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P.P. Opinione inserita da P.P.    28 Ottobre, 2017
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Sosteneva Pereira

Sostiene Pereira, scrive Tabucchi. Suggerendo che questo Pereira sia qualcuno che può a buon diritto sostenere qualcosa, e che abbia qualcosa da sostenere.

Nel nostro tempo ognuno può scrivere ciò che vuole, non importa se sulla Treccani, su di una rivista o su facebook, dato che ormai la filosofia dell'uno vale uno sembra essere stata accolta alla lettera, quando si parla di opinioni. Ma c'è stato un tempo, ed è di questo che Tabucchi racconta, in cui sostenere un'idea, non era cosa da poco, anzi aveva un alto, altissimo prezzo e richiedeva tanto, tantissimo impegno.

Il tempo è il 1938, e Pereira, il dottor Pereira, è il redattore della colonna culturale del Lisboa, un giornale come tanti nella LIsbona di Salazar. Un uomo ordinario, si direbbe, cardiopatico appesantito dalle smodate abitudini alimentari, che rendono le sue passeggiate uno sforzo immane, e dal suo passato.

"... lei ha bisogno di elaborare un lutto, ha bisogno di dire addio alla sua vita passata, ha bisogno di vivere nel presente, un uomo non può vivere come lei, dottor Pereira, pensando solo al passato"

Ecco, ciò che sostiene Pereira, e Tabucchi con lui raccontandone la storia, è che bisogna vivere il presente. Con ciò intendendo non rinunciare alla propria presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. Ed è quello che, timidamente, Pereira cerca di fare, traducendo e pubblicando racconti di autori francesi che criticano la dittatura, nel momento in cui la dittatura opprime LIsbona.

"Sostiene Pereira" è un romanzo di impegno civico, certo, ma non è una storia d'eroici uomini politici o di impavidi partigiani. Non è un esasperato invito alla resistenza, uno sbandierare e urlare valori da difendere e idee da esprimere. E' la storia di Pereira, e del Portogallo con lui, incastrati nel loro passato, e terrorizzati ad affrontare il proprio presente. E' la storia di quanto la letteratura, pubblicata su un giornale in questo caso, ma soprattutto stampata nella mente di chi la legge e ascolta, possa essere un atto di coraggio. E' un invito, a riconsiderare, guardando ad una storia del passato, non vera, ma veritiera, l'importanza di essere presenti nel proprio tempo.

"La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità"

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P.P. Opinione inserita da P.P.    27 Novembre, 2015
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Charles attend - charlatan

Sensationnel. Nel senso proprio del termine di «irretire i sensi», con parole che sono sensazioni, suoni, immagini.

Se mi aveste chiesto cosa avessi appena finito di leggere, dopo aver sfogliato l'ultima pagina, non avrei avuto idea di cosa rispondere. Bè certo è la storia di una bambina, che poi proprio bambina non è, diciamo che è la storia di Zazie nel metrò. Che poi Zazie nel metrò non ci entra affatto per colpa di uno stupido sciopero, però in fin dei conti la vita è un po' un metrò, sempre in corsa coi suoi binari e le sue stazioni, e i suoi passeggeri... ah i passeggeri, ce n'è d'ogni sorta, ognuno diretto da qualche parte o da nessuna parte, e Zazie ne incontra tanti di passeggeri della vita. Alcuni talmente strambi e originali, che non ce li si immaginerebbe nemmeno, tra improbabili "artisti" e tassisti un po' smarriti, turisti creduloni e ambigui questurini... eppure Queneau fa intendere che la realtà alle volte è stramba tanto quanto la finzione, se non più e che alla fine o l'una o l'altra, non c'è poi tutta questa differenza, e si possono mischiare e separare un po' a proprio piacimento. E' questo che credo di aver letto in fin dei conti.

Poi c'è lo stile. Ah, lo stile di Queneau è sorprendente, trasforma in inchiostro la realtà in tutte le sue forme, con espressioni colorite e disinibite ("Non c'è nulla di sconcio, è la vita"), parole altisonanti e sonanti ( dal "Quelkaidettòra" all'interrogativo "Checcè?"), che colorano in maniera inaspettata e vivace l'intera storia. E' l'applicazione di quanto lo stesso Queneau ha teorizzato negli "Exercices de Style", magistralmente tradotti in italiano da Umberto Eco: la lingua viene plasmata e modellata a piacimento dello scrittore e ogni espediente è lecito, che sia un neologismo, l'unione di più parole, una trascrizione fonetica un parabolico gioco di parole o checchessia!

In conclusione, un'opera originale e fenomenale, un vero e proprio esperimento letterario, senza dubbio andato a buon fine. Unico mio rimpianto è di non aver potuto gustare il testo originale in francese, per ovvie ragioni "glottiche", ma le traduzione è risultata ugualmente più che valida.

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Esercizi di Stile (tradotto da U. Eco), o sia in cerca di qualcosa di originale e sorprendente...
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P.P. Opinione inserita da P.P.    11 Mag, 2015
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Calembour

Un sopraffino calembour di elucubrazioni che ostentano un fittizio autobiografismo si potrebbe dire di quest'opera, cercando, senza pretese, di imitare l'inarrivabile gioco linguistico di Gesualdo Bufalino. E' proprio un curioso gioco, quello che, fin dalle prime parole, stupisce e spiazza inevitabilmente uno sprovveduto lettore (quale sono stato io, almeno in partenza).

