Opinione scritta da pupa
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Il sentimento degli altri
Il signor Jonas è il libraio della piazza del Vieux-Marché, metodico e sistematico, quale può essere un libraio e, soprattutto, un filatelico. Egli vive una tranquilla e dignitosa esistenza, a fianco della giovane ed irrequieta moglie Gina, dall’incedere ancheggiante e soffuso di caldo afrore ascellare. Un giorno Gina sparisce, forse una delle sue solite scappatelle, tanto che il marito non si agita più di tanto, ma per salvare le malconce apparenze comincia a mentire al vicinato dicendo che la consorte è in viaggio nella città vicina per visitare una amica della quale si sa essere dai facili costumi, un po’ come Gina, ma in questo caso estranea alla sparizione. Sconcertato, il libraio, scopre che la moglie è partita senza bagagli ma senza dimenticare di portare con sé i pezzi più rari della collezione di francobolli, dall’elevato valore ma assolutamente intraducibili nell’immediato in danaro contante. Col passare dei giorni e col prolungarsi dell’assenza della donna il sentire comune del popolino del Vieux-Marché comincia a mutare sino a sfociare in un vero e proprio odio verso il piccolo ed innocente libraio, il quale si sente lentamente ma inesorabilmente escludere da quello che è stato sino quel dì il suo microcosmo. Ambiente dal quale non si è mai voluto staccare, considerandosi parte di quella variegata società che aveva accolto la sua famiglia esule dalla Russia in rivolta. Il signor Jonas nelle angoscianti ore dell’assenza di Gina rivive la sua esistenza, soffermandosi sul matrimonio con la donna, già additata dai più come “leggera” ma sposata forse proprio per porla al riparo dalle maldicenze e per tentare di aiutarla. Col matrimonio l’uomo rammenta di come, quasi in segreto, ha abbandonato la religione ebraica per diventare cristiano, per essere ancor più intimamente parte di quel nucleo nel quale la sua esistenza si è inserita. L’unico legame che serba con la Russia è un album di francobolli, sterile sostituto del più tradizionale album di fotografie. Jonas sente di essere parte integrante della vita della piazza del mercato ove la sua bottega affaccia, accanto al caffé e agli altri negozi. Quel che non sospetta il nostro protagonista è che la sparizione di Gina rimetterà in moto l’odio sordo e cieco che le folle hanno verso il diverso, l’estraneo, l’alieno. Nelle ore che si susseguono, nella mancanza della consorte, Jonas si sente catapultato fuori dalla società di cui era convinto di essere parte, il suo essere Russo, ebreo, colto diventano improvvisamente fardelli dal quale è impossibile liberarsi e che lo porteranno sempre più a fondo. Paradossalmente Jonas verrà giudicato aspramente per il suo non voler giudicare, per il cercare di capire, per la sua diversità di vedute resterà schiacciato proprio sotto quel che lui non vuole fare od essere. Sarà banale definire perfetto un romanzo di un grande scrittore come Simenon, ampiamente riconosciuto da chiunque come grande romanziere? Io lo dico, sottovoce, per sottolineare la perfezione della costruzione del romanzo, che sembra quasi matematico, dalle proporzioni esatte, nella lunghezza, nella divisione tra le varie parti, nelle descrizioni. La trama è assolutamente geniale, riesce a portare alla luce sentimenti comuni e che purtroppo capita sovente di vedere da una angolazione originale. La narrazione inizia in modo quasi lento, regolare, e a qualche diecina di pagine dall’inizio al lettore sembra che il romanzo si sia esaurito, è a quel punto che iniziano le sorprese, la scrittura accelera, comincia a modificare la sua struttura, dopo il viaggio in Russia con la famiglia di Jonas, l’atmosfera cambia. Pagine che sembravano di quieta attesa diventano più minacciose, l’atmosfera diventa cupa, la scrittura si fa più tesa, la tranquilla meticolosità del protagonista pare a tratti rasentare la follia; la linea di demarcazione che separava buoni e cattivi, verità e menzogna, sospetti e certezze si va scolorando, sparisce alla vista del lettore e del protagonista, giungendo ad un parossismo di tensione e sospetto che mi ha ricordato certi film di Hitchcock. Il linguaggio rispecchia fedelmente quel che doveva essere la conversazione nelle cittadine francesi dell’epoca, siamo nel 1956, laddove salutare una persona aggiungendo o meno il cognome faceva una grande differenza; Jonas capisce di essere perduto agli occhi della società quando viene salutato con un semplice “Buongiorno” anziché l’abituale “Buongiorno signor Jonas” simbolo di rispetto e di appartenenza, ed il protagonista più di ogni altra cosa sente la mancanza di quel “signor Jonas” attestato di cittadinanza al Vieux-Marché. Il romanzo scorre veloce nella brevità delle sue 172 pagine ottimamente tradotte, con ritmi quasi da cronaca giornalistica, sebbene siano presenti tutti gli elementi che danno grazia ed eleganza ad un bel romanzo; tuttavia l’assoluta mancanza di ironia o di alleggerimenti dai fatti suscita nel lettore un senso di grande serietà, a volte quasi di cupa oppressione, dimostrando la maestria di Simenon nel creare un romanzo anche con le impressioni che riesce a trasmettere tra le righe, anche con il non espressamente detto. Il senso crescente di cupezza claustrofobica rispecchia nel lettore quel che è il sentire del protagonista.
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aperture d'ottimismo
Vi sono autori che esercitano un sottile, lontano, fascino sui lettori; come divi cinematografici sono noti, acclamati e menzionati. A differenza di un divo cinematografico, la cui immagine appare un po’ dovunque, o di un noto cantante, la cui voce può capitare di sentire un po’ dovunque, senza premeditazione, uno scrittore necessita di un ben preciso ragionamento, viene il momento per un lettore medio di dirsi, ora leggo Carver, magari approfitta dei numerosi sconti nelle librerie e si munisce di una copia di un libro dello scrittore-icona. La scelta non è facile, visti i roboanti strilli sulle manichette e gli entusiastici toni nelle recensioni, nel mio caso la scelta è caduta su “Cattedrale”, considerato uno dei massimi esempi della scrittura dell’autore americano, e non nasconderò che il titolo ha sottilmente vellicato in me quel mai sopito desiderio di trovare in qualunque pagina echi o e reminiscenze di colui che veramente edificò una cattedrale con foglio e penna dal letto della sua stanzetta. Ora, in questa raccolta di racconti di echi di cui poc’anzi detto non ne serba traccia, i personaggi si muovono in quella sorta di America minore, che sono i villaggi nel “middle of nowhere” statunitense che sembrano anni luce distanti dagli scintillii della costa est o dalla rutilante vitalità californiana. Qui incontriamo operai, spazzacamini, professori di liceo, alle prese con vite scialbe e costellate di fallimenti. L’atmosfera aleggiante tra le guglie di questa cattedrale è grigiastra e pessimista, gli uomini sono spesso abbandonati – o ignorati - dalle mogli, le quali spesso fuggono col primo venuto o sopportano a fatica la presenza in casa di un uomo dedito alla bottiglia o aggrovigliato nelle proprie delusioni al punto da non alzarsi dal sofà di casa. L’alcool scorre a fiumi, anestetico di vite amare, inconcluse. È una America del disincanto, dei cocci esistenziali, quella raccontata da Carver, il quale racconta in parte sé stesso quando parla di matrimoni alla deriva, di crisi dovute all’alcool e interminabili bevute che distruggono tutto ciò che circonda una esistenza. La raccolta comprende dodici racconti i quali pur conservando una matrice comune, riconoscibile, sono tutti ben differenziati fra loro, le ambientazioni cambiano, le trame sono sempre originali e narrate da punti di vista sempre nuovi, anche il linguaggio si differenzia da un racconto all’altro, esplorando vari registri: si va da quello tipo vecchio west con espressioni quali “che io possa essere dannato se non l’ho visto con questi occhi”. Altri sembrano raccolti dalla viva voce dei protagonisti su di un nastro registrato con quelle ripetizioni tipiche di chi ricorda e si sforza di fare un discorso lineare; sino a giungere ad accenti più sofisticati, quasi esistenzialisti, come nel racconto “Il treno” particolarissimo, che si staglia netto sugli altri rappresentando una variazione importante di ambiente e di struttura, circonfuso di una atmosfera grigiastra pare per metà sognato e per metà vissuto. Per concludere il racconto che dà il titolo alla raccolta in cui Carver apre all’ottimismo, e il protagonista dapprima restio ad accettare l’altro – l’intruso – alla fine si lascia andare permettendo alla fantasia e alla comunicazione di erompere nel suo piccolo chiuso mondo. I racconti sono formalmente perfetti, molto precisi, ben costruiti, quasi cesellati, com’è lecito aspettarsi da quello che è considerato uno dei massimi autori americani, la raccolta si legge con grande piacere, ci si appassiona e si ammira l’inventiva dell’autore, coadiuvato per i lettori nostrani dall’ottima traduzione di Riccardo Duranti. Se posso concludere con una mia impressione che mi creerà molti nemici, durante la lettura accanto all’ammirazione verso l’autore come già detto, ho avuto talvolta una sensazione di gelo, spesso la bellezza di un racconto non riusciva ad emozionarmi, come un lavoro svolto perfettamente ma con poca anima. Sono sensazioni difficili da spiegare, e forse infondate per una raccolta di racconti che si legge con leggerezza e che con leggerezza si dipana lungo le pagine con un effetto paradigmatico su quel che significa scrivere un racconto.
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La mamma e l'adolescente
Il tema autobiografico della madre arida d’amore verso la figlia, ed innamorata del piacere, del lusso e dello sfarzo che tragicamente poi le si ritorcerà contro è il leitmotiv preferito dall’autrice e ripetuto anche in un altro racconto. Ne Il ballo, quindi, abbiamo una bimba che si affaccia all’adolescenza nella fastosa casa che i genitori si sono dati dopo una oscura e redditizia manovra del capofamiglia, che ha proiettato la famiglia dalla più triste modestia ad una vita di lussi. Ma, si sa, il denaro non basta per essere soddisfatti, bisogna che gli altri lo vedano, lo percepiscano, ne assaggino il gusto e il profumo. Quale miglior occasione se non uno sfarzoso ballo dove invitare la créme de la créme della società. Che poi a ben guardare si riduce a qualche funzionario, una manciata di vecchie signore e qualche astuto cicisbeo, perché è in questo demi-monde che la madre pesca per scrivere gli inviti, ma la vita dell’alta società è in salita e da qualche parte si deve pur cominciare. Un ballo è anche l’occasione per una fanciulla di fare il suo debutto in società, se non fosse che l’accidia della madre vuole relegare la piccola, nella fatata notte che potrebbe vederla finalmente rifulgere di luce propria, in un angusto sgabuzzino. Ma quasi per caso la bimba innescherà il diabolico meccanismo che la libererà per sempre dell’oppressione genitoriale e vedrà finalmente smascherati i due per quel che sono: dei miserabili, volgari arricchiti. E qui la narrazione incrocia un altro dei temi cari all’autrice: il denaro fatto con troppa facilità, o con espedienti poco puliti, non può portare alla felicità, è un denaro di cui non si può godere. Il breve romanzo ha la consistenza e la levità di un racconto ma riesce a mettere in scena una ricca complessità di sentimenti e situazioni degna di un romanzo.
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L'amore non basta
Pensavo di non emozionarmi ancora dopo aver letto le braci di Marai, ma mi sono dovuta ricredere nella lettura de la donna giusta. È un libro dove l’amore s’intreccia con la vita sociale, il ritmo del tempo con i luoghi diversi, quattro monologhi racchiusi in quattro sezioni, che scandiscono le inquietudini di una nazione in un formidabile intreccio di esistenze formato da linee immaginarie convergenti.
Una prorompente e allo stesso tempo semplice domanda pare suggerire sin dall’inizio l’autore: si chiede se esista il grande e assoluto amore, quello che resta indistruttibile e perenne lungo il corso degli anni e degli eventi e soprattutto se sia in grado di valicare le differenze sociali e svolge il tema attraverso quattro voci narranti.
