Opinione scritta da AndrewFaber
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Una guerra all'ultimo sogno...
Mi sono avvicinato alla narrativa di Dino Buzzati, dietro consiglio di una persona cui davvero non potevo dire no. Ci tengo a precisarlo poiché ognuno di noi ha il suo mentore - "fido dispensatore di inchiostro" - merito sempre e comunque di una possibilità. Pertanto, dopo 'il segreto del bosco vecchio' e 'sessanta racconti', ho concluso il terzo romanzo (si legge spesso: della consacrazione) di Buzzati.
Ho apprezzato sovente, il tratteggio di luoghi incantati nei quali perdersi in gran parte dei suoi racconti. Vien da se una sana curiosità nell'apprendere fin dalle prime pagine, che le vicende questa volta si svolgeranno all'interno di una fortezza militare, resa (nonostante tutto) non meno misteriosa e incantata di tanti altri paesaggi "Buzzatiani".
Dimorerà al suo interno l'ufficiale Giovanni Drogo: tenente in erba, da poco investito del tanto agognato grado.
Fin dai primi giorni la bramosia di un futuro lucente e “solido” che tanto aveva guidato le scelte del protagonista, sembra tuttavia macchiarsi di un’indefinibile mestizia dall’oscura provenienza: che origini ha l'incipiente diniego che pervade chiunque sposi le mura della fortezza Bastiani ?
Nulla di magico, nessuna alchimia, solo il decorso naturale degli eventi: niente di più umano, niente di più fisiologico.
Il deserto dei tartari (verità o legenda?) entità alquanto astratta dall’irrefutabile fascino di mistero e conquista, prende la forma di un qualcosa contro cui lottare a salvaguardia di se stessi, degli anni da vivere e delle emozioni consumate ed erose dall'inesorabile e lento scandire del tempo…
Buzzati scopre le carte in tavola dopo poche decine di pagine, senza mai abbassare il livello della narrazione e - neanche a dirlo - deliziando il lettore con un lessico e uno stile confacenti un par suo.
Un testo ‘importante’ dalla difficile collocazione (la guerra è solo il mezzo), con l'arduo compito di far riflettere sui tempi della vita - il giusto ritmo delle cose - ed è così che percorreremo il sottile filo sui cui Drogo stanzierà la proprie scelte, "poggiando" la propria esistenza alla ricerca di un equilibrio tra il tempo che passa e una "guerra" che non arriva mai…
Questa, dunque, è la fortezza di Buzzati: un luogo laido - atono e consunto dagli anni - in cui si resta imprigionati tra mura stantie pregne di stillanti ricordi che la vita (scegliendo per noi), ci innalza attorno fino all'asfissia… fino all'annullamento dell’io, prigioniero di se stesso.
Persino l'amore è ormai appannaggio di canute e fragili rimembranze, e a distanza di anni, non è più lì dove il tenente Drogo lo ricordava.
Interessante l’aspetto psicologico di alcune figure vicine al protagonista del romanzo, così come l’analisi di ciò che a me piace intitolare (rimanendo in tema): l’arsenale onirico della notte.
Molto bello il finale: degna conclusione di chi pur sbagliando, non ha mai smesso di lottare.
Il passaggio:
“La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna.
Farà in tempo, Drogo, a vederla, o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori dalla finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”
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numeri e nomi, due infiniti a confronto...
Premesso che "Tutti i nomi" è il secondo libro firmato José Saramago (insieme a cecità) che termino in questo mese, mi trovo a confermare, così come recentemente scritto, uno stile ed una categoria decisamente "superiori".
Ne sarò rimasto stregato, non so che dire, ma di fatto - giunto all'epilogo di questo "beve" testo (poco più di 200 pagine) - la sensazione di crescita interiore, culturale, lessicale unita alla scoperta di un nuovo - inusitato - personaggio, è stata davvero appagante.
La sensazione che provo quando leggo una nuova storia di Saramago, è quella di un tepore conosciuto, quelle pagine e quell'inchiostro caldi, accoglienti, dove si è quasi coccolati… capirete di cosa sto parlando. Ed è bello.
Si dice che la maniglia di una porta sia la mano tesa di una casa: ecco, siamo sullo stesso piano.
Apriamo il libro e siamo a casa, una nuova storia è lì ed è quasi una rincorsa per scoprire la foggia del protagonista di turno, i particolari minuziosi ed essenziali che ci implorano di non saltare nemmeno un passaggio (o sarebbe meglio dire… una virgola), la poesia, che si nasconde dietro ogni pagina per strapparci un brivido o un sorriso.
Talvolta irrefutabilmente prolisso, personalmente, non ne ho mai abbastanza.
