Opinione scritta da maria.luperini
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Una favola per adulti
Se si pensa alle favole non si può non fare riferimento ai racconti che ci è sempre piaciuto ascoltare, brevi e semplici ma ricchi di fantasia e saggezza. Racconti orali narrati di generazione in generazione, che nella loro evoluzione scritta (soprattutto con La Fontaine) assumono uno stile a volte anche molto elegante e acquisiscono personaggi con una caratterizzazione psicologica marcata pur nel mantenimento dell'allegoria.
Perché parlo di favole? Perchè questo bel libro si può definire una favola moderna per adulti. Una favola, perché ne ha tutte le caratteristiche strutturali e stilistiche. Moderna, perché pone al centro della storia direttamente l'uomo. Per adulti, perché il contenuto e la morale (ogni favola, ricordiamoci, ha la sua morale) sono significativamente indirizzati a un lettore maturo.
Chi è il redattore SB 15395? Il suo nome è composto dalle iniziali dell'uomo che gli è affidato e dal numero del giorno della sua vita che dev'essere descritto. Il suo compito, redigere il diario minuzioso di questa giornata.
Se devo individuare, fra i molti argomenti affrontati dall'autore, un tema centrale, questo è il tempo. In tutti suoi significati e declinazioni. Degno di nota è il bell'episodio del passaggio del testimone da padre a figlio, redattore del giorno prima e del giorno attuale, metafora della tradizione e della trasmissione dei compiti da una generazione all'altra. Poi i tre giorni di vita del piccolo redattore, essere fantastico con caratteristiche decisamente umane, che deve fare memoria di una giornata dell'uomo che gli è affidato, registrandone ogni attimo, ogni gesto, ogni pensiero e finanche la temperatura esterna e la percentuale di umidità nell'aria: un giorno per l'apprendimento del mestiere, uno per il lavoro e l'ultimo per il riposo. Il percorso della giornata terrena, dall'alba al tramonto. Infine, la vita umana di Simone Bennati, la cui parabola sorprendente lascerò alla scoperta del lettore. Tutto è metafora del tempo vitale. Quasi l'intero tempo del romanzo appartiene alla stessa metafora. Insieme al tempo, e sua diretta conseguenza, la memoria.
" Era inutile, o in gran parte sprecata, una vita di cui non si ricordasse quasi più niente, se non qualche vaga impressione, qualche sfocata immagine" (pag.35). Così il piccolo redattore è il responsabile - più che un angelo custode, che sovraintende alla nostra buona sorte - della conservazione dei ricordi umani. Un custode della memoria. Viene in mente, con altro stile e altro genere letterario, Modiano e i suoi fantasmi che attraversano le vite altrui cercando risposte e salvezza. Qui niente fantasmi, ma un finale salvifico a sorpresa.
Una piccola nota a parte merita la "chicca" di un giallo all'interno del fantasy. Godibile e con tutti i crismi, quasi a volerci dire (favola nella favola) che i libri più belli sfuggono a qualsiasi classificazione.
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Che cos'è la verità?
Che cos'è la verità? Possiamo fidarci delle notizie così come ci vengono trasmesse dai giornali, persino di quelli che appaiono meri resoconti cronachistici? Sembrano queste le principali domande che vuol generare Eco con il suo ultimo romanzo. Fin dalle prime battute, dopo lungo tempo che non leggevo un suo scritto, si è risvegliato il mai sopito amore per questo scrittore e il suo stile unico. Intrigante e lucido, ironico e drammatico, ci racconta i misteri della nostra storia recente mettendo in dubbio le versioni ufficiali e poi rimettendo in dubbio le nuove versioni qui fornite. Il grottesco Braggadocio, la tenera e intelligente Maia sono i personaggi che emergono da un insieme tragicamente vero. Il protagonista è uno spettatore (verrebbe quasi da dire: lo spettatore, allo stesso modo del lettore) e noi restiamo invischiati nei suoi stessi dubbi e timori. Una meditazione iperrealista che diventa thriller, nello stile dell'Eco migliore.
Tuttavia, mi dispiace segnalare un neo che non avrei voluto trovare: alle pagg. 77 e 89 il verbo intravedere è scritto "intravvedere" e a pag. 121 "la maggior parte" diventa il soggetto del verbo "sono". Peccato, sono errori un po' troppo banali per un così bravo autore.
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IL FOLLE AMORE CHE SALVA
Un romanzo classico, un romanzo verista. Ogni tanto se ne sente il bisogno, non si può vivere di soli sperimentalismi e come lettori arriva sempre il momento di dire: basta, ora leggo un libro che m’immerga in una storia, che mi faccia pensare ma che scorra, che mi culli e mi faccia sentire bene.
“Fin dove si scorge il mare”, di Clemy Scognamiglio, ed. I Sognatori, è un libro così.
Storie di amori impossibili che s’intrecciano con la Storia (l’Ottocento del nostro Meridione), raccontate con uno stile avvolgente e sofisticato, che usa un italiano di rara eleganza, senza essere mai “vecchio” o peggio ancora scolastico.
Un esempio su tutti, all’inizio del romanzo: “La notizia del diploma aveva posseduto la stessa forza di filo d’aria…da refolo sottile e deflagrante, fu capacità di ciottolo in discesa” (pag. 7).