Una donna vissuta in campagna, di lignaggio popolare basso, dai modi rozzi e goffi, propri di chi lavora la terra e da quest’ultima trae i frutti, diventa cameriera in casa di una famiglia benestante e altolocata. Il giovane Peter, prediletto e coccolato rampollo di casa, si accende d’improvviso amore, s’innamora di questa domestica, vivendo metà della sua esistenza nell’attesa di coronare il suo sogno. La vita non sempre è prodiga e accondiscendente dei desideri altrui e così la sua famiglia gli “impone” un matrimonio con una donna d’eguale condizione sociale. L’unico modo per realizzare il suo desiderio, quello di sposare Judit, è di trascurare il mènage coniugale facendolo naufragare. L’ex moglie, Marika, dal proprio punto di vista, esprime i suoi disappunti coniugali ad un’amica ponendo in evidenza i propri tratti di donna abbandonata, mai amata e tradita, anche se solo nei pensieri. In modo casuale Marika scopre il piano perpetrato dal marito grazie all’accidentale ritrovamento di un pezzetto di nastro e questa strisciolina di tessuto sarà il suo personale filo di Arianna attraverso i meandri di una verità scomoda e lacerante. È la metafora di un personaggio minore che esprime una condizione sociale affermata.
Peter ripercorre i tratti salienti della propria vita, di abbiente e benestante cittadino ricco borghese, custode dei valori a prima vista inalterabili ed immodificabili della società cui appartiene, alle prese con l’amore verso una contadinotta, cameriera della madre, relazione che comporterebbe uno scandalo sociale. Egli, lentamente, si disfa di tutti gli inganni e fronzoli sociali per sposare Judit, ma quel che scoprirà sarà una grande e dolorosa delusione. Judit, ormai lontana da Budapest racconta la storia al suo nuovo amante, un musicista, al quale è affidata anche la quarta ed ultima parte della vicenda.
Storia bella e profonda, gestita con maestria da Marai, è scorrevole, leggibile come tentativo di arrampicata sociale della contadina Judit in un mondo dorato quello di una vita agiata e lussuosa. Tra i quattro personaggi fa capolino un amico di Peter, uno scrittore affermato, di cui Judit sembra essere innamorata: forse è la persona più enigmatica, lo scrittore, consapevole e fautore del graduale disinteresse delle persone verso forme più elevate di comunicazione. Questo personaggio, sebbene appaia in misura più marginale nella vicenda è quello che invece fa da perno e riesce a portare la vicenda dalla sfera intimista a quella più ampiamente sociale in un Paese di fronte ad un radicale cambiamento, la fine di una società fondata sulla borghesia sostituita dal comunismo portato dai soldati russi, con tutto quello che ne conseguì per la società ungherese. E mentre Judit fa crollare i bastioni del mondo borghese, distruggendo dapprima il rassicurante matrimonio di Peter con Marika, e poi rubando tutto quello che può dai beni del marito, la Storia fa crollare le mura della città stessa. A questo punto interviene il legame con lo scrittore, legame sterile, i due non si toccano nemmeno, Judit passa le ore ad ascoltare le parole o i silenzi dell’uomo, che le parla dell’arte, del suo disfacimento in una società sempre più legata ai bisogni materiali. Ed è qui che la donna, dimentica dei beni e delle ricchezze della borghesia, anela ad un livello superiore, quel che è mancato nei secoli al popolo, ai contadini come lei e la sua famiglia, è soprattutto l’istruzione, l’arte, il bello.
Questo è ciò che accade ai protagonisti del romanzo di Marai e si capisce così che da solo, l’amore non basta, ma anche che la ragione non può far nascere o morire un sentimento. ?Al massimo, può “disciplinarlo”. ?Eppure…alcune passioni possono essere più forti della ragione e dei giorni che passano: ardono e bruciano tutto. ?Si dice che da qualche parte viva “la donna giusta”… ?Credo possa dipendere dal fatto che il mondo delle persone innamorate si riduce quasi sempre ad un viso, ad un nome. ?Il loro è uno sguardo assente e la vita appare indifferente. ?Si può pensare che un sentimento d’amore possa in qualche modo dominare un animo, fino al punto di impedirgli in seguito di amare ancora? ?Davvero si può pensare che un amore sia eterno? ?Capita che… improvvisamente un giorno ci si liberi da questo torpore e si riprenda a “vedere”. ?Ciò che prima sembrava un presente insopportabile, diventa un passato un po’ sfuocato, mano a mano lontano e ciò che bruciava, non fa più male. ?D’un tratto si riscopre il mondo, semplicemente perché prima, mente e anima erano concentrate su di un altro essere, che ora non c’è più. ?Certo, gli amori veri non si dimenticano… ?Tuttavia può accadere che improvvisamente la nostra esistenza diventi un terreno spazzato da un’alluvione e tutto finisce con l’essere trascinato via, perché l’amore vero è sempre letale e forse…non ha come vero scopo la felicità, capace com’è di creare una passione con una forza incontrollabile! ?Ma una vita che sia veramente degna di essere vissuta, non può rinunciare a questa passione!! ?Desiderare….cercare sempre la propria completezza… ?solitudini… ?vivere insieme a qualcuno senza conoscerlo veramente, perché non si può pensare di “possedere” tutto, anche i segreti nascosti dell’altra anima. ?No, non esiste la donna o la persona giusta, ma un po’ di giusto in tutte le persone, perché è inevitabile scoprire che in nessuna c’è tutto quello che speriamo, ci aspettiamo. Non esiste una persona che da sola possa darci la felicità che inseguiamo. ?Ma in ogni caso è inevitabile, quando si ama qualcuno, che si abbia il batticuore al solo vederlo. ?Ciò che veramente cerchiamo, fino alla fine della nostra esistenza, è il mondo di quando eravamo bambini. ?Il ricordo dell’attesa per qualcosa che deve ancora venire. ?L’amore in fondo è anche questo: momenti in cui due esseri si cercano, nell’attesa e la speranza create dalla magìa dell’attrazione. ?Perché dietro ogni bacio, c’è sempre quel senso estremo di felicità che non scende a patti con nulla.
La grandezza di questo romanzo, oltre alla sua bellezza e perfezione narrativa sta nel raccontare la Storia attraverso una vicenda apparentemente d’amore, di desiderio, di attesa che mostra in filigrana le attese di una nazione intera.
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Bloom
Dopo attenta lettura, esclusivamente in poltrona di casa ho finalmente terminato un romanzo che reputo corale e dove il ruolo del protagonista è diviso tra diversi personaggi. Pensavo d’aver tra le mani un autore quale un Thackeray, un Eliot, un Flaubert o un Zola, invece era proprio James Joyce col suo Ulisse. Per me è stata vera emozione affrontare l’opera così complessa e ricca di elementi che ha cambiato il corso della storia della letteratura del Novecento. Aiutato dapprima da una propedeutica ricerca iniziale sul cotesto storico, l’autore, le peripezie che ha subito la traduzione italiana, il flusso di coscienza, ecc., mi sono immerso per mesi dedicando un bel po’ del mio tempo libero. Avevo una traduzione classica, quella di Giulio De Angelis con la guida alla lettura di Giorgio Melchiorri che senza le loro indicazioni sarei sicuramente finita in una confusione totale.
Mi sono trovata, sin da subito, in una specie di contenitore di vita quotidiana, d’altronde Joyce è un prodotto dell’epoca vittoriana e ne usa e trasforma gli artifici stilistici; in questo caso la tradizione del romanzo corale gli permette di allargare lo spettro della narrazione trasformando però il coro in una dissonanza di voci, come avviene negli episodi di Ade, Eolo, o Rocce Erranti. Mi è parsa che la struttura del romanzo sia molto simile all’impaginazione di un quotidiano dove accanto al titolo principale d’apertura si trovano le notizie più diverse, dalla cronaca locale allo sport, dall’economia alla politica, dalle svariate rubriche alla noiosa e ripetitiva pubblicità dai colori e dalle forme più svariate e Joyce in questo, credo abbia cercato di riprodurre la simultaneità nella struttura corale del suo “Ulisse”. In quest’ottica narrativa ogni sezione ha propria dignità romanzesca, tutti i personaggi, anche i minori, compongono e completano il romanzo, rappresentano aspetti inespressi del protagonista.
È romanzo, quindi, costituito per blocchi di episodi autonomi che da molteplici punti di vista, tutti diversi e tutti sovrapponibili, colgono il protagonista durante una sua giornata dublinese precisamente il 16 giugno 1904. Il romanzo stilisticamente è devastante ed al tempo stesso disorienta perché spesse volte non fa capire i colloqui e chi effettivamente parli: si confondono i diversi punti di vista ed inoltre tutte le voci, compresenti e contraddittorie, sono sviluppate in parallelo anziché attorno ad un fulcro principale. Si ha, inoltre, la percezione di differenti quartieri di Dublino attraversati dal protagonista e dal suo alter ego ed anch’io, a volte, ho avvertito la sensazione d’essere in una città diversa a causa delle deviazioni fisiche o divagazioni dal tema principale. Non accade niente di clamoroso e proprio in questa normalità Joyce ha rappresentato un Ulisse epico, nevrotico, tradisce e viene tradito in una città che non sente sua. Come se la normalità, anche quella più insignificante e con i suoi riti quotidiani, entrasse nell’epica. Come se Joyce volesse guardare al microscopio l’infinito che c’è nel finito delle cose; è forse la definitiva chiusura di una plurisecolare esperienza espressiva, di cui rappresenta il sigillo ed il superamento al contempo.
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Destini incrociati
La mezzanotte è quella del 15 agosto 1947, il giorno della proclamazione dell’indipendenza dell’India, e il protagonista, Saleem Sinai, è il primo dei milleuno bambini nati tra mezzanotte e l’una di quella memorabile data. Tutti posseggono doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini se non lui e il suo negativo alter ego, nato nel medesimo istante.
S’intrecciano destini e storie più o meno memorabili a partire dal buco in un lenzuolo nella vallata del Kashmir, sul lago di Srinagar, fino ai sapori dei barattoli di Pinckle del quale Sinai, che guarda il mondo con gli occhi del bambino mai completamente estinto in lui, si fa imprenditore. Si passa dal Pakistan all’India, da Bombay a Delhi attraverso guerre, rivolte e tracolli economici ed emotivi trattando con magico realismo la massa informe di una materia troppo grande per essere dominata. Padma, la serva-padrona del protagonista, liquida rudemente il tutto come “un mucchio di chiacchiere”. Ma il vero centro di gravità del libro non è Sinai e la truppa di familiari e personaggi intorno a lui, bensì la Storia dell’India, ed inevitabilmente del Pakistan, che s’interseca con le vicende individuali. Una storia di conflitti di potere, classi dominanti e miserabili, sempre gli stessi, da una parte e dall’altra anche se cambiano nomi e circostanze. Una storia apparentemente senza uscite né speranze, segnata da corruzione e grandi esplosioni di violenza. Tragica in sé, benché si tinga di comicità quando si mescola alla commedia della vita dei singoli.
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I conflitti generazionali
Un’elegante e sciccosa cittadina immersa in una campagna inglese, tra verdi colline e un’abazia antica è l’idilliaca Pagford con un centro signorile lastricato di ciottoli e casette con prati mantenuti bene. La morte casuale di uno dei consiglieri comunali è lo spunto di una guerra epidermica, perfida e ipocrita, piena d’intrighi e colpi bassi, rancori e tradimenti, in cui tutto il marciume di una comunità viene a galla per “l’accidentale vacanza” in quell’amministrazione comunale. Gli abitanti conducono silenziose ma determinate battaglie quotidiane l'uno contro l'altro per ottenere la supremazia in faccende spesso meschine e futili. I ricchi vorrebbero vedere sparire i poveri, figli e genitori si torturano nel disprezzo e nell'incomprensione reciproca, gli adulti superano i ragazzi in gare di bullismo mentre drammi sociali si consumano sotto i loro occhi nell'indifferenza generale. Maltrattamenti, amicizie che si sgretolano, storie di droga, segreti, frustrazioni e razzismo strisciante sono descritti in maniera precisa e diretta, quasi impietosa: nessuno dei personaggi appare simpatico e completamente positivo anche quando taluno cerca il riscatto la maniera proposta è vissuta in modo tragico. I conflitti generazionali (motivo preponderante del romanzo) e le riscosse fanno sì che le trame s’intreccino e s’infittiscano dai protagonisti che rimangano impressi come un marchio a fuoco. Libro interessante, con uno stile semplice ma efficace da parte della Rowling, che le permette di svelare l'animo dei suoi personaggi con naturalezza e realismo, qualità già incontrate e alle quali ci ha ampliamente abituati anche se ho trovato il finale un po' scontato e sottotono, nella sua drammaticità.
