è espressa; la maestria dovrebbe stare proprio qui. Sinceramente non apprezzo i libri pre-modernisti, in un certo senso sono ancora legati al Realismo/Naturalismo, periodo letterario che, personalmente, non ispira le mie simpatie. E purtroppo questo libro è pieno di riferimenti alla letteratura naturalista.
Nonostante abbia cominciato ad apprezzare i romanzi in lingua originale, questo è particolarmente duro da leggere in inglese: su di una stessa riga ci sono almeno venti parole misconosciute e una serie di "it" che non ti fanno capire chi sia il soggetto della frase. Dopo il primo centinaio di pagine così, mi sono catapultata sulla traduzione in formato e-book. Con la speranza che almeno in italiano iniziasse a piacermi, ho continuato a vedere il romanzo come un'accozzaglia di dialoghi su temi inutili, campati dal nulla che non portano a niente. E comunque non è che la difficoltà di comprendere il filo logico di questo enunciato cambi... Anche in italiano una fatica immane per leggere due pagine, capire chi è il soggetto di cosa, qual'è il succo di questo dialogo, dove arriveremo...
Personalmente ve lo sconsiglio, non lo leggerei pure io se non fosse strettamente necessario. E' un libro che non ti dà un attimo di pace perché ogni singolo gesto, ogni singola parola ha un peso estremo all'interno del romanzo. Amo le letture impegnative ma credo che la lettura dovrebbe essere anche piacere. Un impegno piacevole, ecco. Se si passa il tempo solamente a pensare quale dannato significato ha ogni singolo elemento, il piacere si perde e subentra solo un gran mal di testa...
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I pensieri di un giovane
E' il primo romanzo proveniente dal Paese del Sol Levante che mi sia mai capitato tra le mani, e devo ammettere, che questa lettura nipponica mi ha letteralmente conquistato nonostante un iniziale scetticismo. Se questo è lo stile di Murakami allora non vedo l'ora in futuro di leggere un altro romanzo!
Il contenuto di questo libro è riportato con uno stile, che azzarderei a dire, poetico; una poesia delicata che ti rimanda continuamente all'immagine degli alberi di pesco in fiore. Il fatto che i personaggi non vengano descritti materialmente a 360°, dà largo spazio all'immaginazione. In particolare ho apprezzato il fatto che più di tante descrizioni fisiche, il lettore facesse conoscenza dei personaggi più attraverso dialoghi, monologhi o pensieri. Ciò ha contribuito a rendere un po' "fumose", "ectoplasmiche" le loro figure, tanto che a volte sembrano solo pensieri che interagiscono tra loro.
E' l'unico vero libro che consiglierei anche come letteratura per ragazzi: un libro molto introspettivo che esula dalle solite storie di eroi/eroine in preda a strambe vicende amorose. Questo testo contiene tutte (o comunque molte) tematiche che attraversano la mente dei ragazzi che si trovano sospesi tra l'adolescenza e il mondo adulto. Un'altra delle cose che ho apprezzato in un libro che tratta di ragazzi, è la presa in considerazione di tematiche esistenziali (finalmente!!!) e non solo dell'intricata storia d'amore.
Passiamo ai personaggi: il protagonista T?ru, per qualche strana ragione, che non riesco ancora a spiegarmi del tutto, non è riuscito a simpatizzare con me. Nonostante non manchi di introspezione, l'ho trovato un po' come dire... Privo di energia vitale, un protagonista che lascia che il romanzo lo attraversi senza fare nulla, con meno spessore rispetto ad un personaggio come Naoko. Ma vista la sua età, il non assumersi mai pienamente le proprie responsabilità è, in parte, anche giustificabile.
Nonostante tutti i commenti sfavorevoli che si leggono su questo libro, personalmente sono contenta che le scene sessuali siano state descritte, anche con il loro grado di specificazione. Contestualizzate all'interno del romanzo (quindi con tutto quello che ci va dietro) rendono l'atto del tutto naturale (come dovrebbe essere anche in molti altri libri).
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Accertamento della verità
È un'opera teatrale basata sulle note che il giornalista Peter Weiss, prese durante il processo contro i crimini commessi dalle SS e dai funzionari del lager di Auschwitz. Il processo in questione fu il primo voluto dai tedeschi per giudicare i crimini da loro commessi; ebbe luogo a Francoforte e durò 2 anni, dal 1963 al 1965 (tanto quanto quello di Norimberga 1946-1948).
Ogni singola parola in queste pagine è stata veramente proferita, poiché Weiss, presente in aula, riportò su di un taccuino l'intero verbale. Il testo quindi non è stato toccato in nessun punto e nemmeno adattato per la sua rappresentazione teatrale.
La cosa che più colpisce di questo libro - oltre al suo contenuto - è il modo in cui sono sistemate le parole sulla pagina. Scivolano via, manca quasi totalmente la punteggiatura, le frasi si spezzano, si sospendono mentre i continui enjambement ti spingono più volte a fermarti e riprendere la frase da capo. Le prime righe danno l'impressione di essere metalliche, stridono perché la visione che abbiamo di una trascrizione è totalmente opposta al modo con cui ci viene proposta qui.