Un gioco linguistico in primo luogo, fatto di aggettivi incastonati con inusitata naturalezza, in periodi barocchi, lanciati in rocambolesche acrobazie tra metafore, anastrofi e figure retoriche d'ogni specie. All'inizio ci si può scoraggiare leggendo, ad esempio, o meglio cercando di sillabare le parole «In verità i sogni sono solo manteche, truccherie e specchietti per allodole di primo volo. Il caos, mettitelo bene in testa è polvere negli occhi: un velo paradosso che dissimula le sublimi ascisse e ordinate dell'universal simmetria...». Eppure ci si accorge di come anche i più assurdi giochi di parole dell'autore, abilmente controbilanciati dal grezzo sermo cotidanus, appaiano a poco a poco sempre più limpidi e agevoli, con una certa soddisfazione da parte del lettore, non lo nego.

Ecco, l'immensa abilità di Bufalino è di scherzare con le parole, plasmarle, mischiarle, eloquenti commistioni di rifermenti e citazioni di varia natura (che testimoniano la vastissima cultura dell'autore), adagiati tra le righe, come accattivante sprone per il lettore.

È in questo modo che Bufalino introduce, sotto forma di memorie autobiografiche le storie dei suoi altisonanti personaggi, primo fra tutti il narratore, attore e spettatore del racconto, Tommaso Mulè, un tempo giornalista, con ambizioni di scrittore, disilluso dalla vita urbana, ora ritiratosi a vivere nello scantinato di un mostro di mattoni lasciato a metà, in periferia, come factotum dell'amministratore di condominio. «E poi? E con ciò?» domande come queste hanno portato il buon Tommaso ad abbandonare tutto ciò che ci è più caro, per cristallizzare la sua esistenza in uno scantinato senza tempo, cogliendo del mondo piccoli assaggi, scarpe, gambe, ginocchia attraverso un piccolo oblò che sporge sul marciapiede. Le sue avventure, o disavventure che dir si voglia, lo portano a riprendere un quasi coatto legame con la realtà, al di fuori del bizzarro condominio di Flower City, che avrà esiti plateali o forse nessuno, sulla sua distaccata esistenza.

Continua il gioco di Bufalino-Tommaso, che entra ed esce dalle situazioni in cui si trova, con disinvoltura, spettatore e attore di una stravagante commedia, o tragedia, pantomima che alterna ora il grottesco o l'assurdo di Bulgakov e Dostoevskij, ora le atmosfere di Sciascia, fino all'insospettabile epilogo. Una perfetta orchestra, che pur raramente eccede in ostentati eccessi, ma che risulta, alla fine, stupefacente.

«La mer, la mer, toujours recommenceè»

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P.P. Opinione inserita da P.P.    06 Marzo, 2015
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L'insostenibile consapevolezza d'essersi (illusi)

«Anche se le pagine migliori della sua storia erano finite, e a volte dubitava anche che fossero state scritte, le toccava andare fino in fondo»

Ed è tra le crude pagine della storia che s'intrecciano le vite di due giovani, Giovanni ed Aurora, ultimi figli degli ideali, delle passioni e contraddizioni degli anni '70. Separati da due opposte storie familiari, Giovanni ultimogenito dell'avvocato Santatorre, comunista ormai disilluso, Aurora, figlia del fascistissimo, un padre che vive nella nostalgia delle camicie nere, uniti da un casuale incontro e dal comune infervoramento politico.

Si percepisce, viva e amara, nei personaggi la profonda delusione nei confronti di un passato non ancora concluso e il peso di una responsabilità, quella di dover cambiare le cose, che sentono propria. Così la storia di Aurora e Giovanni, si trova a confrontarsi con la Storia, quella di anni confusi, facendo fatica a seguirne il passo.

Tra le pagine si inseriscono e concatenano le ansie e i dubbi dei personaggi, la solitudine e, la speranza e l'illusione che si mescolano nelle loro frammentarie esistenze, suggellate e allo stesso tempo spezzate dalla nascita della piccola Mara, che segnerà irrimediabilmente il loro rapporto.
E' sorprendente come collateralmente, nelle vicende di Giovanni e Aurora, si percepisca vivida e incombente l'idiosincrasia di quegli anni, che personalmente non ho vissuto, ma di cui ancora oggi si raccolgono i frutti e macerie, di quella consapevolezza del fallimento dei propri ideali, che non pregiudica la speranza in un futuro diverso, della confusa e sgangherata reazione ad una realtà che sembra sfuggire di mano, allora come, per certi versi, oggi.

E così i protagonisti sentono gli "anni al contrario", l'inarrivabile scorrere del tempo, e si consolano nella abitudinarietà, costruendosi ognuno, nella propria solitudine le tanto agognate certezze. Chissà se ancora non sia necessario guardare indietro, a quegli anni al contrario, prima di andare avanti.

«In città c'è una nuova generazione con nuovi problemi, nuove droghe, nuove idee o forse nessuna.»

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P.P. Opinione inserita da P.P.    20 Febbraio, 2015
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Diario di un killer, all'apparenza banale

Diario di un killer sentimentale. Non avevo mai letto Sepúlveda, ma le rapide pagine di questo breve racconto meritavano di essere sfogliate a prescindere dal loro contenuto, solamente per la curiosità che suscita il titolo. E se è unanimemente risaputo che non si può giudicare un libro dalla copertina (o dal titolo, nel mio caso), "Diario di un killer sentimentale" ha esercitato su di me un irresistibile fascino.

Un killer con un onorata carriera alle spalle, contravviene alle regole che ha sempre rispettato, infatuatosi della sua "gran figa francese" e la sua distrazione lo mette nei guai. Solo i consigli dell'uomo che incontra riflesso negli specchi riescono a non fargli perdere la bussola.

Banale, sì. Una storia scontata e non troppo originale. Ma qualcosa deve pur esserci, ho pensato. Per cui ho tralasciato l'aspetto della storiella in sè e ho cercato altrove. E allora ho trovato un altra prospettiva, quella della pungente satira verso un genere che si mostra spesso poco incline alla risata. Personalmente mi ricorda molto uno dei film dei fratelli Cohen, quell'humour nero, che si colloca tra la rappresentazione convenzionale e per certi versi scontata, e una irriverente ironia fatta di situazioni paradossali, personaggi dai comportamenti ambigui che a volte eccede oltre i limiti-etici della satira.