Un italiano che l’autrice abilmente mescola alle espressioni dialettali della gente di paese, per rendere credibile e sostenere maggiormente la commozione che si snoda lungo le 158 pagine del racconto. Nell’intreccio di queste storie abbiamo modo d’incontrare Francesco, il figlio del barone locale “che non bastava a suo padre”, affetto da balbuzie perché “i pensieri più importanti divenivano cemento impastato nella bocca”. Il popolano Martino, a cui “l’ingiustizia garantiva che non sarebbe morto come suo padre, perché non avrebbe ricevuto istruzione e quindi consapevolezza”. Filomena “la Malata”, “colei che da anni incupiva la casa e il paese”. Immacolata, la madre-balia che “scelse di barattare il dolore con il silenzio”. Jacomo, il marito e padre , “senza soprannomi, colui che per un pugno di mosche s’era giocato la vita”.
Intorno a loro, che hanno vita come persone reali e pare di toccarli, di averli accanto, altri personaggi minori fanno la loro apparizione, contribuendo a costruire una scena universale e ad abbandonarla come visioni ma lasciandosi dietro un segno: il padre di Immacolata, l’amica Teresa e Giacinta la ribelle, la moglie francese del barone, il medico condotto. È un intero mondo, fondato sulle contraddizioni: da una parte l’opificio della seta, che rappresenta lo sviluppo industriale, con le ragazze in balia delle maestre e della violenza del padrone, povere e chiacchierate, sfiorite dal lavoro e dalla disillusione; dall’altra il microcosmo di un paese arroccato e immerso in un sistema ancora feudale; poi Garibaldi e i briganti; le sirene incantatrici dell’America e il tragico destino dei migranti; i sogni di tutti che rotolano e intanto passa la vita.
Su tutto, il folle amore che salva. E che sembra essere l’unica cosa che resta, alla fine della vita e del mondo.
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La giustizia e il sogno
Questo è un libro che parla di israeliani e di palestinesi, fin dall'alba del loro dolore. Ne parla un'israeliana dalla parte della pace, che in quanto a rinunce non porta meno dolore della guerra. Il protagonista è un bambino palestinese che, a causa della violenza dei soldati che obbediscono alla politica del governo e della rabbia dei terroristi che sono stati anche suoi amici, perde tutto quello che può perdere un essere umano: l'agiatezza, la possiblità di studiare, due sorelline uccise e un fratello che si abbandona alla vendetta, il padre condannato innocente, la casa. In questo niente che ha, aleggia l'insegnamento del padre ("non si può vivere di rabbia") e così Ichmad si assume la responsabilità di capofamiglia a dodici anni, lavora anzi che studiare, raccoglie e guida la madre e i fratelli più piccoli attorno all'albero di mandorlo che da posto di vedetta è diventato casa presso cui sdraiarsi al coprifuoco. La ricerca tenace della pace parte da qui, da questo apparente nulla. E si nutre del talento e dei sogni di questo ragazzino, che riesce a insegnarci la vita anche dove la vita sembra non potersi più vivere. Il libro è scritto in uno stile giornalistico che non lascia spazio a sentimentalismi e raggiunge sicuramente lo scopo di far riflettere sugli anni che hanno cambiato il corso della storia nel mediterraneo. Più in generale, su come si possa non farsi snaturare dalla violenza se si cede all'amore per la propria gente e, in ultima analisi, per se stessi.
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In fuga dalla colpa
Questo romanzo di Andrea Bertozzi è inserito nella collana mainstream dei Sognatori, ma gli si fa un torto ad ascriverlo a un genere preciso. Nella storia, infatti, non si trovano solo spunti per una meditazione profonda, ma anche un intrigo avvincente come un'avventura e inquietante come un thriller. Un nuovo inquilino, che ha molto da nascondere, va ad abitare in un condominio animato da gente singolare. La dispotica portiera, la coppia di anziani trafficoni, le sorelle bisbetiche, la famiglia di stranieri. Una carrellata di ritratti godibili e indimenticabili. Tutti sembrano giocare a più ruoli e a congiurare contro il nuovo arrivato. Nell'appartamento sotto al suo, poi, pare impossibile scoprire chi abita: ne viene solo una musica ammaliante. "La musica contiene un linguaggio che reca con sé un messaggio da decifrare" (pag. 35). Decifrare questo messaggio diventa l'ossessione del protagonista. "E' così che m'incammino verso una pozza d'acqua dove possa abbeverarmi. La musica mi accompagna. Oltre ogni miseria, oltre ogni paura. Oltre." (pag. 33). Ossessione veicolata dalla paura della colpa da cui fugge e che viene narrata nella seconda parte del romanzo.
Qui sono al centro del racconto la sua infanzia in una periferia degradata, il rapporto con i genitori e gli amici, fino all'errore fatale. Una profonda riflessione sulla colpa e la sua espiazione, sull'incapacità di decidere e sulle sue conseguenze, sulla vita e sull'amore, sull'importanza del gruppo e degli altri rispetto al singolo individuo: questo e molto altro, scritti con uno stile fluido ed elegante, mai banale. Da non perdere.