Il titolo "Istruttoria" non corrisponde esattamente al termine tedesco (die Ermittlung). "Indagine", "accertamento della verità" sono due termini che si avvicinano di più al significato reale. Vale spendere del tempo anche per analizzare il sottotitolo ("Oratoria in undici atti"). L'oratoria è un canto di voci maschili di origine medioevale con una grande valenza spirituale che, in un certo senso, stride con il termine giuridico. È simbolico il numero 11, che accostato al termine oratoria, ricorda la partizione in 33 canti della Divina Commedia dantesca. Le pene descritte poi si riallacciano perfettamente ad una visione dell'Inferno sulla Terra.
21 sono in totale le anime che popolano queste pagine: il giudice, il procuratore, l'avvocato difensore, 18 accusati e 9 testimoni. Degli accusati vengono citati i nomi mentre le vittime rimangono anonime e preferiscono essere chiamate tramite un numero identificativo (esattamente come succedeva dentro al lager). Grottesco che i testimoni siano la metà dei loro aguzzini come grottesco è il comportamento che questi ultimi tengono in aula.
Non spenderò una parola in più per consigliare questo libro. Credo che per il solo contenuto vada letto e come lui, tutti i libri sulle atrocità che gli uomini compiono sui loro simili.
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Rovistando qua e là
Sistemando e riordinando la libreria per l'arrivo di nuovi "pargoli", è spuntato fuori anche il mio "Tre metri sopra il cielo": libro che avevo completamente scordato di possedere e ora che ne ho la possibilità, mi piacerebbe "sfogarmi". E vorrei farlo alla luce di come la pensavo quando lo presi in mano 7-8 anni fa.
Quando lo lessi avevo più o meno 13-14 anni. Lo lessi in contemporanea con quello che allora era il mio gruppo di lettura del liceo e ricordo che tutti declamammo la sentenza all'unisono: "Raga, ora che abbiamo sprecato del tempo, che si legge di meglio?". E lascio dedurre.
Non può essere descritto come un grande romanzo o un capolavoro. Il fatto che sia stato velocemente dimenticato da me e da molti altri, è la prova evidente del suo essere un libro prettamente commerciale. È una storia adolescente per adolescenti. Il successo viene probabilmente dal fatto che è una love-story: possiede quel genere di contenuto che riesce ad attirare su di sé tutta quella vergognosa attenzione commerciale (mi riferisco al film e al resto della propaganda). Per non parlare di tutta quella pubblicità occulta di marchi e brands... Rabbrividisco ancora al pensiero. È un motivo in più per stereotipare la figura media dell'adolescente e per fomentare il "cosa avere per essere accettato come un membro del gruppo".
Passando allo stile, sottolineo il fatto che io non sono un'amante dell'aggettivazione e dunque ho trovato noioso l'andamento del libro. Prima di trovare un sostantivo dovevi leggere almeno quindici aggettivi e poi forse forse la storia continuava. Un eccesso di aggettivi è motivo di disturbo dell'attenzione, ma questa e la mia personale visione della narrazione.
La storia l'ho considerata banale. Il giovane tenebroso e problematico che si innamora della bionda "innocente" ragazzina, è per certi versi, uno strascico di una caratteristica dei racconti di Lord Byron. Per me non è nulla di nuovo. Parlando d'amore e compagnia, mi sento in dovere di riportare il commento di due delle mie ex compagne lettrici che all'epoca erano nel pieno del loro amore adolescenziale: "Pfff! Ma dai! Forse in un mondo parallelo!"; "Certe cose accadono solo nei film o nei libri..."
Poi tutte le vicende che accadono parallelamente alla storia di Babi... Boh nulla di eccezionale. Sono situazioni che accadono tutti i giorni e le si possono udire tutti i giorni anche passando in cartolibreria o in panificio. Chiacchere di paese, come le chiamano.
L'unico apprezzamento che mi sento di muovere a favore di questo libro è che può essere un verosimile spaccato della vita di adolescenti nella città capitolina. Insomma il suo essere banale è il pregio ed il difetto di questo libro. Personalmente è più un difetto. Ho apprezzato molto anche i ringraziamenti che Moccia a fatto alla donna che ha curato la sua grammatica. Scriverlo in un libro è un grande gesto di umiltà e di riconoscimento dei propri limiti.
Se consiglio di leggerlo? Ovviamente no, la letteratura è ricca di esempi di scrittura e di temi (anche amorosi) affrontati in modo migliore e la vita (dicono) è breve. Al limite potete tenerlo in borsa a tirarlo fuori per occupare quelle pause morte: fila alle poste, in sala d'attesa dal dentista ecc. Ma sono sicura che lo cambiereste per qualcosa di migliore.
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Genericamente dettagliato
Se state cercando un testo storico che vi parli degli Stati Uniti nel periodo che va dal 1876 al 2006 (fino alla presidenza di George W. Bush per intenderci), allora questo è un libro che può fare al caso vostro.
Non mi dilungherò a descriverne il contenuto perché, punto primo, non vorrei annoiarvi con 130 anni di accadimenti storici e, secondo, perché insomma è storia e la storia è: non ci sono metafore o aneddoti da spiegare...
Il titolo di questa recensione è "genericamente dettagliato" perché questo libro contiene tutti gli accadimenti più importanti che potevano entrare nelle circa 300 pagine di cui è composto. Mi spiego meglio. È un testo che informa di più di quanto non faccia un generico libro di storia (ovviamente perché si concentra solamente su di un Paese) e quindi può definirsi dettagliato; ma rimane comunque generico poiché, a parer mio, condensare 130 anni in sole 300 pagine è un po' poco. Per ovvi motivi.
