Opinione scritta da Maso
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Trastullo supremo e morte di Apollo
La libertà di astensione argomentata dal sottoscritto in altre occasioni, quella che del paradosso fa la propria fondazione - libertà di astensione come nemesi inscindibile de(a)lla libertà di espressione - si applica con grande agio e appropriatezza alle possibili considerazioni relative al nuovo romanzo di Joel Dicker. Considerazioni, dapprima, di carattere generico. In nome della consueta, accordata libertà di esprimere se stessi, inalienabile e sanguinolenta conquista dell’Occidente civilizzato, ogni uomo o donna ha l’opportunità di produrre un’opera e di tentare una sua divulgazione all’interno del contesto di fruizione sociale rappresentato dall’audience degli utenti alfabetizzati. Sempre più sembra al sottoscritto che la produzione di manufatti “di concetto” (opere d’arte visiva e, naturalmente, poetico-letteraria) si attui, in maniera sempre più diffusa, non tanto sotto la spinta di una necessità ma solo ed esclusivamente perché se ne ha una possibilità sia ideologica che concreta. Il solo fatto che si possa materialmente produrre e divulgare risulta una ragione sufficientemente valida per sentirsi spinti a farlo. Tutto il resto parrebbe passare con grande spensieratezza in secondo piano. Ogni analisi introspettiva volta a trovare le pulsioni, le spinte motrici del nostro agire viene meno in favore del fatto che un tale dispendio di tempo ed energie sembra non risultare necessario . Perché impostare una struttura motivazionale al fine di giustificare la nostra produzione quando possiamo, con molta più facilità, addurre come giustificazione il fatto stesso di avere, senza equivoci, la possibilità di produrre? Perché scomodarsi? Il mondo, signori (e non sono certo io a scoprire l’acqua calda) è dei furbi. Molta gente, quando vede il fango, sceglie il tepore del proprio salotto piuttosto che la scomodità di un paio di stivali. E ci sono molte più persone disposte a pagare chi sceglie il salotto, affinché se ne stia comodo in poltrona, piuttosto che colui che indossa le galosce, si scomoda e lascia che sia la tempesta a richiudere l’uscio con un colpo secco.
Ma la domanda non è da eludere, e va anzi resa più specifica: qual è il fattore determinante che porta lo scrittore (archetipico) a scegliere di progettare, abbozzare, scrivere, e infine di proporre e riproporre il manoscritto di un romanzo a chi si prenderà parte della responsabilità intellettuale di ciò che diverrà di pubblico dominio? Quale scena madre, quale sommovimento sinaptico, quale scarica di energia, quale impulso è responsabile della genesi primigenia del pensiero di scrivere? Vorrei giungere a comprensione. Dov’è il luogo d’origine della poiesis? Ci muove una necessità, un bisogno, una lacuna da riempire anche se questa si svuota di continuo. Tante attività sconfinano nell’hobbistica. La scrittura, le belle lettere con essa, retaggi apollinei di atavica provenienza, sono un’arte nobile. Sono un’arte espressiva, sono parte del corredo strumentale che l’uomo riceve dalla genetica per poter esprimere se stesso nell’ambito dei suoi simili. La letteratura, come tutte le modalità espressive, è nulla se non necessaria. Il divertissement è barbarico. La letteratura da badalucco è blasfema nella misura in cui frustra l’ipostasi prima, umiliando la funzione unica dell’agire considerato “artistico”. Sono centinaia le anime stracciatesi a-causa-di e per se stesse in nome di quell’ignoto perenne che è la pratica cosiddetta “artistica”, quelle che sono cadute nell’intento, che si sono coscientemente lasciate disgregare da ciò che risultava loro inaggirabilmente, inequivocabilmente, violentemente, irrimediabilmente, Necessario. Sono loro il carnale, il respiro; benché interrotto, di un grande corpo asperso di sacertà e disciplina.
La fiction, in questo tableaux così sanguinante, di primo acchitto sembrerebbe non trovare spazio. Sembra non possedere, esattamente a causa della propria natura immaginifica, lo stesso coefficiente di necessarietà che è invece grandemente evidente in contesti letterari più strettamente attinenti all’autobiografismo o alla saggistica. Ma, naturalmente, non è così. La necessità, nella mia opinione (che i puristi potrebbero considerare sconsiderata), può esteriorizzarsi in una traslazione. In un moto di matrice velatamente onirica, nel teatrino mascherato del significato che si incarna nella sua alterità, l’autobiografismo può insinuarsi potenzialmente in ogni narrazione fizionale, in ogni singolo monema. Accetto, io, la letteratura (e continuo a venerarla) esattamente in funzione di questo retromondo, solo in considerazione di ciò che risiede nell’intercapedine tra la finzione oggettuale, il significante, e il messaggio che questa veicola, il significato. Poiché è espressiva di un messaggio che si suppone sia stato appositamente, premeditatamente inserito al proprio interno per essere esportato e fruito. Dal momento in cui ritengo di percepire senza fallo la vacuità, e la gratuità di questa, all’interno dell’oggetto della mia attenzione, solo e solamente allora mi sento defraudato. Tanto quanto mi accadrebbe se mi si facesse credere nella presenza di una eccezionalità dentro una stanza e, al mio entrare, la trovassi spoglia.
Sono chiamato a parlare di questo romanzo, ma sto sistematicamente evitando di farlo. Un’aggraziata sinossi è l’ultima cosa che può venirmi fuori. L’intreccio è ininfluente e refrattario al commento, poiché ciò che dovrebbe essere commentato non sussiste. Nessun messaggio che non sia lapalissiano e passatista, nessun paragrafo che sia stato creato con l’intento genuinamente comunicativo proprio di chi ha uno strenuo bisogno di fare ciò che fa. La “letteratura” da passatempo, per chi la produce e per chi la mastica, non è letteratura. La letteratura che occupa il tempo senza abitarlo altro non è che il delitto perpetrato dal vanaglorioso in combutta col finanziere. E di questo sono stanco. Che Joel Dicker abbia letto Dickens (quanti oceani tra due lettere) è irrilevante tanto quanto è grave l’averlo travisato: il regno della maniera, del buonismo, della scontatezza, delle coccole, dei biscotti e del profumo di shampoo alla violetta è passato da un pezzo; per ogni pugnalata e ogni umiliazione che Jean Genet (uno a caso) infligge a se stesso, c’è un Joel Dicker che caramella gli orrori della guerra, consegnando il copione alla più malriuscita contraffazione di una manica di personaggi-stereotipo, piagnoni privi di ritegno divisi tra lazzi e cliché da capogiro. Gli innesti di carattere storiografico, marcatori non poco importanti nell’architettura narrativa di un romanzo che abbia la pretesa di essere etichettato come “storico”, sono il prodotto di una ricerca che può dirsi tale solo perché deduco che gli avvicendamenti, anche i più arcinoti, siano stati fisicamente “ricercati” in quanto materiale ritenuto utile. Non trovo altre accezioni che accomunino la parola “ricerca” alla inconsistente contestualizzazione storica che essa ha prodotto e che, in casi estremi (come quello in questione), avrebbe perlomeno dato uno straccio di giustificazione all’attenzione profusa dal lettore. È la storia più vecchia del mondo, alla fine di tutti i conti: quando si comunica per luoghi comuni, quando ci si esplicita con il già-detto significa che molto probabilmente non si ha nulla da dire, o, per lo meno, che mancano le necessarie capacità per farlo adeguatamente. Benvenuto sia chi detesta autunno e primavera.
La mia boccetta di veleno è scesa solo di qualche millilitro, ma la richiudo ora, ermeticamente, con una consapevolezza di sughero che, esplicitata, suona certamente come una sproporzione. Per quanto mi riguarda, indefinitamente, basta romanzi. Se lo scettro è del popolino intellettualoide che, sussiegoso e smaniante, presume di saper far bene peccando di alterigia, allora io saluto l’allegra brigata. La cesura è personale; ed è nero su bianco, certamente, non per fungere da acciarino per lo scalpore, ne per la vanità di un desiderato interessamento. Chi vuole intendere, intenda.
Ciò che è fatto per noia non sia fatto. Boicotto come posso.
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No, la pappa non è pronta
Solo per imbastire un episodio minimo di “estetica del contrasto”, decido con dispetto di utilizzare la complessità per discutere di quanto sia frequente trovare la semplicità nel ruolo di tramite per giungere alla complessità stessa. Complico la faccenda solo per affermare quanto non sia assolutamente necessario complicare le faccende per portare alla luce qualcosa di complesso. Più che di un dispetto o di una bizzarria gratuita si tratta di un espediente argomentativo che il sottoscritto adotta per fare un po’ di chiarezza e dipanare una consistente cortina di nebbia ideologica. La complessità dichiaratamente affermata con cui ho intenzione di iniziare è, di fatto, un accademismo tanto stucchevole quanto necessitante del suscritto prodromo. Ho pensato, infatti, al pensiero eracliteo. Mi ci sono voluti giorni di raffreddamento, dopo aver letto questo romanzo in un paio d’ore, per arrivare ad un ragionamento che potesse dirsi tale, e la punta di quest’ultimo è rappresentata da quel passo della filosofia di Eraclito che critica il pitagorismo affermando che la reale costituzione di ciascuna cosa «ha l’abitudine di nascondersi», che, quindi, non tutto si mostra in superficie per quello che è nella sua intima trama di rapporti. Questo romanzo di Dave Eggers, come sostengo, mostra di avere questo genere di caratteristiche. Se la superficie mostra un romanzetto piuttosto semplice, da ogni punto di vista di carattere formale, l’interno è invece variegato da un importante intreccio di tematiche capaci di stimolare la riflessione. Banalizzando all’estremo, Eraclito potrebbe essere stato uno tra i primi a sostenere, sebbene in termini ben più elevati, che l’abito non fa il monaco.
Il monaco in questione, davvero, non lascia trasparire niente dalle fibre del suo saio. Un’edizione Mondadori costosa oltre ogni limite, se rapportata al numero di pagine, è l’unica rappresentante fisica di un grumo di problematiche attualissime che non solo non dovrebbero essere pagate come un cristallo di Boemia, ma che andrebbero divulgate a metà prezzo considerandone il valore socio-culturale e le riflessioni che ognuno potrebbe trarne.
E, come ogni ragionamento che possa definirsi edificante, tutto parte dalla necessità impellente di trovare risposte a questioni che ci si pone. Sono quelle che ci poniamo tutti, alla fine, ad essere pronunciate per noi dalla bocca di Thomas. Una trentina d’anni, un soggetto comune, un altro everyman che naviga e che si dibatte tra i flutti della società americana, nei suoi più monotoni recessi. Thomas, così inconcusso, così puerile e bisognoso di aiuto, rapisce sette persone. Una dopo l’altra rapisce, più che delle persone, degli automi che avranno la sola utilità di risolvere i più intimi e socchiusi conflitti vitali di Thomas, con se stesso, col passato, col mondo a venire. In una visione di puro utilitarismo, questo ragazzo è in cerca del proprio immenso faro di Alessandria. Tratta i grandi temi del nostro tempo nelle modalità spicciole, genuine e disinformate dell’uomo comune che ha impiegato molto tempo a strutturare una rete logica di connessioni e opinioni sulle cose, una rete che non sempre regge al cospetto della competenza differenziata di ognuno dei soggetti rapiti. Rapisce anche la propria madre, colto da un’accecante bisogno di liberarsi in recriminazioni, pretese e ricordi troppo sfumati perché possano essere veritieri.
Ma nell’apeiron, nell’indeterminatezza e nell’amara selva di domande e risposte si cela il punto nodale che giunge in un grande crescendo. Thomas spiattella la sua domanda più importante su tutta la sequela di discorsi vani che i rapiti sono stati costretti a pronunciare, e lo fa allo stesso modo di un bambino che domanda alla madre perché non può giocare ancora coi videogiochi. E’ lagnoso, è il deboscio, è la vittima, è quello che fa a pezzi la propria fedina penale per chiedere alle generazioni passate per quale motivo esse non abbiano lasciato ideali abbastanza forti alle nuove generazioni. Il mancato cameratismo, il mancato senso di comunione nell’anelito verso un’ideale collettivo, universale, è ciò che Thomas vorrebbe addurre come elemento di giustificazione alla palese degradazione che investe l’uomo e i suoi valori apparentemente più saldi. Per Thomas sono i grandi avvicendamenti globali, le grandi cause, la grandeur e la pompa magna di un grande obiettivo da incensare, glorificare e portare in trionfo a rappresentare il necessario collante per il raggiungimento di un senso pieno della vita e del rapporto con gli altri. E’ tramite questa mancanza, e con l’accusa di essere stato privato, assieme alla propria generazione, di tali eroiche opportunità che Thomas giustifica il fatto di impersonare la mediocrità. Una vita mediocre, una vita tediosa, annoiata e annoiante. Trent’anni di sopportazione del nulla più assoluto, un rapimento plurimo e il più grande, pretenzioso abbaglio che si potesse prendere. Thomas è quello che accusa (e mi trova d’accordo) le forze dell’ordine statunitensi di abuso di potere, di violenza gratuita, ma è anche quello che sostiene implicitamente che i massacri mondiali della prima metà del Novecento siano stati un’imperdibile occasione per rinfocolare il proprio sentimento di empatia verso il flusso vitale che muove le masse. Ma è anche quello che quelle guerre, se si fosse trovato veramente a doverle combatterle, le avrebbe fuggite. Thomas è un’architettura di insoddisfazione, è un’insieme di parole posticce che incessantemente si contraddicono. E’ pusillanime nella misura in cui è abile nello scarico delle responsabilità.
Per questo, Thomas, è un personaggio straordinario. E’ eccellentemente costruito a immagine dell’uomo medio. Rabbioso, presuntuoso, innocente per colpevolezza altrui. Sempre pronto a puntare il dito nell’accusa tanto quanto disinteressato al perseguimento di risposte per se stesso che vengano da se stesso. Thomas rappresenta davvero una generazione di annoiati che rimangono in attesa affinchè qualcuno gli prepari la pappa e li imbocchi imitando l’aeroplanino. Inutile dire che, nella mia opinione, un interventista che si definisca tale non aspetta che qualcun altro gli fabbrichi un ideale. Se lo crea.
Ma Thomas non cerca un’ideale. E’ troppo occupato a lamentarsi del fatto che nessuno glieli abbia lasciati per accorgersi del fatto che le cause comuni non solo non sono scomparse, ma che addirittura sono molto più cruciali, ad oggi, di qualsiasi altre nella storia dell’uomo. Non è sufficiente sapere che il nostro pianeta si avvia al più completo collasso, assieme a tutte le risorse per il mantenimento della vita umana? A me sembra di si, e mi sembra che ogni diatriba umana sia, al confronto, un semplice vociare sommesso.
Il personaggio di questo romanzo di Dave Eggers è il romanzo stesso, ed è una persona, ed è un milione di persone. E’ l’eserctito dei lamentevoli, che bisogna accudire, rassicurare e lasciarsi alle spalle. È, ahinoi, quella retroguardia umana impegnata ad accusare gli altri di fare quello che loro stessi stanno facendo; è la falange che si convince di poter risolvere le problematiche della civiltà ottenebrando e distraendo le menti con quegli stessi, mastodontici specchietti per le allodole utilizzati una volta di troppo nel corso della storia più e meno recente. La soluzione, siamo spiacenti, non è così semplice. Spazzare la polvere sotto il tappeto non significa pulire.
Sono andato forse troppo in là, anche se tanto altro ci sarebbe da dire. Da un non detto che è solo accennato, una panoplia traboccante che ci narra senza pietà.
Chiedo scusa per le tinte fosche. Consiglio la lettura.
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Giusto per essere Frank
Il primo baluginare lo si sussurra, ma poi lo si scavalca. Perché dapprincipio pongo un quesito che dovrebbe arrivare ultimo, ma in quel caso acquisirebbe la rilevanza della chiosa e tutto sarebbe falsato.
Parlare di mediocrità denota mediocrità? L’approfondimento di ciò che è mediocre può risultare tratto sintomatico di una mediocrità in fieri? E’ una domanda sostanzialmente idiota, lo è senza ombra di dubbio. È una domanda che sarebbe ancora più idiota se la mia idea fosse di porre me stesso nel ruolo di soggetto parlante. Ma non è di me che mi preoccupo, non della mia ipotetica, consequenziale, ragionevolmente plausibile mediocrità. Di questo, in questo frangente, credo mi sia felicemente concesso il disinteressamento. Mi dichiaro parlante solo nella misura in cui parlo di chi parla, ed è a questo secondo “chi” che intendo dedicare un ragionamento che parte dalla domanda suddetta, in un moto rettilineo che, come spero, possa svincolarlo di almeno una parte di quella irrazionalità che è causa prima dell’instabilità logica della domanda.
Ancora, scrivere di qualunquismo non significa naturalmente essere qualunquisti. Se il pensiero umano fosse tanto rudimentale da basarsi su così erronee giustapposizioni ci troveremmo ad un grado evolutivo certamente minore rispetto a quello raggiunto, perciò taglio dapprincipio determinate radici che non devono attecchire, su nessun terreno. Interessante, però, il coincidere della tematica con i mezzi con cui questa è stata espressa. La mia personalissima opinione a proposito di questo nuovo romanzo di Richard Ford parte proprio da questo convergere di due mediocrità, che danno come unico risultato una fioritura massimamente pleonastica in cui il flusso di pensiero dell’everyman è narrato tramite il flusso linguistico dell’everywriter. Everyman è una bellissima parola che viene usata nella quarta di copertina del volume italiano di questo romanzo, una parola che trovo di grande efficacia perché carica di un portato più ampio rispetto alla locuzione italiana “uomo comune”. Come nella piena tradizione lessicale tedesca, luogo in cui si agglutinano più parole a formare monumentali catene di significati interconnessi, “everyman” racconta esattamente la condizione di inaggirabile anonimato propria della persona qualunque. Racconta il ridimensionamento in senso generale di quei traguardi contestuali e personali che sembrano grandi agli occhi di chi li ha perseguiti e raggiunti. È un termine-livella che appiana tutti quei picchi che ognuno crede di aver raggiunto per potersi poi permettere uno sguardo soddisfatto al di sopra della piana, al di sopra (anche se poco) dell’”every”. Frank Bascombe, il nostro uomo qualunque, forse nemmeno li ha scalati fino in vetta quei picchi vitali. Forse ha toccato qualche acme professionale in quanto rinomatissimo agente immobiliare della West Coast, forse ha sfiorato il benessere. Ma il benessere non è necessariamente sintomo di distinzione. Forse Frank Bascombe, odierno settantenne domatore di noia, prostata e dolori cervicali, plurisposato e disilluso, forse è veramente il paradigma più convincente del qualunquismo e dell’omologazione civica. E va tutto bene, vanno bene le letture al programma per non vedenti nella stazione radio locale, vanno bene i carotaggi farraginosi che mostrano spaccati di vita trascorsa senza spiegarla, va bene la prima moglie col Parkinson che si dà al feng shui con le fiammanti scarpe da ginnastica arancioni. Tutto può rientrare nel dilettevole giuoco del “metti-nel-calderone-l’omologazione”, a patto, però, che questo venga appropriatamente bilanciato da un contraltare narrativo sufficientemente degno e operativamente solido. Senza pepe nel lessico il romanzo cola a picco come la Doria. Raccontare la mediocrità - e qua ritorno alle premesse - con parole mediocri, a parer mio, è la più esatta e tautologica delle ricette votate al fallimento. Richard Ford, per quel che ho letto, ha bisogno di una trama forte, ben calibrata e col vento in poppa. Solo con questa condizione mi sembra che il risultato possa risultare apprezzabile. Per raccontare la noia bisogna saperla evitare mentre la si racconta e, Pulitzer più Pulitzer meno, c’è chi lo sa fare e c’è chi si limita a provarci. Non ho la minima intenzione nemmeno di mettermi a ragionare su quali siano i possibili scrittori che con una trama e delle premesse contenutistiche tali potessero far di meglio. Sono sicuro che ce ne siano ma mi sembra, questo, un badalucco troppo scorretto e troppo poco edificante.
Sono certo fin d’ora, prima di giungere a conclusione, che non avrò una vera e propria risposta, forse nemmeno una farlocca, da porre alla fine per rispondere allo stupido quesito del principio. Perché qualora decidessi per un’etichettatura specifica (MEDIOCRE), questa sarebbe una risultante tanto personale quanto poco verificabile in un contesto generale. È probabile, in realtà, che raccontare la mediocrità sia una pratica altamente selettiva e discriminatoria: o lo si sa fare in modo eccellente, e dunque ci si veste di allori, o non si è in grado, e allora l’occasione di tacere è ormai perduta.
Ciò che mi appare chiaro, in tutta onestà, è il fatto che l’unico indicatore che mi mette in contatto con uno dei possibili versanti di gradimento, è anche quello che, di tanto in tanto, durante la lettura, faceva affiorare alla mia coscienza un’altra insidiosa domanda, forse più rivelatrice e spietata della prima: “E quindi?”. E quindi? Cosa?
Non è certo un buon segno, non lo è, per lo meno, per la considerazione che ho di questo romanzo “tardo”. Tardo in quanto prodotto in tarda età, una medesima tarda età che lo scrittore condivide con il suo personaggio. Non so cos’altro li leghi, mi auguro non il cinismo di bassa lega che trasuda dai discorsi di Frank Bascombe. Incapace di relazionarsi senza una falsità di fondo che farebbe stramazzare Pirandello, Frank e le sue manierate teorie da mancato intellettuale sono lo sciapo coronamento di ciò che, in realtà, sarebbe potuto andare molto meglio.
P.S. Un grande peccato davvero per il gioco di parole del titolo originale. Si porti un cordiale ai traduttori, serve un po' di allegria ogni tanto.
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Ostriche e libertà di astensione
Che casualità. Proprio l’atra sera, seduto a gambe incrociate su un plaid, vedevo lo sguardo di un caro amico che si fissava su di me mentre sillabavo per l’ennesima volta, neanche fosse una profezia azteca: “perle ai porci!”. Perle. Perle come simbolo di una preziosità che non può essere compresa. Perle, tante altre volte, come simbolo di un’ambiguità che può essere travisata, deformata, decontestualizzata, mascherata e definitivamente utilizzata da un mammifero con capacità decisamente superiori a quelle di un suino, ma certamente con meno buonsenso. L’ominide, ahinoi, sa servirsi della perla-ambiguità per scopi ben diversi rispetto a quelli previsti da chi ha aperto l’ostrica.
Nel nostro caso, il pescatore di ostriche, o meglio di huîtres, si occupa di letteratura. È uno scrittore, si chiama Michel e sembra avere una predilezione per quel filone letterario che dagli inizi del Novecento proietta e inchioda il genere umano in un tempo a lui prossimo, degenerato e irrecuperabile. Tale predilezione non impedisce di mettere in luce l’acquisita competenza di genere del signor Houellebecq. Ma l’acquisizione di una cultura letteraria specifica, come del resto anche quella sull’opera di Huysmans e degli autori francesi del XIX secolo, non può, a parer mio, dirsi tale se da essa non si sono tratti e messi in pratica i principi fondativi del genere stesso. Uno dei fondamenti strutturali che accomuna una fetta sostanziosa della letteratura distopica è quello che riguarda l’ambientazione socio-politica della vicenda narrata. Il fatto che i maestri del genere non si siano quasi mai cimentati nella narrazione di avvicendamenti contestualizzati su scenario reale (e per reale si intende esistente, con persone esistenti) non ha creato il minimo dubbio al signor Houellebecq. Dubbio che invece, a parer mio, si sarebbe dovuto porre ad ogni battuta della prima stesura del suo romanzo. I maestri del genere, come i maestri -indiscutibili fiaccole di sapienza e competenza- di ogni altro genere, sono tali perché a loro sono riconosciuti meriti incontestabili, perché non compiono errori nella pratica del loro mestiere. Perché sanno attenersi a un buon gusto che, in casi specifici come questo, si sarebbe dovuto esprimere nella scelta di un quadro sociale, geografico e antropologico non politicizzato, non veridico, non travisabile, non utilizzabile per altri fini. Il signor Houellebecq fa letteratura, scrive di letteratura, ma dimostra, nella mia personalissima opinione, di aver imparato ben poco da essa e da chi prima di lui l’ha fatta senza compiere errori così grossolani.
Scrivere di un popolo e della sua sottomissione ad un altro popolo, porre l’accento su diversità, tradizioni vissute come restrizioni, buttare nella mischia qualsiasi cosa faccia polverone, non importa a quale prezzo, non importa a quale deformazione siano costrette le fonti. Tutto un’insieme di azioni che sono consentite da quella che viene definita “libertà di espressione”, la più sacrosanta, la più millantata, la più sventolata. Lo spauracchio più radicato e verbalmente ineccepibile, la lapide conficcata nel terreno e mai più smossa. Parlare della Francia sarebbe troppo facile, e sarebbe troppo sbagliato. E sarebbe troppo pretenzioso da parte mia, che, invece, mi limito ad esaminare la bordura, la linea sfrangiata di una situazione nazionale ed extranazionale che presenta un quadro di una complessità incommensurabile, e per questo solo ipoteticamente dissertabile. La passamaneria che cinge tutto, come accennavo, riguarda la libertà di esprimersi. In questa rientra tutto, un tutto che prevede anche la negazione. Se la libertà di esprimersi è tale, allora essa contiene anche la libertà di non esprimersi. Una libertà che, per quanto paradossale, può essere esercitata nel medesimo modo. Non un’autocensura, non una mortificazione della propria opinione. Solo un semplice ragionamento che verte su quanto sia opportuna, in nome di una libertà che è possibile esercitare in quanto diritto inalienabile, la divulgazione di una tematica sufficientemente ambigua da poter essere fraintesa da una percentuale di audience priva delle competenze necessarie per discernere la fantasia dall’istigazione all’emarginazione e all’odio razziale. Anteporre la propria libertà di parola (ribadisco, incontestabile) alle conseguenze cui quest’ultima può portare, conseguenze tangibili, fisiche in quanto indiscriminatamente violente nei confronti di quella che nel 2015, nel mondo reale, è ancora una minoranza; fomentare involontariamente la diffidenza verso ideologie la cui credibilità è già gravemente minata.
Tutto questo, pur sembrandomi lampante, non è ovviamente esplicito. Tutto questo riguarda la libertà. Libertà che, nella mia opinione e nel’opinione di chi me l’ha inculcata, è mia fino a che non incontra quella dell’altro. Libertà che è rispetto, il cui esercizio non deve ledere l’altrui incolumità. In questo, nella giustificazione in cui si sa di potersi rifugiare, nella certezza di una tutela costituzionale e democratica, mi sembra si annidi la gravità e la leggerezza con cui viene utilizzato il mezzo letterario, di una potenza incontenibile se lanciato nel mezzo di un grumo di tensioni contrapposte e in via di cedimento. Sono certo che nessuna delle mie elucubrazioni, niente di simile e similmente polemico fosse nelle intenzioni dell’autore. Ma scrivere significa anche questo, significa sviluppare una coscienza del mezzo letterario stesso e di ciò che esso è in grado di fare qualora non fossimo in grado di controllarlo o di presumerne le conseguenze. Significa, inoltre, assunzione di responsabilità. Significa saper essere opportuni, possedere un’onestà intellettuale e una coscienza che abbiano potere su di noi e che regolino le nostre scelte, le nostre azioni, le parole che escono dalla bocca con troppa velocità. La parola leggera, la più esecrabile, la parola senza peso, la parola che esce senza che le si attribuisca un portato oculatamente soppesato. Le parole leggere si possono dire a gambe incrociate su un plaid mentre si fuma qualche sigaretta; non, certamente, all’interno di un medium di rilevanza globale che si prevede di lanciare in un lago di benzina.