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Il ripetersi del tempo
Mi appresto a scrivere di Márquez solo dopo la sua morte per consacrare una delle opere più efficaci della letteratura del Novecento. È un libro fantastico che senza aver letto la biografia dell’autore non può essere compreso nei dettagli della sua complessità. È la storia della famiglia Buendìa, sei generazioni narrate in un arco temporale di cent’anni in un paese di nome Macondo, fantastico e irreale, immerso nella foresta colombiana. Scorrendo le pagine ci s’immerge in un mondo nel quale vi è di tutto: animali, colori, fantasmi che lanciano imprecazioni o presagi, piante leguminacee, amori e guerra, manoscritti, lingue dialettali amazzoniche ed altro ancora. Passo dopo passo è vera emozione incontrare i vari personaggi sin dai capostipiti fondatori. È proprio Josè Arcadio Buendìa che, sposatosi con Ursula Iguaràn, dà inconsapevolmente inizio ad un vortice di eventi destinati a ripetersi nel corso del tempo. Scaturisce così una ripetizione di vicende e avvenimenti che oltre ad essere la caratteristica principale di quest’opera, la circolarità del tempo che, lungi dallo scorrere in maniera lineare seguendo un ordine cronologico, infonde al lettore una sensazione di labirintica prigionia e arrendevolezza di fronte all’imprevedibile succedersi degli eventi, altro non è che un’allegoria della storia dell’umanità, arricchita da suggestioni bibliche. Se da una parte, è possibile riscontrare degli elementi ricorrenti in tutto il racconto, dall’altra vi è una innumerevole quantità di eventi totalmente inaspettati e inverosimili. È il cosiddetto “realismo magico”, consacrato così per il perpetuo intreccio tra realtà e finzione, grazie al quale le apparizioni dei fantasmi, l’ascesa al cielo miracolosa di un membro della famiglia, un diluvio ininterrotto di quattro anni (sento ancora la pioggia cadermi vicino in quest'estate particolare) e altri numerosissimi fenomeni soprannaturali, si integrano perfettamente con la quotidianità della realtà famigliare. Tra un evento fantasioso e uno reale, sullo sfondo cangiante di guerre devastatrici, momenti di pacifica stabilità e calamità naturali che affliggono Macondo, l’autore Gabriel García Márquez descrive la vita, la personalità e le sfortunate vicende di personaggi che si ritrovano imprigionati in una solitudine profonda e inesorabile. Macondo strabilia e conquista, i suoi personaggi lasciano ciascuno un segno indelebile e Márquez disfa e ricompone i suoi protagonisti nel susseguirsi delle generazioni, nate da una coppia che teme una discendenza con la coda da porcellino, creandone una altrettanto assurda! Non è un libro semplice, richiede attenzione e impegno. Sembra dirci che la solitudine è la condizione dell’uomo: un uomo che combatte, si agita per non arrivare da nessuna parte, per ritrovarsi sempre nello stesso punto. Il tempo si ripete, i fatti si ripetono sviluppando interminabili cicli uguali a se stessi in cui oppressione e desolazione, nonché solitudine sono i sentimenti più comuni. Sembra contenere cento storie diverse, accumunate dal sangue e dal filo conduttore: la solitudine e i presagi. Occorre disegnare l'albero genealogico della famiglia Buendìa per non perdere il filo. La velocità della narrazione, l’inconfondibile stile semplice e fantastico allo stesso tempo, l’indiscussa originalità della trama e la misteriosa profondità con la quale è tratteggiato il profilo di ogni singolo personaggio rendono l’opera tra i migliori componimenti letterari del Novecento.
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LA SMARGINATURA
In uno scenario di un ambiente naturale deteriorato di un quartiere napoletano del secondo dopoguerra e in una Torino plumbea e dissacrante, si svolgono le vicende di due amiche Lila e Lenù, quest’ultima io narrante dell’intera storia.
Attraverso i percorsi paralleli di crescita e di amicizia dei due protagonisti si descrivono i cambiamenti politici e sociologici di un’Italia alle prese del boom economico e dell’effimero e poco duraturo benessere economico. Lenù investe tutte le sue qualità, i suoi sacrifici, le proprie ansie e aspirazioni nello studio, cercando d’essere una ragazza modello, mentre Lila abbandona gli studi e fa l’apprendista nel negozio del padre ciabattino.
Quest’ultima, nel corso degli anni, grazie al suo forte carattere e alle decisioni ragionate, fa un buon matrimonio ribellandosi a una condizione che non le era consona. Al contrario, Lenù si afferma negli studi forse anche per un carattere che mostra grande riservatezza e poca comunicativa, timido e idealista.
È, quindi, la storia di due persone legate da un filo sottile e impalpabile, un filo d’Arianna, con alti e bassi, tradimenti e conflitti che condizionano continuamente Lila e Lenù in un percorso travagliato e provocatorio, una grande amicizia basata su un gioco continuo di scambio e rovesciamento.
È uno stile schietto, reale, con personaggi spontanei, l’autrice descrive con naturalezza le botteghe napoletane e le atmosfere dei quartieri con i loro profumi e povertà, la vivacità tipica della gente che la contraddistingue e il loro linguaggio.
Ancora una volta, però, la realtà, a poco a poco, mostra le sue fratture e le sue falle, perde di solidità e significato, i suoi contorni sfumano: è la "smarginatura", il varco misterioso verso un altro mondo.
La Ferrante ci coglie alla sprovvista, ci disorienta, ci sorprende e confonde senza mai nascondere, racconta personaggi che nessuna forma può contenere, profili psicologici e descrittivi che prima o poi si possono spezzare un’altra volta, con un'ansia particolare, quasi un'urgenza di tirare fuori, spiegare, che dà a queste pagine una piacevolezza di lettura inaspettata.
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IL SENSO DELLA VITA
Bel libro, breve ed intenso, che all'inizio ammalia il lettore, mentre nel proseguio s'intravede uno stile asciutto, scarno ed essenziale, ci si porta fuori dalla Sardegna per una Torino un po' sbiadita. Vengono descritte atmosfere di una antica ed unica terra, la Sardegna, in cui sembra si ritrovino i profumi delle campagne dopo il tramonto, i costumi della gente nella quotidianità, il linguaggio della popolazione che parla ancora il latino e che di questa lingua ne ha conservato gran retaggio. Molte le chiavi di lettura per una storia, originale e cruda, che fa meditare sull'essenza della vita, l’appartenenza al territorio, l’istruzione e il significato del lutto, che tocca con garbo argomenti delicati come quelli dell’adozione e dell’eutanasia: temi, questi ultimi, che pongono frequenti domande e molteplici risposte.
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Una donna infelice
Con una trama veloce e scorrevole, il possente “Storia del nuovo cognome” di Elena Ferrante ci ripropone il secondo volume di una trilogia iniziata con "L'amica geniale", in un affresco intrigante, a tratti scabroso, Lila, personaggio femminile narrato, però, dall’io narrante Lenuccia. Nitide, precise e ben determinate descrizioni psicologiche dei personaggi, tratti facilmente intellegibili e resi tangibili da uno stile sobrio, mai volgare, prendono spunto dalla consegna dei diari di Lila a Lenuccia: qui vi si riportano le vicende dell’ingegnosa, scalognata e infelice ragazza che gliene capitano di tutti i colori! Le sue nozze precoci all’età di sedici anni, le infedeltà coniugali di entrambi i partners, le violenze ricevute e le rivalse, l’illusorietà di una ricchezza raggiunta col matrimonio e la successiva stringatezza, un figlio concepito con persona diversa da marito, nuovi rapporti sentimentali, tutte queste storie sono la realtà propria e immutabile delle cose, l’essenza e la sostanza dei diari in una storia che narra con delicata perfezione le gesta di Lila.
È, in definitiva, un'esposizione ordinata, originale, ottimamente strutturata ed avvincente, un potente ritorno alla letteratura, quella buona, che rimane nella storia e, soprattutto, nella mente del lettore.
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Tutti sono uguali...
La fattoria degli animali è una favola morale che narra come le bestie, vessate, schiavizzate, massacrate dall'uomo, decidano finalmente di ribellarsi e scaccino il padrone e la sua famiglia, proclamando l'inizio di una nuova era senza sopraffazioni, violenze, ingiustizie. Un regime collettivistico nel quale ognuno darà secondo le sue capacità e al quale sarà dato secondo i suoi bisogni. La rivoluzione e il nuovo sistema di vita vedono tuttavia, sin dall'inizio, profilarsi l'egemonia dei maiali e, in particolare, conducono all'emergere di due personalità antagoniste: a Palla di Neve (alias Trotzkji?), intellettuale, comunicativo, sinceramente rivoluzionario, si contrappone il mistificatore ed autoritario Napoleon (alias Stalin) che, con i suoi metodi più aberranti (menzogna, ladrocinio, furto, delitto ...), trasforma quel tentativo di riconquista della libertà e fondazione di un nuovo ordine di cose in un regime totalitario ed ingiusto, non diverso da quello precedente, governato dalla razza umana. La tragica parabola dell'esperienza rivoluzionaria della fattoria degli animali si conclude proprio con l'immagine grottesca e spaventosa insieme di una "riconciliazione" alla pari di uomini e maiali, due razze egualmente padrone, la più antica e la più recente. Tale appare agli occhi degli animali nuovamente assoggettati la scena che essi osservano dalle finestre della casa colonica, ancora una volta esclusi, sgomenti, soli. Napoleone e Palla di Neve sono le parole che lasciano al mondo la disuguaglianza come virtù della propria specie, come omaggio a quello che la morte quotidianamente cerca di farci scoprire attraverso le nostre azioni diurne. Inquietante. Sarcastico. Amaro e purtroppo molto realistico nella sua fantasiosa creatività. I maiali che si "umanizzano" sono il simbolo grottesco di un potere che da sempre si sveste di qualsiasi dignità. Allegorico e tagliente fa riflettere su come anche nel mondo reale tutti sono uguali...ma alcuni sono più uguali di altri.
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Percorsi di vita
E' proprio vero che i grandi scrittori si riconoscono non tanto per l'originalità della materia che raccontano, ma per il modo in cui sanno raccontare il quotidiano. Cosa c'è di più banale di una ragazza di belle speranze che incappa in un matrimonio sbagliato? Eppure James sa rendere tutto questo in maniera inimitabile, con una capacità di analisi e introspezione impareggiabili.C'è un insieme di potenzialità inespresse in Isabel, pronte ad esplodere, pronte a vivere e giovinezza, brillantezza, poi anche ricchezza economica per scavalcare il grande ostacolo del denaro.
Eppure, in una miriade di possibilità, le sue scelte la inducono dentro una gabbia, sotto la tutela di un uomo in fondo mediocre, quasi che non fosse stata capace di usare la sua libertà, quasi come se questa libertà ne avesse confuso l'animo, intimorito lo spirito. Isabel è proprio una donna moderna e nella sua modernità risiede anche la sua angoscia, la sua difficoltà a viversi e a riconoscersi, il suo inconscio rifiuto di autonomia. La vicenda umana di Isabel, toccante, coinvolgente, perfettamente risolta nella finezza delle introspezioni psicologiche jamesiane, non è semplicemente la storia di una disillusione femminile, il passaggio da uno stato di creduta libertà al triste e terribile riconoscere di non essere stata più che “un arnese appeso impiegato e maneggiato, inanimato e utile quanto una pura sagoma di legno e di ferro”. La storia di Isabel è molto di più, è la storia di un percorso umano, che ha come protagonista una “lady” e quindi un individuo maggiormente esposto alla soggezione e alla dipendenza. E allora la storia di Isabel non è soltanto la storia di un’agognata e non raggiunta libertá, ma soprattutto il cammino verso la maturitá e quindi verso una nuova vita e una nuova consapevolezza.
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"...La storia di umana fragilità e sofferenza"...
La storia di Hester Prynne, l'adultera cui è stata inflitta la condanna di portare sul petto il simbolo infamante del suo peccato, ha una precisa collocazione di tempo e di luogo: il meccanismo del dramma è strettamente legato al clima di rigido puritanesimo in cui era immersa la società della Nuova Inghilterra nella seconda metà del Seicento. Nonostante lo stretto rapporto di causa-effetto tra la situazione socioculturale della Boston seicentesca e i fatti narrati, il romanzo non è datato: non ha niente del romanzo storico. Questo perché soltanto in una certa epoca dominata da rigidi tabù e da fosche superstizioni, la fragilità e la sofferenza sono dell'uomo da sempre; e da sempre, come accade da Hester, ad esse sono legate la miseria e a un tempo la grandezza dell'animo umano. La fragilità fa cadere Hester: ma la sofferenza la matura e l'arricchisce. Isolata a causa del marchio che porta, "in una sfera a sé stante", la peccatrice è tagliata fuori da quello che si autodefinisce il consorzio civile; ma questa questa stessa condizione di segregata le permette anche di staccarsi da tutto ciò che di meschino, futile e artefatto c'è nei consueti rapporti umani. Così, mentre la isola, l'infamante A scarlatta costituisce anche una protezione, un rifugio per Hester; e la sua solitudine, non subita come una condanna ma vissuta come una prova, le permette di arrivare alla conoscenza di quelle segrete radici del cuore che resteranno sempre ignote ai suoi giudici, paghi di constatare soltanto i fatti e di condannare in base ad essi. Questo non è che uno dei temi in cui la Hawthorne si serve nel suo percorso letterario. L'importante è il risultato, è la realtà umana che riesce a mettere a nudo: poche volte il senso della colpa e il cupo peso ch'esso fa gravare sull'anima sono stati analizzati con la dolente spietatezza di cui Hawthorne dà prova nel descrivere i tormenti di Hester e del reverendo Dimmesdale. Stesso discorso si può fare a proposito del tema della vendetta e dello strano, feroce legame persecutore-vittima che si stabilisce tra lo spietato dottor Chillingworth e il tormentato Dimmesdale: siamo qui di fronte a pagine per le quali un valido termine di paragone può esser trovato, forse, in quelle di Dostoevskij.
