Opinione scritta da Marta93
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Il senso dell'elefante:ottimo romanzo di Missiroli
Il Signor Pietro, nuovo portinaio di un elegante palazzo di Milano, è il centro del romanzo da cui si diramano numerosi personaggi, ognuno con la propria vivissima storia. Dagli abitanti del palazzo, ai vecchi amici e amori di Pietro: ci si trova davanti a un intrecciarsi di vite, che potremmo inizialmente ben paragonare a quelle dei nostri vicini di casa, ma che nascondono tutte una profonda sofferenza. Il romanzo infatti racchiude e presenta brevemente molti "hot spot" della vita quotidiana: la malattia, l'amore, l'omosessualità, la vecchiaia, la paternità. Forse fin troppi per un romanzo relativamente breve. Qui sta il talento di Missiroli: incastrare le varie storie dei condomini, così uniche e particolari, che meriterebbero tutte un romanzo a parte, e renderle un amalgama piacevole e ben calibrato. Ti affezioni a ognuno di loro. Piangi per le disgrazie di giovani e vecchi, ti commuovi. Provi a capirli, a immedesimarti. La quantità quasi esagerata di temi è presentata ottimamente, non mi è venuta voglia di esclamare (come, ad esempio, leggendo Acciaio della Avallone): "surreale, impossibile, esagerato!". Abilità dello scrittore? Sarà forse per quello.
Il finale? L'ultimo capitolo lascia mille punti interrogativi. Giusto così: Missiroli ha lasciato liberi i suoi personaggi di fare l'ultimo salto di libertà, fuori dalla sua penna e dalla sua immaginazione. Come poi si risolva la questione, chi lo sa. Ma, ripeto, dopo aver letto tutta la storia, ti accorgi che è giusto così.
Libro consigliatissimo. Ti spinge a ringraziare Qualcuno (papà, mamma, Qualcun'altro...) per la propria vita. Per l'affetto, per l'amore.
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Aprire gli occhi sull'India
Per chi, come me, ha paura di mettere il naso fuori dal civilizzato occidente, e anche per chi avrebbe il coraggio di tuffarsi, ma gli manca la spinta. Uno sguardo verso un paese, l'India, di cui al telegiornale non si sente mai parlare, di cui si immaginano i colori, i profumi, le tigri del bengala e sì, anche le bidonville, ma delle quali raramente ci si sofferma a riflettere.
"La città della gioia" è composto da brevi capitoli, ognuno dei quali racconta di un episodio: si inizia dal tragico sfollamento di una famiglia di contadini costretti a cercare fortuna nella grande città di Calcutta, della quale sperimentano subito l'incredibile quantità e disomogeneità di cittadini, la lotta per la sopravvivenza, la ricerca disperata di cibo, soldi e lavoro.
Altri capitoli sono dedicati all'arrivo del incredibile personaggio di Paul Lambert, prete francese giunto nella bidonville con l'intenzione di vivere povero tra i poveri, e di assaporare la bellezza della semplicità, della speranza, del dolore e della sofferenza, della vita che, pur attaccata da lebbra, tubercolosi, fame e sete, non si arrende mai alla morte. E' un uomo che ricorda la forza della fede, che sia cristiana, induista o buddista, che spinge alla ricerca del bene e della forza che è insita in ogni uomo.
L'attività di benefattore di Lambert richiama l'attenzione di Max, un giovane dottore di Miami, che abbandona il lusso della Florida per venire travolto dalla miseria e dalla vitalità della bidonville.
Il romanzo è una stupenda presentazione delle usanze e delle tradizioni del popolo indiano, dei misteri dell'induismo, dei colori e dei canti delle feste religiose e dei matrimoni. Se non si è in grado di viaggiare e vivere questa realtà, bisogna per lo meno leggere le testimonianze dei coraggiosi, tra cui Dominique Lapierre, che hanno lasciato tutti i confort e, ancora più difficile, i pregiudizi e le paure, per aiutare anche con un semplice sorriso chi davvero combatte per la vita.
E' un racconto capace di far nascere voglia di donare e abbandonare il lusso e le futilità, è capace di far spalancare gli occhi della mente su un popolo sul nostro stesso pianeta, che vive in condizioni da noi così diverse, così "materialmente inferiori". Se ognuno di noi leggesse questo libro, forse migliaia di bambini indiani vivrebbero senza la pancia gonfia di vermi, migliaia di casi di lebbra verrebbero diagnosticati prima di causare agli infetti la perdita di mani e piedi, migliaia di giovani madri non morirebbero partorendo, e altrettanti uomini-risciò meriterebbero il trattamento di esseri umani.
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La distopia della James
Dopo aver letto parecchi romanzi distopici (1984 in primis), in cui lo schema narrativo si ripete piuttosto regolare e ripetitivo (bada bene, ripetitivo ma mai noioso), posso accertare che anche "I figli degli uomini" si inserisce pienamente in questo genere: società buia e opprimente, un dittatore con pieni poteri e un certo atteggiamento crudele, un gruppo di disertori che di oppongono al regime e puntualmente non riescono nel loro intento.
La vera distopia presentata dalla James è un mondo in cui non nascono più bambini: l'umanità è segnata, è prevista l'estinzione della nostra razza, la fine. Idea è originale e, certo, riempie di angoscia. Basti pensare che i più giovani abitanti della terra hanno già superato la ventina, non si sentono nè pianti nè risate di bambini, ad eccezione di quelle dei vecchi film, e le donne passeggiano con carrozzine contenenti bambole o gattini.