Mi sembra opportuno, vista la preponderanza di argomentazioni personali, scusarmi sia con chi avrebbe necessitato un approfondimento maggiore degli elementi formali del romanzo di Michel Houellebecq, sia con chi si senta urtato dalla trattazione di tematiche sensibili. Ribadisco il carattere personale delle mie affermazioni e la mia più serena apertura al dialogo.
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Orogenesi dell'audience
Il lettore, l’assiduo praticante della carta stampata e degli abissi e degli intrecci e delle vicende, acquisisce inevitabilmente delle competenze. È trasportato in perpetuo verso un incremento esponenziale, più o meno lento, della coscienza e del ragionamento sul gusto. Se è esatta l’evocazione artaudiana dell’uomo che si « conquista per schiarite successive » è forse altrettanto vero che una spinta all’avvenire di queste schiarite può provenire dalla letteratura e dalla sua linfa. Ci sono libri, qualsiasi sia la loro natura formale, che nella loro conformazione compatta riescono a conficcarsi talmente tanto opportunamente, profondamente e precisamente nella distesa di supponenze (e acquisizioni) da arrivare a sfiorare direttamente il nostro Primo Strato. Un Primo Strato che è, inevitabilmente, la base primigenia ed elementare di una geologia stratificata e personale. La prima delle tante coperte che indossiamo, l’infarinatura, il requisito minimo, fondazione ingenua e in espansione di una cultura letteraria in nuce.
Il nuovo McEwan, entrando nello specifico, è una punta di freccia silicea, compressa, vitrea, dura, affilatissima e simmetrica. Proviene dall’oltremanica senza emettere alcun sibilo, fende carni e roccia e si deposita sotto il mantello che indossiamo, là dove ogni lettore (o meglio ogni essere alfabetizzato) non fatica a riconoscere il magistero di eleganza e correttezza di chi sa fare indiscutibilmente il proprio mestiere.
“La ballata di Adam Henry” è questa freccia. Come mi capita spesso di dire, lo Chef d’oeuvre è ben lungi dal palesarsi. Ma non è nemmeno misurabile – come la stragrande maggioranza delle opere letterarie odierne – con un metro assoluto, onnicomprensivo e super partes. È, relativamente, però, in grado di situarsi in un luogo, nei nostri interni, apparentemente in sua attesa. Sembra quasi sia stato studiato per riempire alla perfezione un alloggiamento appositamente creato e appositamente pronto ad accoglierlo. Un’infinitesimale sensazione di pienezza, il “click” noetico più soddisfacente che ci avverte di un avvenuto, microscopico, accadimento indotto. Ed è un ingranaggio che scatta perché quella che narra McEwan è una storia di tutti. Di tutti perché rifugge il semplicismo illustrativo delle storie adolescenziali e delle croci che si portano appresso, perché rifiuta la catalogazione dei più frusti paradigmi della crescita. Perché va oltre e mostra, grazie ad Adam Henry, diciassettenne leucemico che rifiuta le cure in nome dei dogmi di Geova, il bisogno d’amore, di attenzione disinteressata che ha smesso di essere appannaggio esclusivo dell’adolescente per divenire universale. Il surmoderno è un luogo tetro e non sono solo gli Adam Henry ad avere bisogno di due orecchie che ascoltino e di due braccia che confortino. Oltre alle diatribe ideologiche, etiche, religiose, oltre ad un immenso paraocchi fatto di paraocchi, ci siamo tutti quanti in quel letto, non leucemici ma comunque mendicanti.
Ma le tinte fosche di un’interpretazione (chiedo venia) magari errata non debbono oscurare un messaggio ben più lucido e illuminato, quello di McEwan che tenta di porci davanti a una lezione basilare, importantissima e tanto poco scontata in quanto data per scontata. Ascoltare, ascoltare e ascoltare. E poi ascoltare ancora e ritardare, procrastinare la parola e farla giungere solo quando si è perfettamente sicuri di aver compreso le parole di chi ha parlato. Quelle del giudice Fiona Maye sono anche le nostre orecchie in questa vicenda. Sono le orecchie di una sessantenne in crisi coniugale, sono orecchie che stanno ai lati di un cervello brillante ma sovraccarico, che doneranno attenzione ad Adam, che lo sentiranno suonare stentatamente le note di una malinconica romanza di Britten, che lo sentiranno pontificare sul volere divino di Geova. Fiona farà il suo mestiere con la medesima competenza dell’autore da cui essa è nata. Entrambi coglieranno i frutti e constateranno quali conseguenze avrà portato il loro agire. Per quanto riguarda le conseguenze dell’agire di McEwan, si dà il caso che siamo precisamente noi lettori a deciderle. Noi riscontro pubblico, noi audience stratificato, noi persone che ricaviamo le nostre conclusioni e i nostri accrescimenti, le nostre teorie, le nostre vanità che abbiamo voglia di urlare ai quattro venti per soddisfarci, gonfiarci ed ammiccare. Noi che a nostra volta, come tutti, necessitiamo con impellenza di un pubblico per vivere, animali sociali incorreggibili e spesse volte in-corretti. Un pubblico che annuisce, acquiescente e benpensante, o che arriccia il naso di fronte alla proiezione di sè stesso. Ma il moralismo è un cacciatore abilissimo, ed è tempo si sfuggire alla tagliola. Parlino gli altri. Parli Palahniuk, e con esso parli David Fincher. Ce lo ripetano altre mille volte quanto sia importante trovare qualcuno che ci sappia ascoltare e che, invece, non finga mentre aspetta il suo turno per parlare. Non basta mai. Come non bastano mai queste storie, che con porzioni cronometriche e ipperrealiste di realtà fittizie – equipollenti ad altre che di falso non hanno nulla - si rivelano come gli ultimi baluardi di civiltà, umanità e principi ormai desueti.
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La Signora e il suo setaccio
E va bene. Ce l’hai fatta, Joanne. O preferisci Joe? Va beh, facciamo J.K. Perdona la confidenza, ma ho un po’ temuto, e nel bel mezzo di questo oblio, di questo vasto senso di perdita provocatomi da un brutto libro mi sono sentito vicino alla tua sorte. Ma stavolta ci siamo, te l’avevo detto che t’avrei aspettato, e credo ne sia valsa la pena.
Credo ne sia valsa la pena. La signora Rowling ha fatto quello che pensavo avrebbe dovuto fare anche nella prima occasione (“Il richiamo del cuculo”), ovvero regolare la pressione sul pedale della frizione per non far sobbalzare la macchina. In questa occasione il suo milionario piedino ha saputo essere notevolmente più delicato sul pedale, e la marcia non ha grattato. L’ha innestata con un movimento molto più fluido, tanto quanto quello della sua eroina Robin Ellacott che in questo nuovo episodio si rivela un’esperta pilota. E forse quel piedino è stato mosso da un sentimento più genuino, più ponderato e più gradevole, un sentimento a metà tra l’onestà e la voglia riparatrice che sfocia nel mezzo espressivo. Un’onestà che ha portato la signora Rowling a proporre un romanzo, “Il baco da seta”, che fa della meta-letteratura un modo per redimere, per espiare e sdrammatizzare la triste vicenda che ha avuto come protagonista il primo volume di questa nuova serie e il clima gelido con cui venne accolto, un anno orsono. Inutile rivangare il passato, e quelle che il sottoscritto aveva descritto come fantasmi di speculazioni. La nostra beniamina propone finalmente una meditazione più accurata e più sincera, che prende spunto da un’accadimento autobiografico per impostare una trama basata sul mondo complesso e a volte menzognero, lo abbiamo visto coi nostri occhi, dell’editoria e del mestiere dello scrittore. E la più onesta delle considerazioni che la Rowling ci pone sotto gli occhi, sebbene in sordina, riguarda innanzitutto la banalità di presentare un libro che racconta di un altro libro. La legittimazione avviene in questo modo, zittendo il lettore che sbuffa di fronte all’ennesimo tentativo narrativo che verte sulla narrazione stessa. Lo ammette, è banale, sorpassato, visto in tutte le salse. E noi lo sappiamo, ma sappiamo anche che questa signora ha bisogno di ingranare, ha bisogno di tempo per conquistarsi il cuore del lettore. Ha bisogno che la si lasci lavorare, e basta. E’ la sua modalità d’azione, è graduale, è metodica, ritengo non ci sia bisogno di tirare in ballo i suoi trascorsi, nemmeno di nominarli. Sappiamo che sa farlo. J.K. Rowling, anche questa volta non ha scritto un capolavoro, non ha fatto alta letteratura e non ha la minima pretesa di farlo. Semplicemente inizia a scaldarsi. Prepara la pappa che ci sfamerà per i prossimi dieci anni. Auguriamoci che sia sempre più dolce, considerata la partenza a base di fiele.
“Il baco da seta”, per quanto mi riguarda, è un romanzo sostanzialmente riuscito. Se il luccicante universo dell’alta moda non si addiceva particolarmente alla prosa dell’autrice, suonando un po’ troppo falso, un po’ troppo pantomimico, quello dell’editoria pare invece più affine e meglio indagabile da parte della Rowling, che di case editrici deve averne viste parecchie. Basta lustrini, basta servizi fotografici e diatribe estetiche. La scelta è quella di giocare in casa. Ma l’omicidio letterario, fortunatamente, non sembra prendersi molto sul serio, non è il fulcro vero e proprio della narrazione, e proprio per questo il romanzo scarta al momento opportuno e si allontana rapidamente da una scontatezza che lo avrebbe annientato: nulla al confronto delle incrinature alla base de “Il richiamo del cuculo”. E altrettanto fortunatamente, i personaggi iniziano a camminare da soli, ormai referenziati e lasciati a loro stessi, capaci di intrattenerci con una presa più veritiera e confidenziale sia tra loro che con chi li guarda muoversi nella loro Londra novembrina. Cormoran Strike investiga sulla scomparsa di uno scrittore dai gusti letterari particolarmente macabri, che non lesina ai propri lettori scene di incesto, sbudellamenti, androginie, mutazioni sessuali e perversioni erotiche inaccettabili. Uno scrittore, Owen Quine, che farà la fine –atroce- del personaggio del suo inedito, e impubblicabile, nuovo romanzo. Su questo investiga Strike, affiancato dalla presenza sempre più scalpitante dell’assistente Robin che, stufa di essere relegata ad una scrivania, preme per un lavoro sul campo.
La Rowling, ad ogni modo non prende posizione. Si distanzia notevolmente, e con palese pertinacia, da tutta quella tradizione di thriller filologici che negli ultimi dieci anni hanno monopolizzato il mercato letterario globale. Ci hanno affascinato, inutile negarlo. Ma, in questo caso, l’aplomb britannico della Lady decide di essere superiore a tutto quello scartabellare tra polverosi documenti che è diventato parte integrante del lavoro del giallista. Rowling è benevola e ieratica al medesimo tempo. Scrive con ironia e non ha la benché minima intenzione di ficcare il naso in qualche arcano manoscritto nel IX secolo per trovare un simbolo sfacciatamente pagano o una lugubre citazione satanista solo per costruirci sopra un bestseller con cui pagarci le bollette. Neanche per sogno. Troppa polvere, troppo Hogwarts, basta calamai, basta pergamene. Al diavolo. Lei si inventa tutto. Rowling non ha sfogliato nemmeno un albo illustrato. Ed è qui che sta la discriminante. Gradita o meno, qui sta la differenza tra un’autrice con determinati trascorsi e l’ultimo degli scrittori che si seppellisce nella sezione “esoterismo” della libreria del centro. Il totale distacco dalla metodologia filologica, il disprezzo per l’elegia e per la verbosità dell’occultismo, qui, in questo urlato “non ne ho bisogno”, si cela la differenza che intercorre tra chi rovista e chi usa i propri mezzi. Qui si capisce quanto diverso sia la “costruzione” di un mondo dalla “rievocazione” di uno trascorso. Sono due abilità differenti che in questo caso non si incontrano ma che sono in grado di esaltarsi vicendevolmente. Sono due linee d’azione parallele e distanti che mantengono una dialettica sussurrata con il quale riescono a soddisfare la superficie marezzata e volubile che rappresenta i gusti di un audience sempre più esigente. Non credo si tratti di prendere una posizione, si tratta semplicemente di capire i diversi piani su cui si muove la letteratura e la meta-letteratura. Certo, Rowling manca di mordente storiografico, manca di date, di coincidenze che solo attraverso uno studio cattedratico si possono intrecciare. Ma non credo sia importante. Ciò che conta è che la Signora ci abbia dimostrato che la mente è ancora lucida, che ancora si muove. Forse non con l’agilità di prima ma pur sempre con vivacità. Ed è con questa mente che, seppure con un taglio sobrio e fumoso, riesce a costruire un thriller genuinamente piacevole, in cui il semplicismo viene infine a configurarsi come una scelta ben precisa piuttosto che come un’insicurezza.
Rowling, in definitiva, sta al suo posto. Lo scranno è più stabile, la tavola più ampia, le portate in aumento. Se ne sta lì, non si confonde con gli invitati, la Signora. Sorride amabilmente, ammicca a molti, ma non si fa intaccare da niente e nessuno. Tutto, prima o poi, passa attraverso il suo setaccio. E perdoniamola se le maglie erano ancora un po’ larghe, si era solo all’inizio. Noi attendiamo il bicchiere della staffa. Lo sapiamo tutti, in fin dei conti, che l’ultima bevanda servita dalla nostra anfitriona verrà filtrata con la seta.
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Il disincanto tra velluto e sdoppiamenti
Se vivessi nel 1936 avrei un panciotto di tweed nell’armadio, per le grandi occasioni. Berrei il latte nelle bottiglie di vetro gentilmente lasciate dal lattaio, e, probabilmente, giunta la sera domerei la capigliatura con la brillantina. Se vivessi nel 1936, forse, passando davanti alla vetrina di una libreria vedrei numerose copie di uno spesso, imponente libro dal titolo piuttosto melenso. “Gone with the wind”. A quel punto, forse, tirerei dritto lasciandomi alle spalle la libreria senza il benché minimo rimorso decidendo di privarmi di siffatto mucchio di carta. Il fatto è uno solo. Anzi, due. Innanzitutto, bella scoperta, non vivo nel 1936. In secondo luogo, “Via col vento” mi è piaciuto da impazzire. In questo caso specifico, però, ho dovuto sdoppiarmi. Opinabilità fa rima con sincerità, e proprio per questo devo servirmi di un alter ego, di un me medesimo virtuale e in marsina che mi aiuti a comprendere un sospetto che persiste nel suo frapporsi tra il martelletto e la sua base. Il 1936 è infatti l’anno in cui questo romanzo è stato pubblicato, ricevendo immediatamente una risposta entusiasta da parte del pubblico americano, divenendo in brevissimo tempo un caso editoriale di portata storica e rimanendo in testa alle classifiche per più di due anni consecutivamente. Le infinite traduzioni e ristampe hanno contribuito a farne uno dei libri più letti del secolo e, in realtà, di tutti i tempi. Se il mio me del XX secolo fosse stato attratto maggiormente da quella copertina, fosse entrato in libreria, lo avesse comprato e poi letto, molto probabilmente se ne sarebbe amaramente pentito. O, perlomeno, lo avrebbe liquidato con giudizi poco lusinghieri. Ne sono pienamente convinto. Come sono convinto che mi sia piaciuto, oggi, grazie al suo valore storico, più che storiografico. Gran parte della bellezza odierna di questo romanzo, a parer mio, è dovuta al fascino che questo romanzo esercita sul lettore assetato in quanto pezzo di letteratura trasecolata e sublimata da poco meno di un secolo di storia. La polvere che si deposita sulle cose, celandole e per questo rendendole arcane, in questo caso ha giocato un ruolo fondamentale nell’allettare l’interesse e nello spingere verso la decisione. La nomea, l’altisonanza, la cerchia araldica, il primato. Tutti attributi di merito e di fama, tutte onoreficenze che hanno fatto guadagnare lo scettro alla Mitchell e il batticuore alle adolescenti disinibite della prima metà del secolo. Le palpitazioni per sapere, una volta per tutte, se davvero Ashley amerà Rossella, o per sapere se quest’ultima riuscirà a riprendersi dalla rovina e a salvare Tara dalla decadenza. Le tematiche che decide di trattare la Mitchell in questo romanzo sono ben chiare, ben espresse dalla stessa autrice, che non ci nasconde i suoi moti di ripulsa, tipici di una donna sulla via della contemporaneità, verso quella leziosaggine esacerbata che invadeva tutti gli aspetti della personalità e del comportamento nel contesto del Sud America ottocentesto. Gli ultimi retaggi di quella cavalleria, di quell’epoca cortese di stampo pseudo-medievale che il Nuovo Continente non aveva mai posseduto. Un cancro in seno alla storia di un popolo. Un idillio riscaldato e disfatto nelle fondamenta. Ma, soprattutto, una ribelle. Rossella, una stupidella che non ha affatto capito di vivere le ultime ore di un mondo in declino, è, paradossalmente, quella che meglio potrà sopravvivere al tumulto e quella che più facilmente potrà rialzarsi quando questo avrà lasciato solo macerie. E’ la donna giusta nel giusto momento, per quanto ella non sappia nulla di questa coincidenza in grado di trasformare una prigione di trine e stecche di balena, in una prateria di dolori e libertà. Rossella O’Hara è bellissima e caparbia, gli occhi di smeraldo e il piglio pragmatico dell’uomo del sud, ma, soprattutto, è una creazione darwiniana che dell’adattamento fa la propria ragione di vita, con addosso le tende di velluto verde della madre e le mani disfatte dal lavoro nei campi. Io, non mi vergogno ad ammetterlo, sono stato Rossella per tutto il tempo. Qalche pagina in più e mi sarei fatto mandare dei pizzi da Liverpool. “Via col vento” è un grumo di nostalgia, è la copia di una copia, iperuranica, sfacciatamente inattuale, prole incoronata di un demiurgo in gonnella che ha saputo comporre un affresco complesso che trova il suo equilibrio compositivo nel contrasto/compensazione, rappresentato dalla eterea e benpensante Melania, e una sua ragione di esistenza nella figura senza scrupoli, ma per questo genuina, di Rhett Butler. Questo romanzo va letto. Ma va letto con l’occhio disincantato del lettore del nuovo secolo, in grado di apprezzare un revival nel revival, un gioco di specchi che, posti l’uno dirimpetto all’altro creano una profondità di stampo manzoniano in cui immergersi fino a giungere a tempi che sopravvivono solo nella saggistica più spiccia e dichiarata. E su questo sfondo storicizzato si stagliano le figurine ben cesellate, un teatrino delle ombre cinesi, di players infiocchettati e drammatici che vedono la distruzione di quel microcosmo bucolico tanto caro, grazioso, rassicurante. Ashley ne farà una malattia. Intellettuale farlocco dagli ideali immaginifici, proprio lui troverà, in senso figurato, l’epitaffio tra le frasche. Et in Arcadia ego. La festa è finita, bisogna rimboccarsi le maniche. Alcuni ce la faranno, altri no. Inutile parlare della sorte di Rossella e della sua Tara, l’imprendibile piantagione dalla rena sanguigna. Per lei c’è sempre una nuova speranza, c’è sempre qualcosa per cui vivere. Ed in questa forza, commovente e audace, si trova il nodo di un opera frivola ma essenziale che è ancora in grado di galvanizzare il pubblico. E ancora, questo romanzo, proseguirà, un domani, nel proporre i suoi fondali dipinti a chi verrà dopo di noi. Un domani. Poiché, dopo tutto, domani…
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Valchirie di carne, Valhalla di carta
Uno strano e criptico incontro quello avvenuto con l’ultimo nato in casa Lethem, autore finora non frequentato dal sottoscritto e destinato a trovare un oblìo non meglio identificato all’interno della massa informe dei volumi con cui divido l’esistenza. Monsieur Lapalisse arrossirebbe di fronte ad una preventiva considerazione tanto facile quanto poco illuminante: siamo di fronte all’America, e con essa siamo di fronte ai suoi retaggi letterari più consueti e, francamente, più triti. Ciò che risulta chiaro fin da subito è la netta collocazione di questo romanzo all’interno della più compiuta tradizione della letteratura newyorchese/nordamericana, quella dei veterani sotto le insegne di DeLillo e quella seguente del Delfino, Johnatan Franzen (newyorchese solo d’adozione). Stile e modus operandi sono tipici di questo novecentesco folklore, tutti i crismi sono al loro posto e non vi è nulla a livello linguistico che possa considerarsi estraneo allo standard stellestriscie. Lessico forbito e tagliente. Frecce appuntite di nazionalistica autocritica sibilano negli interstizi del sarcasmo e della sdrammatizzazione. Una piccola dose di nobiltà di pensiero, qualche spoglia filosofica ammantata nel cinismo dei personaggi, lievito, vanillina, 180° per 45 minuti. Tutto può essere banalizzato, naturalmente, e ridotto ai minimi termini. Ma è altrettanto naturale l’inquadramento all’interno di una griglia di topoi, in cui l’abilità e la sensibilità narrativa non risiedono, a parer mio, nel loro sconvolgimento o nella loro negazione, ma nell’inventiva e nell’acume con cui possono essere combinati per creare qualcosa di sempre nuovo. Se la chimica ci insegna che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, allora forse è altrettanto vero che il cliché va tollerato nella misura in cui è immagine, èikon, di una reinterpretazione di se stesso verso un fine, telos agognato, che è quello dell’originalità, della distinzione e dei palmizi oscillanti.
Per entrare ora nello specifico ed esaminare uno dei sovracitati topoi che tanto caratterizzano i giovani virgulti del panorama letterario, è impossibile astenersi da un apprezzamento sincero per la fortunata gestione e caratterizzazione dei personaggi. Ne “I giardini dei dissidenti” avviene ciò che dovrebbe sempre avvenire, a parer mio, in ogni denso prodotto cartaceo che si rispetti. I figuranti che occupano la scena hanno da dire qualcosa, hanno da mostrare, hanno da pensare e da dimostrare di saperlo fare. Non si fanno pregare e non sono avari, né tanto meno timidi. Rose Angrush Zimmer e la figlia Miriam sono, nel senso più calzante del termine, due primedonne. Sono loro, fulgide virago dei due versanti del Novecento, che attraggono tutti i fari della nostra attenzione. Loro, le valchirie che cavalcano l’esistenza come Europa in groppa al toro. E loro, questo toro libidinoso lo tengono per le corna, per nulla intimorite. Rose, privata di un marito mandato in esilio dal proprio partito, è la potenza, l’inflessibilità caratteriale portata alle estreme conseguenze. Una non-madre, comunista impegnata, ipocrita, contraddittoria, erudita e granitica. Mille aggettivi per un personaggio che merita e che si colloca a metà tra l’erona sofoclea, l’attivista disinibita immolata al più sfrenato sciovinismo e la madre superiora di un circolo di atei. E come lei Miriam. Come lei sprezzante e tremendamente, incorreggibilmente, imperdonabilmente, snobisticamente newyorkese. Miriam che non si scompone se Rose, in uno dei propri parossistici, barocchi proseliti, le infila la testa nel forno. Miriam che fugge da casa per la salvaguardia della propria condizione psichica e si ritrova a vivere appieno quei lustri di struggente libertà e lirismo che furono gli anni ’60. E allora, noi con lei, frughiamo McDougal Street e la Bowery alla ricerca di cugini impegnati in rivoluzioni, numismatica e scacchistica, facciamo conoscenza di un grasso ragazzino di colore tanto disilluso da capire di non doverlo essere affatto, che in un altro tempo sarà l’illuminato professore che racconterà la storia di Rose e Miriam al figlio di quest’ultima, nato dall’amore condiviso con il “chitarrista” Tommy Gogan.
Un mosaico in cui le tessere coincidono, sebbene disposte in squarci temporali che riassumono i passaggi salienti della storia americana recente. Ma la miscela di ingredienti che compone la malta, il legante di queste tessere, è troppo liquida e non fa presa. Si pretende di tenere tutto insieme ad incastro, a secco, in un contesto che rimane di carta e non di immagini. New York, per quanto mi riguarda, è assente in queste pagine scritte da Lethem. Rimane fatta di parole. La luce e lo spettro ottico che genera le immagini resta cieco e sordo, e una città che rappresenta un microcosmo resta un assembramento linguistico e verboso di strade, vie, quartieri, boulevard senza spessore, senza alcuna proiezione verosimile nella mente di chi a New York non ha mai messo piede. In questo senso credo che possa essere considerato un romanzo fortemente autoreferenziale, dedicato ad una limitata, ahinoi, quantità di lettori che sono i soli a poter godere appieno di tutto quello che viene passato sotto silenzio, che viene dato per scontato e risaputo di un mondo a sé stante con cui non tutti hanno familiarità. In un rapporto inversamente proporzionale, la munificenza con cui i personaggi donano sè stessi a nostro beneficio è guastata dalla cupidigia con cui si dà, o non si dà, la città che non dorme mai. In definitiva, troppo Sheeler e troppo poco Ruscha. Una Beat Generation bypassata senza quasi sfiorarla. Un tentativo di evitare la maniera, la peste di ogni artista che voglia definirsi tale, che, a parer mio, sfocia in un successo pallido e privo invece di quegli aspetti della poetica statunitense che, sebbene meno pregnanti a livello politico, sono stati fondanti nella formazione della classe intellettuale del Nuovo Continente. Forse, e qui si va nel puro contesto ipotetico, una piccola pecca di presunzione nel tentativo di mostrare l’abilità con cui i personaggi, se ben costruiti, non necessitino di una ribalta per essere credibili e inerenti ad un contesto. Non spetta a me la parola decisiva. Eccettuando gli scrittori di alto lignaggio, mi ritrovo invece ad essere della “scuola del contesto”, il quale, se altrettanto ben costruito, è capace di dare frutti parimenti nettarini.
Tirando le somme, siamo senza dubbio di fronte ad un romanzo sostanzialmente godibile, che pecca però di anemia e che rimane troppo poco verace da intaccare con risolutezza quella pellicola di distacco, critico e visuale, tra il lettore e l’autore. Un romanzo che non merita né bocciatura né indifferenza, ma che, invece di valorizzare sé stesso, conferma inesorabilmente, almeno per il sottoscritto, la superiorità totale di altri più pregiati prodotti di quella medesima scuola del narrare formatasi oltreoceano. E se il confronto non rientra nelle ortodossie dell’opinabilità, e mi esimo dal citazionismo per evitare il tedio (FranzenFranzenFranzen), definirei senza dubbio soddisfacente la condizione di aporia che mi porta a non dover bombardare il mio Olimpo e allo stesso tempo a metterlo in allarme. I nembi oscuri di Lethem si addensano in un orizzonte futuro, ipotetici ambasciatori di uno scroscio potente.
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L'implosione e il "mood writing"
Sua Grazia rediviva. Fulgida e adamantina come mai prima d’ora, proviene dal secolo trascorso a beneficio esclusivo del lettore italiano. Si riveste di una tavolozza chiassosa che non si preoccupa di infuocare le cornee della mente. L’occhio giubila al cospetto di un panorama che, dischiuso il broccato delle parole, non manca di mozzare il fiato e di accendere i sensi. Andorra. Di fronte a noi è il paese dei sogni, in cui perdere noi stessi, chiunque siamo stati, chiunque siamo, chiunque tenteremo di essere. Ed ecco che il miracolo è fatto, ancora una volta Cameron indossa gli allori ed incassa una vittoria meritata per aver evocato un frammento di mondo e averlo rivestito di tutti i gioielli del proprio scrigno, immortalandolo in una indimenticabile diapositiva che ci ricorda le Belle Lettere di un tempo che fu. Il granito rossastro che sfrigola sotto il sole di Andorra, quella torretta dell’Hotel Excelsior dalla struggente vista sul porto, offuscata dalle burle della mussolina. L’aulenta notte estiva che lancia ammiccanti bagliori tra i boccioli di bouganvillea. Un mondo che non esiste, un ideale romantico che perde il gusto per gli orpelli linguistici e che propugna invece l’essenza più pura e strutturale dell’utopia. Il discorrere di Cameron è Impressionismo verbale, pittoricismo letterario gonfio di una serie indicibile di immaginari affini che convergono in una sintesi contemporanea e affascinante.