Ciononostante non è noioso o malamente scritto. Ci sono frequenti "piccoli focus" sugli accadimenti che hanno avuto una eco maggiore, continui riallacciamenti con le situazioni che accadevano in Europa in contemporanea con gli eventi descritti e moltissime citazioni di romanzi/testi/titoli di articoli che possono aiutare al ad una maggiore comprensione. Sebbene sia un testo che ha per la natura stessa della materia una base scientifica, si "sente" che è un testo scritto da una persona esterna al continente americano. E ciò implica anche certe considerazioni implicite (buone o meno) che a volte saltano fuori.
Poi per il resto... È un testo di storia, insomma! :)
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La forza delle idee
Faccio una breve digressione per illustrare brevemente l'autrice. Cito il primo paragrafo dell'introduzione:
"Forse nessun'altra donna - ha scritto Allen Davis - in nessun momento della storia americana è stata venerata e adorata come lo fu Jane Addams nel periodo precedente la Grande Guerra". Dall'anno della sua morte, avvenuta nel 1935, alla metà degli anni '60, la figura di Jane Addams è stata avvolta da un'aureola di santità che ne ha oscurato la radicalità del pensiero. "Saint Jane" diveniva così un modello di carità cristiana, da onorare più che imitare; la sua opera riformatrice è stata confusa con la filantropia; le finalità del social settlement di Hull House con le aspirazioni di un cuore generoso".
Questa donna fu Premio Nobel per la Pace nel 1931. Femminista, pacifista, quacchera con un grande amore verso la società e in particolare grande amore per tutti coloro che subirono "l'oltraggio sociale" nella crescente città industriale di Chicago tra gli anni 1890-1920 circa.
Nel 1889 fondò il settlement di Hull House in un quartiere chiave: crocevia commerciale di Chicago ma anche sede dello sfruttamento industriale delle tantissime comunità di immigrati europei e russi. Prese a cuore le loro situazioni e votò la sua intera esistenza a battersi per migliorare le loro condizioni. Il settlement oltre a fornire delle stanze per le innumerevoli attività e aiuti che vi si svolgevano, divenne il centro di un'opera riformatrice per il miglioramento della società. Grazie all'aiuto dei frequentatori del settlement, degli abitanti del quartiere - i "vicini" come li chiamava Jane - e di innumerevoli altre personalità, molte furono le migliorie che riuscirono ad apportare. Il tribunale dei minori; la riduzione dell'orario di lavoro per donne e giovani; una legislazione protettiva contro lo sfruttamento minorile; una forma di risarcimento per vedove, donne abbandonate e anziane: questi sono solamente degli esempi.
Socia e fondatrice di innumerevoli associazioni a favore della causa umana: da quelle femministe, abolizioniste e in seguito, allo scoppio della I Guerra mondiale, a favore della pace.
Proprio a causa del suo fervente pacifismo venne nominata "una delle donne più pericolose d'America" ed infine dimenticata.
Passo ora al volume. Questo libro è una raccolta di alcuni dei suoi saggi (questa donna vanta la maternità di oltre 30.000 scritti!) tra i più importanti. Sono, come cita il sottotitolo, "scritti sull'etica sociale" e variano su temi come il femminismo (di fine '800, inizio '900), i problemi di una città industriale, il movimento operaio, il rapporto giovani-industria, gli immigrati e il suo rapporto con la carità.
Una delle cose che mi è piaciuta di più, è che questi saggi non sono dei trattati astratti sull'argomento. I saggi trattano i temi dal punto di vista esperienziale e sono ricchi di esempi e citazioni di opinioni di chi viveva quelle situazioni. Ogni breve testo riesce a trasmettere l'amore che questa donna provava nei confronti dell'umanità. A mio parere trasmettono un'idea equilibrata di pensiero socialista e filosofia cristiana dell'aiuto al prossimo, ma emanano anche tutta la forza e la decisione delle intenzioni di Jane Addams. Ella non credeva nella utopia di una società perfetta ma aveva comunque una grande speranza nel suo graduale migliorarsi attraverso la presa di coscienza dei membri stessi. Ed è forse per questo che volle scendere dal suo posto in società per andare a vivere in mezzo alla gente: per cercare di alleviare le sue necessità impellenti per poi elevarla eticamente.
Non sono presenti toni sdolcinati o di pietà per i soggetti descritti, in nessun paragrafo si desume un tono di superiorità rispetto alla povera gente. Fatti puri e concreti unite a soluzioni altrettanto concrete.
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In principio erano gli Stati Uniti...
Cosa c'entra il concetto di predestinazione con gli USA? Perché gli americani sentono quest'impulso di spadroneggiare sul mondo e perché ci "snobbano" di continuo col loro senso di superiorità? Chi è il diverso e come lo si deve trattare? Questo libro, con qualche aggiunta di ricerche personali, dà la risposta -più o meno esaustiva- dei tanti perché che attorniano la questione America.
L'opera è il primo vero best-seller americano. La protagonista è Mary Rowlandson: una donna puritana che giunse nel Nuovo Mondo a bordo della Arabella attorno al 1650. Dalla Massachusetts Bay Colony, seguì il marito a Lancaster, lungo la famigerata frontiera. Questo avamposto venne in seguito attaccato dai nativi in una battaglia della Guerra di re Filippo (1675-1676). L'intera famiglia venne fatta prigioniera, smembrata e ogni componente fatto schiavo da parte di differenti gruppi di indiani.