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La matematica e (é?) l'anima
"Allora conta, come le ha insegnato suo zio. Conta, per svuotare i pensieri di ciò che fa male: tre, sei, nove, a ritmo col passo, dodici, quindici, diciotto, puzza di rossa, ma lei si concentra, ventuno, ventiquattro, ventisette; non li sente più, trenta, trentatre, trentasei. il magone si scioglie nella tabellina del tre."
Comincia così - o, almeno, è questa una delle prime immagini che offre il prologo al lettore - il romanzo d'esordio di questa giovane scrittrice nata a Modena, cresciuta a Milano e genovese d'adozione a causa dell'amore per il mare. Un libro che si legge d'un fiato, per la suspence che regala la storia, ma anche per lo stile asciutto e moderno. Comincia così, ed è già al centro della storia, con l'abilità di uno scrittore esperto, laddove l'esperienza insegna che nell'incipit devono essere presenti tutti gli elementi principali, messi a bella posta per incuriosire e far divorare le pagine. Qui ci sono una bambina, poi ragazza, che patisce la cattiveria del mondo (un mondo piccino, quello contadino e aspro dell'entroterra genovese, ricostruito con pochi tocchi essenziali e profondi); uno zio professore e mentore; e lei, la matematica, la materia più invisa agli studenti che diventa dolce compagna, rifugio, occasione di riscatto. L'originalità del romanzo sta in parte in questa scelta "controcorrente", se vogliamo: l'idea di fare della matematica la chiave di volta per interpretare un'anima e, in ultima analisi, l'intero microcosmo che le ruota attorno, gli amici, la famiglia, una città (Genova) ferita e disorientata dalla violenza degli anni Settanta, che resta sullo sfondo a sottolineare la diversità della protagonista rispetto al suo tempo. E' proprio questa diversità che rende Mara universale, che ce la fa simpatica e vicina, una di noi che, come noi, riempie di domande la sua vita (nella prima parte del libro, in cui compare la macchia sul muro che diventerà enigma e tormento) e tenta di rispondere (nella seconda parte) spesso nell'incomprensione altrui. Così, può succedere che l'interpretazione del finale sia lasciata al lettore, al suo intimo sentire, alla sua fantasia e, in ultima analisi, al suo modo di essere in sintonia con la vita e il mondo.
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A che serve essere giovani
Come conferma del fatto che i libri ci aiutano a comprendere, come i testimoni e come gli amici, ho apprezzato l’ultimo romanzo di Raffaella Romagnolo, “Tutta questa vita” (Piemme 2013). Comprensione dell’adolescenza, sicuramente, che è l’argomento principale. Quasi un’empatia. Già dalla citazione di Barnes in capo al libro: Sì, certo, eravamo presuntuosi, se no a che serve essere giovani? È difficile trovare chi ci racconti l’adolescenza senza ricorrere alle stucchevolezze dei lucchetti sui ponti. Quegli anni in cui s’insegue la verità a tutti i costi, senza badare a chi si ferisce, come il migliore degli ideali e dei mondi possibili. In cui sembra che per essere se stessi si debba essere “contro” qualcosa. In cui ci si sente brutti e trascurati e ogni fatto è travisato per dimostrare che anche gli altri lo pensano. In questo senso un romanzo di formazione, ma più ancora di nostalgia per la propria adolescenza.
Paoletta prima mette sua madre nel mirino di ironia e critica feroce, poi, di fronte alla verità, sfoggia una tenerezza infinita: Quando chiedi scusa, speri che l’altro ti perdoni. Come farà, la mia mamma, a perdonare se stessa? Non più mami, non più Monica Costa la Walkiria, la mia mamma. La ragazza si riappropria di lei e non la lascia più, con la stessa assoluta determinazione di quando l’allontanava. I giovani sono così: tutto o niente.
Poi, il silenzio nella famiglia. “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo, e il nostro modo è il silenzio. (…) É una roba che ti si attacca addosso, il silenzio, come una colla, un tic, come le sigarette, vorresti smettere ma non puoi.” (pag. 160).Il silenzio che ignora, che nasconde, quello che comprende ma anche quello che protegge. Il silenzio ostinato di chi si chiude nelle proprie ragioni; il silenzio altero di chi mette a tacere per imporre l’autorità; il silenzio doloroso di chi maschera la tragedia sotto l’apparente normalità, per continuare a vivere; il silenzio consapevole di chi garantisce che la vita cresca per i più deboli fino al loro riscatto. Fino al momento in cui tutto viene a galla e la madre spiega: “Quattro cene, e fine del silenzio. Ci stavamo dentro come una bolla, e adesso non c’è più.”(pag.168).
La vita segue, come anche ne La masnà, la genealogia femminile della famiglia. La battagliera nonna, la coraggiosa madre, la protagonista adolescente.
Il personaggio maschile sicuramente vincente è Richi, il fratellino disabile di Paola, la cui intelligenza e tenacia permettono all’autrice di raccontare la diversità lasciandola “dove sta, al suo posto, dentro la vita”. E’ l’atteggiamento che da sempre i disabili chiedono: essere lasciati dentro la vita, essere trattati come chiunque altro, senza facili buonismi né pietà pelosa.