In questo romanzo del 1997 Peter Cameron è già il nostro Peter Cameron. E’ quasi agli esordi, se si esclude la pubblicazione di una piccola raccolta di storie brevi del 1987 (che ho avuto la fortuna di ottenere dopo una strenua ricerca) e “The weekend”. Eppure egli è già maturo, non mostra indecisioni, non ripensamenti, nessuna pecca giovanile che faccia presupporre, ad un lettore poco informato, il periodo giovanile in cui “Androrra” è stato scritto. Solo il lirismo in technicolor risulta essere una caratteristica che va via via diminuendo con il progredire della produzione letteraria. Caratteristica che in questo romanzo rivela una sua potenza, una sua preponderanza e una sua centralità che risulta paritaria rispetto a quella di personaggi, settings e dialoghi. “Andorra” conferma ancora una volta lo svilupparsi di un filone di romanzi fondati sul nulla, su un minimalismo sinottico che viene redento e confezionato da uno stile inconfondibile, placido e visivo. Una vicenda di convenzionalità estrema come quella dell’espatrio volontario sta al centro di questo romanzo. Alexander Fox è un personaggio farraginoso, prototipico, che si reca ad Andorra con la ferrea volontà di stabilirvisi, al riparo dei frammenti taglienti di una vita andata in pezzi. Compra un diario dalla copertina damascata per riporvi i propri pensieri, fa la conoscenza di Mrs Dent, immigrata dall’Australia col marito, e la ricca famiglia dei Quay, un nucleo sociale tanto inconsueto quanto mielosamente blasé. Alex si insinua nel costume tipico di un paese accogliente ed ebbro di felici promesse, entrando in dinamiche sentimentali che tenteranno di minare la propria volontà di trovare un riparo duraturo contro le insidie del passato e del presente. Il concetto di identità e di relazione col mondo e col proprio posto in esso risulta il lampante messaggio che Cameron lascia tra le righe di “Andorra”. Lo fa, naturalmente, a suo modo. In quel suo modo peculiare che porta ad amare la circostanziata serie di perfezioni distribuite con generosità non solo in questo lavoro specifico, ma in tutte le opere della sua produzione. La figura che va delineandosi in relazione alle peculiarità di Cameron credo che possa essere definita come “mood writer”. Scrittore d’atmosfera. Perché è proprio l’atmosfera, generale e originaria di ogni momento della vicenda, che gioca un ruolo fondamentale nella fascinazione che si prova nei confronti di questi squarci idealizzati di mondo. Egli è un esteta che non rinuncia al tratto poetico, all’opportuno senso di compiutezza atmosferica che compendia ogni scena e ogni dialogo dei personaggi. Tutto è come dovrebbe essere, tutto è come vorremmo che fosse se anche noi ci trovassimo al fianco di Alex e Mrs Dent sul terrazzo panoramico affacciato sul crepuscolo sanguinante. Il senso di attrazione che si prova per quel dato momento, per quel dato istante così meravigliosamente completo è qualcosa di impagabile.
Credo valga la pena leggere qualcosa di questo autore, “Andorra” in primis. Anche solo per dare atto ad uno scrittore fondamentale della generazione contemporanea del grande merito e del coraggio profuso nella presentazione di una scelta stilistica in netto contrasto con le imperanti tendenze moderniste. Cameron, nella sua concezione “implosiva” di ritorno ad una letteratura di matrice ottocentesca, è ciò che si contrappone all’”esplosione” estremizzata che ha caratterizzato le lettere e le arti della fine del secolo scorso. Egli è la Transavanguarda dopo il Minimalismo, il preraffaellita dopo Cezanne, il manierismo che supera la trasgressione. Ed è tutto questo in modo tremendamente semplice, quasi modesto, in una dimensione di Garbo il cui concetto ho già espresso a proposito di “The weekend”.
Inutile dire, dopo tante nubi di incenso, l’interesse profondo che provo per questo autore e per le sue capacità di racchiudere una dimensione di piacevolezza e di diletto in una concezione letteraria che, benché non ne riprenda il lessico, si affianca notevolmente all’ideale romantico del contesto ottocentesco, reinterpretandolo e buttandolo nella tantità dei nostri odierni universi.
Ancora una volta, con rinnovata verve, un sincero invito all’approfondimento.
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La mano di Efesto
Occhialino alla Cavour, pipa in radica e un pratico à plomb tipicamente britannico, a dispetto della nazionalità statunitense, riesco a immaginarlo facilmente il signor Sennett alla propria scrivania mentre pensa al lessico più corretto per scrivere quello che i suoi conterranei definirebbero un masterpiece di genere. Esimio sociologo e saggista, siede in cattedra con atteggiamento informale ed educa in modo dilettevole, approfondito e iper documentato su una tematica sensibile, volenti o nolenti, di un era di crisi globale. Crisi di valori, prima che crisi economica. “L’uomo artigiano” è un libro ambizioso e ben fatto, uno di quelli per cui ci si sente grati dell’esistenza di qualcuno che è riuscito a mettere nero su bianco, e in modo ordinato, tutto un bagaglio di idee che si hanno a livello “tacito” (il lettore di Sennett capirà la scelta terminologica) ma che non si è mai trovato il modo giusto per esplicitarle con logica. Vi si trovano idee, pensieri, nozioni semplici, in certi casi comprese in un bagaglio collettivo, che vengono però indagate in profondità e arricchite di retroscena che solo un documentarista accorto può scovare. La tematica affrontata da Richard Sennett è quella dell’artigiano, del suo ruolo millenario di fondatore e custode dei saperi più ancestrali nell’ambito della tecnica. Una figura che viene esplorata, sviscerata fin nelle sue più recondite sfaccettature per presentare al lettore del ventunesimo secolo un contesto sepolto dalla “cultura di massa” nata a metà Novecento. Quella dell’artigiano, quello vero, quello che fa le cose, il maker vero e proprio, è una figura che non riesce a scrollarsi di dosso, nel bene e nel male, una certa affettazione legata al pittoresco e ai folclori nazionali. Ma Sennett, dopo averci presentato il maker in tutte le sue forme più arcaiche, partendo dalle emulazioni di Efesto nella Grecia classica, passando per l’orafo medievale, per il produttore di mattoni di epoca elisabettiana, per il sistema fordista e arrivando ai tempi correnti, tenta ossimoricamente la strada più agibile per considerare l’artigiano e il suo campo d’azione alla luce di una realtà priva di malinconismi e orpelli tradizionalistici. Ci porta a spasso, a volte facendoci compiere salti temporali piuttosto impervi, indicandoci il valore immortale dell’agire e del produrre affidandosi allo strumento per eccellenza. Le mani. Le mani fattive, che compiono, che sono simbolo, specchio, forza concreta e applicazione di un pensare alto. La nobiltà dell’uomo che fa, senza sentimentalismi, è quello che egli si prepone di evidenziare, in contraddizione alla concezione dell’ animal laborans, l’ottuso animale da lavoro, che secoli di industrializzazione ci hanno inculcato erroneamente. E poco ci importa delle macchine di Vaucanson, il primo a capire l’utilità della meccanica applicata alla produttività. Quello che importa è la visione illuministica, prima, e pragmatica, poi, di come si possa trovare serenità, soddisfazione e libertà di pensiero anche in un mondo come il nostro che si concentra esclusivamente sul lavoro di concetto, diventato anch’esso, ahinoi, un prodotto del fordismo, sfruttatore di capacità al servizio del soldo.
Ricordo, in merito, la concezione del processo storico di Saint-Simon, secondo il quale la storia dell’uomo sarebbe nient’altro che una inevitabile successione ciclica di periodi di progressione e periodi di regressione, in cui tutto viene rimesso in discussione per arrivare al progresso conseguente, all’infinito. Ricordo anche un detto: in tempi di crisi si guarda sempre al passato. Ebbene, in un certo senso mi sembra che sia questo, in parte, quello che sta accadendo. La visione di Sennett non è retrograda, tutt’altro. Ma il solo fatto di dedicare tempo, capacità e dedizione per valorizzare una figura così legata al nostro passato come quella dell’artigiano, mi fa pensare a quanto ci sia bisogno si trovare una strada nuova, più luminosa di quelle che si aprono di fronte alle nuove generazioni.
“L’uomo artigiano” è una guida variegata e piacevole che porta all’approfondimento di un contesto che con tutta probabilità vedrà una rinascita, proprio in seno all’era contemporanea. Lo dimostrano le modalità di lavoro artigianali che vengono adottate anche nella creazione dei più moderni software per computer e in tantissimi altri luoghi di produzione considerati emblematici del nostro tempo.
E allora, per sapere ciò che siamo stati, ciò che siamo e, forse, ciò che saremo in un futuro che bussa ormai alla nostra porta, un saggio come quello scritto da Sennett si rivela, al pari delle nostre mani, uno strumento cruciale e poetico per guardare all’orizzonte.
Nel ringraziare il mio prof per averlo consigliato, invito tutti ad una sua lettura.
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J.K., io t'aspetto!
Molto tempo fa sentii mio padre pronunciare una frase che è rimasta in un limbo mentale abbastanza fragile perché io potessi rimuginarci sopra per un lungo periodo. Niente di eccezionale in realtà. Disse: “Ormai ha già dimostrato tutto. Può fare quello che vuole.” Si riferiva a un cantante molto noto e molto amato, discorrendo sul suo strampalato nuovo singolo.
Ebbene, a distanza di anni questa frase mi torna alla mente, spolverata e illuminata da un’acquisita propensione, ahimé, per il moralismo. Se qualcuno che ha già dimostrato appieno le proprie capacità si può permettere qualche colpo di mano, qualche nuova uscita magari di qualità inferiore allo standard lungamente proposto con i propri trascorsi, qual è la discriminante che separa il vistruosismo dalla speculazione? Non pretendo, tramite cervellotiche elucubrazioni , di perseguire una risposta soddisfacente. Mi limito ad osservare i fatti e ne traggo le conclusioni più ovvie. E la più ovvia, naturalmente a proposito del romanzo “Il richiamo del cuculo”, è che, sfortunatamente Robert Galbraith non esiste. E assieme a lui non esistono tutte le possibili attenuanti che spieghino la pubblicazione di un libro mediocre. Se fosse esistito sarebbe magari stato un giovane scrittore esordiente, alle prime armi, con tante idee e poca pratica. Sarebbe potuto essere un avvocato di mezza età che, in preda all’omonima crisi, avesse buttato all’arie scartoffie e stress quotidiano per dedicarsi alla scrittura creativa. Ma non c’è nulla da fare, Robert Galbraith non esiste. Al suo posto vi è, dolorosamente, un’eminenza mascherata. Una dea della creatività, una sacerdotessa della prosa. J.K. Rowling mi procura un grande dolore, tanto quanto me lo procura la lettura di questo romanzo, accettabile se fosse stato scritto da uno degli ipotetici autori suddetti, terribilmente e irreparabilmente modesto se proveniente dalla penna della Rowling. Ma questa penna, cosa non poco rilevante, è d’oro zecchino, incrostata di pietre e in cerca di un’idonea compagnia.
Insinuare una speculazione editoriale è certamente rischioso, pretenzioso e di cattivo gusto, e non è certamente nei miei intenti. A parlare per me sono fatti inconfutabili. “Il richiamo del cuculo”, infatti, nei primi tre mesi dopo la pubblicazione ha venduto in tutto il Regno Unito l’imbarazzante somma di 1500 copie. Ma, sorpresona, dopo la grande rivelazione sulla paternità del libro, ecco che la mattina immediatamente dopo le copie vendute avevano raggiunto la quota 7,5 milioni. La notizia, che non necessita un commento, è, nel mio personalissimo caso, la forza più potente che agisce sull’ago della bilancia, portandolo nella parte più instabile e pericolosa del quadrante. Con grande tristezza.
Se con “Il seggio vacante” avevo piacevolmente ritrovato tutti i topos, sebbene abilmente rivisitati, di un’autrice che mi ha cresciuto (assieme a qualche altro milione di adolescenti in tutto il mondo), con questo ultimo lavoro trovo solo il piacere della lettura, derivante da un eloquio verbale sempre scorrevole e accurato, ma nulla di più. E non basta certo una musicalità, una godibilità visiva a fare di un romanzo, tanto più un romanzo giallo, un buon lavoro.
Cormoran Strike è un personaggio con un grandissimo potenziale rimasto totalmente non sfruttato, che diventa presto convenzionale. E, anche in questo caso, non basta una gamba mancante e una madre con un passato da groupie a rendere originale e tridimensionale un protagonista. Assieme a lui un girotondo di personalità che simulano nel loro insieme, con troppa nitidezza e troppo manierismo, il catalogo di volti e di comportamenti tipico del giallo britannico vecchio stile.
Neppure Lula Landry, la bella Nefertiti della moda, la top-model mozzafiato acclamata che viene trovata morta a molti metri sotto il balcone della propria abitazione, è riuscita a smuovere qualcosa nella mia considerazione. Le indagini che l’investigatore privato Cormoran Strike conduce, appoggiato dalla nuova segretaria Robin, sulla morte di Lula, deciso a scartare l’ipotesi troppo inverosimile di un suicidio, non sono altro che un viavai di facili interrogatori privi di mordente, in cui la suspance non è di casa.
Un piccolo piatto romanzo, questo della Rowling. Un giallo edulcorato e fumettistico. Un fallimento mascherato e non accettato, che ha avuto bisogno del nome del proprio autore per vendere, esattamente ciò che, a parer mio, non dovrebbe accadere se si segue un principio meritocratico che verte sulla qualità del lavoro piuttosto che sulla fama di chi lo ha scritto.
E, concludendo in amarezza, la situazione non sembra assolutamente sull’orlo di un cambiamento di rotta. La nostra amata scrittrice, senza ironia, non nasconde l’idea di in possibile seguito a questo romanzo, tanto per confermare la propria assoluta noncuranza nell’abbandonarsi ad una carriera che l’ha portata ad essere una delle donne più ricche del mondo e che dischiuderà per lei chissà quali altre porte.
A tutta la parte di lettori che, lecitamente, non ha amato visceralmente tutto ciò che è uscito dalla penna della Rowling sembrerà eccessivo un tale grado di amarezza. Ed è a loro che consiglio spassionatamente di non fermarsi di fronte all’opinione di un singolo lettore deluso, ma di buttarsi nella lettura di questo romanzo, che sicuramente risulterà piacevole, se non bello. A tutti quelli, invece, che sono rimasti scottati non rimane altro che aspettare e avere in buon senso di dare un’altra chance a chi se lo merita.
(Sia chiaro, J.K., in nome dei vecchi tempi.)
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Diletto, con gusto
Ancora una volta mi affaccio con occhio vergine ad una finestra autorale e narrativa a me poco nota. La letteratura “umoristica”, se in questo ambito può essere collocato il romanzo di Malvaldi in questione, è una tipologia letteraria che ho esplorato davvero poco, e ne rimango, nel caso specifico, pienamente soddisfatto. Forse perché non si può esattamente e pienamente definire umorismo quello proposto dall’autore in questo “Argento vivo”. Si tratta principalmente di un sarcasmo ben costruito che si innesta in una commedia degli equivoci altrettanto ben architettata. Un intreccio narrativo degno della più alta tradizione cinematografica e delle sue brillanti sceneggiature pseudo-comiche. E gli attori che si muovono tra le pagine di questo romanzo seguono il proprio reciproco avvicendarsi attraverso una matassa di fili aggrovigliati, che si sbrogliano e si riannodano con fluidità e semplicità. In un piccolo romanzo italiano si congiungono le capacità e i cliché del canonico plot tipologico.
Il fitto intricarsi degli accadimenti non permette un’estrazione precisa della trama, sebbene l’autore, con didattica intelligenza, ci mostri nero su bianco come i personaggi del romanzo possano essere suddivisi in sei differenti coppie, unite da sentimento o da professione. Giacomo e Paola, lo scrittore cui viene svaligiata la casa, romanzo inedito compreso, e la moglie. Leonardo e Letizia, novelli sposi alle prese con gli equivoci della legge e della cattiva sorte. Corinna e il Dott. Corradini, lei statuaria poliziotta con tanto zelo e tanta voglia di fare, lui viscido superiore poco propenso al consiglio. Gutta e il Gobbo, criminali improvvisati e comicamente mancanti di vera esperienza, e infine tutta la sequela di personaggi secondari atti a dare il tormento, sgradevole quanto inconsapevole, ai nostri eroi moderni così vicini alla condizione del cittadino medio italiano. Ed è forse proprio questa specifica caratteristica, prima di tutte la altre, che attira il mio personale apprezzamento verso questo romanzo. Sono i personaggi, così vicini a noi, così concreti da poter essere il nostro vicino di casa, il nostro collega di lavoro o il poliziotto che sta all’incrocio a fare il grande lavoro che dona assoluta verosimiglianza anche ad una trama così tremendamente buffa e poco probabile. E ciò che in assoluto contribuisce alla verosimiglianza dei personaggi di Malvaldi è sicuramente un realismo dialettico eccezionale. Una spontaneità di linguaggio talmente genuina che provoca il riso (non il sorriso) nel lettore, che vede trasposti e nobilitati dall’editoria dei modi di dire e delle locuzioni abitualmente utilizzate nel linguaggio più spiccio della propria vita quotidiana. Un personaggio che sbotta allo stesso proprio modo è qualcosa che colpisce, che immediatamente proietta la propria immedesimazione all’interno di una situazione puramente immaginaria. Questa è, a parer mio, la causa del gradevole intrattenimento che si può ottenere dalla lettura di “Argento vivo”. Se l’idea di leggere un giallo sostanzialmente blando in quanto a suspance non attrae la nostra attenzione, vale certo la pena godere a pieno della bravura linguistica e della proprietà di linguaggio dell’autore. Sarcastico, ironico, puntiglioso e piacevolmente autoreferenziale (e autoironico), dà, a parer mio, una lezione magistrale sulla condizione del narratore indeciso. Quello che narra senza troppa convinzione di onniscenza. Quello che tenta un oggettività doverosa senza riuscire a resistere alla tentazione di infilarsi in mezzo. Un compiaciuto, ma non irritante, eloquio che si burla delle ieratiche costrizioni lessicali e che ci lascia divertenti giochi di parole.
Di Malvaldi, come prima personale impressione, credo valga la pena leggere i romanzi principalmente per la modalità di scrittura che per la parte più meramente contenutistica. Una modalità di scrittura che mantiene il lettore, senza difficoltà, attaccato morbosamente allo svolgersi delle vicende, una modalità che non fa mai svanire il sorriso sulle labbra di chi scorre senza sosta questo delizioso, piccolo romanzo. Per quanto mi riguarda, una vera e propria boccata d’aria fresca, utile a schiarire le idee e a dare un po’ di ossigeno al cervello, dilettevole ma senza sovraccarichi. Uno di quei libri che ci dobbiamo necessariamente concedere nei periodi in cui nulla sembra entrare in testa. Uno di quei libri che, finalmente, ci fa divertire senza scadere nel cattivo gusto, nell’assurdo o nel superficiale.
La storia senza oblio
Il fatto che il signor Manfredi abiti a cinque minuti di strada da casa mia non si è mai rivelato un incentivo sufficiente per approfondire il nutrito corpus di opere da lui scritte. Dopo aver letto, anni fa, “L’ultima legione” con moderata soddisfazione avevo chiuso il capitolo con la sensazione di aver compiuto un piccolo atto doveroso nei confronti di uno scrittore celebre e generalmente apprezzato a livello internazionale.
Mi sono sempre un po’ smarrito tra trilogie, romanzi storici, saggi e racconti senza farmi un’idea definitiva e ordinata delle caratteristiche generali dell’opera dell’autore, senza indagarne punti deboli e punti di forza, senza coinvolgermi a sufficienza per essere spinto ad approfondire il vastissimo repertorio letterario che in poco meno di trent’anni ha visto la pubblicazione di decine di romanzi.
“Il mio nome è Nessuno” è un’opera suddivisa in due volumi che si prefigge di raccontare la storia di Odysseo, il celebre eroe omerico le cui gesta sono scolpite da più di duemilacinquecento anni nell’eredità culturale più ancestrale del mondo occidentale, e in seguito di tutta l’umanità. Ciò che salta immediatamente all’occhio leggendo questa tipologia di opera letteraria, nonostante le mie basi per un confronto siano tutt’altro che solide, è sicuramente l’attenzione necessaria, a livello filologico, iconografico, storico e linguistico, da porre durante tutto il percorso di ricerca e di stesura del romanzo. Tentare una rivisitazione, un sunto o un racconto ispirato ad una così altisonante pietra miliare della cultura mondiale è sempre un’impresa che merita un piccolo plauso qualora si intendano l’impegno e la competenza profusi nello studio accurato dei testi originali. E da questo punto di vista, indipendentemente dal livello di gradimento del romanzo, sento di potermi fidare della professionalità accademica accertata dello scrittore.
Per il resto la storia è sempre quella. L’Odissea con tutti i crismi. Fedele ma non pignola, accurata ma non così nitida da evocare l’ora di greco al liceo, epica ma con un occhio puntato alla modernità sintattico/narrativa. Un racconto fluente che ci porta in mezzo alla guerra di Troia, nel primo volume, e in mezzo alle tumultuose vicende di Odysseo e del suo ritorno a Itaca, nel secondo. In questo grande secondo capitolo, come nel primo, c’è tutto ciò che vogliamo sapere, tutto quello nella memoria di chiunque abbia sentito parlare dell’Odissea, i mangiatori di loto, Circe, Eolo, la discesa nell’Ade, l’isola di Calypso, le sirene ingannatrici, Scilla e Cariddi, le tempeste fragorose, l’isola felice di re Alcinoo e dei discendenti di Poseidone. Ma prima di tutto questo, prima degli attributi canonici di questo pezzo imprescindibile di epica greca, c’è il sentimento umano più reale, nostalgico e commovente, quello legato agli affetti, al proprio piccolo mondo disperso in un oceano di avversità che ci spaventano. E se anche si è favolosi, invincibili regnanti, guerrieri impavidi rivestiti di bronzo, il cimiero al vento e la lancia tesa alla brezza dell’Egeo, si è sempre piccoli uomini al cospetto di un Fato inesorabile. La piccolezza del volere singolo traspare dalle pagine di questo romanzo come quelle del testo originale, ci appare con evidenza e tenta di spiegarci anche come la forza, la tenacia fisica e mentale riescano a vincere qualsiasi tipo di ostacolo. Poco importa che queste avversità siano create da Poseidone, il dio supremo dei mari, invidioso di un uomo dalle infinite qualità, che porta un nome, Odysseo, che ispira l’odio altrui. Importa l’insegnamento cruciale del “non arrendersi” in ogni più cruda circostanza atta a metterci alla prova. E’ questo che un grande viaggio, forse IL grande viaggio, mira a trasmettere. E lo fa, in questo romanzo piacevole privo di inutili anacronismi, con il grande fascino che solo le ombre di un passato ancora più leggendario possono avere. Un trascorso mitologico che gli stessi protagonisti, successivi alla generazione dei grandi Argonauti, sentono gravare come una incedente eredità sulle proprie spalle, nel tentativo ultimo di emulare la nobiltà e il coraggio dei padri che costruirono il loro mondo a fianco degli dei. E anche questa velata malinconia che racconta la fine degli eroi supremi e invincibili come Eracle e Achille, questa amarezza che vede finire nella cenere quelli che furono gli astri splendenti di imprese senza oblio, partecipa all’architettura pregevole che regge la rievocazione di Manfredi. Tutto contribuisce a rendere questo volume e quello precedente dei romanzi godibili, in cui la terminologia garbata e “in stile” si mescola con grazia agli spezzoni tratti dai testi omerici, paletti storici che come occhi benevoli fanno spaziare lo sguardo sul nostro mondo e sul nostro modo di raccontare una vicenda che rimarrà nelle nostre memorie.
Il valore potenziale dell’opera in questione, indipendentemente dalla qualità, dalla godibilità e dall’accuratezza, è particolarmente importante. Il merito di queste trasposizioni è infatti cruciale a livello divulgativo, nel suo recondito tentativo di portare ad un pubblico meno accademico, meno sofisticato, la bellezza senza fine di una storia che altrimenti rimarrebbe inesplorata a causa della complessità del testo greco e delle sue traduzioni. E’ uno di quei romanzi che fa leggere, e, nonostante tutto, in tempi come questi non c’è libro che abbia più valore di quello che instilla nel lettore, o in chi lo diventerà, la voglia di imparare, conoscere, appassionarsi e infine ringraziare chi è stato tanto benevolo da indirizzarci sulla giusta via per la nostra Itaca del sapere.
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La fiera delle opinioni
Una folgore. Un fulmine a ciel sereno come non mi capitava da tempo. Ma, soprattutto, un impossibile, insperato incontro tra due realtà narrative che avevo amato separatamente e che in questo libro si fondono in un connubio, a parer mio, totalmente vincente. Se in Marai, ne “La donna giusta”, avevo apprezzato la tecnica del racconto narrato dai diversi, e separati, punti di vista dei personaggi, se in tutti i romanzi di Franzen ho amato un linguaggio denso, fluido e ipnotico, in questo caso li trovo accomunati in un lavoro potente, impietoso e chiarificante.
Christos Tsiolkas punta su un cavallo vincente, sebbene sottovalutato. La propria realtà. Non mira all’esplorazione di mondi lontani, non cerca ambientazioni esotiche, ricercate e lontane dal proprio mondo. Non ha bisogno di questo pepe per condire il proprio romanzo. Sembra limitarsi a raccontare una vicenda che riguarda da vicino la condizione sociale in cui egli stesso si ritrova. La condizione che lo vede appartenere a una generazione figlia di immigrati greci stabilitisi in Australia. Ed è proprio in questo ambito che egli si muove, srotolando il proprio filo narrativo su un percorso che in numerose occasioni apre le porte a tematiche di multiculturalità, cosmopolitismo e integrazione. Se non è quindi possibile accordare la lode canonica allo scrittore che inventa di sana pianta, o tramite accurate ricerche, un contesto lontano dal proprio, è possibile, e necessario, il riconoscimento a Tsiolkas per aver imbastito una trama fitta ed eloquente con elementi di contorno apparentemente nulli o privi di interesse intrinseco.
L’atomo primordiale che genera il romanzo in tutte le sue parti è un avvenimento apparentemente irrilevante che coinvolge e stringe nelle proprie spire tutti i personaggi. Uno schiaffo, nientemeno. Un sonoro schiaffone che Hugo, bambinello pestifero e ineducato dell’età di quattro anni, si vede rifilare da un adulto. E questo adulto è Harry, uno dei numerosi invitati al barbecue che ha luogo a casa di amici comuni, Hector e la moglie Aisha, in un normalissimo pomeriggio australiano di fine estate. Un barbecue che funge da ritrovo per una grande quantità di persone che gravitano attorno alla ufficiosa comunità greca, anch’essa aperta a molteplici relazioni multiculturali.