Il libro nacque dalla rielaborazione, un anno più tardi, di quella straordinaria esperienza che la donna fece nella wilderness. Undici settimane e cinque giorni in compagnia dei "selvaggi": esseri rozzi, fuori da ogni grazia di Dio, che non conoscono leggi o civiltà ma che, anzi, la attaccano così come sfidano il popolo eletto dalla Provvidenza.
Il libro non si suddivide in capitoli, bensì in “spostamenti” durante i quali sperimenta la vita fuori dall'amata comunità, si adegua ai modi rozzi di sopravvivenza dei nativi. Ma Mary non si abbassa al loro livello, fa proprie quelle informazioni “primitive” pur rimanendo sempre fedele ai suoi principi ma sopratutto alla legge di Dio. Ed è proprio la Provvidenza che le fa avere, tramite un'anziana donna indiana, una copia della Bibbia saccheggiata in un'altra comunità. E forse il segno che Dio non l'ha abbandonata? Secondo Mary sì. L'antica scrittura le dà la forza ogni volta che sente di star per cedere e l'accompagnerà sino alla sua liberazione –dietro pagamento di un riscatto di 20 dollari da parte del marito-.
La storia di per sé non è entusiasmante, così come non lo è lo stile della Rowlandson. E' un testo di lettura non difficile, quanto veramente pesante, almeno così lo è stato per una non-credente come me. Ammetto che non mi sarei mai avvicinata ad un testo del genere se non fosse stato da studiare per un esame. Sarà per il mio difetto, ma ogni qual volta che l'autrice paragonava se stessa all'eroe biblico di turno, mi assaliva la voglia di fare di questa donna pulviscolo atmosferico. Per non parlare della tolleranza verso le altre culture... Qualcosa di totalmente fuori dal mondo. Ma va bene, se si mettono da parte le credenze personali e lo si prende come un testo dell'epoca si arriva fino in fondo.
Tuttavia certi tratti del comportamento e del pensiero puritano sono ancora fortemente intrecciati con gli Stati Uniti odierni; ed è per questo che in qualche modo, lo consiglierei a tutti coloro che vogliono approfondire la conoscenza di quella parte di mondo senza affidarsi alle descrizioni fatte dai Media. Sicuramente troverete i tratti dell'arroganza, della megalomania e del fervore religioso che tutt'oggi pervadono il Paese.
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Aggiungo un ultimo commento personale per evitare fraintendimenti che ho notato nascere dai commenti (ringrazio coloro che mi hanno fatto queste sottolineature).
Con questa recensione non intendo offendere nessuna persona credente, mi scuso per i toni. Per chiarire determinate affermazioni, c'è una risposta ad un commento che spero possa essere di aiuto.
Inoltre non intendo affermare che i comportamenti citati siano una prerogativa di tutto il popolo americano.
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C'erano una volta i pilastri della pazienza...
E' passato quasi un anno dall'ultima volta che presi in mano questo libro. Non avrei mai pensato di finirlo e, per mooolto tempo, ho accarezzato l'idea di inserirlo nella sezione "Romanzi abbandonati". Ma personalmente non amo lasciare le cose incompiute, specialmente se sono libri, specialmente se sono libri-sfida.
Di certo non si può dire che "I pilastri della Terra" non sia un romanzo ambizioso. Nonostante sia una storia romanzata, si percepisce che sotto la trama sussiste uno studio dell'epoca e credo sia possibile leggere un piccolo saggio di storia tra le righe. Mi limiterò a dire che "ambizione" è il sostantivo chiave di tutto il romanzo, la quale partendo proprio dalla penna dell'autore, percorre tutte le pagine fino all'ultima riga. E con la stessa parola apro e chiudo la parentesi di elogio a Follett.
Non posso negare di non aver apprezzato questo libro, come del resto non posso dire che mi sia piaciuto. Sarà un giudizio banale e superficiale, ma ciò che ha reso questo romanzo letteralmente snervante, è stata la sua eccessiva lunghezza. La prima metà del romanzo ti avvolge e ti coinvolge con i suoi misteri, con le varie relazioni e le trame che si tessono l'una con l'altra. Ma superata una certa soglia, tutta la magia scompare: il tempo rallenta fino a riprodurre la lentezza stessa dei ritmi medioevali e tutto il coinvolgimento lascia spazio alla noia. La seconda parte del romanzo entra come in fase di stallo, il tutto diventa prevedibile e il grande mistero annunciato dalle prime pagine viene dimenticato, sommerso da un mare di parole, capitoli e sottocapitoli.
Alcuni dei personaggi principali non hanno nulla di speciale, anzi per molti versi, mi hanno ricordato quelli delle favole ambientate in tempi pseudo-medioevali. La scorrevolezza non è male e nemmeno buona.
Non posso infine non dire che questo romanzo non abbia di per sé anche una buona dose di ambiguità. Ci sono determinate metafore architettoniche -ad esempio la costruzione della grande cattedrale di Kingsbridge o l'erigere costruzioni in generale- che non riesco ancora ad interpretare in modo mirato. Costruire enormi strutture è sinonimo dell'ambizione umana, la quale se troppa viene castigata dal fato; oppure costruire e riparare un edificio è metafora della costruzione e/o cura delle relazioni che una persona tesse, o per meglio dire, poggia mattone per mattone durante tutta la sua vita?
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Una linea creata col sangue
Dimenticatevi il film di Burton. Dimenticate un cast di attori, luci, copioni ecc. Dimenticate il fatto che sia un musical.
Chiudete gli occhi e assaporate il buio. Gustate l'oscurità dell'animo umano.