Questa volta accompagneremo il signor José (nessun riferimento all'effettivo nome dell'autore…o forse sì ?), umbratile sofista in servizio presso la Conservatoria Generale dell'Anagrafe, nella disperata ricerca di una donna sconosciuta… almeno fisicamente.
Il destino sembra consegnarli continui indizi, riferimenti, persone, luoghi, affinché le loro strade possano intrecciarsi una sola volta; affinché possano guardarsi negli occhi correndo il rischio di non dirsi nulla. Le regole interne della Conservatoria sono ferree, fondate su integerrime e proterve gerarchie che si tramandano da decenni, ed ogni leggerezza si paga a caro prezzo.
Di rapporti interpersonali non vi è più traccia: ogni risposta, solo se strettamente necessaria è accompagnata da un serpeggiante e represso sussiego.
Al suo interno sono stipati migliaia e migliaia di certificati, di vita e di morte, e per ognuno di loro c'è una storia, un inizio e una fine troppo spesso dimenticati. Il signor José a prima vista stracco, che stenta a "sopravvivere" una querula esistenza, metterà a repentaglio la sua ineccepibile carriera, la sua integrità fisica e mentale affinché la misteriosa donna di cui solo alcuni incartamenti trafugati illegalmente gli raccontano qualcosa, non sia dimenticata.
Saramago descrive i tetri corridoi della conservatoria, che bui si dipanano tra enormi scaffali pieni di vita, polvere e morte, dove gli stessi ausiliari devono ricorrere al filo d'Arianna per essere sicuri di tornare al punto di partenza, come l'antro di una bestia che di essi si serve.
Si arriva in alcuni passaggi a sfiorare il kafkiano, con scelte geniali da parte di J.S, come l'abitazione del protagonista separata dalla Conservatoria Generale dell'Anagrafe da un'unica porta (capirete poi il perché) a cui nessuno, lui compreso, può accedere. Mi è venuto spontaneo, al termine della lettura, fare un paragone con quel capolavoro che è cecità: beh, non si raggiunge quella stessa intensità (forse inarrivabile) che a suo tempo mi tolse il fiato, ma parliamo pur sempre, di un ottimo libro.
Vi basti pensare che uno dei miei passaggi preferiti è il dialogo del Signor José con il soffitto di casa sua, orchestrato con siffatta valentia da risultare per nulla paradossale. Uno spiraglio sulla vera definizione del termine "esistenziale".
Ve lo riporto :
Adesso, sdraiato supino, con le mani incrociate dietro la testa, il Signor José guarda il soffitto e gli domanda, Che cos'altro posso fare, e il soffitto gli risponde, Niente. Allora pensi che debba desistere, Probabilmente non avrai altra via d'uscita, non vorrei essere nei tuoi panni se un giorno di questi ti colgono in flagrante, Nella mia pelle non ci potresti essere, tu sei solo un soffitto di stucco, Sì, ma anche quello che vedi di me è una pelle, e d'altro canto la pelle è tutto quanto vogliamo che gli altri vedano di noi, sotto la pelle neanche noi stessi riusciamo a sapere chi siamo. Non mi piace il tono con cui lo dici, mi suona di malaugurio, La saggezza dei soffitti è infinita, Se sei un soffitto saggio, dammi un'idea.. ci fu un attimo di silenzio poi il soffitto riprese, sai qual'è la differenza tra noi ? che tu guardi verso l'alto solo quando hai bisogno di me, solo quando hai un problema. Io, da quassù ti osservo sempre. Continua a guardarmi, a volte se ne cava qualcosa.
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c'è spazio ancora... per un ultimo valzer...
Un mondo in cui riconoscersi felicemente tristi e una delle più sublimi storie d'amore mai raccontate, ecco cos'è l'ultima fatica di Stefano Benni.
Martin non ha avuto tutto dalla vita, ma ciò che voleva lo ha ottenuto. E ora.. ha deciso di riposarsi insieme alle sue paure, ai suoi insuccessi e al fido scudiero Ombra pronto a tener a bada gli uni e gli altri. Di tutte le ricchezze è la linea che si tira alla fine di una giornata o di un'intera vita.
Un viaggio a 360 gradi nelle gioie, nei dispiaceri, nei successi e nei rimpianti.. in 'tutte le ricchezze' che il destino ci consegna e che ci rendono unici.