Questo schiaffo diventa la lama intellettuale, l’affilatissima discriminante che squarcia profondamente il velo di mite accordo sociale tra i numerosi amici, conoscenti e parenti presenti. Le opinioni, mute, sussurrate o urlate si spaccano e illuminano a giorno le personalità e le opinioni di Harry, Sammi, Hector, Aisha, Anouk, Bilal, Connie, Richie, ma, soprattutto, dei genitori del bambino in questione, Gary e Rosie. Incapaci di un qualsiasi genere di perdono e di ragionevole trattativa verbale, saranno proprio loro a innescare la bomba legale che minerà, tout court, i rapporti con il loro contesto vitale. Fazioni si formano e si disgregano, si raccontano alla luce di un crepaccio ideologico che denuda le debolezze e le ipocrisie morali. Ogni personaggio, in uno stralcio di vita narra se stesso con la voce di Tsiolkas. E proprio grazie a questa versatilissima tecnica narrativa si toccano punti limite, utili alla comprensione più varia del vivere contemporaneo. Se con i tanti personaggi di mezza età indaghiamo le crisi e le rinascite del matrimonio, con Connie e Richie, adolescenti, entriamo nel mondo più attuale della giovane generazione, con le proprie trasgressioni, le proprie maschere e i primi amori destabilizzanti.
Siamo di fronte a un romanzo fluido, che scorre come un fiume, che non ci affatica. Che ci presenta una immane complessità in una forma al massimo della godibilità. E’ una di quelle opere di discreta levatura che lascia un segno a tutti quelli pronti ad essere graffiati dalle piccole verità, così triviali, dissacranti e innegabilmente umane, che compongono le nostre opinioni. Su cosa è giusto e sbagliato, su cosa è “accettabile” e su cosa non lo è, su quello che dovremmo o non dovremmo condannare. Una riflessione lucida sul limbo che separa il morally correct dalla nostra visione del comportamento civile.
Christos Tsiolkas si rivela definitivamente, alla stregua dei più grandi cantastorie del nostro tempo, una penna acuta e abilissima che merita di essere approfondita dagli estimatori del genere.
Spassionatamente, leggetelo.
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"Questi se credono de spostà 'e montagne"
La letteratura italiana batte un colpo: “Ci sono”. Dapprima si palesa con un rumore confuso e poco convinto. Poi questo segnale sembra stabilizzarsi in un grido sordo che fa esplodere il nostro tempo, quello che viviamo e che non siamo sicuri di voler vedere realmente. Ma non c’è scelta, resistere non serve a niente. Si prosegue. E Siti ci scaraventa senza troppi riguardi nel circo crudo e triviale che è il nostro piccolo paese, questa nostra provincia di mondo collegata all’insieme dei micro e dei macro universi che sono gli ingranaggi del vivere odierno.
Sono due gli strumenti con cui Walter Siti tenta di narrare una contemporaneità complessa e internazionalizzata all’estremo. Un narratore onnisciente particolarmente renitente all’esserlo fino in fondo e un broker dell’alta finanza che opera all’interno di una sfumatura, porzione di un gradiente politico/economico in cui legalità e illegalità hanno imparato a confondersi abilmente travalicando un confine troppo logoro e ormai inservibile. Siti, in prima persona racconta di questo personaggio, Tommaso. Racconta della nascita di un rapporto di amicizia che inizia a legarli, a dispetto di punti di vista e stili di vita in diametrale differenza. Racconta di un evolversi di questo rapporto fino al giungere di un accordo che legherà inevitabilmente lui e il suo futuro personaggio. E quando l’autore si trova davanti alla generosità disinteressata di Tommaso Aricò, che con un microscopico pezzetto del proprio patrimonio compra l’appartamento romano di Siti per scongiurare uno sfratto, si rende necessaria la stipula di un patto. L’atto espiatorio con cui Walter Siti si sdebita non è altro se non questo libro, la storia di Tommaso che il medesimo chiede per sé, per vederla e sentirla raccontata.
Da questo momento in poi, con solo qualche breve intermezzo che ci fa ritornare ad un tempo presente, seguiamo l’avvicendarsi di Tommaso Aricò. Non quello che conosce lo scrittore, il trentacinquenne alto e dal fisico malfatto che usa un vocabolario di tecnicismi economici e che dispone di un reddito milionario. Ma un bambino con gravissimi problemi di obesità, che trascina la propria mole adiposa e i propri sentimenti soffocati per le strade di Rebibbia. L’infanzia complicata di Tommaso, “’sto regazzino che nun magna, s’abboffa”, è una piccola odissea personale dove l’unica Itaca da raggiungere non è un luogo fisico, è un’astrazione fondamentale: la coscienza delle proprie possibilità. E Tommaso non impiega meno tempo di Ulisse nel trovarla. Perché nel frattempo, ad ostacolare un percorso già complicato in partenza, si aggiungono le vicissitudini di un padre, assassino per costrizione, più colpevole di ignoranza che di omicidio, che viene condannato a quindici anni di carcere e che lo lascerà alla propria odiosa esistenza in compagnia della madre. Una madre, Irene, giovane, forte, concreta, rassegnata a combattere con le unghie pur di garantire un piccolo pezzetto di speranza a quel figlio che si ingozza di budino Elah pur di non sentire quanto sia amaro il tempo che ha di fronte. Ed è proprio Irene, con la sua commovente “saggezza popolare” e la sua romanesca ragion d’essere, che capisce le potenzialità di Tommaso, particolarmente versato nella matematica, e lo aiuta a cambiare la propria vita. "Ja'a faremo, ranocchié". E infatti, in pochi anni, da ragazzino grasso e annoiato, Tommaso diventa un liceale che vede nella matematica e nello studio un avvenire meno brutto, che vede nel proprio corpo magro e sgraziato, dopo un’operazione di bypass gastrico, un nuovo inizio.
Questo inizio lo porta ad una cariera sorprendentemente veloce, prima in banca poi in società di brokeraggio. E’ il migliore nel proprio campo, diventa evoluzionista, trapezista spericolato delle speculazioni finanziarie. Mette a frutto il proprio istinto innato per gli affari fino ad accumulare un capitale spropositato. Vive nel lusso, frequenta la crème, si può permettere ogni cosa, tranne quello che vuole veramente. Un piccolo soffio di amore. Poterlo appena sfiorare con un dito, poter provare anche per un solo secondo un’intesa, un sentimento condiviso che dia un senso e un fine a una montagna di denaro virtuale.
Tommaso Aricò, come una matrioska di soli due pezzi, è uguale alla sua vita. Entrambi sono entità mascherate. Tommaso ha nascosto il proprio lato fragile dietro il proprio grasso, dietro i pasticcini, dietro la matematica, dietro il lusso. La vita di Tommaso si è nascosta dietro la sua adorazione per Gabriella, modella mantenuta che ama vendere se stessa, il proprio pallore a la propria chioma fulva, dietro una slavina linguistica di lobbyng, money laundering, offshore, volatility smile, fixed leg, buy-back, stock option. Dietro un sentimento troppo genuino, troppo poco farraginoso e d’alto bordo, con Edith.
Un calderone di crudezze, ineluttabili verità contemporanee e dolci remember popolani si intrecciano in questa matassa narrativa. La vita di Tommaso è la grande metafora dei nostri tempi, che viene raccontata da Walter Siti con una piacevole, caustica brillantezza di linguaggio. Uno stile dissacrante e veloce che riesce perfettamente nell’intento di evidenziare i dislivelli sociali e le pacchiane amenità di entrambi. Ma più di tutto quanto, riesce a mettere in mostra un’elite schifosamente oligarchica che impera con cattivo gusto sulle spalle del popolino. Di noi che ancora adottiamo la pratica di contare i soldi che abbiamo in tasca, che tentiamo di non comprare i sentimenti con gli assegni e che tentiamo di dare un senso al nostro agire, tenendo sempre a mente che, anche senza yacht a Porto Cervo, e forse grazie a questa mancanza, un sorriso di serenità riusciremo sempre a concedercelo.
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La rivincita della prosa
Il mio agonizzante Zanichelli del ’59, con la copertina sdrucita e ormai staccata, risponde ai miei quesiti con pittoresco zelo d’altri tempi.
Recita:
POESIA - Arte del poeta. Arte del comporre, spec. in versi, rappresentar le cose a parole con bellezza e con varietà, in modo da produrre l’illusione del vero e il diletto.
Segue:
Componimento, spec. lirico o di non grande dimensione.
Da qui parte il ragionamento. Postulata la definizione canonica di poesia, cosa accade se ad un certo punto, il 6 marzo del 1927, nasce uno scrittore capace di sovvertire la natura di questo strumento espressivo tanto utilizzato dagli eruditi di ogni tempo? Il mio benevolo dizionario tace in merito, china la testa cartacea e mi lascia con le mie riflessioni, redivive dopo la lettura del mio secondo romanzo di Marquez, poiché naturalmente di lui si tratta.
Se penso che il mio rapporto con lo scrittore nasce da un fallimento non posso non ringraziare la Dea Bendata, e non quella “Incoronata” che vive attraverso questo romanzo, per avermi donato il necessario stoicismo nello scoprire un piccolo mondo parallelo in cui mi augurerei di poter metter piede almeno una volta nella vita. Questo primo fallimento, che dopo alcuni anni divenne un successo, fu “Cent’anni di solitudine”. Il secondo approccio è stato inevitabilmente migliore con “L’amore ai tempi del colera”. Ed è con questo che per la seconda volta mi sono fatto spezzare il cuore, senza il minimo dubbio che per mille altre volte lo porgerei senza indugio in attesa di vederlo lacerato dall’incontenibile flusso di poetiche evocazioni che solo questo autore è in grado di costruire. Non credo ci siano esempi appropriati cui paragonare l’abilità di Marquez in tutto il panorama della letteratura del Novecento, come non credo ci siano possibili definizioni per inquadrare la sua figura, l’unica, a mio avviso, che sia stata in grado di utilizzare la prosa per esprimere concetti e immagini esprimibili solo tramite la poesia. L’unico autore che sia riuscito a superare con il testo scritto il lirismo proprio della composizione in versi, con i propri schemi e i propri astrattismi. E’ dopo essermi accorto di questo che mi sono reso conto di quanto la letteratura proposta da Marquez sia, per certi versi, sovversiva. Sovversiva perché ribalta dei canoni, elimina alla radice dei luoghi comuni che esistono solo a causa della nostra incredulità di fronte a qualcuno che entra nella casa dell’invincibile, blasonato avversario e lo sconfigge nel suo stesso campo, in ciò che sa fare meglio e con una squadra meno prestigiosa. Se si parlasse in termini calcistici tutto ciò farebbe storia.
Come se non bastasse la maestria linguistica che, credo e spero, faccia scuola da più di mezzo secolo alle nuove generazioni di scrittori, è necessario rincarare la dose di idolatria sottolineando la bellezza delle trame che vengono narrate nei romanzi di Marquez. L’originalità dell’intreccio narrativo, con i soliti escamotage dal carattere onirico e immaginifico che non ne intralciano la verosimiglianza, è sicuramente un altro dei punti inossidabili che assicurano immortalità e piacevolezza alla lettura. Nel caso de “L’amore ai tempi del colera” nulla di più commovente si sarebbe potuto scegliere per raccontare il potere illimitato che l’amore esercita sulla natura umana. Se è vero che il numero 3 è quello che racchiude in sé la perfezione, allora è vero anche che questo è un romanzo perfetto, con il suo triangolo amoroso che dura il tempo di un’esistenza e incanta il lettore da altrettanti anni. Se in “Cent’anni di solitudine” era Ursula Buendìa l’incarnazione della potenza granitica femminile, qua occupa lo stesso ruolo la bellissima Fermina Daza, che, dopo un breve intrallazzo sentimentale con il timido spasimante Florentino Ariza, anacronistico giovanotto con una cultura di mediocri romanzi d’amore, decide di passare la propria esistenza al fianco di un uomo maggiormente benvoluto dal padre, l’emergente dottore Juvenal Urbino. Egli diventerà una personalità molto in vista nella comunità del Caribe, sarà fautore di una rinascita a tutto campo del territorio, traghettandolo verso la modernità del secolo appena sorto, e portando al proprio fianco la propria inseparabile moglie. Fermina Daza, però, non sa che alla morte del marito, tanto amato senza saperne i motivi, dopo cinquant’anni di matrimonio si presenterà a casa sua un uomo che tenterà di violare la nuova condizione di vedova. Quell’uomo è Florentino Ariza, che dopo mezzo secolo è riuscito a mantenere intatto, se non maggiorato, il primitivo amore che avrebbe voluto condividere con quella diciottenne ormai anziana. La distanza tra queste due realtà temporali viene colmata da Marquez con tutto il trascorso dei tre personaggi, che, nella buona tradizione tipica dell’autore, conducono vite meravigliosamente varie sotto il cocente sole del sud-america. Lì dove tutto profuma degli umori dell’estate, lì dove i mandorli in fiore sono testimoni di biglietti d’amore celati, lì dove la Compagnia Fluviale del Caribe manda i propri battelli a solcare le acque placide in cui prolifera in colera. Una delle più grandi storie d’amore mai raccontate ci viene messa a disposizione per rafforzare la nostra fiducia nel sentimento che, sebbene contaminato dalle necessità del corpo che chiedono di essere soddisfatte, riesce ad emendarsi e a mantenersi puro per raggiungere il traguardo tanto bramato.
Marquez questa volta è andato oltre, ha superato le architetture formali delle letterature e non solo si è affermato, a detta di molti, come il più grande scrittore vivente, ma lascia ai posteri una simbolica, ineguagliabile accademia di “arte del narrare”.
P.S. Caro Zingarelli, forse ti sbagli. Forse POESIA è la capacità di evocare il sentimento, poco importa che si tratti di versi o di prosa.
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La fantasia è ciò che ci separa dalla follia
Tanto vale essere sinceri. Mi hanno regalato questo libro per il mio compleanno e nella mia meschina, pregiudizievole superficialità mi era parsa una scelta letteraria alquanto azzardata, se non un po’ infelice. E adesso che ho finito “Apnea”, in una maratona che solitamente dedico solo ai thriller più ipnotizzanti, mi sento un emerito imbecille per aver pensato certe cose prima del dovuto. La disabilità è un ambito che “conosco” più approfonditamente solo da un anno a questa parte, e la letteratura che spazia su queste tematiche mi era ancora oscura. Non ho la presunzione di dire che dopo questo romanzo la mia sensibilità in merito sia cambiata notevolmente, non è così facile rapportarsi con realtà così dolorose e non tutti sono portati per questi incontri. L’incontro con Lorenzo, però, è diverso. E’ dolce, graduale, raccontato da un punto di vista lucido che analizza con coscienza il passaggio dalla plenipotenzialità che si dà per scontata alla gabbia fisica e psicologica che si chiude quando gli avvenimenti decidono per noi. Lorenzo Amurri, alla metà degli anni ’90 è un bel ragazzo di 25 anni. Un rockettaro incallito con una sfrenata passione per la musica e per le sue chitarre. Un estimatore del tatuaggio vistoso e del capello lungo. Un moderno bohémien che vive di eccessi e di forti sensazioni, nella imperitura ricerca di spezie dal sapore sempre più intenso per condire la propria giovane vita, ancora in boccio e gonfia di rosee aspettative. E’ una di quelle persone che non ha la minima intenzione di relegare la propria passione ad un ruolo di secondo piano nella propria esistenza. Vuole vivere di musica, vuole fare quello per cui sente di essere nato, vuole buttarsi a volo d’angelo sul pubblico alla fine di uno dei suoi concerti. E’ un ragazzo come tanti che aspetta di svolgere la matassa dei propri vent’anni nel modo più congeniale alla sua natura. La realizzazione dei suoi progetti non è però scritta nel suo futuro, che si spezza, assieme alla sua colonna vertebrale, in un drammatico incidente sciistico.
Da questo momento, da questa quasi-morte, inizia la sua successiva quasi-vita. Inizia una fase del proprio vivere priva di qualsiasi metro di paragone per poterla rapportare a quella in cui poteva contare sulla propria indispensabile indipendenza, quella garantita dall’uso delle gambe e delle mani. Si ritrova con l’ottanta percento del corpo paralizzato senza possibilità di guarigione, in cui il carceriere non è altro se non il proprio corpo inerte. Lorenzo, in una clinica svizzera, imparerà, dopo lunghi mesi di operazioni chirurgiche, fisioterapia e fasi di riabilitazione, a gestire il proprio corpo mutato da un incidente che non sarebbe dovuto accadere, in quella mattinata in cui tutte le cose animate e inanimate avevano lanciato segnali, in un’appartente, muto tentativo di farlo desistere da quella sciata fatta controvoglia.
E quando il nucleo protettivo dell’ospedale, quasi un grembo materno in cui trovare riparo, non risulta più necessario si rende conto di dover affrontare concretamente, con meno armi e meno sicurezza, la propria vita dal punto in cui l’aveva lasciata. Lascia quindi Stefan, l’infermiere anarchico che gli consentiva bonariamente di infrangere il regolamento ospedaliero, Claudia, la dottoressa con cui aveva instaurato un meraviglioso rapporto di amicizia, e tutti gli altri mielolesi con cui gareggiava in velocità sulle carrozzine motorizzate. Lascia tutto questo per tornare a Roma, dove lo aspetteranno delusioni, ricordi, speranze e difficoltà da dover sormontare per riconquistare il minimo indispensabile di quella voglia di vivere necessaria per andare avanti.
La storia autobiografica di Lorenzo, come è facilmente intuibile, non racconta della disabilità. Non è un patetico inno alla propria autocommiserazione, così facile e apparentemente benefica. Come non è un monito a tutti quelli che hanno ancora la fortuna di tenere in mano tutti i fili del proprio futuro. E’ una disperata ode alla vita. E’ una piccola, commovente favola reale che ci fa esplodere in faccia il vero significato delle nostre scelte, delle conseguenze che comportano e delle difficoltà da affrontare per ricostruire noi stessi. Con un linguaggio semplice, limpido e chiarissimo ci viene impartita con dolcezza una lezione di importanza cruciale per capire quanto valore diamo alle cose che ci sembrano scontate, che non sono più tali quando arriviamo a perderle irrimediabilmente. Questa lezione è la seconda a distanza di poco tempo che mi viene data da uno scrittore italiano. Se con Molesini avevo visto il significato più profondo della vita attraverso gli occhi di un bambino, con Amurri lo imparo attraverso l’esperienza della disabilità. Ed è con un personalissimo ragionamento che mi chiedo se sia giunto il momento di rivalutare in qualche modo la nostrana letteratura contemporanea, tanto evitata dal sottoscritto quanto, forse, meritevole di maggiore considerazione. La risposta certamente arriverà, per il momento sono grato alla persona che mi ha donato questo libro e sono speranzoso di poter fare altrettanto limitandomi a consigliare con tutta l’enfasi possibile questo romanzo di così rara profondità.
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Un thriller in potenza
Io non sono uno scrittore, e nemmeno un critico letterario, perciò mi faccio delle domande, mi dò delle risposte e tento di costruire delle ipotesi che mi aiutino a comprendere un libro e cosa vi sia dietro. La prima tra queste è in realtà una facile considerazione: Joel Dicker è uno scrittore molto giovane, e questo, innegabilmente, si percepisce durante la lettura. Giovane non perché i suoi personaggi usino Facebook o facciano le foto col telefonino, quanto perché mi sembra evidente che sia ancora in fase di rodaggio, in un momento decisivo per scoprire uno stile personale e una capacità di costruzione che resista anche agli occhi del lettore più critico, come tutti i thriller rispettabili che vengono pubblicati. Lungi da me il volermi mettere contro tutto il plebiscito dei lettori francesi, che hanno fatto di questo romanzo un caso letterario, trovo però inevitabile una buona dose di osservazioni che mettano in mostra un talento promettente che, sfortunatamente, si inceppa su più punti cruciali.
Prima del dettaglio, però, la trama. Marcus Goldman è un giovane scrittore che, dopo essere diventato una star milionaria agli occhi dell’America, per un esordio letterario sfolgorante, si trova completamente bloccato e privo di ispirazione. La scadenza per la consegna del nuovo romanzo si avvicina e le parole non vengono. Nel medesimo tempo accade un fatto sconvolgente. Harry Quebert, uno dei più grandi scrittori americani contemporanei, nel contesto immaginato da Dicker, è tutt’a un tratto sospettato di aver commesso un crimine, l’uccisione di una quindicenne, Nola Kellergan, avvenuta trentatrè anni prima. La stessa quindicenne con cui, a trentaquattro anni, ebbe una folle, quanto inopportuna, relazione in un’estate del 1975, relazione che, all’insaputa di tutto il continente, ispirò il suo romanzo di più grande successo, “Le origini del male”. Marcus Goldman si reca ad Aurora, un paesino marittimo sulla costa del New Hapshire per sostenere l’innocenza di Harry Quebert, suo amatissimo ex professore universitario che aveva ricoperto la figura di mentore, padre adottivo e amico. Una guida spirituale che, in una sorta di passaggio di consegne, ha educato il giovane Marcus alla fine arte della letteratura facendo di lui lo scrittore di grido del nuovo millennio, esattamente come lui lo era stato di quello trascorso. Sostanzialmente di questo si tratta. Il seguito è facilmente immaginabile. Il giovane Marcus inizia con le sue indagini private per scagionare l’amico, in carcere e con l’ombra della pena di morte sulle spalle.
Le premesse per qualcosa di interessante ci sono tutte in questo romanzo, che infatti parte bene, graduale e gradevole. Uno dei suddetti punti cruciali su cui si inceppa l’autore è sicuramente quello dei dialoghi. Alcuni sono esageratamente inverosimili e provengono da personaggi altrettanto inverosimilmente progettati, troppo caricaturali, troppo stereotipati e inquadrati in vesti adatte ad una commedia hollywoodiana. La madre di Marcus Golberg, benché un personaggio secondario e irrilevante ai fini della storia, è l’emblema di tutto quello che, secondo me, non dovrebbe essere fatto da un giovane autore che decide di scrivere un thriller. L’estrema premurosità, ottusa e bimbesca, della signora Golberg nei confronti del figlio risulta ridondante e incommensurabilmente falsa scaturendo da una penna con poca gavetta, apparendo infantile non per scelta ma per mancanza d’altro. Essa, inoltre, appartiene omogeneamente all’insieme delle altre protagoniste femminili del romanzo, le quali, in una semplificazione non troppo lusinghiera per il gentil sesso, appaiono tutte maniacalmente interessate all’accasarsi. Si tratta certo degli anni settanta, ma non per questo il cliché deve imperare. L’analisi dei personaggi/parodia potrebbe continuare ancora per molto, ma concludo parlando del sergente Gahalowood, incaricato delle indagini ufficiali sul delitto, con cui Marcus si troverà a collaborare. Ora, come è possibile che un sottoposto con poteri e pareri limitati, nonché funzionario dell’ordine pubblico, si permetta di utilizzare un linguaggio ai limiti della decenza e a trattare tutti a pesci in faccia? In qualsiasi luogo si trovi, questo personaggio, delegato alla manifestazione della rettitudine, parla una lingua di soli improperi assolutamente non credibile, e dal nulla si trasforma drammaticamente, nella seconda metà del libro, come il grande, nuovo “amicone” del protagonista. Un atteggiamento incomprensibile.
Mi si perdoni la puntigliosità, ma i personaggi di questo romanzo non sono tanti e se molti di questi sono connotati in modo tremendamente inopportuno è la stessa struttura narrativa a risentirne. La ciliegina sulla torta che corona quelli che sono, secondo il sottoscritto, i punti deboli del libro è quella che riguarda i dialoghi e le scene amorose tra il giovane Harry e Nola, evocati tramite numerosi flashback. Francamente scontati, mielosi e privi di un minimo di piglio contemporaneo.
In ultimo, il colpo di scena, il grande “MA”.Questo libro, dopo tanta critica, merita di essere salvato. Sia ai miei occhi, sia a quelli di tutti quelli che leggono e che non devono farsi preconcetti. Perché in fondo si legge molto bene, scorre veloce e mantiene comunque un ritmo che permette di rimanere avviluppati nei meandri sempre più oscuri di una storia bipolare. Con un suo lato luminoso, quello delle ariose spiagge affacciate sull’oceano, sulle quali si consuma una storia d’amore senza confini di età, estrazione sociale e ipocriti perbenismi. Con un suo lato oscuro, quello dei boschi più cupi che accolgono in seno la fuga di una ragazzina, che scappa da un mondo che non si è risparmiato di ferirla nell’animo. E’ un romanzo che, nonostante i propri difetti, tenta a suo modo di porsi con obiettività di fronte ad una tematica che trent’anni fa suscitava scalpore, un tabù, quello della differenza d’età nelle relazioni amorose, che si è parzialmente risolto con l’evolversi dei tempi, i quali si dimostrano indulgenti verso tali scelte compiute bilateralmente e in buona fede. E tenta inoltre di riflettere (lungamente, a dire il vero) sul mestiere dello scrittore, che, come tanti altri mestieri che mettono in campo la fantasia e la creatività umana, rischia sempre di più di perdere quel suo lato puro e genuino di forza espressiva, schiacciato dalle speculazioni e dalle pressioni della statistica del soldo.
L’ironia della sorte ha voluto che questo romanzo diventasse un caso editoriale, esattamente nello stesso modo dell’esordio di Marcus Goldman. Non ci è dato sapere se questo particolare indichi la possibilità di qualche accenno autobiografico da parte di Dicker. Quello che sappiamo è che di questo autore ne sentiremo parlare ancora, e avremo forse la fortuna di vedere un sempre migliore risultato sotto gli occhi.
P.S. Al traduttore: “Ordinai una pizza e la mangiai in terrazza”? Ma per piacere.
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L'arte del mediare
Sebbene E.M. Forster non compaia spesso nel novero olimpico dei grandi romanzieri, produttori dei cosiddetti “classici”, dopo aver letto “Casa Howard” mi sento di considerarlo concretamente e con cognizione di causa alla stregua dei colleghi più incensati. Questo romanzo infatti, molto noto ma poco celebrato, non solo è, a parer mio, un grande classico con tutti i crismi, ma lo è anche in modo straordinariamente originale, sia per il lessico e le modalità narrative, sia per le tematiche, che si discostano da quelle costantemente indagate dagli autori a cavallo tra i due secoli (XIX e XX).
Personaggi principali delle vicende sono due famiglie, da un lato quella degli Schlegel, dall’altro quella dei Wilcox. Benché la prima sia composta da due giovani sorelle nubili e dal loro fratello adolescente, il fatto che Forster ce li presenti in una luce paritaria a quella del nucleo familiare convenzionale ci dà già la misura della modernità di vedute dell’autore. Modernità che verrà confermata in seguito, negli sviluppi del filo narrativo, e che rifugge quelle convenzioni morali imposte dalla società tardo-vittoriana, tante volte protagoniste del romanzo ottocentesco. “Casa Howard” in questo senso respira a pieni polmoni, libero da corpetti ideologici, libero di seguire l’avvicendarsi di queste due giovani sorelle Schlegel, la maggiore Margaret, la minore Helen. Due personaggi molto sentiti, molto peculiari nel loro approcciarsi alla vita in modo istintivo, istrionico, creativo e in parte utopico. Una caratteristica questa che, particolarmente in Helen, porterà ad instaurare un complicatissimo intreccio con la famiglia Wilcox. Questa funge da controparte più tradizionale in un gioco delle parti destinato a protrarsi fino a inaspettate conclusioni. La scintilla che tutto fa nascere non è altro che un piccolo scandalo familiare, che scoppia quando Helen, in visita alla famiglia Wilcox nella splendida casa padronale denominata, appunto, Casa Howard, si abbandona ad un innocente, sconsiderato bacio con il figlio minore degli anfitrioni, Paul. Da questo momento in poi i rapporti tra le sorelle Schlegel e i Wilcox si stringeranno in una spirale incontrollata che vede un’alternanza di sospetti, favori, amicizie e apparenze. Si scoprono personaggi fumosi, come la signora Wilcox, donna assolutamente priva di interessi, dedita solamente alla cura maniaco/sentimentale di quella Casa Howard con il suo babelico olmo. Quest’ultimo funge da unico protettore di una realtà di vita, quella sognante, possibile solamente in quella casa apparentemente immersa nella campagna inglese, sebbene poco distante dalle incedenti periferie londinesi. Ed è proprio la signora Wilcox che aprirà alle sorelle Schlegel le porte affacciate sulla complessa struttura della famiglia. Margaret penetrerà in questo mondo molto a fondo, scoprendone ipocrisie, menzogne e virtù. Scoprendo la necessità di avere un luogo da chiamare casa, un luogo fisso e ben radicato, andando controcorrente rispetto alla tendenza del ceto medio/alto di spostarsi in continuazione da una ricca residenza all’altra, perdendo ogni volta qualcosa di sé. Scoprendo inoltre quanto Casa Howard, amata e detestata a un tempo, abbandonata e poi ripresa, diventi il simbolo più calzante delle contraddizioni umane, delle diversità caratteriali e delle divergenze di opinioni. Quelle stesse che ci creano infiniti dispiaceri da un lato, ma che dall’altro, mettendo alla prova la durezza dei rapporti, ci colorano una vita altrimenti monotona, piena solo di condiscendenza e di falsi umori. Quelle diversità che Margaret stessa dovrà tentare di conciliare per mantenere il rispetto di se stessa e della libertà intellettuale che la accomuna alla sorella, contrapposta all’ottusa condotta raziocinante del signor Wilcox e dei figli a carico.