Al centro di tutto, anche se si verrà a scoprire tardi, il centro attorno a cui ruota ogni comportamento e ogni personaggio è la vita di chi abita nel villaggio delle Margherite, e su cosa materialmente questa vita si svolge: uno scottante argomento del nostro tempo, il nuovo male, il nuovo attentato alla sacralità della vita, che non voglio rivelare per non togliere al gusto del leggere la storia la sua più tragica e coinvolgente sorpresa.
Infine, il perdono. La capacità di fare la cosa giusta, che è poi il raggiungimento della maturità piena, della capacità di prendere in mano la propria vita.
Un libro che consiglio vivamente, per ogni età, visto lo stile moderno e scorrevole che l'autrice adotta, senza rinunciare all'italiano impeccabile che la contraddistingue da sempre.
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L'immaginazione e la verità
"Dopo un po' Mary si sedette e mise una mano in quella di Colin. (...) Gli avrebbe parlato della sua teoria (...) che spiegava come l'immaginazione sessuale, l'antico sogno maschile di picchiare e femminile di essere picchiata, incarnassero e denunciassero un potentissimo e unico principio organizzativo, che distorceva tutti i rapporti, tutte le verità" (pag. 133).
Un libro che parla di quotidianità e noia, e del ritmo lento di una vacanza, di una coppia che fa del silenzio un'abitudine e incarna così, senza volere, la vita stessa di una città di mare, violentata dall'afa estiva e dalle torme di turisti, che potrebbe essere Venezia, ma anche no e non importa. Persino lo stile avanza piano e scava nei dettagli, con la stessa lentezza e precisione con cui i protagonisti vivono le loro giornate, quasi che l'autore volesse presentarci il mondo con i loro occhi e ci accompagnasse dietro ai loro passi svagati per vicoli e piazzette, spiagge e monumenti. Poi, improvviso e inaspettato, l'incontro con Robert, che è proprietario di un bar e gira con una macchina fotografica a tracolla, che li invita a casa sua. Qui la moglie Caroline, afflitta da dolori fisici ma con occhi "straordinariamente splendenti", parla d'amore e si prende cura degli ospiti. A poco poco, un po' per uno strano destino, un po' per qualcosa che attira Mary e Colin verso i loro anfitrioni, la storia e con essa lo stile con cui viene narrata virano decisamente alla tensione di un noir. Non è un libro consigliabile agli amanti dei gialli, ma a chi ama i romanzi psicologici, perché dietro il segreto sta molto più che la soluzione d'un enigma, c'è l'analisi spietata e affascinante di ciò che attrae e che lega gli uomini e le donne.
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La vita raccontata come un sogno
Ornela Vorpsi è nata a Tirana, ma scrive in italiano. Lo trasforma in una lingua incantata e sognatrice, per raccontarci la vita e le sue connotazioni, di più: per condurci dentro alla pura essenza della vita. I personaggi che popolano questo breve romanzo sono vari e coinvolgenti; le loro storie, intrecciate come una fitta trama, sono l'anima di una comunità piena di amore, di dolore, di solitudine e di ricerca dell'altro. Ci sono i figli di Maria, pieni di forza e di gioventù; ci sono le ragazze, che si fermano nella striscia di terra davanti alla loro casa, in attesa; c'è Dolfi, il più bello di tutti, e c'è Manuela, innamorata senza speranza; Stefan, il suo mal amato; zia Lali ed Esmè, donne mature che cercano ancora. Spettatrice delle vicende è Tamar, protagonista e al tempo stesso non-attrice, "nata sotto il segno del tormento" e spinta a scoprire il fuorimondo, l'unica che si limita a vedere e a non intervenire perché quello è il compito della provvidenza. Che non è innamorata di Dolfi, ma gli sta sempre accanto perché le piace la sua bellezza. Che nessuno nota, perché è una ragazza trasparente. "Invisibile come il destino voleva che fossi, dovevo rimanere spettatrice (...) riempirmi del mondo. Nella tomba puoi portare solo quello che hai visto". A poco a poco, come in un sogno o una visione, il lettore viene condotto a scoprire la verità di fatti e persone attraverso piccoli indizi, che la protagonista fa riemergere a tratti dalla memoria. Un libro di forti sentimenti e di profondi misteri, dominato dalle morti di Rafi, il genio-bambino e Manuela; un libro che racconta la mancanza, la colpa, l'origine del dolore, la ricerca d'amore e di assoluto, il rapporto con la divinità e non marca mai nettamente il confine tra normalità e follia.
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Stare dentro a niente
"Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo la sensazione di non stare dentro a niente."