Ecco certamente non sarà un capolavoro della narrativa, probabilmente non rimarrà impresso nella memoria, né rappresenterà una svolta nella "vita letteraria" di chi lo legge, ma dopo aver sfogliato rapidamente le pagine di questo Diario, rimane un retrogusto di divertita interdizione, una curiosa incertezza sul proprio giudizio, che costituiscono, per quanto mi riguarda, il punto di forza di questo "libretto".

Una lettura curiosa, da vivere in una prospettiva diversa (cosa che personalmente sono riuscito a fare solo scrivendo questa recensione), che può risultare molto piacevole.

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Fantascienza
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    17 Febbraio, 2015
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Oggi, nel 1984...

1984 - Pista Uno, Oceania.
E' qui che la mente geniale di Eric Arthur Blair si proietta per raccontare la storia di Winston Smith. In un futuro, non troppo lontano da quello che si presagisce essere il nostro, la incerta consapevolezza di vivere in una finzione globale rappresenta per Winston l'unica flebile reliquia della verità. Con indiscutibile sagacia Orwell ci scaraventa in un gioco di specchi tra realtà e finzione, in cui a stento si riesce a distinguerle, fin quando non arrivano a coincidere.

1984 rappresenta sicuramente una brillante satira della società sovietica al tempo, ma va ben oltre, molto più in profondità, riuscendo in una analisi della società stessa e dei meccanismi che la regolano, cui il passare del tempo sembra conferire una sempre maggiore veridicità.
Il futuro in cui vive Winston rappresenta l'abnegazione della libertà, la verità tutti quei valori di cui siamo oggi portatori ma cui diamo sempre meno importanza, e tendiamo a dimenticare. Il dimenticare è un altro interessantissimo tema su cui Orwell punta i riflettori: la realtà, come la percepiamo è solamente il prodotto della nostra memoria, della memoria "storica" (se così la si può chiamare), cioè il rapporto tra il presente e il passato. Nel 1984 la memoria si è persa, volutamente occultata e la realtà è confusa con la menzogna.

Anche a distanza di tempo dalla mia lettura conservo un ricordo nitido delle pagine di Orwell, sento ancora ripensandoci il senso di impotenza e delusione, ma anche il desiderio, forse utopico (mi sembra il termine più appropriato in questo contesto), di ribellarsi, sensazioni che ho provano nel constatare quanto 1984 si avvicini al prossimo futuro. Per questa ragione, non ho potuto aggiungere un voto di più alla voce "piacevolezza", ma ritengo necessaria, la lettura di Orwell, un pezzo imprescimdibile della formazione di ognuno.

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Racconti di viaggio
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    10 Settembre, 2014
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El Mambo-Tango

"Non è questo il racconto di gesta impressionanti, ma neppure quel che si direbbe semplicemente "un racconto un po' cinico"; per lo meno, non vuole esserlo. E' un segmento di due vite raccontato nel momento in cui hanno percorso insieme un determinato tratto, con la stessa identità di aspirazioni e sogni."

Comincia così il racconto di un viaggio, alla scoperta dell'America Latina, alla scoperta di se stessi. Un diario di viaggio, in cui già si intravedono le aspirazioni e gli ideali che poi daranno vita al Che. Latinoamericana è il viaggio di Ernesto Guevara e Alberto Granado, da Buenos Aires a Caracas, lungo le Ande, attraverso l'America Latina.

Non è il diario di un turista, è il diario di un viaggiatore in comunione con il proprio viaggio: così Ernesto e Alberto non prendono aerei da qui a li, ma cavalcano la Poderosa II, almeno finche è intera, non vanno ad ammirare i monumenti, o quanto meno non solo, vanno ad ammirare la gente, si interessano della società latinoamericana, dilaniata dalle multinazionali, dai regimi, si interessano ai lebbrosi che vivono in un isolata comunità in riva ad un fiume, alle ingiustizie sociali, ai minatori sfruttati.
Nel ventiquattrenne Ernesto Guevara, già si presagisce l'esistenza del Che, nella sua attenzione ai più poveri, a quella "classe sociale" che passerà alla storia come proletariato.
Ma è prima di tutto un diario di viaggio, e con una acuta ironia e una sottile sarcasmo, Che Guevara racconta di un incredibile viaggio fatto di passaggi elemosinati, di cadute dalla moto, di sotterfugi e scuse per arraffare qualcosa da mettere sotto i denti. Un viaggio che si vive sfogliando le pagine, un viaggio alla scoperta dell'America Latina.

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P.P. Opinione inserita da P.P.    10 Settembre, 2014
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Storia di una storia vera

« Non si possono contare le lune che brillano sui suoi tetti, né i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi muri. »

Mille splendidi soli è la storia di Mariam, di Laila, di Tariq, dell'Afghanistan.
Ciò che viene raccontato da Hosseini, con mia grande amarezza, risulta molto più vicino alla realtà che non alla finzione, e la costante paura di perdere i propri cari in un esplosione, di rimanere mutilati, di addormentarsi e non risvegliarsi perché un bombardamento ha raso al suolo case, vie, interi quartieri, in non pochi paesi è una attuale terribile realtà. Così come nel romanzo in Afghanistan, oggigiorno in paesi come l’Iraq, la Siria, la Palestina migliaia e migliaia di persone si trovano ad affrontare fame, bombe, infinite privazioni. Innocenti trascinati in conflitti e battaglie, le cui vite vengo stravolte se non spezzate per mezzo di demagogiche ideologie, in realtà pretesti che celano la cupidigia o gli interessi di pochi manovratori.
Non meno importante è la terribilmente realistica descrizione della condizione delle donne, i cui volti coperti nascondo vite di soprusi e sacrifici, per la loro unica colpa di essere donne. Donne come Laila, Mariam donne costrette a vivere soggette alla volontà dei propri mariti, la cui libertà è limitata alle mura domestiche. E anche questa è una condizione attuale, che seppur meno presente che in passato, è vigente in vari paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. La tradizione religiosa islamica, nelle sue manifestazioni più estremistiche, va a contrapporsi ad una progressiva ed effettiva trasformazione della condizione femminile nel mondo, proponendo una modello societario anacronistico, basato su una concezione distorta dei rapporti tra uomini e donne, in cui la donna è relegata ad una condizione quasi servile.
“Mille splendi soli” porta alla luce una realtà sempre più spesso denunciata e avversata, ma per la quale ancora si è fatto troppo, troppo poco in pratica. Hosseini con questo romanzo induce a riflettere, ma la riflessione diventa vana se non coniugata all’azione.