Quello che Forster tenta di mostrare al lettore è forse una lezione universale che ci insegna le virtù della mediazione. Non una mediazione qualunquista e indolente, ma una mediazione attiva che deve servire a preservare ciò che c’è di buono nel proprio carattere e ad apprezzare quello degli altri nonostante le diversità di pensiero e di comportamento. Ci insegna forse a trovare un equilibrio che metta il rispetto e la tolleranza al primo posto, garantendo, alla fine di ogni doloroso periodo della nostra vita, una pace benefica e ricostituente. Se veramente il messaggio propugna la necessità del perdono e della rinascita, scevro da leziosaggini e da accezioni pseudo-religiose, credo che non ci resti altro che apprezzare questo romanzo e tenere in considerazione questo potente faro intellettuale capace di dipanare le più complicate contraddizioni di noi stessi in rapporto al prossimo. Come sempre, ringraziando ossequiosamente.
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Mr. Brown elargitore di oasi letterarie
Mi sarei sentito tremendamente in colpa se non avessi per lo meno tentato di scrivere questa recensione. Dan Brown rappresenta una piccola parte della mia crescita letteraria che non voglio dimenticare, né rinnegare, né esaltare. Una recensione, come nella quasi totalità dei casi, serve più a me stesso per chiarirmi le idee a proposito di un libro o a proposito di un autore piuttosto che ai lettori che desiderano informarsi sulla prossima lettura. E quindi, con la possibilità di formarmi un quadro generale e definitivo su Dan Brown, che tanto mi ha dato, approfitto dell’occasione e parlo di questo attesissimo nuovo romanzo, tentando, nel mio piccolo, di contestualizzare non solo “Inferno”, ma anche il mondo che vede svolgere le vicende tremendamente invitanti di Robert Langdon. Come considerazione generale si può affermare che questo ultimo romanzo non si discosta in nessun punto dallo standard proposto dall’autore in tutti i suoi precedenti lavori, sia che si tratti del filone riguardante Langdon, il cui aprifila è “Il codice Da Vinci”, sia che si tratti delle altre due fatiche un po’ meno conosciute, con personaggi a parte, quali “La verità del ghiaccio” e “Crypto”. Lo standard letterario proposto dall’autore è classificabile come thriller, che il più delle volte però acquisisce implicazioni storico-artistiche peculiari e trascinanti, esattamente quelle che hanno fatto del suo esordio un best seller a livello globale. Dan Brown, come sempre, si rivela un abilissimo architetto capace di costruire trame apparentemente complesse e sorprendentemente lampanti man mano che ci si inoltra nelle estenuanti ore che il protagonista deve sostenere in fuga contro il tempo. Risolvendo arcani, eruditi giochi di parole, cacce al tesoro ricche di suspense narrativa che si snodano, in questo come nei precedenti romanzi, tra varie città e vari luoghi di interesse del patrimonio artistico mondiale, Robert Langdon, elegante professore di Storia dell’arte e Simbologia di Harvard, si dimostra sempre un personaggio godibile. Certo non particolarmente indagato, ma non è questo che si cerca leggendo Dan Brown. Ci basta il suo raffinato gusto per le giacche Harris Tweed, i mocassini di scamosciato, il metro e ottanta di altezza e una memoria eidetica straordinaria al suo servizio. Senza dimenticare l’immancabile orologio di Topolino. Ci basta questo perché quello che cerchiamo in un romanzo come questo sono quelle poche ore di distacco mentale dal nostro mondo un po’ monotono e ripetitivo, quelle ore che decidiamo di passare su e giù per l’Italia in un complicato intreccio che vede protagonista l’opera poetico/letteraria per eccellenza, la nostrana “Commedia” di Dante. E’ tramite i suoi versi e le sue evocative, quanto raccapriccianti visioni che Robert Langdon dovrà districarsi per sventare una possibile pandemia in grado di mettere a rischio la sorte dell’umanità. Quest’ultima, parallelamente all’opera dantesca, si rivela come cardine nella narrazione e della parte più riflessiva del romanzo, raccontata con crudezza e verosimiglianza nel suo inesorabile procedere verso la pericolosa sovrappopolazione. Brown questa volta costruisce una trama facendo leva su un concetto che trova una corrispondenza reale nel nostro mondo, tentando di far luce, seppur sempre nelle modalità immaginifiche di un’opera di fantasia, sul futuro che attende la nostra specie e il suo reale accrescimento smisurato. Tramite la figura del visionario scienziato Zombrist, antagonista/benefattore autoproclamatosi salvatore della specie, l’unico in grado di attuare e di prendersi le responsabilità per uno sfoltimento della popolazione che garantirà la sopravvivenza con un forzato sacrificio, il lettore ha modo, oltre ad intrattenersi, anche di incanalarsi verso riflessioni inaspettatamente profonde rispetto alla tipologia di libro che ha scelto di leggere. E questo è senz’altro un punto a favore per l’opera browniana, che, inoltre, redime in parte una fama certamente non compromessa, ma su cui aleggia l’inquietante ombra del cliché. In definitiva, ho trovato azzeccato e ben gestito, ancora una volta, il connubio tra gli arcaismi storico/artistici e storico/letterari e il futuristico contesto delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica. Tentare di spiegare il futuro con il passato sembra sia una pratica che l’autore prediliga particolarmente, insieme a quella che vede lo studio della grande eredità culturale che l’Italia ha ricevuto in dono. Uno studio che ha il merito, inoltre, di far conoscere anche al lettore meno dotto alcune nozioni su un’opera così fondamentale come la “Divina Commedia”. A questo proposito, nonostante si presupponga che Dante non abbia necessità di essere pubblicizzato, credo sia meritevole qualsiasi mezzo lo possa portare più lontano di quanto non sia già, a pubblici ancora più vasti. Poiché se il lettore italiano si trova in una posizione di vantaggio e cede alla tentazione di un sorrisetto condiscendente leggendo cose risapute, il lettore che sta dall’altra parte del mondo probabilmente non fa altrettanto.
Detestando, come tutti del resto, le recensioni che dicono troppo, e in questi casi bisogna esser cauti, e che spiattellano a sorpresa il finale mi asterrò dal riferire altro ed in particolare con quale parola l’erudito signor Brown conclude il suo tomo, con l’assoluta certezza che tutti i conoscitori di Dante sapranno esattamente di quale si tratta.
Concludo con un sorriso di autoindulgenza: se da un lato amiamo appagare la mente con cli arricchimenti intellettuali che i romanzi impegnati sanno dare, dall’altro è forse giusto concedersi anche una pausa e goderci emozioni, magari un po’ più profane, che sanno mantenerci incollati ad un libro fino a che non si fa troppo tardi e dobbiamo chiuderlo, nostro malgrado. E quando Dan Brown sforna un altro dei suoi tomi io capisco che per me è giunto il momento di una pausa, di spendere una cifra astronomica per un libro da un chilogrammo di peso, e di fare come ho sempre fatto dai tempi del “Codice Da Vinci”, quando dopo una settimana di scuola sulle spalle mi alzavo presto la Domenica mattina per infilare il naso e sapere cosa sarebbe accaduto dopo.
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Gli instancabili cercatori di senso
La guerra vista con gli occhi del bambino, filtrata da un immaginario differente e meno consapevole, è qualcosa che è già stato presentato ai vasti pubblici in varie e numerose vesti. Un tentativo di reinterpretazione di questo genere di lettura non mi sembra al momento un affare da poco. Mi pare addirittura un tentativo che mostra molto coraggio, visto il panorama già ricco di esempi. E credo di poter gioiosamente affermare che Andrea Molesini, con “La primavera del lupo”, abbia fatto centro, senza riserve. Ne sono veramente contento, così come lo sono di aver avuto la possibilità di leggere questo delizioso libretto. Ad essere così “deliziosa” non è certo la parte più meramente contenutistica del romanzo, ovvero quella più strettamente legata alla guerra nelle sue fasi del tramonto, con le sue ben note crudezze. Ciò che invece colpisce positivamente, ciò che incanta, è la straordinaria bravura dell’autore nell’imitare così accuratamente il modo di pensare, parlare, agire proprio dei bambini decenni, con i loro ragionamenti in alcuni casi sorprendentemente ineccepibili, per quanto balzani e teneramente puerili agli occhi raziocinanti del lettore adulto. Ragionamenti che nella loro sbagliata illogicità fanno sorridere e al contempo possiedono una potenza evocativa straordinaria, tipica piuttosto di linguaggi poetici molto più astratti e complessi. Le immagini che il protagonista, Pietro, di dieci anni, evoca inconsciamente si caricano di un lirismo raffinato, con quella nota di magico/surreale che determinate situazioni e determinati oggetti sembrano racchiudere agli occhi di un bambino. Ed è proprio la voce di Pietro che ci guida nella fuga dai nazifascisti, raccontata dal suo punto di vista sgrammaticato, sebbene sicuro, pungente, ironico, pimpante e meravigliosamente conscio, a suo modo, di una realtà circostante portatrice di paura. Pietro è assieme al coetaneo Dario, “quello che sa i numeri”, e a una eterogenea comitiva in cui troviamo suor Elvira, seconda ed ultima voce narrante della vicenda, frate Ernesto, le attempate sorelle Maurizia e Ada, quelle che quando camminano insieme, di cui una col bastone, sembrano un mostro con cinque gambe chiamato, per praticità, “Mauriziada”. Altri personaggi si aggiungeranno alla comitiva, mentre altri cadranno nelle imboscate del destino, lo stesso che accompagna la rocambolesca fuga da un monastero di un’isola della laguna veneta fino a luoghi in cui cercare rifugio dalle persecuzioni ben note perpetrate nei confronti degli ebrei. Una trama dinamica che si abbina a una narrazione altrettanto dinamica, che merita un’ultima osservazione per mettere in luce un merito da non dare per scontato. Quello dell’equilibrio. Equilibrio stilistico che ha permesso all’autore di non cadere mai, nell’imitazione di un linguaggio infantile, nel lezioso e nella forzata ricerca di ispirare tenerezza. Egli resta sempre su un piano sinestetico di infantilismo che tenta a tutti i costi di apparire adulto. Allo stesso modo della sveglia personalità di Pietro, nel tentativo di dimostrare in ogni occasione la sua maturità, o quello che egli considera tale. E’ tramite lui che abbiamo la possibilità di trarne il lampante messaggio: i bambini capiscono molte più cose di quanto credano gli adulti e di quanto loro stessi diano a vedere. Comprendono anche le situazioni peggiori, nonostante siano così fortunati da avere dei filtri potenti, capaci di addolcire, travisare, proteggere, per quanto possibile, da un mondo che avrà tempo e modo, ainoi, di ferirli in un secondo tempo. Colui che svolge questa funzione, per Pietro, è un lupo immaginario. Forte, mansueto, misterioso, sicuro nella sua figura di garante e protettore della vita e dell’innocenza di quell’infanzia da preservare a tutti i costi. In definitiva, per quanto gli si voglia preservare, per quante precauzioni si prendano per mascherare le peggiori verità, i bambini capiscono, sono vigili, danno spiegazioni e, come dice la stessa suor Elvira, sono “infaticabili cercatori di senso”. Un senso che magari a noi fa sorridere, intenerire, rimembrare, ma che per loro è una certezza in cui credere e con cui spiegarsi quello che accade intorno a loro, come a tutti è capitato di fare da piccoli, come al sottoscritto, che credeva che le cose scure lasciate sotto il sole si scaldassero di più perché il sole stesso, credendole ombre, mettesse maggior luce nei propri raggi per illuminarle.
Sono cose in cui si crede, fino a che non si cresce e tutto sfuma in una consapevolezza più grande, e un po’ meno colorata. Ma questo è.
Leggetelo, sarà un bel viaggio in voi stessi.
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Menti di tenebra
Neanche a farlo apposta, si continua con quella che sta diventando una personalissima serie letteraria, un viaggio nelle eccellenze indiscusse (carte alla mano) della letteratura moderna. Prima il Pulitzer di Ford, poi il Nobel di Faulkner. Contrariamente alla rilevanza che sembra io attribuisca eccessivamente a questi riconoscimenti, di fatto meritati ma non unici nell’insieme delle discriminanti, preciso la casualità dell’accadimento. Non si tratta di snobismo, né di ristretta selezione critica delle mie letture, è stato il caso a presentarmi insieme queste due opere e ne sono rimasto estremamente soddisfatto e in parte stupito. Stupito soprattutto per una lezione che ho definitivamente assimilato e che esula, in questo caso, dal libro in questione. Una lezione che mi ha mostrato l’importanza cruciale di attribuire alle altrui opinioni un’importanza assolutamente relativa, che deve condizionare in modo minimo le nostre intenzioni. Se è vero infatti che tutte le opinioni sono fondate su un’alta percentuale di soggettività di giudizio, è vero anche che è inevitabile lasciarsi condizionare anche in minima parte da giudizi perentori sia in positivo che in negativo. Quando cerchiamo dei pareri a proposito di un’esperienza che abbiamo intenzione di fare, che sia un viaggio, la visione di un film, la lettura di un libro e quant’altro, lo facciamo perché necessitiamo di un piccolo faro che ci indirizzi nella giusta direzione, evitandoci delusioni o spingendoci verso sicure soddisfazioni. Tutto ciò è lecito e rientra nella più assoluta normalità di comportamento. Quello che ho imparato, però, è che anche trovandosi di fronte a giudizi negativi e pareri che tentano di farci desistere, nulla è più importante di un pizzico di testardaggine (e non di cieca cocciutaggine, che è differente) che ci permetta comunque di insistere in un proposito preposto.
Nel caso specifico, mi era stato detto che “L’urlo e il furore” è un libro molto complesso, di difficile comprensione, non adatto a tutti i lettori. Tirate le somme, mi congratulo con me medesimo per non essermi fidato di nessuno, poiché se l’avessi fatto ora mancherebbe al mio mosaico una delle tessere più sfavillanti. Entrando nel merito, il fatto che sia un romanzo complesso è più che assodato. Si tratta di una complessità dovuta principalmente alla modalità della narrazione, tutt’altro che insolita, in verità, dato il seguito eccelso e numeroso di scrittori moderni e contemporanei che si sono serviti dello stream of consciousness per raccontare se stessi, gli altri e il mondo. Questo flusso di coscienza è una delle caratteristiche portanti del romanzo, quella che salta più all’occhio e quella che ci permette di immedesimarci con incredibile enfasi, pathos e partecipazione negli animi dei tre personaggi che ci raccontano questa storia. Una storia di disperazione, di decadimento morale, di bassezze turpi e crude. La storia di una famiglia che, nello scenario degli States sudisti di inizio secolo, vede i propri componenti in una luce impietosa, capace di illuminare senza pietà i sentimenti più grotteschi dell’essere umano, del suo approcciarsi a realtà difficili come quella del ritardo mentale, della scelleratezza, dell’incesto, dell’avvicendarsi di rapporti familiari malati e gestiti con noncurante indifferenza. E’ un’analisi estremamente difficile da compiere quella che andrebbe fatta per questo romanzo di Faulkner, difficile perché la sensazione di amarezza, di disagio profondo che queste pagine sanno infondere è inesprimibile in maniera esauriente con parole comuni. Forse è proprio vero che non ci sono termini esattamente per tutto, questo mi sembra uno di quei casi limite. E forse è proprio questo il grande punto di forza di questo stile narrativo, quello di saper reinterpretare e far rivivere le sensazioni e i pensieri delle persone in un modo che colpisce il lato sensibile del lettore piuttosto che quello intellettuale. La frammentazione del testo imita i ricordi di Quentin, che vengono a galla come spesso succede realmente nella nostra mente, dove le connessioni di pensieri e ricordi sommersi dal tempo avvengono in maniera quasi del tutto casuale, magari per una sola piccola sensazione che ci riporta ad un esatto momento della nostra vita trascorsa. Questa frammentazione imita verosimilmente ciò che sembra accadere in noi e, inoltre, nel personaggio di Benjy (fratello di Quentin) e nel difficoltoso accesso alla sua mente confusa, dovuta ad una imprecisata malattia mentale, tenta di portarci ad una condizione di disagio psicologico e comportamentale non nostra. Ci fa vedere con occhi non razionali una realtà di vita sconvolgente, commovente e tremendamente incompresa. Ci mostra, infine, nella rigida mente di Jason (altro fratello) la contrapposizione dell’irrazionalità, la nemesi di quel flusso sensoriale, in un comportamento rigoroso e crudele verso una vita rovinata da un futuro franato su se stesso, rovinata da una famiglia che gli ha chiesto di sacrificarsi per poter continuare a vivere, seppure in condizioni di tensione continua. Tutto questo poutpourri di emozioni contrastanti e intime si staglia sullo sfondo altrettanto complicato della schiavitù e dell’asservimento razziale, in una quotidiana coesistenza di disprezzo e paradossale necessità, dove i cosiddetti “negri” si rivelano indispensabili per l’andamento più spicciolo della vita giornaliera e vengono al contempo discriminati e schiavizzati. Per chi, come me, è alle prime armi rispetto a questo genere di impostazione narrativa, con una conoscenza dell’opera joyceiana a livello, aimè, scolastico, credo che sia un’ottima partenza, utile per comprendere quanto e come il flusso di coscienza entri nelle nostre corde. In definitiva, con un romanzo di tale levatura, credo sia appropriato e quasi necessario uno scambio di opinioni, un confronto utile ad investigare il differente e soggettivo bagaglio di sensazioni e spunti, che, sebbene incastonati all’interno di un contenitore di profonda tenebra, risplendono inequivocabilmente per illuminare le nostre coscienze.
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Vivere, nonostante tutto
Quando ho iniziato a leggere “Canada” non sapevo esattamente cosa vi avrei trovato. Non conoscevo l’autore, se non di fama, e non ero sufficientemente informato sul suo conto da sapere di trovarmi al cospetto di un Premio Pulitzer, che ha visto entrare uno dei propri romanzi nella classifica dei cento migliori libri in lingua inglese scritti dai primi del Novecento. Benché non abbia la pretesa di potermi formare un’opinione valida su un autore dopo aver letto solo una delle sue tante fatiche, devo ammettere che prima di venire a conoscenza dei trascorsi così sfolgoranti del signor Ford non avrei mai sospettato tanti e importanti riconoscimenti. Probabilmente leggendo “Canada” non ho letto il suo meglio, quello che lo ha incoronato come appartenente ai massimi esponenti della letteratura statunitense novecentesca. Mi riprometto quindi di approfondire per capire meglio di quali virtù letterarie il pubblico e la critica si siano così pazzamente infatuate. Per il momento, analizzando brevemente l’ultimo lavoro di questo autore, mi limito a considerare ciò che ho notato, ricevuto e interiorizzato senza avere la possibilità di fare confronti con altre sue opere e con il quadro completo della sua poetica. “Canada”, per quanto mi riguarda, è il classico romanzo d’oltreoceano che ci racconta una contemporaneità tangibile e ormai trascorsa, un contesto temporale, quello degli anni ’60, vissuto e rievocato con un buon gusto che non prevede esagerate pretese di caratterizzazione e veli nostalgici troppo mielosi. Nessuna malinconia inutile e manieristica tenta di compromettere il sicuro andamento narrativo, che fluisce con una trama essenziale raccontata da voce adulta innestata su corpo di ragazzino, il quale rivive per noi nei ricordi (immaginari) dell’autore. E questo ragazzino è Dell, quindicenne, legato e slegato alla sua volubile gemella dizigotica Berner, ed insieme figli di una coppia di genitori caratterialmente male assortita. Bev, ex capitano dell’aeronautica militare statunitense, convinto, malgrado l’abbreviazione, che Beverly sia un nome maschile, persona allegra e distinta, fondamentalmente molto confusa sulla gestione più concreta della propria vita. La controparte è Neeva, ebrea, figlia di una conservatrice famiglia di immigrati, ripudiata per aver sposato Bev in un momento di assente lucidità. Persona eclettica, creativa, incisiva, schietta e dall’aspetto stravagante. Una coppia di genitori dai rapporti apparentemente normali che celano immensi canyon di incomprensione, incomunicabilità sentimentale, divergenze esistenziali. Una famiglia periodicamente sradicata a causa dei trasferimenti professionali di Bev, senza un’identità propria riconducibile ad un luogo da chiamare “casa”. Lavori inconsistenti e vacillanti che solo a tratti portano uno stipendio sicuro. Una somma di ragioni che logorano, una situazione che goccia dopo goccia scava silenziosamente la patina rocciosa della sopportazione. Un insieme di problematiche sommerse che porteranno la coppia di genitori a compiere un passo definitivo, che porrà irrimediabilmente fine a qualsiasi futuro “normale” potesse avere in potenza questo nucleo famigliare dalle complesse interazioni. I genitori, spinti dal bisogno di denaro, compiono una rapina in banca e vengono arrestati dopo pochi giorni, lasciando così allo sbando la coppia di figli quindicenni, che si separano e intraprendono ignote e differenti strade di vita. Il lettore segue Dell, che viene indirizzato verso il Canada dove verrà ospitato a Fort Royal, una sperduta e deprimente cittadina periferica del Saskatchewan. E’ da questo momento che, venendo gradualmente a contatto con il suo sedicente benefattore, Arthur Remlinger, la vita di questo giovane protagonista passerà dal vivere nello squallore alla definitiva discesa in una spirale di comportamenti violenti di cui sarà, suo malgrado, spettatore. Una violenza sorda, mascherata, cautamente annidata nelle multiple e volubili personalità di questo Remlinger dal carattere schivo e circospetto. In un’attrazione/repulsione questi due personaggi così distanti dialogano in un reciproco interesse fino al raggiungimento del secondo punto di non ritorno della vita di Dell, secondo climax della storia. Storia con un epilogo piacevole e ben gestito, attuale e verosimile, ancora una volta senza pesanti risvolti tragici, con un distacco sempre e comunque sufficiente a tenere alta l’attenzione del lettore. Quella raccontata da Richard Ford, nella mia personale lettura, è una storia che riguarda due tematiche principali, quella dell’egoismo e quella dell’intraprendenza, o, se vogliamo, della forza d’animo. L’egoismo, quello degli incoscienti genitori incapaci di gestire i propri sentimenti, i propri affetti, la propria vita, che in nome di una boccata d’aria fresca, come quella portata dall’anticonformismo e dall’anarchismo, in nome di una scarica di adrenalina che li faccia uscire da una quotidianità asfissiante, minano la giovane esistenza di due ragazzi bisognosi solo di radici e di educazione. Proprio quei ragazzi che, in un modo o nell’altro, dovranno tirare fuori quella forza d’animo che permetterà loro di vivere la propria vita nonostante tutto, cercando di trarre il massimo del bene possibile in qualsiasi cosa capiti sulla loro strada. Ragazzi che cresceranno, che condurranno vite certamente non perfette, magari insoddisfacenti, ma con la consapevolezza di aver tratto un importante insegnamento, quello del non perdersi d’animo, quello di prendere le cose per come sono, così, alla luce del sole. Una buona lezione questa, espressa con delicato, poetico vigore dalla penna di un autore che merita di essere ascoltato e che sicuramente ricomparirà tra le mie prossime letture, con il caloroso augurio che avvenga anche per voi.
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Promesse, fantascienza e mirabolanti ortaggi
Riguardo a determinate tipologie di libri ho sempre avuto, e mantengo tutt’ora, un opinione ben precisa. Credo che, come in tutte le attività che promettono di esprimere e di dare qualcosa, uno scambio intellettuale, sensibile, emotivo, estetico, sia necessario sapere cosa cercare in ognuna di esse. La letteratura fa parte di queste attività che permettono un arricchimento vicendevole, che si trasmette da chi scrive a chi legge, e anche in essa, tramite la lettura di un libro, ritengo sia buona cosa cercare qualcosa di preciso, valutando l’offerta, valutando se questa ricalca i nostri interessi e prendendo quello che c’è a disposizione. Quando dico che sia utile il sapere cosa cercare intendo il fatto di non pretendere da un libro (allo stesso modo di un film, una canzone, un manufatto artistico) quello che sappiamo in anticipo non possa dare. Non posso pretendere di trovare il diletto che può dare una storia avvincente leggendo un saggio di fisica quantistica, come non posso pretendere dissertazioni filologiche dall’ultimo libro “scritto” dal calciatore di turno all’apice della propria carriera. Esempi banali ma esplicativi, mi si passino i luoghi comuni. Se cerco cose sbagliate in fonti sbagliate non posso poi dilungarmi in lunghe lamentele o in critiche infamanti a causa di un errore di valutazione imputabile solo a me stesso. Se capita di non trovare ciò che si va cercando in un libro dalle premesse ricalcanti le nostre speranze c’è comunque un metodo per redimere la sensazione di delusione, quello di cercare un lato positivo, una componente piacevole che possa giustificare il tempo speso. Capita che questa sorta di “cuscinetto” sia lo stile narrativo, la piacevolezza del linguaggio, la particolarità della trama o il modo di esporla. Se però viene a mancare anche questo “salvataggio in corner”, questa panacea che addolcisca e che riempia un contenuto mancante, allora, per quanto mi riguarda, non vi è molto da fare se non quello di giudicare negativamente ciò che si è letto. Questo è quello che è accaduto tirando le critiche somme di alcuni libri, tra cui annovero “La profezia di Celestino”. Una così verbosa premessa serve sicuramente più al sottoscritto che a chi necessita di sapere qualcosa a proposito di questo romanzo. Sapere quali sono i passaggi critici che ci permettono di formarci un opinione non guasta e, analizzandoli, escludendo per un momento le sensazioni più prettamente emotive, si riesce con più facilità a capire quanto un libro abbia o non abbia avuto la possibilità di segnarci. Questo romanzo in particolare, purtroppo, non possiede, a parer mio, né un contenuto sufficientemente interessante e verosimile, né un modo di presentarlo che valga il tempo impiegato per leggerlo. Non ci sono componenti che salvino quest’opera, nata forse con nobili intenti di sensibilizzazione verso un futuro effettivamente non troppo roseo per l’umanità. Nonostante la buonafede del signor Redfield, il risultato è un insieme di pagine riempite con una narrazione fondamentalmente molto mediocre, con dialoghi artefatti, poco studiati, inverosimilmente lunghi in quasi tutto il romanzo, unicamente esistenti al fine di impartirci le fantomatiche Nove Illuminazioni dalle voci di personaggi numerosi e inesistenti in quanto a spessore fisico e psicologico. Il fatto poi che uno dei temi centrali della trama, oltre alle misteriose illuminazioni di un antico manoscritto che così pretenziosamente propone di cambiare l’esistenza della specie umana, siano le coincidenze non avrebbe dovuto implicare il fatto che queste avvenissero così numerosamente e così ridicolmente a proposito in tutti i momenti di smarrimento di questo nostro protagonista. Non si tratta di verosimiglianza o meno, trattandosi si un’opera di fantasia, ma solamente di gusto letterario, quello che dovrebbe dare un limite al non lecito e alla scontatezza. I personaggi sono vacui, senza un minimo di descrizione e di introspezione. Alcuni vengono malamente dimenticati a se stessi, perdendo una collocazione all’interno dell’intreccio, altri sono tremendamente caricaturali e tutti insieme formano un gruppo che, più che di personaggi veri e propri, sembra composto solo da comparse che vanno e vengono a piacimento dell’autore. Il carattere definito “utopico” di tutta la morale che mi sembra volesse essere espressa aggiunge poi il tocco finale che segna la (mia personalissima) condanna definitiva a questo romanzo. Può certamente essere definita una visione utopica della realtà prossima quella proposta da Redfield, che ancora una volta, però, ai miei occhi non sembra dimostrare un buon gusto nemmeno nella gestione così sognante e immaginifica di un avvenire dettato dalle nozioni di queste Nove Illuminazioni. Mi sembra un’utopia veramente poco originale, oltre che poco ragionata, che si regge in piedi a stento tra meditazioni energetiche che farebbero accapponare la pelle ai veri asceti orientali, i quali si guardano bene dal predicare e che preferiscono in tutta serietà condurre la propria vita di meditazione, quella vera, concreta, immanente per quanto trascendente, che non promette visioni metafisiche al limite della fantascienza, che non promette di far crescere ortaggi più grandi, sani e felici con la sola concentrazione del pensiero su di essi. Di libri che trattano l’argomento, in maniera seria, competente e affascinante ce ne sono un’infinità, e, come al solito, sono sempre i meno conosciuti, proprio perché senza pretese di cambiamenti universali e con il solo scopo di trovare un luogo interiore che ci faccia stare bene e che ci faccia affrontare il futuro senza troppe paure e senza sedicenti e fantasiosi manoscritti peruviani.