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IL SENSO ESTETICO
Narrazione ridondante e solenne, ricercata sin nei minimi particolari, D'Annunzio in quest’opera ci fa percepire sin dall'inizio l'idea di una fine: lenta, impalpabile, inavvertibile. Sin da subito ci si immerge nelle descrizioni di una Roma aristocratica di fine '800, un mondo chiuso in sé stesso, arrogante, tronfio dei propri trascorsi e delle sue glorie, privo di valori concreti e destinato al proprio abbattimento e alla propria devastazione, un'autodistruzione annunciata. Andrea Sperelli, il protagonista della storia, rievoca un perfetto dandy, un Dorian Gray, l'esteta dedito al culto di ogni forma di bellezza e vanità, i suoi modi rispecchiano la leggerezza del carattere, porta a trattare le cose serie con frivolezza e le cose frivole con più serietà di quelle che non meritino, di immane vuotezza interiore, ostenta un’alta opinione di sé stesso, dei propri meriti e delle proprie doti fisiche e amorose: è il perfetto modello del nobile decadente!
Con stile enfatico, solenne, dignitoso e ricercato, l'autore rappresenta le azioni, gli oggetti, le sensazioni provate dal protagonista come dettagli non secondari di un’esistenza in uno sforzo particolarmente intenso verso la perfezione, vissuta nell’incessante tentativo di appagare ogni desiderio e qualsivoglia piacere. Anche il linguaggio scritto sembra cessare la semplice funzione di mezzo comunicativo e diventa elemento integrante di questa ricerca estetica. Le descrizioni dei luoghi, della natura, dei colori e dei profumi, su cui D'Annunzio si sofferma puntualmente, ne sono la prova più evidente, così come le numerose e travagliate vicende amorose di Sperelli, lontane dall'essere guidate da reali sentimenti, offrono la visione di un'esistenza vacua, condotta al solo scopo di soddisfare i sensi, e saranno per il giovane la vera causa dello sgretolarsi di ogni sogno.
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MEMORIE D'INFANZIA
E' un libro che ho letto più volte e le emozioni provate la prima volta si sono rinnovate con la rilettura. La storia si articola tra i ricordi infantili dell'autrice, con figure ed aspetti ben delineati che si staccano, a volte, dal racconto e i ritratti dettagliati della città, manifestazioni esteriori che suscitano sensazioni di soavità, di grazia, di condizioni spirituali felici o desiderabili, sembra quasi di partecipare ed esservi dentro. Mi è piaciuto il raccontare delle proprie radici, attraverso immagini, persone e particolari di ville e palazzi antichi allo sfascio e di una Bagheria distrutta.
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AMARA STORIA
Azione che si svolge a Budapest nel 1930 per circa quarant'anni, tempi difficili per le tre famiglie che abitano la via Katalin: quelle dei Bíró, degli Held e degli Elekes che vengono sopraffatte dagli eventi storici. Viene raccontato l'amore, contrastato dagli eventi, di quattro ragazzini amici inseparabili, dai sentimenti profondi e veri. Romanzo corale e drammatico fa scaturire nel lettore sentimenti ingenui e allo stesso tempo dissacranti, interconnessioni pubbliche e private, con grande sensibilità si è portati alla crudeltà di un destino che la storia fa suo.
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EROISMO E DRAMMATICITA'
Questo romanzo rimane uno dei capolavori della narrativa contemporanea, non certamente per la sua ideologia, ma per la drammaticità della narrazione condotta quasi totalmente sul filo del dialogo vivace e ricco di carica umana. L'uso del dialetto romanesco popolare di borgata non è soltanto oggetto di ricerca filologica e stilistica, bensì necessità realistica di adeguare il dialogato all'azione dei personaggi e del romanzo: avventure, furti, coltellate, parolacce, amore e sventure costituiscono un magma unico col linguaggio romanesco in uno svolgimento drammatico che si risolve nella morte eroica del personaggio principale, a cui si subordinano tutte le vicende del romanzo.
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PIACEVOLI SENSAZIONI
Anni Venti, in una Barcellona dalle atmosfere rese dalla nebbia invernale misteriose e cupe, il protagonista David cammina per la strada assorto nei suoi pensieri: è afflitto, angosciato ed insicuro. Ha comunque un grande sogno quello di diventare uno scrittore. Comincia la sua esperienza in un piccolo giornale occupondosi dapprima della contabilità. Per un intreccio strano di eventi e di connessioni gli si offre la possibilità della pubblicazione di un racconto sui Misteri di Barcellona. Conferma il suo talento anche con successive novelle e un editore francese gli commissiona un'opera intrigante, di grande caratura, pregevole nei contenuti straordinaria nelle azioni, che potesse essere irriverente e blasfema, in modo che provochi reazioni fuori da ogni controllo. Questo turbinio di motivazioni porterà lo scrittore a mettere a repentaglio la propria vita e quelle dell'amata Cristina e della dolcissima sua collaboratrice Isabella ...
Libro di ampio respiro ben strutturato e curato nei particolari conferma il successo del precedente libro, contrapponendo i temi del bene e del male esposti dai grandi autori ottocenteschi di cui Zafon con grande piacere cita.
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Sui possibili cambiamenti
Si ripercorrono le vicende di una famiglia ebrea facoltosa in uno scenario di guerra tra Palestinesi e Israeliani. Descrizioni accurate dei protagonisti e narrazione in prima persona puntualizzano e caratterizzano la pessima comunicazione tra gente di diversa estrazione sociale e cultura. Si evidenziano, in modo gentile, circostanziato e piacevole, gli ostacoli che la vita pone in essere durante il percorso umano e le resistenze che si incontrano per la manifestazione dei propri pensieri.
La novella che narra l'autore ha struttura a più voci, introspettivo ed intimista lo stile: un piccolo imprenditore e i pensieri della moglie divenuta prigioniera della routine familiare, una figlia esuberante, inquieta, insonne e spontanea, gli amori della ragazza, forse la parte più poetica, le delusioni e i dolori. In modo continuo l'autore indaga nei suoi personaggi mettendone in risalto le caratteristiche psicologiche, i sogni, le attese e le speranze senza trascurare la concezione esistenzialistica della quotidianità come fattore di spersonalizzazione dell’individuo, un mondo che a prima vista ha parvenza di lontananza, ma che si rileva alla fine molto più vicino. Tutte queste voci, poco distanti ma così diverse, contraddistinguono la condizione in cui i vari personaggi si trovano nel non poter fare intima conoscenza nelle persone più care a causa dell'incomunicabilità e delle solitudini nei rapporti umani.
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I NOSTRI ANTENATI
Questa trilogia coniuga alla perfezione la fantasia alla fiaba, la logica narrativa del possibile e verosimile all'impossibile: il primo racconto "Il visconte dimezzato" fa suoi questi temi che saranno sviluppati in opere successive. Il visconte Medardo di Terralba durante la guerra tra Austria e Turchia è diviso in due da una palla di cannone. Due distinti personaggi, il Gramo e il Buono, derivano da questo personaggio. L'uno si dedica sistematicamente al male, l'altro al bene. Alla fine gli opposti torneranno a riunirsi grazie a un miracoloso intervento chirurgico ed ai sotterfugi dell'astuta Pamela che si era promessa in sposa ad entrambi. Il secondo racconto, "il barone rampante", è incredibile e si muoverà per linee orizzontali, occupando però una posizione "sopraelevata". Qui il rifiuto delle regole preconcette, il discostarsi da ciò che è considerato la normalità emerge con ironia e semplicità. Il motivo del doppio tanto caro alla narrativa otto-novecentesca è in Calvino appariscente, egli struttura il racconto ispirandosi soprattutto a Stevenson ed alla narrativa settecentesca di Rudolph Raspe col suo barone di Munchhausen. Fuga, accettazione delle diversità e disobbedienze sono significative perché diventano disciplina morale più difficile e rigorosa di quella a cui ci si ribella. Vi si può leggere anche una metaforica raffigurazione dei compiti dell'intellettuale, che ottiene una lungimirante consapevolezza solo staccandosi dai pregiudizi della società, con il conseguimento di un punto di vista più chiaro, libero e indipendente: disubbidire al padre significa anche, allora, rifiutare il principio di autorità. Nel terzo ed ultimo romanzo di questa trilogia, "il cavaliere inesistente", il personaggio principale viene svuotato e lo si riduce a un puro involucro esteriore: un'armatura di metallo, che costituisce l'unica corporeità di Aginulfo dei Guildinverni, un essere invisibile che sente, pensa ed agisce. Qui Calvino si confronta con i meccanismi delle strutture narrative, mettendole in moto anche al di là della consistenza del personaggio. Aginulfo potrebbe essere il fantasma dei nostri sogni e desideri, delle nostre speranze, ma anche l'emblema del vuoto che c'è dentro di noi, dei rischi - per l'uomo - di ridursi a un essere meccanico. Ma si può vedere anche la difficoltà di conciliare l'astratta razionalità con la dimensione concreta dell'esistenza: il progetto è destinato alla sconfitta, quando venga meno la forza di volontà; così Aginulfo si ucciderà ai piedi di una quercia, dissolvendosi .
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AMAREZZA UMANA
Stati Uniti, California, periodo della Grande Depressione: è lo scenario dove si dà grande rilievo all'intrinseca bellezza ed al fascino di due braccianti stagionali, George e Lennie. Collocati in una azienda agricola dove proprietari e coloni rimangono indistinti, dove pervade un senso di solitudine, il lavoro procede con tenacia e fatica da questi manovali terrieri che a stento dominano le loro forze. E' il caso di Lennie, un grosso omone ritardato mentalmente che non sa contenere le proprie capacità: a fatica il suo amico cerca di controllarlo nei suoi scatti inavvertiti di furia omicida, anche se di piccoli animaletti. I due hanno un sogno - ma chi non li possiede - quello di racimolare un po' di denaro per acquistare una porzione di terreno e costruire una casa tutta per loro. Si vive con patimento e piccoli atti banali si trasformano in dolore e sofferenza: Lennie, ancora una volta, non contolla la sua forza e spezza il collo alla moglie del proprietario del ranch; da questo episodio scaturisce una caccia all'uomo con la prevedibile tragedia. A questo punto George è incapace di proteggere l'amico ed una profonda solitudine incombe in tutti i personaggi: cadono tabù e incertezze in un finale, molto bello e riuscito, dove amore, libertà e semplicità s'intrecciano in un'unione che solo Steinbeck sa fondere in un avvolgente e dissacrante drammatico finale.
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SFACCETTATURE
In questo strabiliante componimento, Thomas Mann raffigura un soggetto, tale Hans Castorp, che si trova segregato in una casa di cura e prende parte attiva alle discussioni e alle dispute su concezioni filosofiche, letterarie, ecc. ecc., che percorreranno tutta la prima parte della metà del Novecento, tra estremisti radicali e moderati/conservatori. Il tutto per la rappresentazione dell'uomo problematico, tema comune della letteratura mondiale, con valori esaustivi e personaggi scomposti in livelli multipli.