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P.P. Opinione inserita da P.P.    25 Gennaio, 2014
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2 alla 15, cioè 32768

Trovo semplicemente geniale l'idea dell' autore.

Riuscire a entrare nella testa di Christopher dev'essere stata un impresa, eppure pare così reale. E' curioso leggere e sentire, toccare, guardare le cose in modo diverso, è questo che accade leggendo, guardare con gli occhi di Christopher, il protagonista. Mark Haddon ha fatto ciò che non avevo mai visto fare prima, ha cambiato prospettiva: non è una storia che parla di Christopher, diciassettenne affetto dalla sindrome di Aspeger, di come gli altri lo vedono, di come il suo rapporto col mondo sia tanto difficile; E' lui che narra la sua storia, che vede il mondo secondo il suo punto di vista. Lui che se passano quattro auto rosse di fila è una bella giornata, se ne passano quattro gialle è una giornata pessima, lui che se tutto intorno si confonde e le orecchie non reggono più il chiasso, inizia a calcolare le potenze di 2 e torna calmo.

Per quanto "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte" si una finzione ci fa anche solo assaporare l'idea che per QUALCUNO il mondo sia diverso, diversissimo. Ci fa pensare che forse diamo per scontato che tutti vedano, pensino, ragionino come noi, ma non è così. E questo vale per Christopher, che è autistico, come per svariati altri casi in cui di ha una diversa prospettiva. Ciò che per me è insensato (quattro auto in fila) per lui è fondamentale per determinare la sua giornata. In un certo senso ho vissuto la lettura anche come un invito a non vivere con il "paraocchi", a pensare che esiste altro, ed esistono altri al mondo che non possono avere il mio steso punto di vista.

L'autore offre poi diversi altri spunti di riflessione, dalla discussione rapporti familiari alla superficialità che oggi ci contraddistingue.
Ogni tanto la lettura è lenta, c'è qualche errore, ma, in mia opinione, perchè sia veramente il libro di Christopher è giusto che sia così.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    12 Gennaio, 2014
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La storia del libro che voleva essere un thriller

E' difficile definire questo romanzo. Credo di aver sbagliato chiave di lettura, mi aspettavo un thriller, ma non è proprio quello che ho trovato. Accattivante la trama di fondo, ma decisamente mal riuscita. Il problema è che l'autore ha ha provato fondere due generi, idea che può interessante e geniale, ma qui si è tentato di mischiare un thriller ad un saggio storico, cosa quantomai improbabile.

E' come se Matthew Pearl raccontasse due storie contemporaneamente: da un lato degli omicidi ispirati all'inferno dantesco, dall'altro la storia della Ticknor & Filds e del circolo Dante portarono per la prima volta Dante nel nuovo Mondo. Due "storie" che separatamente appaiono intriganti e interessanti, che Pearl ha provato invano ad amalgamare confusamente ottenendo un thriller troppo sconnesso e esageratamente ricco di digressioni inopportune, che smarrisce l'atmosfera del mistero, del giallo, perdendosi tra le vicende personali dei protagonisti.

E' una sorta di panino in cui si cerca di mettere troppi condimenti (una storia editoriale,uno pseud-thriller altisonante, le vicende personali dei vari personaggi, dalla vita privata agli intrighi universitari e altre storie fuoriluogo),esuberanti, tenuti inseme a stento, che viene offerto sotto le mentite spoglie di un'avvincente thriller... ma che in realtà è troppo annacquato e dispersivo per essere definito tale.

Una lettura lenta e deludente per molti aspetti... il compenso è sapere qualcosa in più sulla Boston ottocentesca e su come dante è giunto in America.. giusto una curiosità.

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P.P. Opinione inserita da P.P.    30 Dicembre, 2013
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Thanks Danny

"Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla"
E Baricco di certo una buona storia da parte ce l'ha, una storia stupefacente! La storia di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, l'uomo che visse la sua intera vita sul Virginiam, senza mai scendere a terra, senza mai passeggiare, se non sulle tavole della sala da ballo o sul ferro arrugginito del ponte del Virginiam. Di lui si direbbe sia un pazzo, chi non scenderebbe a terra anche solo per vederla, per toccarla, per curiosità... ma lui non ne aveva bisogno... la vedeva in quei duemila passeggeri (o poco più), che vivevano sul Virginiam, solo il tempo di un viaggio, il tempo di arrivare in America. La terra la vedeva suonando, se così si può dire, facendo scivolare le sue dita su quegli ottantotto tasti... ma la sua non era musica... era molto diverso, era la sua vita, era l'oceano, era il mondo.

E cosi le pagine scorrono spumeggianti come le onde dell'oceano, volano armoniose come le mani di Novecento tra i tasti bianchi e neri. La storia di Novecento è la storia di un uomo,piccolo, troppo piccolo per il mondo, l'infinita miriade di persone, paesaggi, sensazioni che costellano il mondo. E' la storia di un uomo, grande, troppo grande, tanto da scegliere di rimanere se stesso fino alla fine.