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Un quartetto di voci
Màrai, che grande scrittore. Veramente molto notevole, non c’è che dire. In particolare, “La donna giusta” mi è stato consigliato da una persona che mi ha detto: “…non conosci Màrai se non hai letto questo…”. Ed effettivamente è così. Avevo provato un subitaneo colpo di fulmine dopo aver letto “Le braci”, continuato con vivissima soddisfazione leggendo “La sorella”. Ma, amandolo fin da subito, non mi ero ancora reso conto di cosa sapesse fare esattamente, di quanto sapesse essere incisivo. E’ proprio con questo romanzo che mi si sono aperti gli occhi sulla fulgida aura di verità e di conoscenza dell’animo umano che mette in mostra questo grande autore. Se nei libri precedentemente letti, alquanto fugaci rispetto a questo, avevo trovato concetti illuminanti, suddivisi in concetti scontati ma espressi meravigliosamente e concetti profondi che mi hanno fatto riflettere, qua ho trovato una miniera di considerazioni celate tra le voci di quattro differenti personaggi. Quattro voci che parlano solitarie, in un fluire sorprendentemente becketiano, e che rimembrano la loro storia per insegnarci qualcosa tramite la decadenza di uno status secolare. Allegoricamente, una sapienza, quella che ci viene donata, che come fenice nasce dalle ceneri del suo decadimento assieme a quello della borghesia. Sono infatti gli ultimi tizzoni di quest’ultima, tiepidi ancora per poco, che vengono raccontati impietosamente dalle voci di queste quattro figure, che trovano una collocazione precisa in una storia che non viene raccontata. Almeno non in modo ufficiale. Viene raccontata e si delinea nella nostra mente grazie alle quattro versioni separate, differenti, ufficiose, personali, monologiche, di Marika, la moglie, Peter, il marito, Judit, l’amante, e infine, nell’epilogo, dell’amante dell’amante. Tutti loro interpretano un ruolo nella vicenda, tutti vengono descritti da tutti, in un modo o nell’altro, e grazie a questa metodologia descrittiva acquisiscono incredibilmente maggiore veridicità, verosimiglianza e rilevanza psicologica di fronte ai nostri occhi. Sentire quattro campane invece che una è un metodo straordinariamente più efficace per far risaltare l’oggetto della discussione, la cui esistenza ci appare quindi più imparziale perché descritta da più parti differenti. Leggendo i quattro monologhi si acquisisce una conoscenza graduale e man mano più paritaria dell’accaduto (immaginato), in cui le lacune generali della prima voce vengono riempite dalle altre, in cui quello che sembra giusto, granitico e indiscutibile nel primo caso, viene confutato dalle opinioni discordanti e altrettanto meritevoli delle seguenti. Una sorta di storia che nega se stessa esistendo solo nelle personalissime versioni di chi l’ha vissuta. Un modo affascinante di narrare, che ha, inoltre, il merito di non essere solo un esercizio di stile ben riuscito, ma un concentrato critico e lucidissimo sulla morte di una classe sociale, assieme a usanze, convenzioni, ipocrisie, ingiustizie e pregiudizi. L’agonia di quella borghesia che non riesce più a reggersi in piedi, nonostante gli estenuanti sforzi degli ultimi eletti che tentano in tutti i modi di continuare a lottare, sacrificando coscientemente la spontaneità della vita per ingabbiarsi in sfarzi e grandure anacronistiche, per difendere ciò che rimane di una gloriosa appartenenza. Agonia che viene vissuta in modo diverso dai quattro personaggi, trovando più o meno rilevanza all’interno delle differenti narrazioni, e fungendo da “basso continuo” per una parallela e più evidente storia di sentimenti. Anzi, storia di non sentimenti. Quelli che mancano, quelli che Peter, ricco rampollo di industriali borghesi, non riesce ad avere per una moglie perfetta e amorevole. Quelli, repressi dalla ragione, che prova per la persona che ha nascosto nel suo portafogli un piccolo pezzetto di nastro viola. Quei sentimenti che la moglie Marika invece prova, pronta a sacrificare tutto per essere ricambiata. Quei sentimenti che sembra provare Judit prima di rivelare la vera se stessa. Due donne che gravitano attorno al loro cento di gravità emotivo, che è anche centro narrativo per raccontarci il ricco corollario di sentimenti che possiede l’uomo. Nell’epilogo poi, la voce dello spettatore di questa vicenda, esterno e portatore di esperienze crudeli e tangibili che donano un contesto reale alla storia, un contesto bellico come quello dei bombardamenti su Budapest e sull’Ungheria (dove si svolgono le vicende) avvenuti durante il secondo conflitto mondiale. La trama è intrecciata, godibile, intelligentemente progettata e utile a raggiungere il proprio fine all’interno di questo romanzo complesso che, come un prisma scompone la luce per mostrare lo spettro cromatico, scompone la storia per dare voce a personalità variegate, con le proprie ragioni, il proprio agire, le proprie ambizioni e il proprio vissuto, nella tensione ultima per il raggiungimento di uno scopo, che sia quello della libertà dalle ristrettezze morali, di un sentimento autentico che doni gioia alla vita o della scalata sociale verso un’identità, ormai solo una nostalgia, già morta e lasciata indietro dal progresso e dal cammino della storia.
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Un western nuvoloso
Sono evidentemente uno dei pochi a non aver avuto il piacere di leggere “Stoner”, apparentemente molto promettente ed invitante. Sono stato però catturato da questo “Butcher’s Crossing”, così invitante nel suo confezionamento estetico così curato. Mi sono perciò lasciato trascinare, facendo una piccola eccezione alla mia tabella di marcia letteraria. Il risultato è stato sufficientemente soddisfacente da far nascere l’intenzione di approfondire con il precedente lavoro di questo signor John Williams. Per il momento quello che ho trovato è stato una sorta di western letterario, primo libro di questo genere che mi sia capitato di leggere. Un western non particolarmente luminoso, in cui il sole allo zenith così caratteristico e stereotipico si presenta solo a tratti ad imperlare la fronte dei quattro protagonisti. Una tipologia di western più montano, più crudo nei confronti della natura piuttosto che verso gli uomini. Una vicenda atipica rispetto ai soliti cliché dei duelli tra pistolero, in quei villaggi deserti in cui solo le tipiche sfere di sterpi sfidano rotolando la canicola del mezzodì. Ad essere sincero mi ritengo un po’ ingannato dal sunto della trama presentato in copertina: vi si prometteva un viaggio, quello di Andrews il protagonista principale, alla scoperta delle realtà più selvagge del continente americano, verso metà Ottocento. Una fuga, più che un viaggio, di questo ventenne di Boston che abbandona lo stretto rigore mentale e sociale di Harvard per perdersi volontariamente in uno dei più sperduti villaggi dell’Ovest, alla ricerca di un contatto con un’esistenza diametralmente differente. Andrews, con i propri risparmi di ex ragazzo abbiente finanzia questa spedizione in extremis per una caccia al bisonte, il cui mercato di pelli già saturo rischia di crollare. Trova ed ingaggia una sorta di vecchio “lupo di mare” (in questo caso “di terra”), espertissimo nella caccia, per condurre la spedizione in luoghi segreti, ultimi habitat depositari delle poche mandrie rimaste. Andrews, il cacciatore Miller, l’amico mutilato Charley Hoge e l’ingaggiato squoiatore tedesco Fred Schneider partono quindi per questa ultima grande caccia, spinti dal profitto, da una sommessa e non ammessa sete di morte e da un contrastante desiderio di comunione con un ambiente ostile e sublime. A fare da sfondo alle vicende è una scenografia imponente e solitaria, che vede pianure sconfinate, cotte dalla luce e dal calore accecante, che salgono per trasformarsi poi nelle fredde catene montuose del Colorado, dal clima rigido, incerto e crudele. Queste scenografie fungono da quinte per un massacro senza precedenti, una sorta di piccola estinzione raccontata con distaccata crudezza, francamente un po’ vuota, ma utile ai fini del racconto. L’ecatombe procede fino al peggioramento del tempo meteorologico, che costringerà i “quattro dell’Ave Maria” a rimanere molto più del previsto sui passi montani così tempestosi, in una forzata convivenza che metterà a nudo ambizioni, debolezze e trivialità. A tutto questo si aggiunga un flirt che il protagonista instaura, prima a distanza e poi in concreto, con la prostituta di Butcher’s Crossing, il villaggio fantasma di partenza. A grandi linee questa è la trama, purtroppo poco aiutata da uno stile linguistico piacevole ma a tratti un po’ vacuo e ripetitivo. Il quale, tra l’altro, poco indaga e poco evidenzia questo Andrews ventenne, bisognoso di sconvolgimenti emotivi e assetato di cultura empirica. Tutto sommato è un romanzo che si legge volentieri, piacevole nel suo carattere leggermente flemmatico e vagamente Zen. Peccato solo per la poca introspezione di questo personaggio, che avrebbe potuto essere il simbolo della fuga da una società fin troppo ricca di convenzioni come quella americana del XIX secolo. Un viaggiatore “beat” ante litteram in cerca di qualcosa di più stimolante in cui trovare la propria ragion d’essere. Non credo di aver compreso fino in fondo né il messaggio di questo libro, escludendo quello troppo banale della provocazione filoambientalistica del “salviamo le specie”, né se effettivamente il protagonista sia riuscito a sconvolgere sufficientemente il proprio animo. Fino a che qualcuno non mi illuminerà la via dell’interpretazione mi resterà probabilmente questo dubbio, ma senza rimpianti e con la soddisfacente sensazione di aver messo metaforicamente piede per qualche tempo in paesaggi incontaminati, benché intrisi del sangue di bestie innocenti, vittime del neonato capitalismo, così volubile e spietato.
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Nel paese del "Garbo"
Ormai posso dirlo: Peter Cameron ha tutte le carte in regola per diventare lo scrittore di letteratura contemporanea che prediligo, in assoluto. Ho letto tutto quello che è stato tradotto della sua opera, ancora troppo poco purtroppo, e ho aspettato con impazienza l’uscita italiana de “Il weekend”, dopo il tiepido, seppur piacevole, “Coral Glynn” dell’anno passato. “Il weekend” è il primo breve romanzo scritto e pubblicato (in America) da Cameron e risale agli inizio degli anni ’90. Credo si possa constatare come il suo stile sia stato fin da subito estremamente definito e si sia preservato immutato fino ai lavori più recenti, senza che si notino nella sua produzione note discordanti o esperimenti letterari troppo azzardati. Un percorso lineare che mi ha personalmente portato ad amare molto questo autore.
“Il weekend” nasce come racconto che avrebbe dovuto essere incorporato in una raccolta. Venne poi ampliato per ragioni che non mi è dato sapere e divenne il breve, piacevolissimo, romanzo che da poco possiamo leggere anche in lingua italiana. La solita trama scarna consiste in una coppia, composta da Lyle e Robert, omosessuali con una discreta differenza di età fra loro, che si reca per il weekend in visita ai più vecchi e cari amici di Lyle, John e Marian, coppia sposata con un figlio piccolo. Lyle non fa visita ai vecchi amici da dopo l’avvenuta morte dell’ex compagno Tony, grande amore durato nove anni, nonché fratellastro di John e chiave di volta morale del gruppo di amici. Tutto qua. Nulla di più serve a Peter Cameron per tessere una bellissima vicenda di sentimenti gestita con grandissimo garbo e con il solito raffinato gusto linguistico. Tematiche importanti si affrontano in questo romanzo che, guarda caso, si legge proprio nel tempo di un fine settimana. Tematiche importanti e ancora tabù per quella società non ancora totalmente matura che ha accolto in seno questo libro. Ma Cameron mette un tale candore, un tale amore nel regalarci scorci di vita comunitaria tra amici, da dare quasi un senso di invidia a chi veramente sia riuscito a fabbricarsi ricordi di tale intensità e di tale spensieratezza. Potrebbe per questo essere tacciato di poca verosimiglianza, di una concezione dell’amicizia e dell’amore un po’ in stile “Mulino Bianco”, in cui tutto è dorato e in cui tutti sorridono e scherzano nella luce del tramonto. Può darsi, ma c’è tanto altro al di sotto, e credo che valga la pena di indagare un po’ sotto la superficie di questo linguaggio che può apparire di primo acchitto troppo semplicistico. Un linguaggio che proprio per la sua grande semplicità, con i suoi contorni smussati e fluidi, ci regala sempre immagini vividissime, immediate, quasi cinematografiche della vicenda che si svolge. Chiunque con un minimo di fantasia può crearsi facilmente una propria versione degli ambienti, dei personaggi, delle luci, dei gesti. In Cameron più che in altri autori, proprio grazie ad una scrittura raffinatissima ed essenziale che lascia una trama a maglie larghe, il lettore può infilare, integrare il proprio personale immaginario e fare suo ciò che legge.
Essendo molto legato ed appassionato al mondo della storia dell’arte mi viene da fare un paragone che può sembrare alquanto azzardato, ma credo che per certi punti di vista risulti calzante: mi capita di pensare a Peter Cameron come ad una sorta di moderno Raffaello della letteratura. Proprio di Raffaello infatti mi sembra che ricalchi l’innata propensione per quella dimensione aggraziata e cortese della realtà, quella che il celebre artista esternava attraverso le belle arti e che Cameron esterna oggi con la sua penna. Mi sembra che entrambi rappresentino i vertici culturali della sfera in cui operano, sfera, ambito, luogo astratto il cui unico termine per definirlo non è altro se non “Garbo.” Spero che i professionisti di entrambi i settori culturali mi perdonino l’apparente sproposito, ma spero soprattutto di rendere giustizia ad un autore non particolarmente conosciuto, che merita invece una piccola celebrazione, anche solo in nome della sensibilità con cui si avvicina, in ogni suo lavoro, ad argomenti profondi, sebbene mascherati da quell’immediatezza dialogica che rende piacevole la lettura, immediata l’immedesimazione ed emozionante la conclusione, la cui spiazzante apertura lascia, come sempre, lo spazio adatto per riporvi i propri pensieri.
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La vanità prima di tutto
PROLOGO
Vorrei anticipare, dato l’alto punteggio che l’opera ha ricevuto, il mio rispetto per le altrui opinioni e vorrei che il mio commento un po’ “avvelenato” non fosse travisato. Non voglio offendere la sensibilità di nessuno e chiedo venia in anticipo per i contenuti scaturiti dalla mia amarezza.
Christopher McCandless aveva sette libri nel suo grosso zaino. Oltre ad alcuni chili di riso e all’attrezzatura di base per poter sopravvivere nella natura più aspra. Aveva sette libri fondamentali che lo avevano spinto a compiere un percorso arduo, nobile e unico. Spinto dal grande amore e dal grande interesse personale per la storia di questo solitario viaggiatore, di cui ho raccontato nella recensione di “Nelle terre estreme” di Krakauer, ho ritenuto doveroso e necessario un approfondimento ulteriore per arrivare a capire, nel modo più chiaro possibile, le ragioni di una scelta di vita così radicale come quella del “vivere solo con quanto la natura dona”. Tra questi sette libri, il capofila prescelto è stato il “Walden” di Thoreau, che campeggia, assieme ad altri importanti classici, nella piccola libreria portatile di McCandless.
La delusione è molto amara. Non so cosa mi aspettassi di trovare, forse qualche lirica descrizione di ameni paesaggi boschivi, forse qualche esperienza di vita che mi facesse ancora una volta assaporare il gusto dell’avventura, dell’aria fresca del mattino, dell’odore di resina dei pini e della corteccia sotto le dita. Non so, forse ingenuamente mi aspettavo qualcosa che mi cullasse nella speranza di poter veramente vivere di persona determinate situazioni di ineffabile libertà, fisica, spirituale, mentale. Beh, se cercavo questo ho proprio sbagliato libro. E se da una parte la colpa è da ascrivere al sottoscritto, per aver preso una svista sui contenuti del “Walden”, dall’altra parte mi sembra che la colpa sia anche in parte del signor Thoreau, con tutti gli allori al suo seguito.
Si tratta fondamentalmente di un saggio, sul fondo del quale si delinea l”esperimento” compiuto dall’autore. Esperimento che consiste nel vivere due anni in un bosco cercando di essere in tutto e per tutto autosufficiente, partendo da zero. Esperimento che apparirebbe tutto sommato interessante se fosse stato raccontato senza che ogni azione compiuta dall’autore venisse descritta come un modello da seguire in senso manualistico, e senza che ogni azione si caricasse di un’aura quasi mitologica di forza, potenza e ingegno.
Quello che oggettivamente ho trovato non è tanto un saggio che, dati alla mano, vuole mostrare non solo come sia possibile, ma anche facile una vita impostata sulla semplicità. Non è la riprova dell’indolenza dell’uomo moderno nell’evitare di perseguire stili di vita meno degradanti e certamente più salutari. Non è la dimostrazione di quanto, con le proprie mani, con la propria intelligenza, con la propria forza di volontà, l’uomo sia ancora in grado di costruirsi un’esistenza partendo da quello che trova in natura e nel rispetto di essa. Non è niente di tutto questo, ma avrebbe potuto esserlo. Quello che, invece, è, a parer mio, è un un’immenso inno allo smisurato ego dell’autore, evidentemente famelico di altrui considerazione. Un concentrato di insegnamenti, tanto non richiesti quanto malevolmente elargiti, su come dovrebbe essere vissuta la vita. Sul modo GIUSTO di vivere, comportarsi, abitare, vestire, gestire finanze domestiche e professionali. Il cui modo giusto, guarda caso, è proprio quello messo in pratica dal caro Henry, che, arroccato sul suo pulpito, da moderno Savonarola, giudica la misera umanità al suo cospetto come una ipocrita massa di decerebrati dediti solamente al gusto per le frivolezze e per tutto ciò che non riguarda esclusivamente il vivere come uomini delle caverne. Perché se tutti facessero questa cosa come la fa lui allora sì che le le cose andrebbero a meraviglia! Se tutti facessero quest’altra esattamente come lui ha scoperto sia giusto farla allora l’umanità si libererebbe da questa piaga! E se non bastano le sue gentili indicazioni su come impostare la propria esistenza, nel senso più ampio che può possedere questo termine, allora state in guardia alle numerose, pomposissime, ampollose prediche che fanno del “Walden” uno dei più grandi capolavori di vuota e vana retorica che mi sia mai capitato di incontrare.
Detto in altri termini, di prediche me ne sorbisco già a sufficienza senza il bisogno di andarmene a cercare, proprio quando, inoltre, mi appresto con il capo chino ad assorbire la sapienza di qualcuno che, piuttosto che donarmela umilmente e in buonafede, me la sbatte in faccia come dimostrazione della indiscutibile verità del proprio agire e del proprio pensare.
Mi piace la rottura delle convenzioni, mi piace il ritorno alle origini, mi piace l’annientamento di ciò che nella vita è superfluo o addirittura dannoso per la nostra serenità, mi piace tutto questo e sono il primo a disprezzare, in svariate occasioni, il comportamento collettivo dell’uomo, nelle sue barbarie contro gli altri e se stesso. Ma mi piace se tutto viene fatto con un senso, con cognizione di causa e non ciecamente. Quello che mi sembra abbia fatto Thoreau è un rinnegamento tout court, di tutto il pacchetto, compreso quel poco che l’uomo, nella sua imperitura imperfezione, ha prodotto di onorevole durante la sua presenza su questo mondo. Compreso tutto quello che l’uomo è ed è stato capace di esprimere tramite i più disparati veicoli espressivi. Non mi piace che tutto quello che l’omo ha da dare venga catalogato come inutile, in una filosofia dell’utilitarismo che taglia fuori dal tutto qualsiasi accezione poetica che possa colorarci la vita. Come ogni estremismo, come ogni fondamentalismo portato al limite, credo che la teoria dell’autore, espressa, inoltre, in termini così carichi di presunzione e di saccenza, si dimostri più infarcita di ipocrisia di tutte quelle formulate da intellettuali che non hanno dovuto spaccarsi la schiena e farci vedere le ossa rotte (vantandosene) e che sono comunque riusciti a farci capire che un modo di vivere differente è possibile. Che un modo per scappare dalle etichette, dagli schemi e dalla frustrazione che la vita ci riserva di tanto in tanto, c’è e si trova a contatto con la natura più profonda.
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Una parabola sull'amore
Ancora mancava tra le mie conoscenze letterarie questo autore così conosciuto, amato e idolatrato. Per fare la conoscenza del Signor McEwan e del suo mondo mi è stato consigliato vivamente qualcosa di leggero e fulmineo, e e la scelta per questo ruolo è ricaduta su “Chesil Beach”, che, proprio nel medesimo tempo che sarebbe trascorso in chiacchiere con un amico si è fatto leggere meravigliosamente, senza intoppi e con grande leggerezza. Mi rendo conto dell’apparente impossibilità di poter dare un parere approfondito su un autore dopo un primo solitario approccio così quantitativamente scarno. Non sono infatti sicuro di essermi fatto un’idea esatta ne dei punti forti, ne di quelli deboli, ne delle particolarità delle scelte stilistico-narrative proposte da McEwan. La mia opinione in merito deve essere quindi presa con beneficio di inventario e spero di potermene formare una più solida procedendo con altri romanzi.
Oggettivamente parlando ho trovato una scrittura scorrevole, piacevolmente forbita ed equilibrata. Tramite essa si profilano due fili narrativi paralleli, uno che descrive avvenimenti in accadimento, uno formato da una serie di flashback esplicativi che ci parlano degli avvenimenti pregressi. Tutto ben narrato e tutto incentrato quasi esclusivamente su due personaggi, Edward e Florence, novelli sposi freschissimi di nozze, alle prese con quella che si prospetta essere la prima notte insieme come moglie e marito. Al centro di questo breve romanzo, o racconto lungo, che dir si voglia, sta una trama all’apparenza scontata, un immenso cliché che però viene temperato con un elemento assolutamente originale e bizzaro. L’escamotage consiste infatti nel presentare una delle metà appena congiunte nel sacro vincolo del matrimonio, Florence, come una persona dagli intricati dissidi emotivi e sessuali. Una donna assolutamente incapace di darsi, nel senso più stretto della parola. Una donna capace di amare profondamente ma assolutamente restìa, per disgusto fisico, a donare il proprio corpo. Il problema, già di per sé piuttosto consistente, sorge a causa del fatto che lo sposo, Edwad, sia di avviso assolutamente contrario, il che risulta quasi un eufemismo. Edward, comunque rispettoso è pur sempre un uomo che si aspetta qualcosa dalla prima notte di nozze, qualcosa che per il partner risulta essere uno scoglio assolutamente insormontabile.
I numerosi flashback che approfondiscono le vite e il successivo incontro dei due personaggi non chiariscono fino in fondo cosa porti alla formazione di un tale disgusto per Florence nei confronti del contatto fisico. Ma poco importa ai fini della morale di questa storia. È necessario e sufficiente accontentarsi di sapere che Florence è fatta così, che ha un carattere fatto così e che certamente qualcuno, nel mondo reale, rispecchia fedelmente i suoi connotati psicologici. McEwan ci fa entrare quindi in una condizione di malessere molto poco indagata, dal mio punto di vista, dalla letteratura sia classica, sia moderna, sia contemporanea. Ci mostra soprattutto come uno scrittore, vero e affermato, uno scrittore che sa far bene il proprio mestiere, riesca sempre a trovare il modo di dare un immancabile tocco di originalità ad una struttura narrativa estremamente stereotipata, sconvolgendone le sorti e i significati più profondi. E ci fa capire, infine, in questo “Chesil Beach”, la differenza che intercorre tra amore e contatto sessuale. La differenza che c’è tra un sentimento puro, sincero, capace di essere inossidabile e duraturo e una gestualità di coppia che, rimanendo comunque un bisogno istintivo e indiscusso, si rivela in questo caso un ostacolo che mette a repentaglio l’armonia di giovani sposi innamorati come Edward e Florence. Interpreto quindi questo romanzo come una sorta di parabola alquanto esplicativa sull’amore senza sesso, non casto per ragioni di perbenismo cattolico ma solo per la mancanza di desiderio, quella che porterà Florence a proporre quella che Edward considererà come una sorta di indecenza e di umiliazione personale.
In definitiva, un bellissimo piccolo romanzo dai contenuti intensi. Lascia un sapore inevitabilmente molto amaro in bocca, ma il miele con cui addolcirla è abbondante e di facile reperibilità se lo si cerca fra le righe ottimamente scritte dal Signor McEwan.
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Franzen tra politica ed economia statunitense
Terzo libro che leggo dell’autore. I precedenti letti, non in ordine di pubblicazione, “Le correzioni” e “Libertà”, il più recente in ordine cronologico. Come sempre, e come ho già detto nella recensione di “Le correzioni”, Franzen si conferma come uno dei più grandi narratori ed interpreti della contemporaneità, del mondo che ci appartiene in quanto luogo di esistenza sociale. Ne “La ventisettesima città” ho trovato un Franzen ancora notevolmente impostato, un Franzen che vuole sorprendere con pagine di sperimentalismo linguistico che in parte ha perso con i successivi romanzi. E, francamente, ne sono ben contento. L’approccio scelto dall’autore per impostare certe parti di questo romanzo trabocca della sua volontà di mostrare l’infinita documentazione, l’infinito percorso di apprendimento che mi sembra abbia dovuto compiere per poter argomentare così approfonditamente certe tematiche. In particolare quella legata al funzionamento più spicciolo della legislazione americana in fatto di economie locali. Proprio questa velata spocchia nel buttarci in faccia dieci pagine di fila, di tanto in tanto, di puro strategismo economico, intricato, gonfio di tecnicismi, mi ha perplesso al punto da rimanerne interdetto. Non capisco e, francamente, mi verrebbe da attribuire, in una ipotesi del tutto personale, questo suo atteggiamento letterario come una piccola pecca dovuta all’età, ancora relativamente tenera, in cui scrisse “La ventisettesima città”. Tutto sommato, naturalmente, si tratta di un bel libro, ma sfortunatamente con troppe parti indigeste per esserne appieno entusiasti. Quelli che in altri casi sarebbero potuti essere dei virtuosismi, in questo contesto risultano, a parer mio, degli handicap notevoli che minano in parte il felice svolgersi della trama più strettamente narrativa. Come piccoli scogli che devono essere superati per meritarsi qualche capitolo più scorrevole e coinvolgente. Io, in quanto amante dell’opera franziana, ho accettato i compromessi e ho proseguito, ma immagino che non tutti siano disposti a farlo, soprattutto coloro che considerano la lettura un momento di intrattenimento che riesca a staccare la spina dei pensieri di tutti i giorni. In quel caso, non lo ritengo un libro adatto. Non lo ritengo un libro adatto nemmeno per approcciarsi all’autore poiché potrebbe far nascere un’idea non del tutto esatta del potenziale e della conseguente grandezza di Franzen.