Sta tutto in questo periodo, tratto dal racconto "Cattedrale", l'ultimo ma sicuramente il più significativo, il filo conduttore della raccolta. In un'ambientazione tipicamente americana, dove gli States si respirano in ogni quadro senza essere esplicitamente descritti: i problemi quotidiani, la libertà e la noia, l'acoolismo, le partenze e le fughe. Ma poi, a poco a poco, i personaggi ti entrano dentro, riuscendo ad assurgere a un'universalità fatta di pensieri improvvisi, desideri e dolori inaspettati. Carver riesce a mostrare la vita più che a dirla, usando poche descrizioni e tanti dialoghi, a volte reali ma spesso addirittura via via immaginati. Fino a creare un mondo dove le persone appaiono e scompaiono dalla visuale, come quelli che incontriamo per caso o ci appartengono per poco tempo, tanti quadri di uno stesso "on the road" che però, a ripensarci, lasciano il segno. Anche se le vicende sono tutte, a loro modo, tragiche, sono attraversate da un sottile filo di speranza, che s'incarna ogni volta in una persona, una cosa o un gesto illuminante e fa intravedere una via d'uscita, facendosi spiraglio anche per il lettore. I racconti migliori, da questo punto di vista, sono il già citato Cattedrale e Una cosa piccola ma buona. Un'autore da conoscere. Anche per chi non ama i racconti, questa raccolta è imprescindibile.
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Un giallo sulla e della letteratura
"La nostra realtà, allora, è soltanto...la finzione...di qualche scrittore?" (pag. 228).
Morti misteriose, apparentemente naturali, nella libreria Il Papiro, che però catturano l'attenzione dell'Agenzia di sicurezza nazionale. I dejà lu del poliziotto incaricato delle indagini. La storia d'amore tra lui e Vera, la proprietaria. Il nido accogliente di una sala da thè, dove si può gustare una bevanda ai fichi che stimola la conversazione. Sono gli elementi che fanno da appiglio e da contorno a una storia che ha per protagonista assoluta la letteratura. E' sbagliato pensare di avere a che fare con un giallo tradizionale. Forse, questo romanzo di Zoran Zivkovic, che viene da studi di filologia e teoria della letteratura all'Università di Belgrado, non è nemmeno ascrivibile al genere giallo. E' piuttosto un affascinante viaggio all'interno del libro in sè. "Com'è l'ultimo libro?" si legge a pag. 77 in un dialogo tra l'ispettore Lukic e il professore, assiduo cliente della libreria e apparentemente in possesso della soluzione all'enigma, "Non lo so. Nessuno lo sa. Ed è proprio questo il guaio più grande. Ogni volta è diverso. Lo si riconosce solo quando è già troppo tardi".
L'ultimo libro uccide. Ci vorrà il sacrificio di alcune vite, l'inseguimento di piste ogni volta fallaci, paure e discussioni, prima che l'autore ci faccia scivolare verso la soluzione, in cui il protagonista ritrova se stesso.
"Se ci rifletto seriamente, come si conviene a un ispettore di polizia, come potrebbe esistere un libro nel quale viene descritto quello che mi succede in questo preciso momento?" (pag. 57). Ma è proprio questa la chiave per comprendere gli eventi, concatenati in un gioco letterario che tiene col fiato sospeso e fa riflettere. Per gli amanti dell'artificio delle parole.
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La geometria dell'amore
Sono tanti i personaggi di questo romanzo, ognuno con una spiccata personalità. C'è Omar Razaghi, che ha bisogno di una borsa di studio e deve ottenere il consenso alla stesura di una biografia dello scrittore Jules Gund, che ha scritto un solo libro per poi morire suicida. E' un ragazzo timido, di bell'aspetto, pieno di timori e indeciso sul proprio futuro, stretto tra le aspettative del padre, che lo vorrebbe medico, e il suo talento letterario. E ci sono i membri della famiglia di Gund: il fratello Adam, che convive con il giovane Pete; la moglie Caroline, un'artista spigolosa e bellissima, che si isola nella torre-studio ed abita in un bizzarro connubio insieme con l'amante del marito, la dolce Arden, e sua figlia Porzia, nella villa di famiglia in uno speduto paesino dell'Uruguay. Ognuno ha i suoi motivi per essere favorevole o no alla biografia, che rischia di mettere in luce gli imbarazzanti segreti della vita dello scrittore che hanno amato. La trama si sviluppa sull'intreccio dei dialoghi tra i personaggi - un romanzo di conversazione, come lo definisce Montesano nella quarta di copertina - ed è pure nella conduzione dei dialoghi che la maestria di Cameron disegna la psicologia dei personaggi, disvelandone a poco a poco i misteri, fino all'inaspettato finale, laddove si scopre che la geometria del tutto è creata per dar forma al sentimento protagonista, che è l'amore.
Chi lo impersona, in fondo, è proprio l'impacciato Omar, il cui arrivo improvviso in Uruguay provoca l'onda lunga che porta ognuno a decidere diversamente della propria vita, appunto seguendo il sogno d'una felicità che sembrava non essere più possibile e abbandonando l'apatia da cui derivava ogni infelicità che, come cita lo stesso autore in capo al libro, "non può durare". Così ognuno prenderà la decisione che lo farà tornare semplicemente se stesso e proverà a vivere. "Che altro posso fare?" dirà Omar alla sua fidanzata Deirdre: "Tutto quello che vuoi". "Certo, certo, ho tutta la vita davanti" (pag. 282).
E la bella Caroline, giunta a New York: "Si sentiva molto lontana da Ochos Rios. Aveva creduto che quella fosse la sua vita, ma forse non lo era." (pag. 298).