L'autore è sconosciuto, si dice che in realtà sia stato scritto da un manipolo di giovani, noti al pubblico con lo pseudonimo di Salisbury Square School of Fiction. La storia di Sweeney Todd, seppur romanzata, fu ispirata da un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1700 circa. Di Todd fu accertata addirittura l'esistenza.
Il mio consiglio è di lasciar perdere la rivisitazione cinematografica e leggere il libro prima. Per chi come me ha seguito questo iter, avrà sicuramente notato che la storia del romanzo differisce in modo quasi opposto a quella raccontata nel film. Se non siete fans sfegatati di Burton, vi consiglio di cestinare a priori l'idea di vedere il film.
In compenso se l'idea di una Londra gotica e sanguinaria vi appassiona, questo sarà un romanzo che di certo vi conquisterà. Oltre alla storia del barbiere ne vengono raccontate altre due: quella di una giovane ragazza in attesa del ritorno del suo amato e quella del negozio di Margery Lovett che si sta creando un nome grazie a dei deliziosi pasticci di carne. Ovviamente le tre vicende sono legate da un sottile rivolo di sangue. Dove vanno a finire i clienti di Sweeney? Dove si troverà mai lo sconosciuto innamorato? Cosa accade nel seminterrato della bettola?
Tutti quesiti che avranno una agghiacciante risposta nel seno di una Londra fortemente divisa tra ricco e povero, nelle nebbie e nella sporciazia che circondano sempre l'atmosfera della città.
Ovviamente non è un Nobel della letteratura, poche pagine potrebbero rivelarsi noiose ma è comunque uno di quei piacevoli romanzi "perditempo".
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Una cicatrice mai guarita
"La storia, o meglio, la storia che ci riguarda, è un cesso intasato. Continuiamo a tirare l'acqua, ma la merda torna sempre a galla."
Grass ripercorre una storia accantonata dai tedeschi: la storia delle proprie vittime, la storia dei tedeschi delle provincie orientali in fuga dall'Armata rossa.
Il titolo più che alla storia, si riferisce al metodo utilizzato per riprodurre questa vicenda ossia saltando di qua è di là tra le varie storie costituenti. Le vicende raccontate non sono moltissime ma ogni tanto ci si perde nell'intricata trama che esse tessono. Tutte vertono attorno al nome di Wilhelm Gustloff: un martire del nazionalsocialismo, ucciso dall'ebreo David Frankfurter, di cui in seguito si varerà una nave da crociera KDF portante il suo nome. Su questa nave nascerà Paul proprio nel momento in cui Marinesko, comandante di un sottomarino sovietico, ne ordinò l'affondamento mentre la nave trasportava circa 10.000 profughi tedeschi in fuga.
Due date importanti:
27 Gennaio 1945: apertura dei cancelli di Auschwitz, rivelazione dei crimini nazisti.
30 Gennaio 1945: affondamento della Wilhelm Gustloff, vicenda dei profughi tedeschi.
Coscienti dei loro errori, è possibile che i tedeschi abbiano sottaciuto i loro dolori perché a loro volta ne avevano inflitti di peggiori?
Secondo Grass sì. Ed è per questo che Paul ha una vicenda familiare disastrosa: suo figlio Konrad, imbevuto di una storia che non gli appartiene a causa delle continue sollecitazioni della nonna Tulla, uccide un finto ragazzo ebreo per pareggiare i conti.
Le generazioni di Grass e di Paul sono colpevoli di non aver raccontato il dolore tedesco quando avrebbero dovuto. Una delle cause della nascita del neonazismo in Germania.
Nonostante la questione sia veramente delicata, Grass non sfocia mai in una celebrazione di nazionalismo. Critica la propria società per non aver affrontato una questione che forse avrebbe evitato la nascita di movimenti filonazisti nel nostro secolo.
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Il segreto di Carrisi
Carrisi non si smentisce! Lo stile è quello del precedente romanzo, facilmente scomponibile ma di effetto. Una serie di personaggi, dapprima sconosciuti tra di loro che si uniscono lungo la vicenda per mettere insieme i vari tasselli del puzzle, ognuno porta il proprio. Carrisi si focalizza per poche pagine su di un singolo, lasciando il lettore ogni volta ad un passo da una nuova scoperta e poi... Poi passa ad un altro ripetendo lo stesso procedimento. Insomma una suspense continua.
Particolari sono i suoi personaggi ovviamente attinti dal suo percorso di studi sul comportamento e sulla criminologia. Ci mette sempre un dettaglio che noi lettori non ci immagineremo mai.
Una volta svolta la matassa di situazioni il romanzo diventa un thriller classico, nulla di speciale ma intanto sa come tenerti sulle spine.
Molto carine alcune riflessioni sul tema della morte e sull'indole umana.
Si nasce malvagi o lo si diventa?
Non ha grandissimi temi, lo consiglio se si vuol leggere qualcosa di "leggero" a livello tematico ma comunque piacevole.
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Una vocale scarlata, un mondo.
Hawthorne pone dei dubbi sulla storia americana. Si chiede se la loro vicenda raccontata così come lo è stata - presentando i puritani come unico modello giusto - sia stata realmente la verità storica.
Il libro si divide in due sezioni: la vicenda non totalmente autobiografica della dogana di Salem e il romance vero e proprio.