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ILLUSIONI
Felice sperimentazione di una tendenza abituale a comportarsi con naturale franchezza e immediatezza, senza finzioni e senza falsi ritegni, da parte dell'autore, di rappresentare, esaminare con gran cura e attenzione, studiare a fondo, con audacia e decisione, un sentimento non ricambiato. Sentimento, quest'ultimo, spogliato nella sincerità, nell'innocenza, nel candore d’animo, nella semplicità, nelle debolezze del protagonista in un amore non contraccambiato e respinto più volte con scaltrezza e spudoratezza. L'azione si svolge in una Milano, bigia e cupa, tra donne da marciapiede e clienti portati in case d'appuntamento a conoscere lo squallore delle ragazze infelici. Tra queste, un'avvenente ballerina colpisce Antonio che ne rimane innamorato pian piano. E' un rapporto che più va avanti più si lacera in quanto da parte della donna non va oltre il rapporto carnale. La narrazione a volte lenta altre volte ritmica in funzione dell'effetto desiderato dà, ai varî sensi dell’uomo, un’impressione di gradevole di finezza e leggerezza; fanno da contorno descrizioni naturalistiche che rafforzano il canto di un'amore impossibile perché sostenuto dal sogno di un'illusione.
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SURREALE
Gregor Samsa, commesso viaggiatore, in una notte terrificante, d'un tratto, si riscuote da un tremendo stato di forte torpore e si ritrova tramutato in uno scarafaggio. In un primo tempo pensa ad un orribile incubo, ad un'illusione procurata da un brutto sogno, successivamente percepisce l'amara verità. Le conseguenze sono devastanti e traumatiche, il racconto che ne fa orripilante.
Questo il prologo: Samsa fa tardi in ufficio a causa di questa trasformazione, è cercato dai suoi e dal suo datore di lavoro, sino a quando la madre scopre l'orrenda verità e cade svenuta, i suoi pensano che la loro vita cambierà perché dipendono esclusivamente dal suo salario.
K. ha un'interpretazione della realtà del mondo tutta sua, rappresenta l'inverosimile, l'inspiegabile, tratta un aspetto della realtà con valori esaustivi, i suoi personaggi sono scomposti in livelli multipli, campioni primordiali dell'uomo problematico caratteristica comune a molti nella letteratura del primo Novecento.
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La memoria
Romanzo disarticolato, incentrato in manifestazioni lacunose ed incomplete in un passato indecifrabile temporalmente. Una persona anziana assurge a narratore in bilico su una sedia a dondolo nella propria casa teatro e luogo delle visite dei suoi protagonisti: aspetta con serenità la fine dei suoi giorni. Bella la descrizione della casa squallida e priva di tutto, il maltempo sembra la faccia scricchiolare, crollare a poco a poco. In questo sperduto casolare l'io narrante ricorda i tempi passati, la propria infanzia esile ed abulica, fatta di storie allora confuse ed ora nitide, analizzate con gli occhi della vecchiaia, riflessioni sovrapposte e rimbombanti in una camera vuota ...
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La solitudine dell'uomo moderno
«Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà».
Queste sono le parole usate da Dino, protagonista de La noia, per dare sfogo ad una visione esistenziale propria, sottomessa alle sfaccettature della particolarità di un carattere strano, il suo. Si viene, così, facilmente catapultati nel mondo fatto prosa, in un'opera assai incisiva all’interno del mare magnum della produzione moraviana. Pubblicato nel 1960, La noia ottenne lo stesso successo de Gli indifferenti e de La romana, vincendo, nel 1961, il meritato Premio Viareggio.
Non è difficile decifrare la personalità di Dino, il quale, narrando di sé nelle pagine del prologo, conduce senza deviazioni ai personaggi di Svevo, alienati dalla società e incapaci di vivere serenamente. I termini scelti per ritrarre con parole lineamenti e fattezze proprie, nel protagonista rivelano una certa, inequivocabile frustrazione: «Io non sono bello essendo precocemente calvo, con un volto per lo più fosco e grigio». E grigia e fosca, evidentemente, appare dall’inizio anche la sua vita.
Dino, così come egli stesso racconta, inizia a patire la noia già da bambino, risultando, per questo motivo, insulso e lento anche negli studi. Per la stessa, insostenibile causa, complesso è per lui anche divertirsi, leggere un libro. Ormai adulto, divenuto pittore, dichiara di sentirsi soffocare ancor più che in passato. Respira a fatica, vinto da un'oppressione infinitamente rotante: «Avevo sperato, come ho già detto, che la pittura avesse debellato la noia; ma mi accorsi quasi subito che non era così. Ripresi, dunque, a soffrire di noia nonostante la pittura; anzi, poiché la noia interrompeva automaticamente la pittura, mi resi conto della intensità e frequenza del mio vecchio male con maggiore precisione di quando non dipingevo».
Dino è invaso da un’originaria ossessione che gli mostra la noia come logica conseguenza dell' essere ricco. Ed è proprio della ricchezza che egli prova a liberarsi con spasimante fremito, quasi in un atteggiamento di convulsa nevrosi. Si rende poi conto dell' impotenza ad attuare il mutamento: «non si poteva rinunciare alla propria ricchezza; essere ricchi era come avere gli occhi azzurri o il naso aquilino». Ogni pretesto e molte occasioni per Dino sono utili mezzi lungo la scia della premeditata fuga da una sgradita inclinatura sociale. Riesce a concepire un'idea che gli appare risolutiva: allontanarsi dalla madre che nell’ostentazione del benessere sguazza senza rimorsi. E la figura materna, trasportata anche qui, è ricorrente presenza nell'opera di Moravia. L'autore disegna il personaggio usando forti impressioni della mano e ricalcando. Quando scorgiamo Dino, affettivamente legato alla genitrice, ma ideologicamente assai lontano da essa, sembra di incontrare ancora una volta Desideria, la protagonista de La vita interiore, la giovane che, in uno stralcio del romanzo, regala alcune monete, ricevute in dono dalla madre adottiva, ad una domestica che le rifiuterà. Per disfarsi materialmente di un oggetto sgradito, nel simbolismo atattile di una condizione invivibile: questo il più sensato commento all' atteggiamento dei due.
I personaggi de La noia vivono in una Roma di cui lo scrittore parla dando per scontati nomi e caratteristiche di strade e vie. Dopo aver vissuto nella casa d’origine sulla via Appia, Dino si trasferisce in un piccolo studio in via Margutta, teatro di gran parte della vicenda amorosa con Cecilia, altro personaggio cardine della vicenda. Imponente presenza è anche quella di Balestrieri, anziano pittore amante delle donne, del quale Dino ricalcherà la sorte, identificandosi fatalmente con esso e in modo imprescindibile dal suo libero arbitrio: «Era stato una specie di pazzo Balestrieri; ma un pazzo la cui pazzia consisteva nell’illusione di avere un rapporto con la realtà, ossia di essere savio, come testimoniavano le sue tele; mentre io, non potei fare a meno di dirmi, ero forse un savio la cui saggezza, però, consisteva nella profonda convinzione che un simile rapporto fosse impossibile, ossia un savio che si credeva pazzo».
Lasciando che il lettore entri a contatto con l’immagine del protagonista lentamente, così come "al rallentatore" pare essere la stessa vita di Dino, Moravia giunge a mostrare sensibilmente Cecilia, modella ed ex amante di Balestrieri, la quale somiglia vagamente, nella perversione dei sensi, alla Lolita di Nabokov: «Ho concluso che Cecilia non aveva sentimento e, forse, neppure vera sensualità, ma soltanto un’appetito del sesso di cui lei stessa non era del tutto consapevole pur subendone passivamente l’urgenza», dice Dino.
Egli la descrive più volte, non tralascia nulla del fisico di lei. La scruta, la studia, la definisce con maniacale precisione di tratti: «adolescente dalla vita in su, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po’ l’idea di quei mostri decorativi che sono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti».
Il carattere ambiguo di Cecilia è ciò su cui Dino s’impunta testardamente, forse non spiegandone mai fino in fondo la natura: «Anche quando le avveniva di dare una risposta esatta, mi lasciava egualmente nel dubbio con il suo linguaggio freddo, generico e scolorito che sembrava essere il frutto di una disattenzione invincibile».
Tutto tra i due amanti sembra ridursi al solo sesso, all'intreccio di corpi dissimili: affiora il simboleggiare dell'eros come sfacciato contatto con la realtà, congiunzione che il senso di noia pare strappare incessantemente; la regolarità abitudinaria e prevedibile delle visite e delle telefonate di Cecilia fa sì che Dino si accovacci su un sentimento che pare morto, una sensazione di nulla e non certo di amore, di passione scaduta. Nell'uomo campeggia un costante pensiero: liberarsi dell'inutilità del rapporto con la giovane donna e di lei stessa. Questo fin quando Cecilia, trovato un altro uomo cui mostrarsi, gradualmente lascia a Dino un'assenza, disertando i soliti, scabrosi appuntamenti. La storia prende, di colpo, una piega inaspettata: Dino, pazzo di gelosia, si risolve a spiare Cecilia e il suo nuovo uomo usando l'arte tecnicamente voyeuristica di un detective e la disperazione matta di un innamorato. La scena attraverso cui lo osserviamo, seduto in un bar a studiare meschinamente movimenti e mosse dei due amanti, incarna il sentimento della gelosia meglio di qualunque definizione da vocabolario. Pregnante è anche il momento in cui il protagonista, raggiunto dalla follia, stringe le mani intorno al collo della ragazza: vorrebbe soffocarla e ucciderla, vorrebbe che la morte la rendesse definitivamente ed esclusivamente sua.
È il denaro a contaminare di noia l’infanzia, la giovinezza e l’intera esperienza esistenziale di Dino, come già si è detto; ed è col denaro che Dino, in un istante del suo agire isterico, ricopre interamente il corpo di Cecilia, compiendo un atto di certa allegoria.
Ne La noia Moravia scrive anche della figura paterna, ma il suo è solo un breve cenno: con il pretesto della «dromomania», che la madre di Dino propone per giustificare l’abbandono da parte del marito, lo scrittore si sbarazza in fretta del personaggio; anche il padre di Cecilia compare, ma è reso impotente e muto: «Il padre di Cecilia si alzò a fatica dalla poltrona in cui stava seduto ad ascoltare la radio e mi tese la mano senza parlare, indicando nello stesso tempo la propria gola , come per avvertirmi che , a causa della malattia, era afono», spiega Dino.
L’appartamento in cui la giovane vive con i genitori è raffigurato nei minimi particolari ed entrarvi è sconcertante, tanto per Dino, quanto per il lettore: «la decadenza della casa si rivelava non tanto nell’aspetto logoro dell’arredamento, quanto in alcuni particolari quasi incredibili che parevano indicare una trascurataggine antica e ingiustificata». La stanza di Cecilia è vuota e fredda: un letto di ferro, un armadio di legno grezzo e due sedie ne sono il solo ornamento. Un bravissimo Moravia, fotografo senza scatti, se non quelli della sua stessa mano sulla macchina da scrivere.
Al culmine della vicenda e verso le pagine finali del romanzo, Dino tenta il suicidio, ma il suo proposito di morire è tanto finto quanto il proposito di Michele di uccidere Leo ne Gli indifferenti. Dino, ancora vivo, si sveglia in una stanza d’ospedale. Osserva un cedro del Libano piantato oltre l'opaco vetro della sua finestra e capisce, in quell'istante, di avere — forse — imparato ad amare Cecilia.
