Opinione scritta da Capriluc
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L'agnosia è la malattia più grave
Mentre ero immerso nella lettura di Cecità, libro scritto da Saramago, la definizione di William Golding sul genere umano, “l’uomo produce il male come le api producono il miele”, sembrava impressa nelle pagine.
Il libro narra la storia di un’epidemia che si diffonde brevissimamente:chiunque viene colpito e nessuno può sfuggirle.La cecità non è caratterizzata da un buio totale, bensì è distinta da una luce continuamente bianca, come se avessimo al posto degli occhi un sole coperto dalle nubi.I primi colpiti vengono rinchiusi in un ex-manicomio, atto con il quale il governo cerca di salvaguardare il benessere collettivo.Tuttavia la patologia non conosce barriere; presto tutta la popolazione inizierà a soffrire dell’impossibilità di vedere.
Lo stile adottato da Saramago è quello del racconto fantastico che ricalca fedelmente il realismo materico della società postmoderna. I personaggi sono presentati senza il nome proprio, descritti dal narratore, talvolta intradiegetico, talvolta extradiegetico, con espressioni impersonali (il primo cieco, il medico).Come ne “Il Vangelo secondo Gesù Cristo”, i dialoghi non sono introdotti dai due punti, il periodo è separato da una virgola e seguito dalla lettera maiuscola.Questo esercizio di stile si configura dentro una pagina priva di spazi, esaltando la violenza del romanzo, senza lasciare tempo di respirare.Si vive un’agonia.
Saramago disegna con sapienza la bestialità dell’essere umano, trasposta nella contemporaneità, in cui l’individuo viene depurato da tutte le sue dispersioni e costretto a soddisfare i suoi bisogni primordiali.Cecità è un libro che segue la traccia lasciata da Orwell (1984) e Golding (Il signore delle mosche) , passa da Huxley (Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo) e Bradbury (Fahrenheit 451), giunge fino a McCarthy (La strada) e ci mostra crudelmente il male più grande:l’agnosia.
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L'impossibilità di agire
Con Kafka ci avventuriamo nei meandri dell’alienazione mentale, remissiva al controllo di un vettore, istituzione, o più specificatamente della collettività; anch’essa alienata da altri connotati esterni.
Il Processo, libro postumo dello scrittore praghese, pubblicato nel 1925, si presenta come un’esemplificazione della solitudine sofferta dall’individuo nei confronti della burocrazia.Joseph K., alterego di Kafka e protagonista della vicenda, percorsa da dialoghi che sfociano in una narrazione da teatro dell’assurdo, è processato e poi condannato per una colpa non commessa, ignota al tribunale stesso.Egli stesso cercherà di far luce nei confronti dell’accusa, vagando da stanze chiuse a luoghi vorticosi, da aprassia ideativa a impossibilità della confutazione giudiziaria.
Lo stile del libro è volutamente straniante, reso mediante la ricerca di un linguaggio spersonalizzante.Ecco che allora i personaggi divengono totalmente scarnificati, incapaci di un’espansione affettiva, i quali possono essere riconducibili alla cinematografia di David Lynch.Un buco nero circondato da una parete di specchio, dentro il quale diventa difficile lasciare spazio all’emozione, cancellata da un supplizio che crea spazi claustrofobici, labirinti della mente e soprattutto un evidentissimo spaesamento del proprio diritto di difesa nei confronti della società accusatrice.
Einaudi ci propone l’edizione tradotta da Primo Levi, quando il libro sembra offrirsi come un’allegoria alle dolorose sevizie inflitte agli ebrei durante il secondo periodo bellico che trascinò il mondo nel novecento.
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