La sezione della dogana è interminabile. Voci/studi affermano che l'autore l'abbia inserita seguendo i consigli del suo editore perché il testo sarebbe risultato troppo corto altrimenti. Sinceramente non mi sarebbe dispiaciuto. Utilizzando il narratore, Hawthorne ha raccontato una vicenda realmente accaduta nella sua vita con l'inserimento di alcuni elementi meramente fantastici (il ritrovamento della lettera ad esempio). Una sezione funzionale allo scopo di protesta personale (le paure per i cambi nelle vicende politiche, Hawthorne perse due volte il posto di lavoro alla salita dei Whig) e un po' meno per introdurre la storia.
Il contenuto letto in senso metaforico è stupendo: la colpa dove sta? Esiste un vero colpevole? Un unico colpevole? Hester credendosi ormai vedova ha fatto bene ad andare avanti con la propria vita? E' stato giusto tacere la propria colpa dinnanzi alla propria comunità come ha fatto Dimmesdale? La vendetta di Chillingworth è giustificata? La Verità così come l'hanno tramandata è veramente tale?
Hester simbolo dell'arte, come lo dimostrano i suoi ricami, è una donna forte, opposta sia nell'aspetto che nell'animo rispetto alla massa omogenea di grigi puritani. Nonostante la diffamazione e il peso di un peccato va comunque avanti.
Pearl: il frutto del peccato. Una bambina che più che un essere umano sembra un folletto, un abitante delle fiabe.
Dimmesdale il reverendo dilaniato tra l'amore per la comunità e Dio ed Hester che pagherà a caro prezzo il suo "dualismo".
Chillingworth lo scienziato consumato nell'animo, l'unico a comprendere come veramente stanno i fatti e la cui vendetta diventerà l'unica ragione di esistere.
Per quanto la vicenda sia appassionante a livello metaforico, è stata mal riprodotta a livello stilistico. L'ho letto in inglese è non mi è piaciuto. L'ho riletto in italiano e ne ho ricavato una spiacevole conferma. L'eccessiva aggettivazione ha avuto un effetto soporifero. Non mi è mai capitato un libro che conciliasse il sonno così bene. Le vicende personali sono ripetute eccessivamente, ci sono dei punti in cui la narrazione non prosegue per interi capitoli, si batte il chiodo sempre sullo stesso punto e personalmente non amo situazioni di stallo troppo lunghe.
Nonostante sia considerato uno dei capolavori di Hawthorne, non è il migliore, i Twice-told tales/Racconti raccontati due volte sono decisamente migliori. L'autore è più funzionale e bravo in storie più condensate. Vi consiglio quella raccolta piuttosto che questo romanzo.
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La diversità è una malattia
Voler essere come tutti gli altri per avere la vita perfetta. Marcello ci riesce. E' una spinta più che esterna, interna, un'idea che gli è chiara già dalla prima giovinezza. Grottesco: un bambino che nella sua presunta purezza è già corrotto nella mente. Una riflessione che dalle mie parti si dice ti faccia venire il mal di stomaco.
Per il resto della sua vita poi beh... Fa quello che fanno tutti. Il conformarsi è una specie di inconscia ossessione, Marcello è un attento osservatore che studia la massa per diventarne la cellula migliore, per omologarsi il più perfettamente possibile.
Anche l'adesione al partito fascista diventa un'azione dettata da una "moda": era il partito più in vista allora si è iscritto pure lui, non totalmente consapevole dell'ideologia. Del resto... Cosa può importare di un'ideologia malata quando tutti sono infetti? Il suo compito all'interno è quello della spia: cerca le anomalie del sistema e deve distruggerle. Un professore comunista a Parigi è il suo obiettivo ma del resto questo professore non è nemmeno la sua prima vittima...
Un romanzo dimenticato in un'epoca che ha un disperato bisogno di una letteratura di questo genere. Siamo felici solo se siamo come gli altri e il diverso va isolato perché è portatore di un'idea infetta. Se l'idea si diffonde il pericolo è che ognuno pensi con la propria testa: la nascita di una società di anarchia del pensiero. Nulla di più pericoloso.
Per Moravia il fascismo e la vicenda di Marcello sono solo un pretesto per parlare di qualcosa che è tremendamente odierno e abbiamo sotto il naso (dentro il cervello) tutti i giorni.
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José Ortega y Gasset
L'altra Medea e un palazzo che si erge sul sangue
"[...] la verità dunque, solo che, come tante verità, si fondava su false premesse."
La Wolf ha presentato una Medea tutta nuova, opposta alla versione folle e infanticida della tragedia di Euripide. Un romanzo che si serve di un mito meglio approfondito e rivisitato di Medea per presentarci la verità sul potere politico.
Ella fugge dalla Colchide dopo aver aiutato Giasone perché il re Eete, suo padre, corrotto nell'animo, sta distruggendo l'equilibrio di quella terra dalle tradizioni antiche. Scappa e ripiega su Corinto, una città greca ritenuta all'avanguardia. Dopo un primo apprezzamento generale delle sue capacità, viene a conoscenza del segreto del palazzo: anche il potere del re Creonte si fonda sull'omicidio. Medea comprende che il potere è uguale dappertutto, sia nell'antica Colchide ché nella moderna Corinto e questo potere si basa sul sangue di innocenti, su segreti e menzogne raccontate alla popolazione. Diventa un personaggio scomodo, gradualmente diffamata, allontanata, esiliata e le vengono uccisi i figli. Infine viene fatta passare come infanticida così da poterla diffamare durante i secoli.