Si riporta, infine, come chicca, ciò che Pier Paolo Pasolini rispose il 18 marzo 1961 ad un suo lettore:
"Il testo esprime la solitudine dell'uomo moderno o, più precisamente la antiumana condizione dell'uomo nell'odierna società. ... È, quindi, libro attuale scritta dall'autore indirettamente: Dino, il protagonista, è l' stesso che racconta: eppure, malgrato questa soggettività narrativa, l'opera è estremamente oggettiva, cosciente. Il personaggio non è che un'espediente, usato per esprimere uno stato d'angoscia ben chiaro, storicizzato, razionale nell'autore, e ridonato alla sua vaghezza, che è poi concretezza poetica, nel personaggio. ... L'opera esprime l'angoscia del borghese moderno ... Moravia lo sa benissimo: e lo sa anche il suo personaggio, Dino, il quale vive ed opera a un livello culturale inferiore solo di un gradino a quello di Moravia. Per tutto il romanzo, dunque, non si fa altro che discutere, analizzare, definire l'angoscia (nel romanzo chiamata ). Essa deriva da un complesso nato nel ragazzo borghese ricco: il quale complesso comporta una deprimente impossibilità di rapporti normali col mondo: la nevrosi, l'angoscia. L'unico modo per sfuggire è abbandonarsi all'eros: ma anche l'eros si rileva niente altro che meccanismo e ossessione. Questo è quello che sa il personaggio. Moravia ....sa che la psicologia non è solo psicologia: ma anche sociologia. Sa che quel di cui si diceva, se è un fatto strettamente personale, è anche un fatto sociale, derivante da un errato rapporto, cioè, tra ricco e povero, tra intellettuale e operaio, tra raffinato e incolto, tra moralista e semplice. In altre parole, Moravia conosce Marx, il suo protagonista no. Ecco perché il tanto discettare che fa il suo protagonista sul suo male, gira un po' a vuotoed ha un valore puramente mimetico e lirico. Manca alla soluzione quella parola che Moravia conosce e il suo protagonista no. La noia è un romanzo splendido, la cui ultima pagina doveva essere una tragedia, e non una sospensione, Moravia doveva aver la forza di non dare alcuna specie di speranza al suo protagonista: perché quello del protagonista è un male incurabile. Non ci sono terze forze, né ideali di sincretismo umanistico capaci di liberarlo. ... (n. 11 a. XVI, 18 marzo 1961)
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Emozioni in cucina
La lettura, in genere, è tra le poche cose che possono soffocare le sensazioni esterne: emoziona, delizia, annoia, tormenta. Questa è, invece, una storia singolare, almeno per la nostra cultura occidentale, che rispecchia molteplici modi d’essere e d’intendere la vita, attraverso gli occhi di una ragazza triste. L’ambientazione giapponese offre uno spaccato di società orientale in cui la protagonista Mikage, restata priva di tutta la sua famiglia, si rifugia in un luogo, la cucina, a lei molto caro, accogliente e sicuro, per meditare e raccogliere tutti i suoi pensieri. Per alleviare la solitudine della protagonista, un amico, Yuichi le offre la possibilità di trasferirsi presso casa sua. Mikage accetta e trova conforto soprattutto nella mamma dell’amico, Eriko, in realtà persona ambigua, che le ridarà, con i suoi modi affabili ed i suoi discorsi, la gioia di vivere accogliendola come una persona di famiglia e facendole nuovamente tornare il sorriso. Pare che tutto vada per il meglio per Mikage, sino a quando i meccanismi vitali s’interrompono: lei ricade nuovamente in quella solitudine che non l’aveva mai abbandonata. Il rapporto poco chiaro con l’amico e il forte carattere della ragazza che ha subito la perdita degli affetti familiari, sono le tematiche principali del romanzo che vengono narrate affrontando con serenità valori e sentimenti di amicizia, amore, omosessualità, solitudine e tristezza con uno stile schietto, semplice, profondo, intenso e commovente allo stesso tempo dalla Yoshimoto la quale ci presenta una donna che con una grande forza e coraggio affronta varie vicende rifugiandosi in tutto ciò che è elevato e sublime nelle meravigliose forme dell'esistenza e adattate a tutti i possibili servizi ed esigenze.
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Cappa e spada
Mi piacciono i libri di cappa e spada: esprimono sentimenti e valori sopiti nella nostra epoca. Ne "I tre moschettieri " Dumas coglie in pieno queste qualità e con i suoi paladini unisce le strette relazioni di questi personaggi al suo carattere e alla sua vita. Rapito da una narrazione rigurgitante di cavalcate per le strade di Francia e d'Inghilterra, di duelli, imboscate, risse e galanterie, il lettore vede scorrere sotto i suoi occhi uno spaccato della storia di Francia durante il regno di Luigi XIII. Finzione e realtà si fondono egregiamente. I moschettieri descritti da Dumas restano fedeli alla realtà pur esendoci vicende anacronistiche e il testo stesso cade in qualche contraddizione. Le qualità di questi spadaccini sono quelle d'essere focosi gentiluomini, fedelissimi al re, coraggiosi fino all'eroismo sui campi di battaglia, sfrenati edonisti al ritorno dalle campagne, brillanti figure con una loro personalità e caratterizzazione. "I tre moschettieri" si presenta come romanzo storico che si sfuma nel gioco più urgente della fantasia, ma che spia anche gli umori del suo lettore e si comporta di conseguenza. Ispirato da testi eterogei, a metà strada tra storia e fantasia, la lettura seduce per la solidità dell'impalcatura e il fascino dello stile: non è dei più eleganti, ma certamente tra i più vigorosi, coloriti e disinvolti; la morte è presentata senza sangue e senza angoscia. Dumas riesce a cogliere il tumultuoso dinamismo dei dialoghi e quel modo lieve ma rapido di raccontare: sa maneggiare come pochi l'arma della suspence e il lettore si lascia sempre eccitare e provocare. Il ragazzo con gioioso compiacimento. L'adulto con l'imbarazzo che si ha per gli illeciti diletti. Ciò che dà al romanzo un piacere duraturo ed universale è quella cameratesca e generosa amicizia che lo percorre, amicizia che non viene espressa a parole, ma testimoniata nell'azione al grido di "tutti per uno, uno per tutti". Seducente, affascinante, avvincente, pieno di vita è un testo che con piacere e gradevolezza si fa legggere d'un colpo, tutto d'un fiato e lascia nel lettore inesauribili fantasie rocambolesche.
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Vivere da protagonista
Curiosando in libreria e più per il piacere del possesso di un libro scontato, mi sono accinta a comprare e leggere, con diletto, il Limonov di Carrère edito da Adelphi. Una storia senzazionale, un libro che apre la mente a un piacere recondito, mi ha lasciato bellissime sensazioni di piacevolezza e gradevolezza di questo avventuriero russo. Tra reportage e racconto, biografia romanzata e descrizioni puntigliose, ritratti caratteristici, Carrère è riuscito a tirar fuori un tessuto narrativo mirabile ed originale: lo stile spigliato e veloce seduce il lettore e imprime descrizioni fantastiche, episodiche, cronistiche di un personaggio, tale Limonov, che l'autore trae da fatti realmente accaduti. La prima impressione, forse superficiale, è che sia la storia di un protagonista vero, che si può toccare con mano, tangibile, evidente, chiaro, manifesto, di un romanzo che ha poco di componimento letterario in prosa, perché si basa anche su fatti reali, raccontati in modo disproporzionale, con poche modifiche. Limonov racchiude gli "opposti estremismi" dei valori e del contesto di ogni uomo: sarà un delinquente, un donchisciottista, un dotto letterato, un clochard, un servitore, una persona che presta la propria opera dietro compenso, e al solo fine di essere pagata, senz’altro interesse che quello del guadagno, un avanzo di galera, un bruto lestofante, un criminale, un politico potente e un detenuto. È, infine, l'eroe che che ama vivere da protagonista e non da comparsa, nel bene e nel male, che non può essere dimenticato in un contesto travolgente di una Russia posteriore al crollo del muro di Berlino e alla caduta dei regimi comunisti dell’Est europeo. Travolgente, appunto, sconvolgente a tratti, ci viene presentato il protagonista in una visione presa lateralmente per farlo emergere nelle sue peculiarietà di uomo che mai si stanca di essere e fare ciò che vuole in base anche alle mutevolezze del tempo e dei luoghi, in uno scenario inconsueto; è, per ultimo, di una precisione illuminante, da parte dell'autore, la spiegazione assai complessa della storia di questo ultimo periodo e soprattutto fatta con una scrittura piacevole e spigliata.
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Io siamo noi
È l'esposizione ordinata di fatti e avvenimenti del passato dell'autrice quali risultano da un'indagine critica, letteraria e lessicale volte ad accertare sia la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere in essi un'unità di sviluppo. Storia familiare, dunque, della scrittrice in una Torino d'inizio secolo, precisamente il periodo che va dagli anni venti agli anni cinquanta. Natalia, ultima di cinque figli, è la voce narrante che, col fascino della fanciullezza e il rispetto della verità, ripercorre con la mente una successione di avvenimenti passati le vicende dei suoi cari e ne fissa il linguaggio, i motti, i modi di dire e le abitudini radicate. Molti sono i protagonisti, primo tra tutti è il padre Giuseppe Levi: la casa riecheggia delle sue urla e delle sue risate. Tenero e dispotico non tollera le cattive maniere e mal sopporta i modi goffi e impacciati della sua cerchia. Tentare un breve riassunto non è cosa facile: è una storia che ruota su se stessa, proponendo a brevi intervalli lo stesso fraseggio che lentamente conquista il lettore, col risultato di divenirgli intimo, consuetudinario, amichevole e cordiale. Vengono annotate con distacco le liti tra i fratelli, i primi amori della sorella, le leziosità della madre. Casa molto frequentata quella dei Levi: ci vive anche la domestica a volte affiancata da una sarta chiamata dalla padrona di casa per la confezione di abiti. Sono numerosi gli amici di famiglia, tutti quanti chiamati per nome. È un elenco ampio e sorprendente il salotto di casa Levi: riunisce il fior fiore del mondo intellettuale, Torinese e non d'allora. Alla narrazione delle vicende fa da sfondo la storia: si ha l'ascesa di Mussolini, le leggi razziali e la Resistenza. Temi che vengono affrontati con naturalezza e pudore, soprattutto la prigionia del padre e la morte del primo marito della Ginzburg, la quale riesce a conservare freschezza e semplicità tipiche della sua narrativa. Tra autobiografia e memoria il libro è un insieme di ricordi che il trascorrere del tempo rende labili e imprecisi. Viene riprodotto e lanciato un messaggio chiaro da parte dell'autrice a fronte della frantumazione e dispersione familiare causati dalla guerra, dai lutti, dalla separazione e dalla lontananza: quello delle frasi, del linguaggio, di tutte quelle espressioni che sorreggono e fanno riconoscere l'un l'altro i membri del clan. Questa pronuncia di locuzioni ha capacità d'unione , di serenità, d'aggregazione degli antichi rapporti della vita trascorsa, la coscienza di un nucleo familiare che cessa d'esistere, ma grazie alle parole sopravvive nel tempo. È il linguaggio il fondamento della famiglia, esiste finché viviamo, si ricrea e resuscita nei posti più reconditi, impensabili e lontani della terra. È proprio questo messaggio inequivocabile, i nostri fratelli, i genitori, gli amici che sono i testimoni di quello che siamo stati e che ora non saremo più.
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Il sogno e la realtà
È uno scrittore che ancora non possiede l'esperienza necessaria, assai soddisfatto esamina attentamente, per scoprire o comprendere ciò che non si manifesta o non si capisce a un esame affrettato e superficiale, con un amoroso sentimento di vicinanza affettiva il cuore degli umili e ne mostra con chiara evidenza tutta l'insospettata componente umana, colui che scrive il delicatissimo romanzo sentimentale Le notti bianche. È un sogno ad occhi aperti, ambientato in una Pietroburgo che ha i colori accesi della poesia; una storia impercettibile composta di nulla e nella quale, misteriosamente, c'è tutto. I temi dell'amore represso, della solitudine, della felicità che si prova nell'incontro con una donna, l'esigenza di comunicare con gli altri le proprie esperienze, le proprie paure sono descritti con ricerca letteraria impareggiabile. Bisogna leggere il libro guardando le trasparenze celate dietro la figura del narratore - sognatore, stavolta il giovane Dostoevskij che si aggira per le strade della città nordica portandosi appresso, intatto, il suo bagaglio di sogni. Quando si ha a che fare con grandi narratori e con bellissime opere non ci si può che inchinare alla loro maestosità e ringraziare di aver avuto la possibilità di una loro testimonianza.
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La ribellione di una donna
Un matrimonio combinato è la causa dell'infelicità di una donna ribelle e spaventata che ha il coraggio, agli inizi del novecento, nel mondo dell'aristocrazia torinese, di trasferirsi nelle campagne toscane per una maggiore libertà ed autonomia a seguito dei tradimenti del consorte. La vicenda si svolge durante l’arco di tutto il millenovecento, dai suoi inizi sino ai giorni nostri; la scrittrice con uno stile veloce ed essenziale ci svela, piano piano, le vicende private della protagonista. È curata la scelta lessicale ed il linguaggio risulta ricercato. L’azione è blanda e i tempi sono complessi, come che si voglia seguire volutamente il disorientamento delle capacità mentali della protagonista, il finale è originale e mai scontato. Con sapiente tecnica narrativa viene miscelato il ricordo del passato con lo scorrere del tempo, ricordi che si trasformano in sociali e storici, in un’amalgama che rende il racconto avvincente, denso di atmosfere e di luoghi incantevoli.