Ho cominciato a leggerlo con ottime aspettative, ma alla fine... beh si rimane un po' straniti, si pensa alla storia che scorre veloce tra le pagine, all'oceano, si rimane con la musica di Novecento nelle orecchie e dentro, senza averla mai sentita, è qualcosa di inaspettato e di stupefacente.

Ora avendo letto "Novecento" come monologo teatrale aspetto soltanto di vederlo in scena, anche se dubito che le parole possano esprimere meglio di un libro, le sensazioni e ciò che il lettore nella sua mente plasma leggendo...

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P.P. Opinione inserita da P.P.    13 Dicembre, 2013
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La storia dell'uomo è la storia della sua fame...

“Solo allora Vito aveva capito cosa intendesse suo nonno Antonio quando diceva: La storia dell’uomo è la storia della sua fame. Di affamati che si spostano. E’ la fame dei poveri, dei coloni, dei profughi. E’ la fame avida dei potenti.”

"Mare al mattino" è una storia di profughi, esuli, viaggi, sofferenze, paura, coraggio, speranza...
Sono profughi Jamila e Farid, madre e figlio, in fuga da un paese in guerra. Lo è Angelina, nata in libia da genitori italiani, giuntivi durante l'occupazione fascista e costretta espatriata con l'incombere della dittatura di Gheddafi, ed è profugo di conseguenza anche Vito, figlio di Angelina, perchè esuli si rimane per sempre.

Jamila rappresenta tutti i profughi, i profughi di oggi, quelli dei telegiornali, dei barconi, degli scafisti. Lei che ha sacrificato tutto per il suo futuro, per il futuro del piccolo Farid. Come Jamila e Farid, sono tanti, troppi coloro che sono costretti a fuggire dei propri paesi, costretti ad affidarsi a uomini senza scrupoli, che, pensando unicamente ai propri profitti, li abbandonano su imbarcazioni di fortuna con meno dell’indispensabile. E sono tanti, troppi, quelli che come Farid e Jamila, non arrivano a raggiungere ciò per cui hanno sacrificato tutto. E ancora sono tanti, troppi, quelli che, giunti alla tanto agognata meta si vedono respingere, rifiutare, discriminare, rinchiudere nei famosi C.I.E. ( i Centri di Identificazione e Espulsione italiani, paragonati da chi vi è passato a dei veri e propri lager). Rinchiusi in prigioni che vorrebbero farsi passare per “centri di accoglienza”, in attesa di essere rimandati nei loro paesi di provenienza, più poveri e malridotti di quanto non fossero alla loro partenza. E i governi, “la gente” trova questa soluzione giusta. Altrimenti l’alternativa sarebbe bloccare le frontiere, lasciare morire tutti questi “fuggitivi” in mare, nei loro stessi paesi, logorati da guerre, fame, povertà. Ci sono paesi che hanno già adottato queste misure. E poi, infine, ci sarebbe la possibilità di accoglierli, ma non c’è lavoro, non ci sono soldi, non c’è interesse, non c’è abbastanza per poterli accogliere. E pensare che anche noi italiani, noi europei, noi che oggi rifiutiamo, respingiamo e di fatto spesso “uccidiamo” con le nostre scelte questi esuli in disperata di ricerca di un futuro, anche noi siamo stati un tempo profughi ed emigrati, solo che non vogliamo ricordarlo. Noi, come Angelina e i suoi genitori, abbiamo cercato una vita migliore fuggendo dal nostro paese, verso la Libia, così come verso l’America. Sì, è vero anche molti profughi italiani sono stati respinti, bloccati alle frontiere, sono scomparsi cercando una nuova vita, sperando, ma ciò non ci autorizza a ripetere errori che altri hanno commesso, e che ora stiamo ripetendo.

Ora c’è la crisi economica, il lavoro scarseggia, la povertà e la disoccupazione aumentano, i giovani vedono allontanarsi rapidamente le loro aspettative, il loro futuro. Basterebbe una “ripartizione migliore”, come afferma la Mazzantini in riferimento alla dilagante povertà. I potenti bramano sempre più potere, i poveri e i deboli, affondano sempre più nella loro miseria e solitudine. E’ sempre stato così nella storia, anche se, certamente, ci sono stati momenti in cui questo fenomeno è stato ridimensionato. Ma ciclicamente ricadiamo nei nostri errori, e questa situazione perdurerà all’infinito. A meno che non si riesca a capire, che ci sarebbero risorse per tutti, “basterebbe” che ognuno rinunciasse ad un po’ del proprio egoismo, *perché ancora una volta*, a cercare i responsabili delle guerre, della fame che portano tanti, tantissimi a emigrare, lasciare le proprie case,* non c’è che da guardarsi allo specchio. Ovviamente ci saranno alcuni più responsabili di altri* (rubo le frasi tra * e * al film V x vendettta che consiglio a tutti di vedere), ma è per l’egoismo di alcuni che molti si trovano costretti a fuggire in cerca di condizioni di vita migliori. Forse è utopico pensare che si possa trovare una soluzione, una soluzione equa per tutti, ma come si suole dire “la speranza è l’ultima a morire”.