Una donna istintiva ma razionale che racconta con lucidità la verità degli eventi. Non c'è un singolo momento di follia, nemmeno quando comprende che la storia con Giasone è terminata.
Un libro che non solo rivisita una figura mitologica, rimembra l'antico potere del femminile e racconta una verità politica.
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La monotonia del carpe diem. L'archetipo
Ieri come oggi è uno stile di vita che affascina non c'è dubbio. E' il libro "papà" di tutta una mitologia di vita on the road.
Affrontare i limiti interiori, gustare il momento, sviluppare l'ingegno, vivere un'alternativa sociale, sentire cosa si prova a sentirsi discriminato come "l'altro, il diverso" pur essendo appartenuto a quella stessa società ma... Non ho sentito la magia. Forse perché è una storia che ha prodotto molti "seguaci" e quindi non è difficile fare la conoscenza con qualcuno che ti racconti un'esperienza simile. Oggi personaggi del genere te li trovi intervistati anche in TV, triste ma vero. Forse perché viviamo in una società che ci porta a pensare "questo è un pazzo incosciente" e vediamo in London un possibile antagonista della propria storia.
Credo che la "noia" causata da questo libro sia data in parte proprio dal fatto che - parlando del giorno d'oggi - è uno stile di vita imitato da molte persone, in parte perché leggerlo in lingua non è stata una grandiosa idea. Dopo un iniziale coinvolgimento e parziale divertimento è diventato tutto un saltare su e giù dal treno schivando i funzionari di turno. Dopo un po' tutte le metafore, allegorie, simbologie che puoi ingegnarti e sforzarti di vedere nella vita sulla strada/sulla ferrovia decadono. Il libro che combatte la monotonia è caduto nella sua stessa trappola.
Meglio del libro c'è il fare l'esperienza, quella arricchisce. Può essere una fonte di ispirazione non posso negarlo ma come ho già detto, è un libro che ha creato uno stile di vita più o meno momentaneo e imitato.
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Un libro dimenticato
E' purtroppo un romanzo dimenticato. Molte poche persone conoscono il film e ancora meno sanno dell'esistenza del libro. Nonostante sia un romanzo di "mezza età", con i suoi oltre 50 anni, è ancora un giovane adolescente per quanto riguarda i contenuti.
Orwell è stato un visionario. Un uomo che ha preso la macchina del tempo, è partito per il futuro e ha cercato di avvertire i suoi contemporanei tramite il libro.
Leggetelo e poi paragonate ciò che avete letto all'ambiente che vi circonda. Il grande fratello che ti guarda è ovunque. Magari non ti può correggere tramite una televisione parlante - poco ci mancherà - ma comunque ti osserva. Sa quello che fai. Indubbiamente sa come la pensi. Certamente farà di tutto perché tu non diventi una voce troppo fuori dal coro. Deve convincerti che 2+2=5, deve convincerti che la tua memoria è ingannevole. Solo il tuo falsificato presente è l'autenticità, la verità a cui ti devi attenere.
Il testo mi ha letteralmente conquistato fino alla metà delle pagine. Ancora non mi spiego perché le successive sono state lunghissime da terminare. Forse ad un certo punto comprendiamo che non stiamo leggendo un romanzo. Basta aprire bene gli occhi e osservare la realtà circostante a noi.
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Una ruvida poesia incantatrice
Devo ammettere che è uno di quei pochi libri su cui è difficile dare un giudizio ben articolato.
Leggerlo dà una sensazione a metà tra lo sconcerto, l'inquietudine e lo stupore. Ho riletto interi capitoli due volte. Corona ha ben impastato alcuni elementi intrinsechi all'essere umano: tradizioni di un tempo lontano, storie fantastiche, un pizzico di soprannaturale, sesso e assassinio; il tutto contornato dalla poesia di una regione di montagna.
Veramente strambe le modalità con cui si commettono gli omicidi. Non è sadismo ma certe volte mi sono realmente trovata con un sorriso ebete sul volto pensando: "Ma è veramente possibile?".
Ha dei toni cruenti come cruenti sono la maggior parte dei suoi personaggi. È un po' come leggere un trattato sull'uomo allo stato di natura, preso dalla lotta per la sopravvivenza in un ambiente più o meno ostile, che si accoppia ovunque e più spesso possibile, l'uomo che elimina fisicamente il rivale o il possibile nemico senza rimorso o coscienza (non troppo) sporca.
È un romanzo particolare. Le sue circa 800 pagine però sanno incantare un po' come la protagonista Neve: uno dei pochissimi personaggi che dimostrano umanità... Forse perché lei totalmente umana non è.
Che dire... Questo libro contiene un po' della magia dei boschi. Una lunga fiaba che non si ha voglia di smettere di leggere.
PS.
Letto d'inverno, durante le giornate umide e poco luminose, vicino al caminetto con una bevanda calda accanto è il top :)
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I would prefer not to
Un outsider americano sconcertante. Un racconto breve che si legge velocemente ma non è così semplice come appare. E' una lettura da farsi tutta metaforicamente.
Il titolo del libro "inganna": il protagonista non è lo scrivano Bartleby ma bensì colui che lo ha assunto: un imprecisato avvocato newyorkese.
L'ossessione di cercare di capire questo strano individuo, porta Bartleby a diventarne l'involontario protagonista. Probabilmente lui avrebbe preferito di no.