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Patrimonio dell'umanità
Narrazioni minuziose e puntigliose, indivisibili tra loro, che fanno comprendere i vari significati della vita, dell'arte, del tempo e della realtà sono gli scritti proustiani in cui sofferenza ed indagine introspettiva si fondono in una continua ricerca artistica e psicologia interiore. È la forma d'arte la vera vita perchè conoscenza della realtà, una visione che da soli non potremmo percepire se non avessimo la nostra conoscenza ed esperienza. L'io narrante, lungo ed articolato, è il lavorio della produzione artistica dell'autore che tramite esso, se ne identifica e se ne appropria attraverso i personaggi, i luoghi, i rituali quotidiani, le situazioni e le descrizioni. È uno scorrevole cammino, un fluire e rifluire di parole che danno l'idea del passare del tempo, i trascorsi temporali non sono altro che ricerca di se stessi: la caratterizzazione dei protagonisti e di un epoca forse ancor lontana da noi, ma pur sempre attuale nei nostri cuori. Attraverso gli occhi di un adolescente ed alle sue fantasticherie viene descritta una società più attenta alle apparenze che alla sostanza, più propensa alla malvagità che alla comprensione. Comincia così, a Combray, la storia che Proust con introspezione psicologica dipana man mano, con uno sguardo attento al tempo, ai luoghi, all’arte e alla memoria. Solitudine e malattia liberano il narratore dal mondo e dalla vita sociale e gli offrono l’occasione di diventare analista di se stesso e delle passioni umane, ma anche il talento e la consapevolezza di averlo gli sono indispensabili per la composizione di una grande opera. La Recherche è romanzo di memoria, filosofico, la ricerca della verità dell’io e delle possibilità dell’arte. Nabokov la definisce come l’insieme di una caccia al tesoro dove il tesoro è il tempo e il nascondiglio il passato. Le parole passato, memoria e tempo sono, dunque, l’asse portante della struttura e della tecnica narrativa di Proust. Infatti, per l’autore, il passato è una serie di eventi vissuti, finiti, che non vanno al di là dell’esperienza reale. Il passato è anche una serie di luoghi fuggitivi, i luoghi della nostra vita, che il tempo ha distrutto irreparabilmente. Il passato è, infine, ciò che siamo stati, tutti i nostri io che sono nati e sono morti: . Il passato , in quanto . La memoria, invece, è legata intimamente all’oblio. La Recherche è una storia di vita, dall’infanzia all’età matura, del Narratore, che solo alla fine si rivela; è un’investigazione puntigliosa del mondo e della sua variegata popolazione. È, dunque, libro di memoria e di passato dal momento che la chiave dell’arte è nell’evocazione di ciò che è stato. Ma è anche libro che guarda al futuro, tutt’altro che inattuale, anzi sconvolgentemente attuale nel senso dell’essere in sintonia con i dati culturali del tempo presente e senza svalutare i nessi storico – culturali che si allacciano alla tradizione. Il sapore della madeleine, biscotti tuttora fatti in casa o venduti dalle grandi catene alimentari, non è altro che il tempo trascorso, la reminiscenza e la traslazione del ricordo, la memoria involontaria, un mondo intero che riemerge dal rituale di una tazza di tè. È la contrapposizione dell'oblio, la coscienza della sofferenza; è il tempo che si può ritrovare e vivere solo nell'arte che ci permette il recupero del passato che si perde appunto nel trascorrere della vita stessa: emotività involontaria, connessioni intellettive e rimembranze cognitive non sono che alcuni dei temi dell'opera proustiana. Proust nel tratteggiare il carattere dei vari personaggi, dimostra una straordinaria finezza psicologica soprattutto quando comprende la complessità e molteplicità dell’uomo considerando al contempo le mutazioni dello stesso rispetto al trascorrere del tempo. Proust penetra involontariamente in un territorio a quei tempi poco esplorato dell’inconscio dove in modo apparentemente dimenticati si svolgono i drammi più dolorosi della persona umana. E vi è anche assonanza con Freud perché lo scienziato voleva far conoscere la dinamica psichica e l’attività inconscia per la cura dei pazienti mentre lo scrittore voleva conoscere sommariamente le stesse cose per la creazione dei personaggi e la comprensione di quell’io interiore che si nascondeva in lui. Opera di capitale importanza per la conoscenza interiore perchè fa capire meglio noi stessi, fa apprezzare maggiormente l'estetica della realtà; cronaca ricavata dal ricordo nella quale la successione del tempo è sostituita dal misterioso e spesso trascurato collegarsi degli avvenimenti, dell'io narrante che scruta la nostra anima, guardando all'indietro e dentro di sé; il sentire come l'unica cosa vera l'ideologia cronologica dettata dai sentimenti. Gli avvenimenti passati non hanno più potere su di lui, non finge mai che quanto da tempo è accaduto non sia ancora accaduto e che non sia ancora deciso quanto da tempo è deciso. Non c'è tensione, né drammaticità, la cronaca della vita inferiore scorre con armonia epica, poiché è soltanto ricordo e introspezione. È la vera epica dell'anima, la verità stessa, che qui irretisce il lettore in un dolce, lungo sogno in cui egli soffre molto, ma soffrendo gode anche la libertà e la pace; è il vero pathos del decorso delle cose terrene, quel pathos che sempre scorre, che mai si esaurisce, che costantemente ci opprime e costantemente ci sostiene. La Recherche, semplice, essenziale, a volte prolissa, ma è una tecnica usata dall'autore, racchiude sentimenti ed emozioni, paure e turbamenti, gelosie e indifferenze, che ognuno prova nel corso della vita. Proust annulla i concetti tradizionali di spazio e tempo, producendo nella letteratura una rivoluzione non meno profonda di quella operata da Einstein nelle scienze fisiche: costruisce una struttura assoluta per sostenere un mondo di apparenze. Un lungo viaggio attraverso le pieghe nascoste dell'animo umano, dove il particolare si fa universale. È impossibile mettere in parole l'emozione infinita che si prova pagina dopo pagina, ritornando bambini a Combray, vivendo le piccole paure che nel buio di una camera estiva divengono enormi, emozionandoci per la capacità di rendere reale il bacio della mamma, restituendo vita alle corde quasi dimenticate di un'infanzia ormai lontana che come d'incanto torna davanti a noi improvvisa. Ogni fase della vita viene descritta; Proust ci dona sensazioni, flussi di pensieri che generano le azioni che compie; tutto è già accaduto nel romanzo, ma tutto è sospeso in un tempo impalpabile che rischia di andare perduto, ma che viene ritrovato, ritrovato e donato a chi legge. Occorre riconoscere a Proust una fine sensibilità e una notevole capacità d’osservazione, la sua opera rimane sicuramente patrimonio dell'umanità senza dubbio alcuno tra le più belle composizioni letterarie ed impone la necessità di squarciare la propria anima lasciando la sensazione di essere più ricchi, più saggi, più umani.
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Un grazioso ricordo
Ironia, leggerezza e acume letterario da parte dell’autore evidenziano le note caratteristiche, la sua maestria su come si possa realizzare un piacevole romanzo. Manca, però, del pathos perché le vicende sono prive di un intreccio organico esaurendosi in locali faccende ed episodi che possano catalizzare l’attenzione. Andrea Vitali narra più storie focalizzando la narrazione più sulla vicenda del Corpo Musicale Bellanese che sui personaggi che, ad ogni modo, hanno tutti un ruolo omogeneo, non prevaricante tra loro. Con stile arguto e gradevole dal ritmo incalzante e pieno di colpi di scena l’autore dipana il contenuto con molti personaggi facendoci sorridere spesse volte. Romanzo, quindi, leggero e non impegnativo in cui viene utilizzata una tecnica narrativa equilibrata che lascia certamente un grazioso ricordo.
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Il bovarismo
A volte, quando il romanzo è così conosciuto e diffuso, è meglio soffermarsi sugli elementi stilistici dettati dallo stesso autore e su quanto ci ha lasciato. Troppo facile evocare lo scandalo suscitato a quei tempi, clamore e falsi moralismi hanno stimolato l'élite della cultura francese, nonché mondiale, a schieramenti a favore e, soprattutto, contro l'autore della signora Emma Bovary per poi cambiare repentinamente parere o addirittura col non aiutare chi è stato emarginato lungamente e ingiustamente. Comincio subito col dire che, in Madame Bovary, Flaubert conferma che non si è lasciato trascinare dal mito romantico di trasporre l'assoluto nel quotidiano, di modellare la vita sui sogni. È una storia inventata, non vi ha messo niente dei suoi sentimenti né della sua esistenza, Madame Bovary sono io: è quanto dichiara in più occasioni lo stesso autore. Il romanzo nasce da un lungo lavoro interiore dello scrittore che dosa gli elementi e ricerca la raffinatezza della scrittura: è una composizione in blocchi integrati in un piano minuzioso. La struttura del libro è fatta di tempi lunghi, verbi all'imperfetto e scene chiave; quando, invece, la descrizione si fa vivace e ritmata vi è l'uso del passato remoto. Ogni dettaglio è funzionale alla scena e al disegno complessivo della storia; incomprensione e crudeltà determinano una serie di sensazioni e atti che annunciano a loro volta la vicenda intera nel romanzo. Vi è infatti un'eroina che è insoddisfatta della propria vita dislocata in piccole cittadine della provincia francese e rappresenta la crisi degli ideali romantici. Il realismo dell’autore non sta solo nei dettagli ma anche nella descrizione dei luoghi, dei personaggi e degli ambienti (sia contadini sia quelli della piccola borghesia e dell’aristocrazia della Normandia); ciò fornisce al lettore una sensazione di profonda verità, talvolta forse un po’ di malessere, ma occorre ricordare che l’autore lancia uno sguardo sempre ironico. Nonostante Madame Bovary abbia avuto vari amanti e l’amore che provava fosse da lei considerato come assoluto, in realtà era una fonte di delusione continua, più che di soddisfazione si trattava di una chimera, tanto che la sua vita sfociava continuamente in un nulla esistenziale. Tutto il romanzo di Flaubert sarà quindi una lunga variazione su questo tema, volendo mescolare tematiche come l’amore sensuale, l’amore mistico, l’esaltazione religiosa e quella dei sensi, paralleli, ma di tono diverso, utilizzo di banalità e frasi fatte nei momenti di maggiore tensione drammatica sottolineano la distanza tra il sogno d'assoluto e la volgarità del quotidiano, l'irrisorietà e la stupidità delle convenzioni borghesi. Vince la mediocrità nella storia narrata da Flaubert, lo scarto insieme ridicolo e crudele tra l'essere e il voler essere che prenderà il nome di "bovarismo".
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Raccoglimento e riflessione
Molte sono le chiavi di lettura di una bella ed originale storia d'amore dagli scenari tristi e le atmosfere ricche di dolci sentimenti. Martin, ritiratosi ai confini di una selva della campagna appenninica, scopre il raccoglimento e la riflessione sulla vecchiaia. Emozioni e sentimenti tornano alla sua mente per portarlo in viaggi fantastici e visioni di scene oniriche, in immagini fantastiche. La fauna del sottobosco fa da contorno alla storia, mentre la meditazione sulla vita passata risveglia in lui lontane emozioni per una giovane donna, Michelle. Visionario ed interiore tramite questo romanzo Benni coglie l'occasione per far riflettere il lettore, ancora una volta "a modo suo", sull'essere e il tempo dell'uomo contemporaneo dove lo spiraglio della speranza ha tante definizioni, dove stile, trama e temi passano in secondo ordine perché è "il modo" e "il come" che rendono affascinanti i suoi libri.
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Una lettura piacevole
La vicenda si svolge in un quartiere popolare della Firenze del primo dopoguerra. L'autore rappresenta egregiamente questo microcosmo, con accortezza e giullarità, tenendo toni comici e "garbati", una chicca di divertimento letterario privo di drammaticità e ricco di motivi teatrali, beffardi e canzonatori. Anticipando i tempi odierni, sei ragazze, Gina, Tosca, Bice, Mafalda, Silvana e Loretta "condividono" un uomo "dalle belle ciglia" Aldo Senesi, soprannominato Bob per la sua rassomiglianza con l'attore Robert Taylor. I quattordici brevi capitoli del libro descrivono la bellezze genuina di queste sei donne di quartiere e la gagliardia di Bob che alla fine viene beffato da una di loro una volta scoperti gli intrighi. Antiche novelle e fatti di cronaca portano i pensieri al Decamerone di Boccaccio; l'autore pare affascinato dal suo personaggio maschile accanendosi ed evidenziando l'intrinseca inconsistenza e povertà d'animo. In Pratolini lo stile narrativo è scorrevole, veloce, dal ritmo incalzante, la caratterizzazione dei personaggi abile e sufficientemente ironica, lo scherzo, la rapidità dell'azione, il taglio teatrale dei dialoghi sono le peculiari caratteristiche del racconto che a distanza di tanti anni non ha perduto il suo primitivo incanto.