"Mare al mattino" presenta una realtà, quella dei profughi dei migranti, con frasi dirette, fredde, profonde, cariche di significati e emozioni, come solo la Mazzantini è in grado di fare. Avevo già affrontato il tema dell’ immigrazione,in altri modi, altre circostanze, ma non in modo così diretto ed esplicito. Finita di leggere l’ultima pagina rimane un retrogusto amaro, come un senso di impotenza e di rimorso di fronte alle storie raccontate in “mare al mattino”. E’ questo senso di asprezza e quasi indignazione, si accresce a pensare che le storie di Farid, Jamila, Angelina non sono fantasticherie di un autore malinconico, ma sono reali, o meglio ciò che vivono i protagonisti, è vissuto da centinaia, migliaia di profughi in tutto il mondo. Poi l’indignazione che da principio mi aveva pervaso, lascia il posto allo sconforto e al rammarico e alla delusione. Perché io, io che sono rimasto inerte di fronte a queste tristi verità, non sono meno responsabile degli scafisti che hanno abbandonato una moltitudine di vite su un barcone malridotto. E non ci si può limitare a compiangere i morti, e ad addossare colpe, perché i primi a non agire siamo proprio noi. Questo è ciò che mi ha insegnato la lettura, questo è ciò che ho capito rapportandomi con realtà, che i media e i governi nascondo, non stessi spesso ci rifiutiamo di vedere. Per questo mi sembra oltremodo inconcepibile, che ci sia, oggi, chi riesce a pensare che sia giusto rispedire in mare questi profughi, “usurpatori di lavoro”, “ladri”. Quale lavoro? Sicuramente chiunque di noi farebbe la badante, passerebbe ore e ore a faticare in un campo, rischierebbe la vita in un cantiere abusivo, per una manciata di spiccioli, come accade spesso e volentieri a molti dei profughi che giungono qui in Italia. Perché molti non ne hanno neanche la possibilità, in quanto sprovvisti di permessi di soggiorno, sono costretti a elemosinare senza identità per le strade, o a tornare indietro da dove sono venuti.
Grazie a questa lettura sono riuscito ad avere un’idea della realtà dell’emigrazione. Ed è questo che ricorderò di “mare al mattino”, il sapore del mare in tempesta, il sale incrostato sulle labbra assetate, l’odore di cera nella fabbrica dei genitori di Angelina, il dolore, la sofferenza nell’abbandonare tutto per un futuro incerto, una meta indefinita, coscienti che dovunque sia meglio del luogo da cu si fugge. Ricorderò emozioni e sensazioni, che mi sarà difficile dimenticare, forse impossibile, che non mi hanno lasciato indifferente come spero non abbiano lasciato indifferente chiunque abbia sfogliato le stesse pagine.

Giuseppe

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Consigliato a chi ha intenzione di aprire gli occhi sul tema dell emigrazione, e anche a chi a letto altre volte la Mazzantini ;)
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P.P. Opinione inserita da P.P.    13 Novembre, 2013
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Un'allegoria quantomai attuale...

La "Fattoria degli animali" è un complesso di caricature della società moderna, delle sue ipocrisie, delle false verità, del sistema di potere, che Orwell è capace di riassumere e analizzare in un centinaio di pagine,in modo più che efficace, come non mi era mai capitato di leggere. E' una esplicita esposizione di idee, un concentrato di valori, aspetti e sfaccettature della società di oggi.


Il romanzo, concepito dall’ingegnosa mente di George Orwell , si pone come un’allegoria, in chiave critica, della Rivoluzione russa, che tuttavia può essere letta più in generale come un’allegoria della realtà di oggi, attuale, anche a distanza di decenni. Così gli animali della fattoria padronale si ribellano all’uomo, spietato sfruttatore, ma qualcosa nella rivoluzione va storto, e i poveri animali si ritrovano nuovamente sottomessi, ma stavolta con l’illusione di essere liberi, situazione, a mio giudizio, ancora più sgradevole. Orwell evidenzia quella brama irrefrenabile di possedere di più che è propria dell’uomo, tale che persino chi afferma i più nobili ideali e avanza con le migliori intenzioni, di fronte al potere che gli si prospetta davanti si trova spiazzato, perde i propri riferimenti e, giunti a questo punto si prospettano due possibilità: continuare a sostenere le proprie idee, la libertà di esprimerle e, purtroppo non in molti sono capaci di farlo, o lasciarsi corrompere dalla cupidigia, dall’esaltazione dell’egoismo, e cedere i propri ideali, la vera libertà, in cambio di un illusorio potere. Palla di Neve e Napoleon, i due maiali che si sono affermati come rappresentanti della fattoria, rappresentano esattamente i due atteggiamenti che si possono avere di fronte al “potere”, e purtroppo l’esperienza dimostra che nella triste realtà di oggi, come nella fattoria degli animali, spesso il susseguirsi degli eventi premia chi si abbandona alla cupidigia.


Ma Orwell non si limita a descrivere un particolare aspetto della società, nella storia ogni personaggio, ogni situazione, ogni avvenimento ha un preciso scopo e significato, così Gondrano, il cavallo della fattoria, instancabile lavoratore, rappresenta coloro che si sottomettono al sistema, convinti nella loro ignoranza della propria scelta, ma in realtà ignari dei giochi di potere dei “padroni” che si arricchiscono sulle loro spalle. E ancora Clarinetto, portavoce di Napoleon sfrutta la sua abilità di oratore per illudere gli altri animali della fattoria, convincendoli sulla base di false stime e mezze verità, di essere liberi e uguali, mentre la situazione è del tutto diverso, come per esempio testimonia ironicamente uno dei “comandamenti” imposti dai maiali “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. E poi ancora altri personaggi, caricature delle varie personalità che vivono in questa falsa realtà, come Benjamin, l’asino che si astiene da alcun giudizio, nonostante la propria intelligenza, poiché apatico, passivo spettatore del suo presente e indifferente di fronte al suo futuro. O Mosè il corvo, che promette agli animali il paradiso, sul “Monte Zuccherocandito”, allegoria di una chiesa ipocrita, assoggettata al potere. Ognuno degli animali ha un suo ruolo nelle società della fattoria e, tutti sembrano impotenti di fronte a un destino infelice, in quanto chi dovrebbe creare il futuro comune (i maiali, che governano la fattoria) è intento a curare i propri interessi.

E' una lettura da cui ho imparato molto. Basta solo andare oltre il sottile velo di ironia e la metafora, per scoprire che ognuno di noi è uomo, "maiale" o un qualunque altro animale della fattoria.
Sta a noi scegliere quale...