L'avvocato può essere definito la metafora della società di massa. Egli trascorre il tempo a cercare di capire tramite dati meramente esteriori, perché il suo scrivano ad ogni richiesta risponde con un "preferirei di no". Notare che che il difensore della legge vuole capirlo, non comprenderlo.
L'avvocato può essere interpretato come la persona media: un individuo che sente tranquillo con la coscienza dopo aver dato un aiuto umanitario ad uno sfortunato, che seguendo la norma si sente apposto con se stesso e quindi non sente il bisogno di riflettere interiormente. Non cerca nemmeno di conoscere sé in modo migliore, forse perché non ne sente il bisogno, forse perché crede di conoscersi già. Significativo il fatto che ha la presunzione di conoscere il mondo di coloro che copiano e basta (gli scrivani).
Bartleby è colui che pur avendo un lavoro di mera copiatura, decide di opporsi operando una scelta, preferendo di no. Diventa quindi una specie di anomalia sociale che porta pian piano al disinteressamento del suo datore di lavoro e provoca la rabbia di alcuni inquilini che lo fanno imprigionare. Metaforicamente: l'individuo che non la pensa come la maggioranza deve essere esiliato dalla società dove non può nuocere.
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La verità fa male
È un romanzo definito aristotelico quindi non aspettatevi grandi colpi di scena o altro ma una catarsi ci deve essere.
Questo romanzo si svolge nell'arco di poche ore, in un'unica stanza. Nonostante non ci sia azione è un libro che offre spunti di riflessione su temi come la coerenza con le proprie idee, il volta faccia delle persone e della società, il falso perbenismo.
Anche se Hans Schnier, il protagonista, può apparire un esaltato/viziato, questi suoi difetti vengono parzialmente "annebbiati" dalla grandissima coerenza che egli ha nei propri confronti rispetto ai personaggi secondari: falsi perbenisti tedeschi cattolici della Germania Ovest.
Originale l'idea dell'autore di non inserire nel romanzo un vero e proprio protagonista privo di qualsiasi difetto. Nel libro non esistono personaggi perfetti, totalmente retti nella morale ecc. È un libro che si dovrebbe apprezzare anche solo per il fatto che i personaggi sono umani: ognuno ha i suoi difetti.
Lo stile è sarcastico. Mi è piaciuto molto in modo in cui Hans si prende gioco dei suoi interlocutori senza offenderli con l'arricchimento di parolacce. Li prende in giro dimostrando una certa intelligenza.
Non è un libro da leggere così "a cuor leggero" ma se si hanno degli ideali diventa un testo piacevole.
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Prostituzione al mercato letterario
Un romanzo dai temi importanti con una trama che cade nella banalità.
Contiene riflessioni critiche sulla società e sulle domande insite nell'uomo: vale la pena combattere per qualcosa anche quando l'umanità è ormai allo sfascio? La morte è veramente il capolinea dell'anima? E così via. Non mi dilungo ulteriormente su domande esistenzialiste.
Nonostante l'altisonanza di alcuni temi, questo romanzo - mi dispiace ammetterlo - ha una trama banale quanto una scrittura "sbrigativa".
L'amore in un contesto "Terra post Apocalisse" ci può anche stare, un po' scontato ma vabbè. Il personaggio principale R, capace di riflessioni profonde, è controbilanciato da una Julie che è lo stereotipo della ragazza del XXI° secolo: orfana di un genitore, problemi di droga/alcool, padre distaccatamente affettuoso, lei che rifiuta di avere un legame intellegibile con lui, ragazza di facile costume, superficiale, che vive alla giornata, problematica in generale e ovviamente carina, magra ecc. Sia mai che abbiano un difetto fisico queste "eroine". Insomma... Non ha nulla di speciale che non si sia già letto in altri libri. Mi sembra un personaggio ovvio, ecco.
Interessante l'idea di una società di zombie che, nonostante non abbiano ricordi, ricostruiscono a modo loro una società simile a quella dei vivi. Stupendi i tentativi di R di ricercare un'identità attraverso un nome ormai dimenticato, attraverso l'abbigliamento e una lettura ormai impossibilitata dal fatto che le parole appaiono ormai solo come grafemi senza un senso.
Banale la love-story tra la Julie e il "mostro". Mi sembrava di rileggere Twilight: lui che mangiando il cervello del trapassato fidanzato si innamora di Julie, riconosce il suo odore tra quello di mile altre persone, non la vuole mangiare, deve proteggerla... Uff! Che noia! Mi sarebbe veramente piaciuto se con un colpo di scena R avesse zittito i dialoghi di Julie (che contengono nel 90% dei casi sempre la stessa imprecazione) per il resto del romanzo.
Sinceramente l'ho trovata una forzatura per far si che il libro vendesse di più. Non credo che il solo contenuto di elucubrazioni mentali sarebbe riuscito a produrre un film... Per adolescenti in crisi ormonale.
Lo stile non è il massimo. Mi è sembrato frettoloso, come se l'autore avesse fretta di arrivare alla conclusione e quindi deciso di elidere nella corsa descrizioni del paesaggio apocalittico, maggiori dettagli dell'aspetto dei personaggi, pensieri/sensazioni dei personaggi oltre a quelli del protagonista, intere scene in alcuni punti. Qualche descrizione in più non avrebbe guastato, anzi certe scene avrebbero avuto una connessione più logica ma soprattuto... Ci sarebbe stata una connessione!
Concludo dicendo che, sebbene lo abbia descritto come un autentico schifo, consiglierei la lettura di questo testo almeno solo per il filo di filosofia che di fondo c'è.
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