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L'iniziazione
"Agostino" è la storia di un'iniziazione dolorosamente frustata di un ragazzo che si sforza d'essere uomo. Giovane tredicenne di ricca famiglia borghese, vive avvolto come in una nube di protezione materna e viene, ad un tratto, posto di fronte alla realtà della vita, rude e drammatica, passando da una realtà alienata in senso borghese a quella non meno alienata in senso popolare. Viene così fuori dal mondo ovattato della madre e dell'ambiente borghese, scaraventato direttamente per strada a contatto con una banda di ragazzacci conosciuti in spiaggia che vivono, per giunta, in ambiente sessualmente equivoco. Il dramma interiore di Agostino consiste nella graduale smitizzazione della madre, che per lui che viveva senza padre, rappresentava il mistero stesso della vita, della sua esistenza. Il sopraggiungere di un corteggiatore della madre priva il protagonista del suo affetto più grande ed unico. Egli, durante questa prima crisi esistenziale, comincia a valutare realisticamente gli atteggiamenti materni, a togliere l'alone magico cui lui aveva rivestito la madre e scoprendo, man mano, in lei anche la donna, la figura di una bella donna che voleva ancora continuare a vivere. Il romanzo, psicologicamente complesso ed artisticamente organico ed unitario, porta in primo piano un fondamentale problema esistenziale che stava a cuore a Moravia negli anni della sua giovinezza: il passaggio dall'adolescenza alla virilità. Il problema fondamentale, per Agostino, non è solamente il sesso, ma quello della sua esistenza che viene riscoperta e rivissuta in luce critica attraverso la deformata scoperta del sesso, fatta tramite una posizione sociale antitetica alla sua. Agostino non riesce a raggiungere la sua piena liberazione fisica, ma soltanto quella psico-sociologica del suo ambiente, perchè ancora dovranno passare molti anni prima che egli diventi uomo. Le brevi vicende narrate da Moravia si leggono con piacere e attenzione. Nonostante la scabrosità del tema affrontato, la prosa è fluida, scorrevole, per nulla turbata dal contenuto: si ha l'impressione che l'autore possa esplorare ogni abisso dell'animo umano descrivendolo poi con parole calme e gentili.
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La modernità nell'età romantica
É un racconto in prima persona dove l'autore precorre le tematiche tipiche della modernità, con un eroe e la caratterizzazione psicologica dei personaggi. Finiti gli studi Adolphe, il protagonista, ha una relazione con una donna che a sua volta è anche l'amante di un aristocratico. Dopo tre anni di vicissitudini Ellénore, riesce a porre fine alle angosce d'entrambi troncando ogni rapporto e morendo di dolore una volta saputo che ... . Amore, passione, dolore, morte, promesse non mantenute, rimorsi e prese di coscienza sono i temi di questo romanzo scritto con stile lineare e scorrevole da Constant, in definitiva, una piacevole lettura di facile comprensione che descrive compiutamente la progressiva aridità dei sentimenti umani dei personaggi.
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Le vicende umane e le loro passioni
Quando si ha la capacità e il merito di descrivere con prontezza, sottigliezza d'ingegno e vivacità nello scrivere i tratti psicologici dei personaggi e delle vicende umane, è proprio allora che ci si stacca dalla normalità e ci si imbatte in qualcosa di originale bellezza estetica. Simenon ne La camera azzurra ha queste caratteristiche e narra una storia di passioni che divorano dentro ed ossessionano la mente. È la narrazione delle vicende umane più che la costruzione del mistero che circoscrive la storia, del giallo vero e proprio che caratterizza l'autore. In una piccola cittadina francese, in un albergo ed in una stanza azzurra, Tony e Andrée consumano le loro passioni. Gli effetti ed i momenti illusori della vita vissuti nella camera entrano con impeto nella realtà dei due amanti che vengono coinvolti in un'inchiesta giudiziaria. Simenon con la solita scorrevolezza e semplicità ci fa immergere pacatamente e minuziosamente nelle atmosfere del borgo francese tra vite monotone ed ordinarie in cui sembra che la gente non sappia nulla , ma che, al contrario, tutti sanno. Vengono rappresentate situazioni oggettive sulle debolezze umane e sul potere del valore e del senso delle parole del loro vero significato, ma soprattutto sulle conseguenze degli atti che i due protagonisti con la loro passione determinano.
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Dilsey
Quattro date, quattro flashback, quattro personaggi che sono le voci narranti del romanzo, non necessariamente in successione temporale: questa è la risposta che Faulkner, appena sposato, dà a quella sete di libertà che ha la forza d'urto di una rivoluzione. Freudismo, sesso, violenza, scardinamento dei piani temporali, flusso di coscienza sono i temi maggiormente cari. Faulkner ha veramente un ruolo di primo piano con effetti di ritorno assai rilevanti anche sulla letteratura europea. Leggere L'urlo e il furore richiede impegno ed abitudine all'ordine mentale delle voci che sono qua e là dipanate nel romanzo. Il messaggio di Faulkner è drammaticamente definitivo e serve a poco la senzazione di un velatissimo rimpianto nei confronti di chi, nell'ultima parte, possiede nonostante tutto la forza dell'accettazione e la fiducia nella salvezza. La descrizione delle atmosfere del Sud di quell'America e della famiglia Compson ne fanno un ritratto torbido e drammatico di una generazione difficile d'amare e da dimenticare in una saga toccante e geniale di oscure vicende da cui è impossibile uscirne.
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Il trionfo degli anti-eroi
Nella storia della letteratura questo romanzo ha segnato un autentico superamento narrativo, morale, psicologico, perché apre veramente la storia del romanzo moderno, ispirato alla psicanalisi di Freud. Quel che balza subito agli occhi del lettore è la tecnica del monologo interiore realizzata in una nuova resa espressiva attraverso l'identificazione del narratore con il protagonista: non è lo scrittore a narrare la vicenda di un personaggio, ma il personaggio stesso, Zeno Cosini, che si analizza e si confessa mettendo in equilibrato rapporto la sua autobiografia con l'analisi della sua coscienza e della sua subcoscienza.
La storia è abbastanza semplice anche se si percepisce dal principio la dissoluzione sistematica del personaggio; ma non per questo è un romanzo frammentario. È vero che manca di una trama unitaria ed organica: infatti esso è suddiviso in varie parti staccate tra loro senza che sia possibile rintracciare, se non altro, i tempi di un'autobiografia. Eppure è un romanzo unitario e compatto narrativamente, perché dalla prima all'ultima parola è un'introspezione fondata sulla consapevolezza delle ragioni vere della nostra esistenza, sulla vacuità del nostro entusiasmo, e cioè sulla costituzionale inettitudine umana in rapporto alla imprevedibilità dei casi umani.
Nel romanzo spicca la condanna della società umana che ha alienato l'uomo con la produzione tecnica e scientifica, con l'industializzazione e con le mistificazioni; in questo senso svevo è demistificatore degli inganni della società borghese d'inizio Novecento senza, però, giungere a conclusioni ed alternative sul piano storico-sociale.
È al contempo romanzo ironico perchè nella descrizione dell'uomo mediocre e malato che accetta la precarietà della vita, riesce a tollerarla con saggezza e così, appunto, trova nell'ironia l'unica sua salvezza possibile. Conoscere se stessi significa anche tollerare il prorio stato di umanità e di miseria e, quindi, evitare la grande catastrofe accettando la tolleranza.
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Gli albori del Realismo
Sostanzialmente "Gli indifferenti" è la storia di una famiglia borghese romana, i cui componenti raggiungono il loro epilogo nella noia e nell'indifferenza, intesa come inerzia morale, incapacità a vivere, abulia morale ed inettitudine. Quest'opera di Moravia ha rappresentato una lezione di Realismo estremo negli anni del Surrealismo e del Decadentismo in crisi. L'autore ha immesso nell'arte narrativa un mondo inconsueto; la realtà che ha tradotto e i modi linguistici di cui si è valso hanno accusato franchezza morale e una disinvoltura tecnica veramente singolare nella nostra letteratura contemporanea. Nel romanzo colpisce la convergenza d'un contenuto ostensivamente immorale e squallido con un'espressione secca e sbrigativa, disadorna e impoetica. i protagonisti contrassegnati da un distacco intellettuale che permetteva d'alienarli dall'autore e di atteggiarli in una parvenza d'oggettività fredda e scostante da poter sembrare quasi una diagnosi clinica. L'autore rappresenta nel romanzo modi di vita e una società in disfacimento in cui gli uomini appaiono impegnati solo esteriormente, ma sostanzialmente increduli e scettici. È questa la lezione data dal Realismo moraviano come si presenta nella nostra cultura. La tecnica narrativa si rileva in tutta particolare essenza poetica compositiva: si parte da idee astratte, l'indifferenza, la noia, l'immoralità, il sesso e l'ambiente e da questi temi vengono sviluppati i personaggi, l'intreccio, il clima storico sociale. Anche i protagonisti sono concepiti prima come tema e poi sviluppati come attori: è in questo senso che Moravia è narratore deduttivo. I suoi protagonisti non hanno svolgimento interiore, appena li presenta già sappiamo tutto di loro, conosciamo i tratti psicologici e i loro comportamenti, agiscono come vengono descritti inizialmente, senza colpi di scena. Tecnica narrativa che l'autore traspone nei propri personaggi: parte quasi sempre da una tesi da dimostrare e gli attori sono solo mezzi statici nei quali si accumulano e si ammucchiano le varie vicende.
Il vagone sbagliato
Nello scenario della seconda guerra mondiale, durante l'avanzata dell'occupazione delle truppe tedesche nel Nord della Francia, nelle Ardenne, a Fumay vive, assieme alla moglie in dolce attesa e alla figlia, Marcel. È buon padre, ma personaggio alquanto mediocre, che si vede catapultato su un treno per nuovi lidi. Non sa neanche lui se sia profugo o rifugiato, né ha il tempo di capire che una volta salito sul treno viene diviso dai suoi cari. Durante il viaggio, costellato da raffiche di mitragliatrici d'aereo tedesche, conosce la cecoslovacca Anna, fuggita da una prigione, la quale riaccende il fuoco di una passione travolgente in Marcel in una notte su un carro merci. Due illustri sconosciuti che il destino fa incontrare ed unire, incuranti del futuro, della guerra e delle persone che stanno vicino. Tristezza e intimità sono le caratteristiche peculiari del breve testo che Simenon dipana disinteressandosi alla descrizione della guerra e puntando piuttosto all'accidentalità, all'imprevisto, alla facoltà attribuita all’uomo di autodeterminarsi con la sola volontà, senza essere necessitato da sollecitazioni esteriori di qualsiasi genere o da inclinazioni interne, alla possibilità propria dell'uomo di fare o non fare liberamente qualcosa e al dolore che deriva dalla felicità e dalla consapevolezza della sua breve durata, tema, quest'ultimo, visto come possibile riscatto, ma destinato comunque a essere veicolo di sofferenza e frustrazione. È un libro speciale, davvero troppo impudente e sfacciato con la capacità di comprendere e spiegare i sentimenti, gli stati d’animo, le reazioni e i comportamenti degli altri per non riguardare altri tradimenti che quello di una moglie incinta dimenticata sul vagone sbagliato.
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Le note di Venezia
La musica è l'aire iniziale che accompagna il lettore in tutto il libro; è, dunque, la musica, quella di Vivaldi, il "Prete rosso", compositore d'eccezione de "Le quattro stagioni" interpretata dalla protagonista, Cecilia che libera le note iniziali del libro. Cecilia, sin dalla nascita assidua frequentatrice di un famoso orfanatrofio non per sue colpe, il celeberrimo Ospedale della Pietà di Venezia, scrive assiduamente, nell'oscurità e senza sonno, ricordi di una infanzia fatta di solitudine e isolamento, lettere alla propria madre che non conosce e neanche riesce ad immaginare, ella non sa nulla di lei! Ma nei luoghi in cui si appresta a scrivere incontra una strana compagna, la morte o lo testa dai capelli di serpenti, così come lei la definisce, la quale le insegna e le suggerisce le nozioni e i significati della vita, i sentimenti e le atmosfere, i pensieri e i dubbi che ogni adolescente ha. Lunghi discorsi con l'insolito personaggio fanno apprendere a Cecilia la vera essenza della vita, il tutto accompagnato da riflessioni poetiche e dall'immancabile musica che le permettono di maturare e di emanciparsi dalla condizione di subalternità/asservimento in cui sempre è vissuta, odi celestiali che la protagonista assieme alle sue compagne suona per sovvenzionare il proprio orfanatrofio. Originalità, sincerità e intimismo sono le caratteristiche di questo libro, scritto con argume letterario e profondità di pensiero, in cui l'autore introduce tra le righe l'arte della musica e l'interiorità dei suoi personaggi. Sembra quasi che le parole leniscano dolcemente il dolore e sfiorino delicatamente attraverso il corpo come in un'aria musicale.
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