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Consigliato a chi ha intenzione di sottrarsi alla falsa realtà proposta dai media, dalla massa, dai governi, dalle mode... dalla gabbia di menzogne che la società e noi in primo luogo, ci costruiamo intorno, precludendoci la realtà.
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P.P. Opinione inserita da P.P.    18 Ottobre, 2013
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Ognuno è "diviso"

Inconsueto e geniale. Il modo in cui Calvino decide di trattare un tema tanto profondo, quanto delicato: l'incompletezza dell'uomo. Quale migliore metafora per esprimerla se non la figura di un uomo letteralmente diviso a metà? E' così che appare Medardo, visconte di Terralba, che, centrato da una palla di cannone, viene diviso in due metà, una "cattiva", l'altra "buona". Da un lato la prima crea scompiglio e devastazione ovunque passi, dall'altro quella buona cerca di rimediare ai misfatti della controparte, eccedendo in generosità e affetto.

Ecco, il problema che pone Calvino è quantomai attuale e ambiguo, tutti noi come Medardo siamo "divisi". Nel nostro essere una delle "parti" tende a prevalere sull'altra, il nostro obbiettivo dev'essere quello di trovare un equilibrio tra le idee e le emozioni che ci animano. Da un lato eccedere nel "male", porta a conseguenze evidentemente negative, dall' altro eccedere in direzione opposta, contrariamente a quanto si possa pensare, non dà migliori risultati... Solo riuscendo a conciliare le proprie metà, le sfaccettature della propria persona, si può essere interi. Ma la “divisione” dell’uomo va anche oltre la concezione delle due metà, l’uomo è diviso nelle scelte, nelle decisioni quotidiane e fugge l’insicurezza rifugiandosi nella monotonia, nelle banalità, si finisce per preferire la certezza dell'ignoranza, ai rischi che può portare la conoscenza, l'andare oltre le cose.

Di questo libro ricorderò sicuramente il messaggio, che si legge tra le righe delle pagine, di non limitarsi alla propria incompletezza, di non vedere ciò che ci si presenta catalogandolo come “bene” o” male”, non limitarsi ad un punto di vista, ma di valutarlo nella sua interezza, senza preconcetti e pregiudizi, e cercare ciascuno nelle proprie azioni di trovare un equilibrio, perché eccedere, sia nel "bene" che nel "male", ci rende incompleti.

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...la trilogia de "I Nostri Antenati", o ha voglia di un libro semplice, profondo e interessante
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P.P. Opinione inserita da P.P.    10 Ottobre, 2013
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“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”

“Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi”
Un romanzo storico, un giallo, un saggio "Il nome della rosa" abbraccia un po' tutti questi generi....
Un mistero che fa da filo conduttore per tutto il racconto, una critica all'ipocrisia del medioevo e della chiesa medioevale, un "trattato di storia" per certi versi. Il romanzo ruota attorno ad una misteriosa e oscura abbazia italiana del XIV secolo,le cui mura a discapito dell'apparenza nascondono trame e segreti occulti, figure ambigue e altisonanti, corruzione, intrighi, menzogne, e tocca a frate Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, suo fedele allievo dissipare l'alone di mistero e falsità che avvolge le vicende dell' Abbazia.
Ma il romanzo non si limita a raccontare una storia, come già detto, in quanto tra le pagine si legge della chiesa medioevale, della storia di tutta l'Europa e dell' Italia in particolare, digressioni che a prima vista posso sembrare inadeguate ma che non si può fare a meno di leggere con interesse e curiosità, smorzate dalla acuta e pungente ironia dell'autore.
"Il nome della rosa" appare in fine, come una critica, o quantomeno una riflessione sull'importanza del ruolo della chiesa del tempo e sulla corruzione morale dei valori che pregiudicarono la visione del Medioevo nei secoli a venire. E bandiera di questa denuncia è proprio la figura di Guglielmo da Baskerville, frate francescano che si dimostrerà lungi dall'essere influenzato dalla rigida "moralità" del suo ordine, rappresentando l'uomo che non cede alla superstizione, agli intrighi del potere, ma si dissocia da una comune corruzione dei valori ( la cultura, l'etica) riuscendo a crearsi una propria visione del mondo, e a manifestarla a tutti quanti siano disposti ad ascoltarlo, senza il timore di andare contro corrente o contro la falsa morale e le regole.
"Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus" ( Della rosa rimane ormai solo il nome, nomi nudi ci rimangono), con questa frase si conclude il romanzo, frase che, secondo la mia opinione, lascia una libera interpretazione a seconda delle emozioni che ha suscitato nel lettore...

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Umberto Eco o è in cerca di qualcosa in più di un comune libro
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Gialli, Thriller, Horror
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    22 Giugno, 2013
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Giallo nell'antica Atene

Stupefacente, appassionante, degno della penna dei maestri del genere.
Un giallo particolare, che prende vita tra le vie dell' antica Atene, sotto il potente impero di Alessandro Magno. La vita di Stefanos viene stravolta quando, dopo la morte del ricco Buotades, rispettabile e importante cittadino di Atene, viene accusato dell'orribile delitto suo cugino Filemone. Stefanos ancora giovane e inesperto, viene costretto, in qualità di figli maggiore del suo defunto padre Nichiarco, a difendere il cugino. E chi meglio può aiutarlo del suo "ex-maestro" Aristotele?
Ha così inizio un intrigante indagine, nella quale l'astuzia e l'ingegno di Aristotele verranno messe a dura prova...
La storia è molto coinvolgente, l'ambientazione originale e intrigante; non avevo grandi aspettative quando ho cominciato a sfogliarlo, ma arrivato all'ultima pagina ho cambiato completamente idea.
E' impressionante la precisione delle descrizioni, l'accuratezza nel descrivere un epoca così lontana, fin anche le varie fasi del processo, gli usi e i costumi, rendendo il tutto estremamente realistico.
E poi è affascinante la figura di Aristotele, che con la sua esperienza, la retorica, la logica riesce a guidare il giovane Stefanos, conducendolo verso la verità, con l'atteggiamento di un maestro che guida il suo allievo, insegnandogli non solo cosa pensare, ma soprattutto come pensare.