Una trama interessante, d’altro canto, e di sapore vagamente noir, tenta di attirare quell’attenzione che si perde nei passaggi più noiosi. L’arrivo del nuovo capo della polizia, S. Jammu, nella città di St. Louis, segna l’inizio di una più movimentata esistenza cittadina per tutti gli abitanti. Jammu è una donna, giovane, indiana, sveglia e ambiziosa che mira ad acquisire potere e considerazione nelle cerchie economiche e sociali più altolocate. Questo la porterà a sfidare quella elite di uomini di potere che tiene le redini dello sviluppo di St. Louis. È tra questi uomini che troviamo Martin Probst, il portavoce, il personaggio in vista da decenni, quello che si è occupato della costruzione del grande Arco simbolo (reale) della città. Martin Probst, insieme alla moglie Barbara e alla figlia adolescente Louisa, è la “cavia” che utilizza Franzen in questo romanzo per esplorare le parti più interne e private della vita di un uomo medio. Come lo è stata la famiglia Lambert ne “Le correzioni”, la famiglia Berglund in “Libertà”, qui è la famiglia Probst ad interpretare un nucleo instabile pronto a svelare dinamiche interpersonali che solo questo autore può descrivere con tanta veridicità, verosimiglianza e introspezione psico-emotiva. Da questo punto di vista Franzen non ne ha ancora sbagliata una. Per gli amanti dei personaggi accuratamente delineati, dei quadri psicologici magistralmente indagati, questa è la strada giusta per trovare una vera miniera di piacere letterario. Un piccolo viaggio introspettivo che, da solo, redime l’insolita pesantezza di altre parti del romanzo.
In definitiva un bel libro, corposo, denso, con qualche spunto interessante. Con tutti gli accorgimenti del caso, un romanzo che non può mancare a tutti i seguaci franziani, un tassello in più che serve a convalidare la già meritata considerazione conquistata dall’autore.
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Un idillio tutto inglese
Ed eccomi al secondo appuntamento di quello che potremmo considerare “Il ciclo dei libri abbandonati (e poi ripresi)”. Anche in questo caso si tratta di un abbandono dovuto, naturalmente, non al valore dell’opera letteraria in questione ma dalla presunzione alquanto infantile di poter leggere in età troppo precoce libri che possono essere assaporati a pieno solo dopo determinati trascorsi da lettore. In questo caso il romanzo di cui mi accingo a parlare appartiene allo stesso tempo a due cicli. Uno, personalissimo, è quello suddetto, l’altro è ben più conosciuto e apprezzato da generazioni, ovvero quello del “Ciclo del Barset”. “L’amministratore” è infatti il primo volume di una serie di sei che ci porta a rivivere, grazie all’abile penna di Trollope, un mondo che, se non si sapesse della sua inesistenza, si crederebbe vero tanto è ben congegnato e descritto. Elemento primario di questo volume e di tutti gli altri del “Ciclo del Barset” è sicuramente la componente ambientale/paesaggistica che funge da scenario per le vicende dei personaggi, componente che personalmente ho gustato con particolare gioia e che sembra essere posta quasi allo stesso livello di importanza di tutto il susseguirsi degli avvenimenti della trama. Il mondo in cui ci inserisce Trollope è quello tipicamente rurale e bucolico della campagna inglese del XIX secolo, dalle luci brillanti, dalle giornate limpide, dall’aria profumata di fiori. Un mondo immaginario, appunto, ma vivissimo e descritto con tanta dedizione da apparirci vero. Un piccolo mondo racchiuso in una piccola contea, quella del Barsetshire, situata in un luogo non precisato nel sud dell’Inghilterra. Il classico villaggio che potremmo vedere nei paesaggi di Constable, con piccole casette di pietra, a fianco il fienile, lo steccato bianco, la chiesetta appena attraversato il ponte, gli alberi frondosi che ricoprono d’ombra le panchine lungo il fiume. Un ambiente fiabesco quello che accoglie i personaggi che si muovono in questo relativamente piccolo, garbato palcoscenico. Personaggi bizzarri, ironici, ambiziosi, ingenui, in gran parte appartenenti al ceto ecclesiastico di provincia. Tutti con un ruolo ben preciso, tutti immersi alla perfezione nella propria piccola nicchia cittadina, intrisi di quel delizioso provincialismo estremamente rassicurante e incurante di problemi o situazioni troppo lontane per potersene preoccupare. Una trama fondamentalmente povera e stereotipata funge da struttura generale di questo breve primo romanzo. Il protagonista principale è il reverendo Harding, l’amministratore del ricovero per anziani del paesino di Barchester. Uomo amabile, buono e umile che vedrà turbata la propria tranquillità, affettiva, sociale e finanziaria, dopo che verrà messa in discussione la rendita che percepisce come amministratore del suddetto ricovero. Sostanzialmente, tra le pagine di questo piccolo romanzo ritroviamo una aperta analisi, e in alcuni casi molto caustica, ma sempre piacevole e sempre “tra le righe”, dei rapporti che intercorrono tra i vari membri della gerarchia ecclesiastica. Tutto questo alternato a piccole storie parallele, amorose o meno, tra i protagonisti minori del romanzo.
La lettura risulta tutto sommato molto piacevole. Interessante e godibile è anche l’approccio che utilizza Trollope nei confronti del lettore. Un approccio assolutamente moderno rispetto ai tempi in cui questo romanzo viene scritto, un linguaggio slegato dalle convenzioni più canoniche del romanzo vittoriano, che ci parla direttamente, che ci presenta con insolita spigliatezza ed ironia i personaggi, uno ad uno, delineandone il carattere, le abitudini, le stranezze, il modo di vestire. Tante piccole schede personali che fungono da occhi immaginari con cui il lettore può figurarsi nel modo più particolareggiato possibile il personaggio di cui segue le vicende. Questo modo inusuale di inserire i personaggi, senza sotterfugi, senza l’obbligo ormai scontato di svelarceli poco a poco, risulta nuovo e commovente nel proprio candore.
I personaggi in se, poi, sono tipici ed estremamente emblematici del secolo in cui vivono. Anche in questo caso ci si ritrova in una vera e propria galleria di caratteri e di differenti modus vivendi, influenzati dal ceto sociale di appartenenza di ognuno di essi.
In definitiva, un inizio davvero delizioso per un ciclo altrettanto piacevole da seguire, dove, aimé, i personaggi non rimarranno sempre gli stessi. “Il ciclo del Barset” continua infatti con altri volumi in cui il teatro rimane sempre la contea del Barsetshire, ma in cui i personaggi di ogni volume sono differenti, sebbene tutti appartenenti alla ristretta cerchia di cittadini del paesino di Barchester.
Consiglio a tutti gli appassionati di classici inglesi di intraprendere questo piccolo viaggio che, nonostante non millanti contenuti altissimi come tanti imprescindibili della letteratura britannica ottocentesca, ci estrania dal nostro mondo per portarci all'interno di un'atmosfera unica, fresca e frizzante come una giornata di primavera e allo stesso tempo calda e rassicurante come solo le vecchie favole sanno regalare.
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Un libro di Qualità
Quando ci si trova a voler dare un opinione sul proprio libro preferito ci si pongono un’infinità di domande, principalmente in merito al perché ci sia piaciuto così tanto, al motivo che ci ha portato ad eleggere un romanzo, o un saggio, o una biografia, o quant’altro come quello che si porterebbe con se e a cui si attribuirebbe un significato ben al di sopra di tutti gli altri libri letti. Credo che il motivo che mi habbia spinto a considerare “Lo Zen a l’arte della manutenzione della motocicletta” come il più bel libro che mi sia capitato di leggere derivi, per ironia della sorte, da una mera sensazione, da un istinto, da qualcosa di inafferrabile e comprensibile allo stesso tempo. Nel mio caso è stato un connubio di fatti discordanti. Da un lato la sensazione prettamente intellettuale di aver letto qualcosa che abbia realmente messo in moto processi mentali da potersi considerare edificanti. Dall’altro l’impalpabile sensazione di aver spiato nell’anima dell’autore, bevendo fino alll’ultima stilla quel succo di sapienza che tanto meravigliosamente è stato in grado di imprimere con l’inchiostro. Un dono meraviglioso alle generazioni di lettori di cui mi ritengo un fortunato componente.
Innanzitutto, si tratta di un libro di difficile catalogazione. Sarebbe sbagliato considerarlo romanzo come lo sarebbe considerarlo trattato, saggio filosofico o romanzo autobiografico. Per la precisione di tratta di un’opera letteraria che spazia tra tutte queste tipologie arrivando a creare un piacevole e ordinato equilibrio tra le sue più diverse componenti. La parte più strettamente narrativa e autobiografica racconta, molto semplicemente, di un viaggio in motocicletta. Un lunghissimo viaggio che l’autore e il figlio, a tratti accompagnati da alcuni altri amici, compiono nel tentanivo di visitare gli immensi territori del nord-america, percorrendo quelle strade che si perdono all’orizzonte, che tagliano le sconfinate praterie di un continente ancora da scoprire, distante dalle metropoli, dalla caotica vita cittadina. Un continente piatto, a tratti deserto, a tratti boscoso, a tratti meravigliosamente disabitato. Un viaggio che si rivela assolutamente propedeutico a tutto quello che l’autore ha da raccontare, all’immenso bagaglio culturale che ha da trasmettere. Ed è da questo che provengono le inestimabili riflessioni filosofiche, e non filologiche, che diventano la colonna portante, il fulcro di tutta l’opera di Pirsig. Una filosofia propria dell’autore, dalla maestosa architettura, che ci viene spiegata, in più episodi, in riferimento alle varie componenti del motore a scoppio della sua vecchia motocicletta. Una incredibile quantità di riflessioni ci viene inculcata con la sola lettura, cosciente ed attenta, di questo libro fondamentale, prima fra tutte quella riguardante la Qualità e la sua natura. Un principio, quello della Qualità, assolutamente privo di definizione propria benché causa prima del tutto. Una teoria originalissima e sconvolgente tanto da portare alla pazzia, o quasi, lo stesso autore, che, nelle parti più autobiografiche di questa opera ci fa capire tra le righe, senza ostentazione, il suoi turbolenti, quanto eloquenti ed emblematici di una società con i paraocchi, trascorsi in manicomio. Trascorsi di una vita precedente, separata da quella nuova che lo conduce, su una motocicletta, ad esplorare una nazione. Ma che in segreto riprende il filo dei pensieri che lo hanno portato ad un declino mentale per raccontarli a noi, con riaquisita lucidità e serenità, tale da costruire a nostro beneficio una Metafisica della Qualità spiegata in modo didattico e piacevole.
I risvolti secondari di questo libro sono innumerevoli, sia nella trama autobiografica sia nella parte più concettuale, sarebbe quindi inutile approfondirli. Resta comunque che Pirsig ha inciso profondamente la mia coscienza e la mia conoscenza, come quella di numerosi lettori che sono giunti a considerare questo libro come “cult”, definizione detestabile che ha però avuto il merito di farlo conoscere nel mondo dopo un lunghissimo periodo ci anonimato e di freddezza da parte della critica.
Sentire il cervello che lavora mentre si legge è qualcosa di impagabile, soprattutto in un decennio in cui i libri in uscita promettono un degrado qualitativo ai limiti dell’imbarazzo. Sentire il cuore che si riempie porta calore, sentire che le lacrime scendono, e parlo sinceramente, quando si volta l’ultima pagina imprime in se stessi il ricordo indelebile di un autore che ha messo in gioco se stesso e la propria salute per rispondere ad una semplice domanda da cui può scaturire l’inizio di tutte le cose: che cos’è la Qualità?
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La gioia dell'ignoto
Per questa mia recensione credo che mi si dovrà perdonare le possibili dissertazioni non strettamente legate al libro in questione. Questo perché non si tratta di parlare solo del romanzo/inchiesta di Krakauer. Si parla infatti di una persona, realmente esistita, la cui storia ha appassionato, oltre a me, milioni di persone in tutto il mondo. La storia è quella di Christopher McCandless. Innanzitutto è doveroso, nel mio caso, porre in cima a tutto un ringraziamento, che, nonostante non potrà mai raggiungere il destinatario, sgorga sincero e commosso. Un ringraziamento che va a Sean Penn, che con la sua straordinaria sensibilità di persona, ma soprattutto di regista, ci ha regalato la trasposizione della storia di Christopher in un film strepitoso e commovente che risponde al titolo di “Into the wild”. Il fatto che questo sia il mio film preferito mette in mostra quanto la storia del protagonista abbia colpito così tanto il mio animo, tanto da approfondire il tutto con la lettura di “Nelle terre estreme”, libro da cui è stato tratto suddetto film. Non è mia abitudine leggere un libro dopo averne prima visto la trasposizione cinematografica, ma in questo caso è stato inevitabile. Credo che Sean Penn abbia colto in pieno il senso, la morale, la spinta intellettuale e tutto il contesto che ha portato un giovane di buona famiglia a privarsi di tutto per perseguire un ideale altissimo e universale. Tutto questo, naturalmente, è descritto altrettanto bene nelle pagine del libro a cui si è ispirato il regista.
Jon Krakauer, giornalista e alpinista, si è occupato della faccenda di McCandless, dando una risonanza di livello mondiale alle vicende di questo ragazzo. Lo fa in modo prettamente documentaristico, in un tono narrativo che rimane comunque piacevole e che non sfocia mai nello stile troppo giornalistico, pur rimanendo accurato nella ricerca delle fonti che gli hanno permesso di ricostruire il percorso fatto da Christopher. Un percorso particolare, che parte dalla personalità trasparente di un ragazzo poco più che ventenne. Un ragazzo dalle spiccate doti intellettuali, erudito e spigliato, che poco dopo la laurea decide di compiere un passo importante della propria vita. Decide di allontanarsi da una famiglia e da un contesto sociale troppo stretto, troppo costruito su apparenze e da menzogne che servono a sostenere una facciata che non coincide con l’essenza reale delle cose. Decide di dare un taglio netto a quello che si prospetta come un futuro programmato e claustrale, e lo fa mettendo alcune cose in un grosso zaino, donando in beneficenza tutti i risparmi destinati al proseguimento degli studi e salendo sulla sua vecchia Dutson e iniziando un viaggio in solitario, apparentemente senza meta. Un viaggio che lo porterà a vedere luoghi meravigliosi, a provare sensazioni ed esperienze che solo i grandi spazi aperti del nordamerica possono donare ad un ragazzo pieno di vita, pieno di gioia di vivere. Gioia di vivere che “…deriva dall’incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in continuo cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso.”
Questo ragazzo, da solo, scopre mondi inaccessibili e dimenticati, si immerge nella natura per vivere appieno di quello che essa può donare. Come un moderno Thoreau, autore che egli stesso porta con se tramite il “Walden”, vuole condurre un’esistenza in comunione con la natura, nutrirsi di essa. E per farlo dovrà andare fino di quei posti in cui la natura è pressocché incontaminata. L’Alaska. Questa diventa le meta di Christopher, questa diventa il sogno di un’esistenza agognata, che porterà conseguenze gravi, significative e senza possibilità di ritorno.
Una storia on-the-road, quella di McCandless, che ha affascinato un’infinità di persone, le quali hanno criticato, ammirato, imitato le aspirazioni di questo ragazzo e il metodo utilizzato per farle avverare.
Probabilmente non sono riuscito ad esprimere in modo esaustivo quanto valore io attribuisca al percorso di vita scelto da Christopher McCandless, alla propria colta ricerca di una verità e di una gioia superiore a quella che si può provare vivendo in una società, in un mondo troppo pieno, affollato, caotico, ipocrita. L’unica cosa che mi sento veramente di fare è quella di consigliare questo libro a tutte le persone che almeno una volta nella vita si sono sentite soffocare e hanno pensato di fare uno zaino e partire, senza pensare alla meta, pensando solo al viaggiare, al vedere luoghi inesplorati, luoghi che sanno donare, nella loro disarmante bellezza ed autenticità, molta più gioia di vivere di qualsiasi bene materiale si possa desiderare.
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L'importante è danzare
Dopo la meravigliosa ed inaspettata sorpresa avuta con “Kafka sulla spiaggia” perché non dare un’opportunità all’abbandonato “Dance Dance Dance”? Sarebbe stato ingiusto lasciarlo a se stesso senza un secondo tentativo, bollando questo romanzo come qualcosa di non gradito solo per qualche sensazione che avrebbe potuto essere errata. E infatti è stato proprio così. Comincio a sviluppare una sorta di diffidenza nel personale giudizio su libri che non mi convincono e ho bisogno di una riprova tangibile che solo con una rilettura posso ottenere. Il più delle volte questo risulta essere un procedimento che si conclude con successo e con un ripensamento a tutto tondo sull’opera in se e sulle capacità dell’autore. “Dance Dance Dance” era stato abbandonato dal sottoscritto per delle motivazioni prettamente emotive di un periodo della mia vita, come tutti ne hanno, che mi ha impedito di portare a conclusione la lettura. Finito il periodo in questione, voltate le pagine, chiuse le porte, riprenderlo è stato un attimo e il risultato è stato esaltante. Ne è venuta fuori una lettura piacevolissima, che incrementa notevolmente il mio parere, già positivo dopo “Kafka sulla spiaggia”, su Murakami. Un autore con i propri topos, caratteristici e inconfondibili. Con il solito linguaggio lineare, semplice, a tratti estremamente fotografico per quanto riguarda determinate scene. Scene che vengono pensate e descritte come se ci trovassimo di fronte ad una mostra di fotografie sul mondo contemporaneo o davanti ad un film d’autore con un eccellente gusto per l’estetica. Scene che vengono descritte con un linguaggio potente, con frasi incisive e particolari, che, il più delle volte, riescono ad esprimere a fondo quel gusto per l’essenziale tipico della tradizione estetica nipponica.
Questo romanzo in particolare racconta della vita. E fin qua non sembrerebbe nulla di particolarmente straordinario né particolare. Naturalmente il nocciolo della questione sta nel come il concetto di vita viene raccontato. Un concetto che si suddivide in una serie di collegamenti che avvengono per ogni essere umano, collegamenti i quali formano una sorta di cammino già scritto, dove ogni parte di esso trova ragione nel tutto, dove il destino, o qualcosa di indefinito ma dalle medesime funzioni, mostra a volte le proprie intenzioni e ci collega a fatti della vita in modo da raggiungere un fine ignoto. Per il protagonista di questa storia, di cui, per inciso, non viene mai menzionato il nome, il destino prende la forma di un’uomo, o di una presenza, o, ancora meglio, di un’entità immaginaria e contemporaneamente reale: l’uomo pecora. Benché il nome faccia pensare ad un personaggio dalle peculiarità comiche, egli è il guardiano di tutti questi collegamenti che segnano il percorso di vita del protagonista, che si troverà in pochi mesi a sconvolgere la propria esistenza fondamentalmente monotona al fine di perseguire e portare a termine alcune questioni in sospeso con il passato. Durante questo suo viaggio, mentale e fisico, conoscerà persone che diverranno fondamentali per il suo scopo, ma fondamentali anche per il proprio benessere. Incontrerà una ragazzina bisognosa di amore, con una dote molto particolare. Incontrerà una vecchia conoscenza salita agli onori della cronaca e diventata celebre, incontrerà una receptionist di cui avrà disperatamente bisogno. Un percorso tortuoso lo farà entrare ed uscire dalla realtà, in situazioni che solo un autore come Murakami può mettere in piedi, riuscendo a disorientare il lettore a proposito di cosa sia e cosa non sia reale e tangibile per il protagonista e per chi segue le sue vicende. In definitiva, una bellissima favola moderna sul destino che attende ognuno di noi e su come i fatti quotidiani della nostra vita possano concatenarsi per raggiungere lo scopo della nostra vita. Uno scopo che può essere alto nonostante la nostra esistenza appaia sostanzialmente inutile al progresso sociale, o uno scopo apparentemente inutile nonostante la nostra vita sia stata ricca di successi. Una sorta di meditazione, “Dance Dance Dance”, sui rapporti umani, su quanto possano essere fugaci, su quanto possano essere dolorosi nel loro apparire troppo effimeri e destinati ad una conclusione. Un romanzo che tocca alcune corde importanti, come quella del sentimento, della solitudine, del bisogno di amore, ma anche della mancata realizzazione personale che diventa malattia in un mondo così ossessionato come il nostro dal progresso, dal successo e dalla sua immagine troppo spesso opulenta e mendace. Un romanzo che, in fin dei conti, ci fa pensare e forse credere che per ognuno di noi, come succede al protagonista, c’è qualcuno che in una stanza di hotel piange per tutte le cose di cui noi stessi non riusciamo a piangere.
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Le correzioni: l'affresco della modernità
Dare un’opinione almeno apparentemente esaustiva a proposito dei romanzi di Franzen, o anche solo di uno di essi, mi sembra un compito piuttosto arduo. Il primo aggettivo che mi viene in mente per definire “Le correzioni”, come poi anche i successivi e i precedenti libri scritti dall’autore, è anche quello che mi sembra più calzante. Ovvero, lo definirei un libro “denso”. Sia, di primo acchitto, dall’edizione fisica delle sue opere, sia dal lessico e dalla struttura scelti per scriverle. “Le correzioni” è il primo libro di Franzen che ho avuto il piacere di leggere e confesso di esserne rimasto perdutamente ammaliato. La prima caratteristica rilevante che salta alla mente del lettore che si approccia all’autore in questione è sicuramente, come già detto, la scelta del lessico, che denota un dizionario personale veramente di ampie proporzioni. A questa già apprezzabile caratteristica si aggiunge poi la capacità straordinaria di conciliare in ogni periodo, in ogni frase o affermazione, un linguaggio estremamente diretto, conciso, immediato, ma allo stesso tempo, miracolosamente forbito, ricco, che denota sullo sfondo una presenza intellettuale non indifferente. Un linguaggio che fa trasparire con chiarezza la sfavillante cultura di base dell’autore e che evidenzia con quanta dedizione esso si dedichi ad un importante lavoro di documentazione prima di trattare qualsiasi argomento. La scrittura di Franzen, non solo, quindi, si trova ad essere un connubio di semplicità e complessità verbale, ma mette in evidenza ulteriori virtuosismi narrativo-lessicali nella straordinaria musicalità che assume il testo. Non so con esattezza se ci sia uno studio preciso e premeditato dietro tale caratteristica, soprattutto alla luce del fatto che, in fin dei conti, si stia leggendo una traduzione. Non sono nemmeno al corrente se altri abbiano notato tale particolarità, o se l’abbiano notata addirittura nel testo in lingua originale. Il fatto però resta. Leggere un romanzo di Franzen comporta assolutamente una sorta di magnetismo intellettuale reso affine da un uso del linguaggio sopraffino.
Oltre alle digressioni più meramente tecniche, personalissime, è inevitabile accordare molti altri punti a favore dell’autore per la meravigliosa compiutezza delle trama, di questo ed altri romanzi. Franzen, scrittore newyorkese, fondamentalmente predilige vicende ambientate nel nordamerica, tra territori natii, ben conosciuti, senza troppe pretese di ambientazioni esotiche che rischiano, nella maggior parte dei casi, di rivelarsi delle pallide scenografie. Nel caso de “Le correzioni”, il filo della trama si svolge principalmente nei territori del Midwest, dove incontriamo una famiglia americana qualsiasi. Una specie si stereotipo, di modellino dai tratti deprimenti e satirici della tipica famiglia americana dove troviamo i genitori, Alfred ed Enid, anziani, che conducono una vita immersa nei ricordi, negli oggetti di un tempo, nella vuota banalità di giornate sempre uguali a se stesse. A volo di uccello vediamo le vite diametralmente opposte che conducono i tre figli della anziana coppia, Gary, Chip e Denise. Tutti cresciuti, che fanno i conti con le conseguenze delle proprie scelte, con le proprie famiglie, con il proprio lavoro insoddisfacente, con le proprie relazioni. È il desiderio impellente e irrinunciabile dell’anziana Enid di riunire per l’ultima volta la famiglia per Natale che segna l’apparente ricongiungimento di una famiglia frammentata da decenni, a causa della mediocrità e dell’ipocrita perbenismo che segnava lo standard di vita degli anni ’60.
Una trama ricca di spunti, di vita vissuta, di verità spicciole e quotidiane che porta a incoronare Franzen, almeno ai miei occhi, come uno dei più grandi narratori contemporanei della quotidianità, vissuta nei suoi oggetti più consumistici e inutili e nelle sue situazioni più vivide e reali. Vite raccontate con un realismo impressionante da ogni punto di vista, da ogni particolare, che ci fanno vivere i momeni salienti di questi cinque personaggi come se fossimo noi stessi a trovarci alle prese con responsabilità, gravosi impegni, speranze, perdite e perdoni. “Le correzioni” è in definitiva un modernissimo affresco che parla di noi, dell’esistenza della corrente generazione e dei frutti che raccoglie dopo aver seminato.
Un romanzo affascinante, con una morale che lascia un gusto un po’ amaro in bocca. Che è, però, ainoi, il gusto amaro della verità.
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Gabriel Garcia Marquez: cent'anni di gratitudine
Uno dei miei più grandi successi in ambito di ripescaggio di libri abbandonati. A remare contro la buona riuscita del mio primo approccio a questo libro furono probabilmente la tenera età e conseguentemente una coscienza letteraria ancora troppo poco matura per poter affrontare un’opera dal carattere così eclettico come “Cent’anni di solitudine”. Questo romanzo, ingiustamente dimenticato e abbandonato alle polveri della libreria, ha ripreso immediato fulgore in un pomeriggio di astinenza, combinata ad assenza di libri in cui seppellirmi. Inutile dire che con un capolavoro di tale portata nelle mani e una decina di anni di più sulle spalle, con le conseguenti, formative e non, letture, il successo è stato strepitoso. Non mi capitava da tempo di leggere un libro del genere, il quale più spontaneo appellativo con cui definirlo non è altro se non “bello”. Bello veramente, poiché ricchissimo di immagini belle, visive, quasi pittoriche. Un romanzo che lusinga gli occhi della mente, quelli che oltre alla trama, ai personaggi e ai rudimenti strutturali che sostengono la narrazione, apprezzano anche un’estetica inusuale e sublime. Un viaggio nell’immaginario surreale e tremendamente ricco di poesia di un grandissimo scrittore, considerato il più grande ancora in vita. Il capolavoro di Marquez è un romanzo che il più delle volte non prevede giudizi intermedi. O lo si detesta profondamente, e con esso tutto l’importante corpus delle opere dell’autore e di una conseguente generazione di scrittori sudamericani, o lo si ama alla follia e si porta per sempre in se stessi una parte di quei mondi così reali e irreali allo stesso tempo che solo la penna di Marquez può evocare.