Sarà Arden, appena fuori dallo sconcertante finale, che vedrà la verità così com'è: "Come è possibile? Sembra tutto così casuale, così fragile. Come un vetro sul punto di rompersi" (pag. 313). E darà senso all'intera vicenda umana che, da schiava della paura di vivere, una volta fatta la scelta, cancella come mai avvenuta la stessa passata apatia.
La manomissione delle persone
Parafrasando l’omonimo titolo del romanzo di Carofiglio, che tratta invece della manomissione delle parole, potrebbe essere questo il riassunto minimo del bel libro di Guido De Marchi. Un testo di fantapolitica scritto in un italiano preciso e colto, tuttavia moderno, che regge un gioco letterario e intellettuale affascinante e coinvolgente fino alla fine. Perché, invece, “L’uomo con il sole in tasca”?
“Un velo dorato: così gli apparve, dalla finestra cui appoggiò la fronte, l’alba di quel giorno (…) il sole stesso si annunciava appena (…) Ma lui quel sole se lo sentiva già dentro, lo aveva in tasca, lui, il sole: e la bellezza dello spettacolo che si apriva ogni mattina ai suoi piedi completava, forse, ma nulla aggiungeva alla sua felicità” (pag. 11). Che è poi la felicità dell’uomo di successo. Inizia così il romanzo e già costruisce il personaggio del Presidente del Consiglio, in cui si può facilmente riconoscere Silvio Berlusconi. La storia è quella del suo sequestro ad opera delle nuove Brigate rosse, sulla falsa riga di quello di Moro. Nel resoconto del suo interrogatorio vi è tutta la sua dialettica, nonché l’abilità di capire le persone e di sfruttarne le debolezze a suo favore, attraverso il dominio dell’immaginazione e dei desideri. Uno splendido e puntuale ritratto di manipolatore che ha la meglio su chiunque, sia esso pure un terrorista, viva di sogni (e bisogni) non realizzati. “A noi interessa che parli”, dice Mario, uno dei sequestratori, ma “nella sua logorrea ci infilerebbe anche delle risposte sensate all’interrogatorio? Quello tira fuori di tutto e di più, anche delle sue mutande ti parla, ma non di quello che gli chiedi” (pag. 45). Tant’è che del conflitto d’interessi, su cui verte il capo d’accusa del processo brigatista, il prigioniero non parlerà mai e riuscirà a condurre il gioco a modo suo, creando liti e contrasti tra i membri del gruppo. Intorno alla sua figura conosciamo a poco a poco, nell’evolversi delle situazioni e delle problematiche del sequestro, i tre terroristi. Luca, il più anziano, che è anche il capo, ex appartenente alla prima lotta armata, quella degli anni ottanta, che dimostra di essere il vero antagonista politico e che la personale lealtà e il rimpianto del passato rendono solo e perciò fragile. Cecilia, la ragazza del gruppo, accecata dal fanatismo e in perenne contrasto con lui. E Mario, il suo compagno di vita, il più giovane e ingenuo.
Su tutti, il personaggio del commissario Leandri, incaricato delle indagini, che si dimostra traghettatore dal passato al presente, quasi rassegnato alla sopravvivenza del peggio e alla morte di qualsiasi morale. “Il vero mutamento era insieme più profondo e meno visibile, avveniva nell’individuo ma non scaturiva da lui (…) alterando il senso di giustizia e dei rapporti umani, la lingua quotidiana e la mimica e forse persino la fisionomia (…) per esaurirsi poi nell’ignavia” (pag. 113). Il suo incarico e la lealtà allo Stato gli impongono di fare il suo lavoro, anche se quasi si augura di non risolvere il caso, trovando il covo: “Fosse anche stata un’eventualità verosimile, era poco per pensare di rinunciare a cercarlo, poco perfino per sperare di non trovarlo” (pag. 117). La lotta intima e morale d’un uomo profondamente onesto, deluso dal mondo (“Il mondo che cambia…ma che cosa cambiava veramente?” (pag. 113) e dal potere politico, che, con le sue riflessioni apparentemente secondarie tra le descrizioni dei deliri e delle diatribe di terroristi e prigioniero su mafia e democrazia, potere politico e società, diventa il filo conduttore dell’intero libro.
Un tuffo nel passato, per chi gli anni di piombo se li ricorda. Un educativo adeguamento al presente per i giovani. Per tutti, un’attenta e geniale analisi politica dei rischi attuali: non è più tempo di sogni.
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Il tempo, la fuga
“La vita è ritmo, a partire da quello del cuore. Pulsa seguendo un’andatura personale ed è soggetta a variazioni di circostanza. E il silenzio non è un recipiente vuoto da stipare. Ma il posto della tua musica. Quella che nessuno può spiegare.” (pag. 95)
È questo il filo conduttore di questo libro, la sua anima pulsante. Al di là del viaggio tormentoso della protagonista Viola attraverso se stessa, che la porterà dal dolore alla scandalosa verità. Al di là dell’ambiguo e minimo personaggio di Mauro, conosciuto per caso alla festa in onore del marito a un anno dalla scomparsa, che appare più strumento che oggetto d’interesse, più occasione che fine. Al di là dell’incombente presenza di Federico Alessi, il marito tenero e altolocato, il famoso direttore d’orchestra, maestro di musica e di vita, affascinante e apparentemente irraggiungibile, amato e fragile, la cui morte è fine ed inizio per Viola, abisso di dolore e rinascita.