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P.P. Opinione inserita da P.P.    03 Giugno, 2013
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Un cavaliere specchio dell'attualità

In quest'opera Calvino riesce ad analizzare, attraverso il passato, il nostro presente evidenziando aspetti e contraddizioni del mondo moderno che spesso passano inosservati.
Il romanzo è un’ efficace quanto inusuale metafora per "leggere" l'attualità. E’stupefacente l’idea di un cavaliere sorretto unicamente dalla propria forza di volontà. Ed affascinante il modo in cui viene presentato il personaggio di Agilulfo, mitigato da una sottile ed acuta ironia, tipica dei Calvino, che in realtà, come anche gli altri personaggi presenti nel racconto e nella trilogia dei “Nostri Antenati”, rappresenta aspetti della società quanto mai attuali. Il “vuoto” dentro l’armatura di Agilulfo può essere visto come il vuoto della società moderna, avvinghiata a idee e modelli consolidati e omologati, attaccata alle frivolezze che all’interno è vuota, e pertanto quando viene a mancare la consuetudine, cioè di cui si è fatta l’unica ragione di vita, ci si perde, ci si dissolve senza che rimanga niente se non l’involucro esteriore di ciò che si è ritenuto essere tutto, quando invece i valori morali e culturali si offuscano sempre più, soppiantati da quanto è immediato e diretto, per cui non è necessaria la fatica di un ragionamento o di una critica. Ugualmente gli altri personaggi si possono intender metaforicamente come risvolti della società: Gurdulù che esiste ma non sa di esistere, ed è in cerca della propria identità e individualità, e che non avendo una coscienza di se, del proprio “esistere” imita ciò che già esiste, tuttavia senza mai identificarsi totalmente nell’altro e tornando alla ricerca di sé dopo essersi reso conto di non aver conseguito il proprio obiettivo.

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Calvino
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Gialli, Thriller, Horror
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    01 Marzo, 2013
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Un capolavoro di Conan Doyle

Perfetto! Ho amato sin dall'inizio Holmes ma questo è sicuramente uno dei romanzi più avvincenti di Conan Doyle! Una casa isolata nella desolata brughiera del Devon, un omicidio in insolite circostanze, una misteriosa e inquietante leggenda... Un'atmosfera perfetta per un capolavoro! Ancora una volta le avventure Holmes e Watson non mi hanno lasciato fiato, era come se fossi io stesso a svolgere le indagini, improvvisando supposizioni e congetture. Eccezionale!
Conan Doyle è riuscito ad intrecciare abilmente il thriller con il giallo, dando anche una "pennellata" di horror qua e là, dando alle vicende già di per sè abbastanza inquietanti, una suspance che tiene incollati al libro. Sembra sempre che il mistero sia giunto alla conclusione, ma Conan Doyle tira fuori un' altra complicazione, un nuovo sospetto, che Holmes con la sua arguzia e le sue mirabili capacità riesce sempre a dirimere, considerando ogni possibilità. Mai scontato e, ripeto, eccezionale!

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un qualunque libro giallo ed è in cerca di qualcosa di particolare...
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Gialli, Thriller, Horror
 
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P.P. Opinione inserita da P.P.    24 Febbraio, 2013
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UN THRILLER MOLTO SOFT...


Una copertina illusoria che nasconde la storia di Alice Allevi, specializzanda in medicina legale, un personaggio curioso e un po’ anticonformista, che cattura in quanto “afflitto” da tutte le vicissitudini quotidiane proprie di qualunque persona,che abbracciano il difficile contesto lavorativo, una tumultuosa vita privata, il tutto condito da una non trascurabile ironia che dà colorito alle curiose avventure di Alice. Ecco, l'originalità di Alice, ciò che colpisce di lei è proprio la sua "umanità" che la rende quindi più vicina al lettore e, di conseguenza anche più apprezzata. Le vicende si snodano intorno ad un delitto neanche troppo accattivante, ma l'atmosfera del thriller è già destinata ad esaurirsi tra le prime pagine per lasciare il posto ad una storia (nel suo genere) coinvolgente e appassionante che propende più al romanzesco che al "giallo", nella quale sono abilmente intrecciate le vicende, tuttavia, ricorda più una fiction che un vero e proprio thriller, sia per la rapida e veloce successione di scene e avvenimenti sia per la evidente propensione al "rosa".

Posso quindi affermare che la lettura non ha pienamente rispettato le mie aspettative, poichè veniva presentato come un thriller, ma non posso dire che non mi abbia comunque coinvolto e interessato. L'allieva resta comunque un ottimo esordio.

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P.P. Opinione inserita da P.P.    19 Febbraio, 2013
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Una difficile realtà

"Un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci, e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto a una spanna dalla fronte, allora di vivere varrà sempre la pena”
Trovo decisamente interessante questa biografia di Enaiatollah, e la consiglierei a chiunque abbia l’età per comprenderne i contenuti, perché dà qualcosa che notizie sui giornali, libri di geografia e quant’altro, non riescono a dare, ovvero le emozioni, la fatica e la sofferenza di coloro che decidono di fuggire dai propri paesi di origine, nella speranza di trovare un futuro migliore. Insomma, trovo molto interesente questa storia, raccontata dagli occhi di un ragazzo e trascritta su carta con semplicità, tale e quale a come è stata narrata, e mi auguro di tenere sempre presente il ricordo di questa lettura e l'insegnamento che ne ho tratto.

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