Sono questi i passaggi che opprimono il lettore: la disperazione dovuta alla consapevolezza della fine, il desiderio di maternità che non può essere esaudito, i costanti controlli ginecologici per cercare in qualcuno una speranza di vita.
Seppur il tema sia angosciante, la lettura è scorrevole e con buone tecniche narrative la James ti spinge a leggerlo fino in fondo, grazie anche a pochi ma buoni colpi di scena e a sporadici barlumi di speranza.
A mio parere non raggiunge la pressione claustrofobica dei grandi classici distopici, non aspettatevi alcun Big Brother e nemmeno la ancora più tremenda società de "Il mondo nuovo", ma apprezzo le idee dell'autrice.
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Palahniuk e lo specchio delle mie brame
Premessa: è il primo libro di Palanhiuk che leggo, non so se sia "all'altezza" del suo famoso Fight Club, poco mi importa. E' stata una lettura senza aspettative, senza pregiudizi, mi ispirava semplicemente il titolo e la copertina tutta rosa.
Pazzo, pazzo, pazzo! Palahniuk racconta una storia che sembra avere molto poco di realistico, o almeno probabile. Eppure ti incolla alle pagine...ci sono mille questioni aperte e non puoi fare a meno di andare avanti a leggere per capirci qualcosa di più. Sì, già alle prime cinque pagine capivo poco niente di ciò che stava succedendo! Quasi il racconto di un sogno, un incubo, la storia di vite fuori dagli schemi, tutti personaggi esagerati, caricati eppure con caratteri così umani, con pensieri così vivi da far pensare che Palahniuk ce li abbia cavati dal cervello.
"Fanculo a me stessa. Sono così stanca di essere me. Me bella. Me brutta. Bionda. Bruna. Un milione di fottuti rifacimenti che non fanno altro che lasciarmi intrappolata ad essere me". Sarà che sono donna, sarà che sono giovane, sarà che sono anch'io vittima dello "specchio delle mie brame", ma Palahniuk a mio parere a fatto centro. Bravo.
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Due sosia in conflitto
Come segnalato dalla copertina stessa, Il Sosia è inserito propriamente nella sezione dei classici moderni, ovvero una serie di racconti scritti in epoche passate (per Il Sosia si parla di 1846) ma con temi e circostanze che ricalcano pienamente anche situazioni attuali.
Il tema principale, ovvero la doppia personalità del protagonista Goljadkin, diviso in ciò che lui è, ovvero timido e impacciato, e ciò che invece vorrebbe essere, cioè scaltro e ambizioso, può essere riferito anche alla società attuale (come probabilmente a ogni società passata) e a ogni individuo stesso.
La situazione di Goljadkin è portata all’esasperazione: viene a crearsi un nuovo individuo, uguale per ogni aspetto fisico al cosiddetto “Goljadkin numero uno”, ma opposto nel comportamento e nelle attitudini e per di più nemico e ostacolo del protagonista. Questa proiezione mentale lo porta a distruggere il proprio mondo reale: Goljadkin perde la reputazione di bravo cittadino, seppur sempre stato piuttosto particolare, venendo invece considerato inaffidabile, pericoloso e bugiardo. Perde il posto di lavoro, ogni contatto con la buona società e persino il domestico Petruska.
Il racconto è composto per la maggior parte da dialoghi e dai pensieri di Goljadkin, il quale si sforza di trovare una soluzione al problema del suo doppio, ma conclude sempre con l’arrendersi e sperare che la situazione vada per il meglio o si sistemi senza nessun particolare stratagemma. Il Protagonista si sforza di prevedere gli avvenimenti, di valutare ogni opzione dei suoi piani quasi mai messi in pratica nel modo corretto e sembra che passi gran parte del racconto ad arrovellarsi invece di agire.
Anche i dialoghi indicano la sostanziale differenza tra i due sosia in conflitto: il numero uno spesso balbetta, ha difficoltà a seguire il filo del suo stesso discorso, tende a ripetere innumerevoli volte il nome del suo interlocutore in segno di rispetto e inferiorità. Il secondo invece è carismatico, eloquente e, seppur servizievole, sicuro di sé e determinato.
Lo stile è semplice, non vi sono parole eccessivamente ricercate ma, spesso, soprattutto nelle sequenze riflessive, manca di scorrevolezza, forse a sottolineare la confusione mentale di Goljadkin stesso.
Il finale è piuttosto enigmatico: non viene svelato chiaramente se l’esistenza del sosia sia reale o solo immaginata da Goljadkin stesso, ma, siccome sembra essere poi portato in manicomio, credo che il suo fastidioso doppio sia solo frutto della sua immaginazione e paranoia. La mancanza del tradizionale lieto fine sembra lasciare il discorso incompleto: il protagonista ha sofferto e passato numerose difficoltà senza un capovolgimento finale, senza una ricompensa o per lo meno un ritorno alla situazione iniziale.
L’amarezza e l’insoddisfazione che accompagnano Goljadkin da inizio libro rimangono fino e, soprattutto, all’ultima pagina, trasmettendosi al lettore, che probabilmente sperava in un finale meno crudele per lo sfortunato eroe pietroburghese.
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