“Bach improvvisava? Certo. Forse non alla maniera di un jazzista, ma secondo gli usi dell’epoca. (…) Gli è bastato guardarsi dentro. Il che spiega come mai ricercare era il termine con cui, in origine, si indicava la forma musicale della fuga.” (pagg. 68-69)
Altro tema è la fuga. Consequenziale e antitetico. Fuga da una vita che non le appartiene più, o che non le è mai appartenuta, per la protagonista. Fuga dai sensi di colpa, caratteristici di chi pensa di dover sempre qualcosa a qualcuno. Fuga musicale, visto che la musica è metafora e guida, anima e amore per tutti i personaggi: per Viola, che la impara, la beve quasi, dal marito e ne subisce i gusti, perennemente in adorazione; per la figlia Vittoria, che dal padre eredita il talento e la usa per un rapporto preferenziale con lui; per Mauro che ne fa fonte di reddito e di autonomia da una famiglia ingombrante.
L’autrice riesce, con pochi personaggi e un racconto racchiuso tutto in una giornata un po’ folle di fughe e confessioni tra Viola e Mauro, attraverso le parole della memoria incalzate e scandite dalle turbolenze atmosferiche che riflettono quelle dell’animo, a narrare dell’amore femminile, delle sue illusioni e delle sue generosità ma anche dei suoi ripensamenti. Un tema apparentemente semplice, che viene trattato con intensità e poesia, con un linguaggio essenziale pieno di sottintesi, ammiccando a risvolti inaspettati. Così che la fuga, appunto, diventa ricerca di sé.
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Protagonista la donna
“Il mercoledì pomeriggio in cui Luciana disse che non avrebbe mai più rimesso piede nella casa dei Francesi era appena cominciato l’inverno (…) sua figlia Anna sollevò gli occhi. Nella sala d’attesa c’era odore di alcol. I rami delle acacie, oltre i vetri, scricchiolavano per il gelo. (…) nello studio medico tutto appariva non evitabile, al pari dell’agonia di Emma Bonelli, sua madre, due porte più in là” (pagg. 9-10). È così, in queste prime pagine, che vengono presentate, insieme, le protagoniste di questo libro: figlia, nonna e nipote, tre generazioni di donne che raccontano, con le loro storie, la storia della condizione della donna dagli anni Trenta ai giorni nostri. E, insieme con loro, le acacie, il cui profumo, i cui fiori accompagnano i sentimenti lungo tutto il tempo delle vicende. E ritornano nei ricordi. Così come nello stesso prologo troviamo, fianco a fianco, i punti salienti che segnano e, in qualche modo, riassumono la vita di ciascuna: l’unica “colpa” di Emma Bonelli, che è anche l’unica espressione di libertà di scelta, riguardo all’ospitalità data al partigiano Carlin; la peculiare caratteristica di masnà di Luciana, debole e sottomessa; e Anna ritratta nell’atto di studiare le carte, che sono poi quelle legali che potrebbero consentire alla madre di riscattare l’eredità perduta con l’inganno. Coerentemente al disegno su cui si basa, il romanzo si sviluppa in tre fasi, identificate in tre parti titolate diversamente. Nella prima, L’arrivo, ecco l’ingresso di Emma Bonelli nella casa dei Francesi, “tanta terra e poche braccia” (pag. 30), contadina con poca dote ma molta forza fisica, sposa all’erede ma anche serva di tutti, rassegnata al suo ruolo perché è l’unica strada che le è stata indicata. Nella seconda parte, L’esilio, c’è il tempo dell’allontanamento dalla casa di campagna di Emma e Luciana, che nel frattempo ha accettato il marito che le è stato offerto e, con lui, la madre e la figlioletta, si trasferisce in una piccola città per aprire un ristorante. “Lunedì otto in punto Sala Finizioni. Luciana si fa rossa, abbassa gli occhi, spera che le altre non abbiano sentito. L’invidia è una brutta bestia” (pag. 77), inizia così, con la possibilità di un lavoro migliore che la libererebbe ma che masnà non riesce a comunicare alla famiglia, questo capitolo che gira tutto sulla sofferenza toccata alla figlia, una sofferenza che Emma non ha mai conosciuto: quella del dubbio, dell’opportunità di scegliere, della necessità di trovare il coraggio per farlo. “Non si decide a entrare…è sempre così, quando bisogna prendere una decisione…che c’è di male? Sei libera!...un’altra fitta allo stomaco. Mamma. Papà. È una grande occasione. La mia grande occasione”(pagg. 91-92). Luciana non ce la farà. Rinuncerà alla sua occasione. E sposerà Franco Cermelli. Ma è nella terza parte, Il ritorno, che avverrà il suo riscatto, con l’aiuto della figlia Anna “anche se il dolore passato non passerà…sorride pensando che di tutto quel che era, almeno lei, almeno in parte, c’è ancora” (pag. 327). Non giova, qui, raccontare la trama per intero, tanto è complessa e avvincente, svolta con uno stile che dispiega l’oggi agli occhi del lettore, vuoi con ritorni al passato, vuoi con fughe in avanti nella storia. Anche perché la trama, in fondo, è solo un pretesto per