E poi l'amore (quello vero) che irrompe prepotente nella vita del protagonista a cui quest'ultimo (per motivi che non starò ad elencarvi e che scoprirete) non diede sufficente spazio in giovane età, nelle vesti di una donna meravigliosa in grado di far (ancora) sognare membra e cuore, ahimè, segnati dal tempo. Benni non si risparmia in nessun passaggio e (come è solito fare) delizia il lettore pagina dopo pagina con personaggi studiati minuziosamente a cui dona un carisma e un fascino davvero superlativi. Non ho mai notato all'interno del testo, leggerezze nel tratteggio di eventi "necessariamente scelti" come secondari, tutto si incastra con leggerezza e molta, molta sostanza.
C'è dolcezza e rispetto per l'età del buon Martin, c'è sensualità ed ironia nella sinuosa figura di Michelle o - se preferite - Nasten'ka (è si.. proprio lei..), c'è di che amare e sognare un amico a quattro zampe come il piccolo Ombra. E poi.. la poesia maledetta del Catena (versi davvero molto belli), gli abitanti del bosco consiglieri e tentatori, personaggi impossibili del calibro di Armando Elvis - l'idraulico rocker - il preside Bollini o il ristoratore Amadori.
Da leggere, sì, tutto d'un fiato così come si balla un ultimo valzer.
Il passaggio:
Siamo tutti e due stanchi, e il camino si sta spegnendo, dissi. - E meglio se torni a casa, Michelle.
- Sì - disse lei.
Uscì. Quando la porta si chiuse, rividi per un attimo l'Altra, solitaria tra le due montagne innevate. Poi chiusi il mio cuore a chiave, ci riuscii.
Andai a sedermi sulla mia poltrona sfondata.
Nessun animale domestico uscì dal bosco.
Vidi però, appoggiata al muro, vicino alla luce, una falena.
Le ali erano un arabesco di bruno e grigio, un ricamo fantastico. Era ferma, come nella bacheca di un entomologo, o come in un quadro.
- Hai niente da dirmi? - chiesi.
- Tanta bellezza per un attimo solo, per una sola notte - rispose.
- Sì, sei bellissima. Non avvicinarti troppo alla luce.
- Perchè ?
- Lo sai bene. Ti brucerai. So che vivi di notte. Domani lascerò la luce spenta.
- Io non posso dire "domani" - rispose lei.
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La luce ha chiuso gli occhi sull'umanità....
Finito di leggere da qualche settimana.
Ho volutamente atteso del tempo prima di recensirlo, affinché affiorassero chiare e limpide le sensazioni trasmesse dal testo. Saramago (non a caso premio Nobel alla letteratura conferitogli nel 1998), carnefice dalle mani di seta, entra in modo devastante e chirurgico nell' io più profondo del lettore, mettendolo a confronto con una realtà che passo dopo passo, sembra non offrire vie di fuga se non il mero rassegnarsi ad un inevitabile deliquio. La trama di per se potrebbe, a prima vista, risultare non troppo accattivante o comunque "tralasciabile"(...un'epidemia di cecità improvvisamente colpisce l'intera popolazione, portandola giorno dopo giorno sull'orlo del baratro psico-sociale, con ripercussioni immaginabili, ma forse non fino in fondo, sui singoli individui dove l'autore, maggiormente, punta la penna...). La primissima parte del libro, momento questo in cui Vi consiglio caldamente di far scorta d'aria nei polmoni, introduce ed accompagna a quello che poi sarà un susseguirsi di eventi resi tremendamente reali dall'irrefutabile - maestoso - stile di Saramago. E su questo, davvero, c'è di che sturbarsi. Lo scrittore delizia - letteralmente - il lettore, con un lessico ed un'eleganza all'uopo utilizzati con rara destrezza, alternando in quest'ultimo stupore ed imbarazzo per cotanta maestria. E' un "qualcosa" che esige rispetto.
Personalmente ritengo che un libro abbia fatto centro, compiendo alla perfezione il suo mestiere, quando le emozioni scaturite possono misurarsi a pelle. Quando risultano concrete e visibili.
Beh, a me è capitato spesso di voler saltare dei passaggi per paura di saggiare quest'ultime.
E' una lettura a cui appartiene di diritto ' un prima e un dopo ', una spelonca nella quale ( forse ) non si cerca rifugio, ma se stessi.
E poi... e poi conoscerete il "cane delle lacrime", a cui spero, riuscirete a donarne qualcuna.
Io ho già dato.
"Non sono serviti a niente i buoni e leali servigi prestati dagli antenati di questo cane delle lacrime, quando lambivano le purulente piaghe di santi prima ancora che fossero approvati e dichiarati tali, una misericordia, dunque, fra le più disinteressate, perché, lo sappiamo bene, non certo tutti i mendicanti riescono ad ascendere alla santità,per quante piaghe possano avere sul corpo, e anche nell'anima, là dove la lingua dei cani non arriva.
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