Una trama assolutamente indescrivibile. Delineabile solamente con l’affermazione: una saga familiare. La storia intricatissima dei Buendìa, famiglia assolutamente fuori dal comune, con discendenti ancora più stravaganti che conducono, in una narrazione che sorvola numerosi decenni, sebbene in un’epoca non precisamente circostanziata, vite bizzarre. Incontreranno successo, gloria, degrado, gioia, disperazione, rinascita, estinzione. Una dinastia prolifica di personaggi con lo stesso nome, ereditato dai visionari capostipiti, che si differenziano per le proprie scelte, per i propri caratteri, per le proprie ambizioni, così diverse e inconciliabili. Personaggi che vanno, che vengono, che tornano nella casa che sempre può accoglierli. In quell’ameno paesino, Macondo, fondato dai loro stessi avi. Una interminabile saga familiare che vede come unico centro di gravità, granitico, irremovibile, a tratti contemporaneamente rassicurante e inquietante, la figura della matrona Ursula, che col tempo diventerà la centenaria anima di questa famiglia ormai decaduta ed estinta, l’unica depositaria di quelle fondamentali memorie in cui sempre vivranno tutti i componenti della famiglia Buendìa.
Una storia lunga un secolo, in cui gli ambienti si mantengono sempre uguali a se stessi. In cui Macondo, un assolato villaggio contornato di paludi, nel bel mezzo di qualche imprecisato territorio del sudamerica, racchiude un piccolo universo incommensurabilmente poetico, opulento di colori e di visioni. Un piccolo mondo, umido e colorato, tracciato con immortale maestria della mente di Marquez, che ci regala delle atmosfere esotiche e assolutamente indimenticabili.
Non ci si scorda, infatti, dei personaggi descritti in questo libro. Sono troppo ben congegnati, troppo peculiari, troppo irreali e umani, pieni di volontà e di forza per potersene scordare appena chiuso “Cent’anni di solitudine”. Il lettore legge delle loro vicende e li vede svolgere la propria vita come un filo, li vede fare i conti con le conseguenze delle proprie decisioni, li vede trasformati dagli anni. E dopo averli conosciuti così bene, dopo averli seguiti per un secolo tra miserie e ricchezze si sente parte di loro. Ci si sente parte di quella grande casa nel bel mezzo di Macondo, ci si sente parte della luce calda delle ultime ore del giorno trascorse sotto quel portico, respirando gli odori della sera, a fianco di Remedios che lavora al telaio e di Ursula che scopa il pavimento con cipiglio severo. Si vede passare quel garzone tremendamente innamorato di una delle ragazze Buendìa, con il suo immancabile seguito di farfalle gialle al suo passaggio, e ci si chiede, con una nota di gratitudine, quale altro autore avrebbe potuto donare al suo pubblico qualcosa di così commovente come questo romanzo.
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Un amore intramontabile
Mai avrei pensato di innamorarmi di due innamorati, di innamorarmi perdutamente di una storia dal carattere prevalentemente sentimentale. Ma è proprio così e credo di poter dire che nella mia personale esperienza di lettore quella narrata nel romanzo “Jane Eyre” sia la più bella storia d’amore che abbia mai letto. Uno di quegli amori veramente senza confini, che non tiene conto del tempo, dello spazio, delle condizioni sociali dei diretti interessati, dei loro caratteri nelle debolezze e nelle virtù. Un amore raccontato in maniera magistrale da una componente di quel talentuoso trio femminile i cui romanzi spopolarono ai tempi dell’Inghilterra vittoriana. Le tre sorelle Bronte, tre talenti messi a frutto per regalarci, scolpiti nella meritata atemporalità che si conquistano i grandi classici, numerosi capolavori del romanzo inglese ottocentesco. In questo caso è Charlotte, terza di sei sorelle ma prima del trio celeberrimo, a mostrarci la propria maestria costruendo un romanzo raffinatissimo in tutte le sue componenti. Uno stile narrativo scorrevole e insensatamente moderno ci racconta della vita di Jane, che inizia nel più infelice dei modi, nella più infelice delle esistenze. Privata delle gioie dell’infanzia perché troppo odiata da genitori e fratelli adottivi, la protagonista procede nel suo cammino frequentando una rigida prigionia in riformatorio. Diventata istitutrice essa stessa, Jane ottiene il suo primo incarico professionale, per così dire, e da quel momento la sua vita verrà sconvolta dall’incontro con Rochester.
Jane, una ragazza forte, matura come una donna fatta, dura, marmorea, granitica, dal cuore gelato dalla freddezza con cui ha troppo spesso dovuto convivere. Un’anima che non ha mai provato amore, affetto, calore. Un carattere scolpito nella pietra, limato fino all’ossessione da un’autodisciplina tanto ferrea quanto indispensabile per continuare a vivere in un mondo che nulla ha da offrirle se non una vita solitaria. Un personaggio di una bellezza indicibile, così fiero ed eburneo da rimanerne affascinati dalla prima parola con la quale Charlotte Bronte ce la presenta. Un personaggio commovente Jane, che si vede sconvolgere le proprie certezze, la propria intera vita da un amore inaccettabile, apparentemente impossibile, che deve essere assolutamente estrirpato per non contravvenire alle convenzioni, sociali ma soprattutto intime. Un amore che deve essere represso e combattuto con forza da quel carattere capace di rimanere insensibile di fronte all’offesa, alla violenza e alla derisione. Una tensione al limite della sopportazione turba questa ragazza che deve far guerra a se stessa per non cedere ad un sentimeno lento ma inesorabile che non riuscirà più ad ignorare. Non tutto va come previsto, la storia segue pieghe sinuose fino ad una conclusione meravigliosa, che ci porta un lieto fine intelligente, elegantissimo e senza la benché minima ombra di leziosaggine, diventata topos delle grandi storie di sentimenti.
Personaggio strepitoso anche quello del Signor Rochester, austero nobile decaduto dal carattere altrettanto forte. Rude, burbero, scortese, ma all’occorrenza anche raffinato pensatore e galant’uomo, con un’assoluta incapacità di dimostrare sentimenti, una visibile difficoltà nel volersi donare al prossimo proprio perché anch’esso deficitato di esempi positivi.
Una trama meravigliosa che si intreccia alle evocative descrizioni di una Inghilterra brumosa, con i decadenti manieri di campagna che conservano intatto il loro fascino oscuro, vagamente gotici, velati dalla nebbia. Un’Inghilterra vista dalle campagne, dalle periferie più pittoresche, dai borghi isolati all’interno di realtà rurali molto distanti dalle grandezze mondane e lucenti della capitale.
In definitiva, un romanzo che tratta i sentimenti come tardiva scoperta, a tutti possibile nonostante trascorsi burrascosi e privi d’amore, un romanzo che mostra, secondo una mia interpretazione, come dalla mancanza di affetto possa crearsi a sua volta affetto, come dalle convenzioni morali si possa evadere in qualcosa di diverso e di più profondo, come da ogni cuore, benché provato, possa nascere sentimento.
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Un'epoca in un libro
Qualsiasi tentativo di elogio si possa rivolgere ad un’opera letteraria del calibro de “I miserabili” denota di per se, a parer mio, un’assoluto sovraccarico di presunzione. Questo lo si intuisce immediatamente di fronte alla mole culturale di questo lunghissimo romanzo, ed è inevitabile chiedersi quale comune mortale possa permettersi realmente di darne un’opinione appropriata. A scapito della mia integrità morale, decido coscientemente di peccare di quella sopracitata presunzione e lancio il mio misero parere a proposito del capolavoro indiscusso di Victor Hugo.
Premessa: questo è il mio primo approccio all’autore. Conseguente consiglio: mi sembra un ottimo inizio, per chi volesse affrontare l’intero corpus delle opere di Hugo credo che un principio così eclatante sia perfetto e dia fin da subito la misura su chi ci troviamo di fronte. Nientemeno che un genio, ma questo non è nemmeno necessario che lo dica.
“I miserabili” non possiede una trama, possiede un mondo e un’epoca. È di per se il racconto dettagliato, veritiero ed appassionante della prima metà del XIX secolo, definirlo “spaccato” è quanto di più calzante si possa trovare per denominare questo romanzo. Lo spaccato di una società messa a nudo e analizzata minuziosamente dall’occhio acuto di Hugo, dalla sua mente apparentemente onniscente. Uno spaccato in cui si muovono una miriade di personaggi di tutte le estrazioni sociali, di tutti i ceti in cui era suddivisa la società francese dell’Ottocento, attraverso i quali conosciamo la vità nelle campagne, la vita di personaggi miserevoli che conducono la propria esistenza sotto la cattiva stella della povertà, che navigano attraverso la moltitudine di persone conducendo vite al margine, intrisi, in certi casi, di buon cuore, in altri di pura perfidia. Personaggi gretti in via di redenzione morale, come Jean Valjean, si alternano a personaggi oscuri e malvagi che svelano a poco a poco la loro malignità, perloppiù legata al soldo, come i Thenardier. La magnifica figura di Cosette prende poi il sopravvento, strappata alla povertà e alla schiavitù fino a giungere ad un ideale di purezza muliebre tipica del romanzo ottocentesco. La gruppaglia di mendicanti, ladroni e fuorilegge ci prende per mano e ci porta a visitare i bassifondi malfamati della periferia di Parigi. L’ispettore Javert, con il suo granitico senso del dovere e della giustizia, ci impone il suo modo di pensare e ci fa contemporaneamente implorare una sua presa di coscienza. Tantissimi altri personaggi, caritatevoli, giusti, ingenui ci fanno commuovere, tanti altri, gonfi di risentimento verso le istituzioni e di coraggio e buona volontà per volerle cambiare, ci rapiscono con monologhi che rimangono indelebili nella memoria come fari indiscussi del libero pensiero.
Tutto questo inframmezzato da accuratissimi capitoli di carattere prettamente storico, che riepilogano in modo assolutamente prezioso gli episodi salienti e incisivi della storia “recente” della nazione francese: l’avvento di Napoleone e la sua sconfitta, nella celeberrima parte dedicata per intero allo svolgimento della battaglia di Waterloo, la grande insurrezione parigina delle barricate contro il sovrano fantoccio salito sul trono dopo il decadimento degli ideali imperiali. Ma troviamo anche dettagliatissimi capitoli che raccontano della vita all’interno degli ordini monastici, dei circoli politici cittadini e di tanto altro.
Insomma, come si può evincere, una quantità spropositata di preziosissimo materiale storico cui attingere, sullo sfondo, o, forse, con un ruolo altrettanto importante a quello delle vicende più strettamente narrative. Un’opera emozionante da ogni punto di vista la si guardi, qualcosa di immenso che prevede un prima e un dopo. La sensazione di aver vissuto qualcosa di straordinario dopo la conclusione de “I miserabili” è terribilmente concreta da essere quasi palpabile. Credo si subisca una sorta di cambiamento che eleva i canoni di valutazione letteraria nel lettore che porta a termine questo lungo viaggio. Viene considerato un classico, ma non è un classico qualunque, e forse, mi si perdoni, non per tutti. Le parti storiche sono particolareggiate ai limiti della manìa e non faccio fatica a credere che molti lettori si perdano facilmente d’animo e di spinta davanti a dieci pagine di strategie militari analizzate al centimetro. È normale, ma è importante dargli una chance poiché la sensazione di portare a termine un così imponente percorso è veramente impagabile, sempre nel rispetto della propria idea di “lettura” come qualcosa di piacevole, libera da obblighi verso qualcosa che non incontra il proprio gusto.
In definitiva, se volete rivivere un'epoca, se la state cercando in un blocco di carta stampata, questo è indubbiamente ciò che cercate.
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La guerriglia dei sentimenti
Leggere un autore premio Nobel crea sempre delle aspettative, è inevitabile ed intrinseco all’importanza che si attribuisce, a ragione, ad un riconoscimento tanto prestigioso. “Il vecchio e il mare” sembra essere il culmine, l’apice indiscusso che ha consacrato Hemingway. Nonostante questo, personalmente non ho potuto non amare maggiormente il romanzo di cui mi accingo a parlare, ultimo in ordine cronologico dell’intera produzione letteraria dell’autore: si tratta di “Per chi suona la campana”.
In primis, dovendo fare un piccolo confronto, non necessariamente appropriato, con “Il vecchio e il mare”, l’unica altra opera che ho letto dell’autore, mi sembra salti subito all’occhio il carattere meno simbolico e meno ermetico di “Per chi suona la campana”. Quest’ultimo è sicuramente più considerabile come romanzo, rispetto al primo, in quanto più articolato, più corposo e notevolmente più popolato. Rientra sicuramente più nelle mie corde, nonostante una trama inesistente fin verso le battute finali. Ma proprio qui ritengo stia il bello, la maestria, il virtuosismo di scrivere cinquecento pagine di pura bellezza narrativa e stilistica senza una base di avvenimenti concreti. Pagine che non annoiano, poiché troppo vere, a volte crude, a volte evocative, a volte tanto intrise di evidente, lampante verità e saggezza da rimanerne spiazzati.
I freddi ragionamenti di Jordan, l’Inglés, permeati insistentemente dalla necessità schiacciante di vivere, amare e provare sentimenti, si alternano ai racconti di guerriglia raccontati dai personaggi ausiliari, tutta una cerchia di persone con i quali il protagonista si troverà a convivere e collaborare per portare a termine la sua missione. Una missione in terra straniera, in una Spagna raccontata dalle sue valli, dai suoi altipiani, dai suoi boschi, che solo da lontano sente giungere gli echi più forti della guerra interna che devasta la nazione, negli anni della seconda guerra mondiale inoltrata. La stessa guerra civile raccontata con tanta, pittorica crudezza dalla “Guernica” di Picasso, viene affrescata in questo romanzo grazie ai numerosi racconti che riportano i componenti della falange di partigiani cui si aggrega Jordan. Ed è così che i racconti pieni di orrori, di sangue e di violenze si accostano alla consolante presenza della giovane e bella Maria, anch’essa parte dei guerriglieri, di cui Jordan si infatuerà.
Tutto questo per una semplice compito da svolegere, far saltare un ponte, in mezzo ad una zona boscosa, per evitare i possibili rifornimenti del nemico. A questo si dovrà giungere, ma ai fini del romanzo, che l’obbiettivo si raggiunga o meno mi sembra a dir poco irrilevante. Tutta la bellezza straordinaria del romanzo si svolge prima, nella testa di questo professore americano che ha deciso di abbandonare patria e vita per dedicarsi ad una guerra non sua, ma che condivide e a cui ormai appartiene. Una mente tesa al proprio dovere, ma tesa anche al ritorno. Basculante dalla certezza della riuscita ad ogni più minimo dubbio. Dalla voglia di vivere, ma anche dall’accettazione della morte.
Una chiosa in grande stile, che delude un po’ ma che raggiunge una sua prefezione, conclude un’opera letteraria di immenso valore, prima letterario, poi storico.
Romanzo quindi consigliatissimo, anche ai non amanti delle storie di guerra. Anche io non lo sono, eppure, nonostante si parli spesso di guerriglia, di fucili e di tattiche militari, tutto ciò non risulta mai pesante, ma anzi estremamente bilanciato da un amore per la lingua e per l’espressione del sentimento forse mai eguagliati da nessun’altro scrittore.
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Nicolas Eymerich, inquisitore
Ogni tanto, da lettore compulsivo ai limiti della dipendenza, sento la necessità di imbarcarmi in qualcosa di più sostanzioso. Come, ad esempio, una saga. Non essendo un amante del fantasy le alternative di trovarne una di mio gradimento diminuiscono drasticamente. Quando ho scoperto l’esistenza di una saga che coinvolgeva un personaggio storico, esistito e poi romanzato, mi ci sono buttato a capofitto ed ho acquistato il primo volume di questo ciclo che vede come filo conduttore Nicolas Eymerich. Non sapevo molto ne dei numerosi libri che la compongono ne dell’autore, Valerio Evangelisti, di cui, tra l’altro, sono concittadino. Le premesse erano buone e fortunatamente, almeno per quanto riguarda il primo capitolo della saga di Eymerich l’inquisitore, non sono stato deluso.
Nonostante non sia il mio genere letterario d’elezione, l’apparentemente difficile connubio di generi che opera Evangelisti ha toccato alcune corde positive ed ha incontrato il mio gusto. Tre sembra essere il numero ricorrente nella costruzione di questo romanzo: tre trame incrociate, tre storie con diversi personaggi, tre vicende che si snodano linearmente in tre tempi differenti della storia umana. Più semplicemente: passato, presente e futuro il cui unico legame è rappresentato dalle stupefacenti possibilità di una invenzione, sensazionale e rivoluzionaria, firmata dal Dottor Marcus Frullifer.
Apparentemente inconciliabili, le tre diversissime situazioni che vengono proposte contemporaneamente al lettore svelano a poco a poco ciò che le lega assieme, rivelando una strepitosa inventiva che ha permesso la costruzione di una funzionante struttura narrativa, che, nelle sole duecento pagine di questo breve primo romanzo, dimostra l’ingegno e il carattere necessario per rivisitare, senza essere trita e stucchevole, un tema così consueto come il viaggio nel tempo e in universi paralleli.
Ben costruita la parte più fantascentifica, dove i numerosi paroloni pseudo-scientifici, probabilmente alcuni inventati al fine di disorientare positivamente il lettore, fungono da base sostanzialmente concreta per costruire una credibilità di fondo che ci porti a non doverci domandare se ciò che stiamo leggendo abbia delle proiezioni nella realtà possibile ed immaginabile. Se ci si accontenta di quello che Evangelisti ci propone per spiegare un possibile viaggio in mondi immaginari e paralleli al nostro, tutto fila liscio e senza intoppi.
Interessante è poi la figura principale di Nicolas Eymerich, inquisitore spagnolo vissuto realmente nel XIV secolo, tramite cui ci è permesso rivivere, sebbene tramite una ricostruzione storica non particolarmente dettagliata, forse, perché no, volutamente, gli anni che vedono il massimo potere raggiunto dalla temibile inquisizione spagnola. Protagonista che suona quasi come un’esperimento che l’autore rivolge al lettore, proponendo un personaggio che risalta all’occhio come sgradevole e cinico ai limiti della crudeltà, in linea con quanto doveva essere realmente il carattere di un funzionario appartenente ad un organo tanto impietoso verso i miscredenti. Molti hanno trovato e troveranno antipatico Nicholas Eymerich. Dal canto mio ho apprezzato il rischio che ha corso Evangelisti nel delineare non il solito caritatevole, giusto ed eroico paladino. L’ho trovato azzardato e ben riuscito e il fatto che Eymerich sia così estremamente arcigno e freddo non credo faccia decadere la mia voglia di proseguire con i successivi capitoli di questo imponente ciclo letterario, che ha fatto molta strada dalle prime pubblicazioni presso “Urania” e che spero possa farne ancora.
Tutto sommato si tratta di una lettura assolutamente piacevole e veloce, adattissima ad impersonare il ruolo di quelli che io chiamo “libri cuscinetto”, atti ad inframmezzare libri più lunghi ed impegnativi. Una sorta di divertissement che serve a staccare la mente, quasi un telefilm dalle molte puntate che ci si può gestire nei momenti in cui la mente non è così propensa ad affrontare un tomo culturalmente più elevato.
Lo consiglio, con l’amichevole raccomandazione di non condannare definitivamente il caratteraccio di Eymerich, che, in fin dei conti, redime se stesso e la sua crudeltà con quella sostanziosa dose di acume di cui si serve per risolvere il fitto arcano celato nelle pagine di questo romanzo.
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La Rowling tra analogie e nuove premesse
Sono pienamente convinto di non dover partire, parlando della Rowling, nominando Harry Potter. E invece, guarda caso, l’ho appena fatto e non credo di riuscire ad esimermi. Il confronto con i trascorsi letterari dell’autrice mi è assolutamente inevitabile, al di là che sia giusto o meno, trattandosi di ambiti, per così dire, differenti. E quindi devo partire dicendo che sono stato e rimango fieramente un accanitissimo fan dell’immensa saga potteriana. Ci sono veramente cresciuto. Suona lezioso ma è proprio così. Come la generazione cui appartengo sono sempre stato contemporaneo e coetaneo di Harry, ho letto le avventure di un ragazzino della mia età, ho imparato con lui la magia, dal Lumos, il più semplice incantesimo per illuminare il cammino alla definitiva sconfitta di uno dei personaggi antagonisti più interessanti di tutti i tempi. Ho visitato un mondo, ne sono rimasto intrappolato, ne porto sempre con me una parte e non ho mai pensato di ripartire da capo per non compromettere in alcun modo il ricordo di attimi di meravigliosa comunione che ho provato leggendo Harry Potter.
Questa piccola premessa serve a far comprendere le mie aspettative riguardo al nuovo romanzo di un’autrice che mi ha regalato una seconda vita, una proiezione immaginaria di me in un universo parallelo in cui esiste una affollata Diagon Alley traboccante di cappelli a punta e calderoni. Aspettative non deluse, devo ammettere con gioia.
La Rowling si cimenta con la letteratura contemporanea, e per contemporanea, in questo caso, intendo reale, verosimile e ambientata nell’odierna Inghilterra, sempre descritta con qualche atmosfera fiabesca, forse intrinseca agli ameni paesini della campagna inglese. La trama è composta da un fitto intreccio di personaggi, suddivisi in due fazioni, che mirano entrambi ad eleggere un proprio componente nel Consiglio locale della cittadina di Pagford, dopo la prematura scomparsa di un consigliere molto amato. Tutto qua. Il piacevole intrattenimento letterario deriva, vista la trama sostanzialmente modesta, ma non per questo elemento invalidante, dalla maestria con cui l’autrice interseca le vite dei numerosi personaggi, con i propri segreti, le proprie abitudini, i propri desideri e aspirazioni. La Rowling delinea caratteri forti, irascibili, deboli, ambiziosi, emblematici e vari quasi in una galleria che mette in mostra i moti dell’animo e l’agire delle persone. Riesce, ancora una volta ma in termini differenti, a creare un affresco della società contemporanea, metaforicamente interpretata dalla comunità di un piccolo paese, in cui tutti si conoscono, ma in cui non tutti si sono necessariamente, idilliacamente, simpatici ed affini e in cui le voci e i pettegolezzi si spandono più veloci di quanto non si possa prevedere. Un libro che mette in mostra la voglia della Rowling di apparire un po’ diversa, di fare esplodere un diverso potenziale, non necessariamente e doverosamente “censurato” a beneficio di un target adolescenziale. Questo la porta all’utilizzo di un linguaggio meno legato a convenzioni, punteggiato di imprecazioni e parolacce, per così dire, che risultano estremamente divertenti, colloquiali e vicine al modo di pensare e parlare di tutti. È proprio questo rinnovato linguaggio, più di tutto il resto, a dare quello straordinario senso di verosimiglianza ad ogni personaggio del romanzo. Un linguaggio, tra l’altro, gestito con grande raffinatezza, per quanto possibile, nel quale i numerosissimi “vaffanculo” non suonano mai volgari, ma anzi appropriati.
Consiglio la lettura de “Il seggio vacante”, anche solo per osservare i passi sicuri che la Rowling compie in direzioni letterarie nuove e promettenti. In ultimo, sottolineo con un po’ di malinconia una caratteristica di questo romanzo che tutti gli amanti di H.P. noteranno sicuramente e troveranno familiare: l’inizio lentissimo. Come tantissime volte abbiamo penato nel dover leggere i primi due capitoli ambientati nella stupida atmosfera perbenista di casa Dursley, scalpitanti nel voler tornare a Hogwarts il più presto possibile, così qui ritroviamo un inizio lento e graduale, che, però, invece di essere un difetto, serve solo, ancora una volta, prolungare il piacere della lettura.
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Kafka sulla spiaggia: romanzo di crescita
Dopo una prima dolorosa sconfitta subita contro “DanceDanceDance”, mi trovo a cambiare radicalmente opinione su Murakami, tanto amato dal plebiscito. Forse non proprio radicalmente, avendo comunque convenuto, già dal mio primo approccio non andato a buon fine, sull’ottima tecnica narrativa dell’autore, sulla scorrevolezza del lessico da lui utilizzato e su svariati altri elementi innegabilmente positivi ed emblematici di un talento indiscutibile e indiscusso. Ho ritrovato tutte queste caratteristiche nel bellissimo “Kafka sulla spiaggia” che “si è fatto leggere” in un soffio, con mio personale compiacimento. Un romanzo sicuramente il linea con l’immaginario peculiare dell’autore, per quanto le mia poca esperienza in merito e numerose altre recensioni lette mi abbiano fatto capire agevolmente. Una trama interessante, fortemente popolata di personaggi e situazioni tra loro intrecciate in un abile gioco narrativo, ricchissimo di riferimenti simbolici che trovano un dialogo efficace tra loro. Non mi dilungherò troppo sullo svolgimento delle vicende che i personaggi percorrono. Basta elencare a grandi linee gli ingredienti principali: un ragazzo quindicenne in cerca di un’identità personale, fisica, sessuale, psicologica, e da un certo punto di vista anche inconscia, scappa di casa lasciando le mura familiari totalmente intrise di un’assenza di affetto. Intraprende un lungo viaggio, con il peso di una inquietante profezia, che lo porterà in altri luoghi a lui più affini dove incontrerà persone e ambienti che incideranno a fondo la sua mente di adolescente ancora in crescita, sebbene già matura.
Dall’altro lato la storia di un anziano, eccentrico sessantenne anch'esso in fuga, che tenta di lasciarsi alle spalle un delitto avvenuto in circostanze piuttosto singolari e che persegue un obbiettivo più alto, quello di ritrovare una parte di se stesso che gli è stata negata dall’infanzia. Le due storie verrano ad avvicinarsi lentamente, fino a toccarsi nei risvolti finali del romanzo.
Questo è tutto quello che c’è da sapere della trama, che si arricchisce piacevolmente di importanti spunti di riflessione, evidenziate dalle tante domande che pone a se stesso e agli atri la mente ancora giovane di un ragazzino, perloppiù bisognoso di affetto e di un fine proprio, che si rifugia nel caldo tepore che la lettura e l’autodisciplina sono in grado di dare.
La forte affinità fra i due personaggi principali trova la propria ragion d’essere proprio nella disperata ricerca che entrambi compiono al fine di riempire le lacune che hanno segnato dalle fondamenta il corso delle loro vite. Lacune incolmabili che tentano di essere redente tramite escamotage tipici dell’immaginario fortemente onirico di Murakami. Un universo in cui il paranormale, inteso come l’inconsueto e l’inaccettabile per i canoni della cosiddetta “normalità”, convive senza troppi intoppi con la realtà. Un universo irreale che si innesta e che viene raccontato con la stessa semplicità con cui l’autore racconta gli episodi più consueti della quotidianità. È quindi con questo metro letterario che ritengo sia necessario avvicinarsi a questo autore, abbandonando senza indugi quella spocchia materialistica che tante volte ho visto trasparire dai commenti dei lettori che non hanno gradito qualche elemento dal carattere surreale. Surrealismo il quale, secondo il sottoscritto, trova sempre un senso ben preciso e non sfocia mai nella pacchianeria fantascientifica, rimanendo al contrario estremamente raffinato e in linea con quello stile essenziale che mi sembra derivi dalla natura stessa dell’autore e dal suo luogo di provenienza, il Giappone. Un Giappone, sebbene poco approfondito nelle pagine del romanzo, che però dona al lettore tutto il clima di perfetta sincronia, linearità, simmetria culturale e sociale. Un Giappone dalle grandi metropoli, cosmopolite e popolose, dai fitti boschi, ameni e solitari, dalle spiagge di sabbia bianca “…come polvere di ossa…”. La stessa sabbia che, come allegoria del tempo, scorre tra le mani degli spettatori intenti ad osservare quel ragazzo, Kafka, ritratto sulla spiaggia.
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