dire la storia vera, quella della donna, nel Monferrato parzialmente immaginario che è il luogo di tutti i luoghi. Con un umanesimo nuovo, dove le donne sono al centro della scena, senza ideologismi né teoremi da dimostrare. Per “decidere di essere, per se stessi, padre madre e fratello” (pag. 326), come Luciana, cioè libere. E gli uomini ne escono un po’ sconfitti, laddove i personaggi maschili sono o prepotenti o imbelli. Ma già altri autori hanno affrontato in questo modo il tema della forza femminile, si pensi al Saramago di Cecità. Tanto che l’uomo che subirà la conquistata libertà di Luciana non sarà più il fratello maschio, il tanto decantato Mario che “’l sa”, secondo il ritornello di Emma e della sua normalità di sottomissione, ma “solo l’ultimo dei Francesi” (pag. 287), laddove i Francesi assurgono a incarnazione della baronia maschile. Scritto in un italiano attento e, a tratti, prezioso, il romanzo si offre alla lettura morbido e scorrevole, lasciando una sensazione di corposità, mai banale; infiorato, nei momenti cruciali, da un idioma dialettale che, come afferma la stessa autrice nei ringraziamenti finali, viene dall’infanzia, scritto come ancora le suona in testa, tanto da rendere al meglio il corso dei pensieri dei personaggi e intriderli della loro quotidianità. Il che lascia intendere anche un certo autobiografismo o, per lo meno, un attingere pieno e consapevole al mondo che si è vissuto. Ed è la stessa Romagnolo che chiosa: “Forse, per affrontare i fantasmi, l’unica è farne storie”.
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Un libro universale
“Lei crede sul serio che i compatrioti di Goethe e di Schiller, di Kant e di Beethoven si lasceranno abbindolare da queste sciocchezze?” (pag. 48). In questa domanda, che il padre del giovane Hans rivolge a un nazista, è racchiuso tutto l’amore per la propria terra. “L’amico ritrovato” è uno di quei libri che si leggono tutto d’un fiato, e non solo per il limitato numero di pagine, soprattutto per la passionalità che l’autore mette nella vicenda, ispirata a un fatto autobiografico. Si narra dell’amicizia giovanile tra Hans, figlio d’un medico ebreo, e Konradin, l’ultimo rampollo della casata dei conti von Hohenfels, nata sui banchi di un esclusivo liceo di Stoccarda all’epoca dell’ascesa di Hitler al potere. Ma le vicende politiche e lo spettro dell’olocausto imminente rimangono sullo sfondo, laddove il centro pulsante della narrazione è nell’entusiasmo dei due giovani chiamati a uscire dalla timidezza e ad affacciarsi alla vita, nelle discussioni vibranti sulla poesia, sull’esistenza di Dio, sulla natura stessa dell’amicizia. “Non ricordo esattamente quando decisi che Konradin avrebbe dovuto diventare mio amico, ma non ebbi dubbi sul fatto che, prima o poi, lo sarebbe diventato(…) Nella mia classe non c’era nessuno che potesse rispondere all’idea romantica che avevo dell’amicizia (…) nessuno per cui avrei dato volentieri la vita” (pag. 21). E ancora: “Dall’esterno del nostro cerchio magico provenivano voci di sovvertimenti politici, ma l’occhio del tifone era lontano (…) Stoccarda continuava ad essere la città tranquilla e ragionevole di sempre” (pag. 34). Saranno gli adulti, con le loro decisioni, a ritagliare i confini di questo mondo, così che la realtà v’irrompa drammaticamente: Hans sarà mandato in America a continuare gli studi, mentre i suoi genitori rimangono a Stoccarda, rifiutandosi di lasciare quello che continuano a considerare (e che è) il loro paese; Konradin abbraccerà la fede nazista, trascinato dall’entusiasmo di sua madre. Una fede che appare addirittura ingenua, laddove scriverà all’amico: “Mi rallegro che i tuoi genitori abbiano deciso di restare. Nessuno li molesterà, naturalmente, ed essi potranno vivere e morire qui, in pace e serenità” (pag. 85). Fino a una conclusione inaspettata. Dunque, un libro sugli slanci e le innocenze dei giovani. Tutti. In contrapposizione con la durezza e l’ipocrisia degli adulti. Tutti. Un libro sui bisogni essenziali dell’animo umano, descritto in ciascuno dei personaggi con uno stile limpido e vivace, un tocco quasi pittorico (e in effetti l’autore è stato anche artista visivo), un amore trasparente e viscerale per un mondo romantico destinato a scomparire, ma che ancora non ne è consapevole. Un libro che, proprio a causa di quell’amore, offre al lettore semplicemente una storia (forse “la” storia per eccellenza), senza pregiudizi né pretese moralistiche, così che possa autonomamente cercare gl’infiniti spunti di riflessione, identificarsi con Hans e, con lui, non riuscire a staccarsi dall’indimenticabile Konradin. Un libro a suo modo universale, nonostante l’argomento trattato, l’evoluzione storica degli eventi mondiali e la vicenda stessa dell’autore ne portassero il rischio.
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