Opinione scritta da FabCat
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Sudtirolo tra fascino e terrore
Così come in La sostanza del male, è lo scenario del Sudtirolo la vera star del romanzo: le vette innevate, il silenzio, il freddo rigido che entra nelle ossa, e la vita degli uomini intrecciata alle regole aspre e inesorabili della natura. Una natura che spreme a fondo gli istinti di sopravvivenza e che può portare alla follia, a confondere realtà e immaginazione, tra gesti di grande generosità e azioni di estrema violenza.
Luca D’Andrea è entrato tra i miei autori preferiti, mi piace il suo stile asciutto ma attento alla storia di ogni personaggio, e il suo modo di creare la tensione quasi per sottrazione, lasciando cioè che sia il lettore a completare il quadro.
Attendo il suo prossimo thriller, magari, perché no? sconfinando dalla sua area di comfort, auspicando che sia ambientato anche fuori dal Sudtirolo...
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Un'idea esplosiva, purtroppo un po' deludente
Questa volta non è il solito Dan Brown, è un po' peggio. Ma non troppo. I personaggi-figurine che corrono come pallini su una mappa ci sono sempre, così come l'unità temporale, la corsa contro il tempo, gli enigmi da risolvere e l'esemplare femmina di turno nel ruolo di accompagnatrice di Langdon. Naturalmente anche l'effetto "Sponsorizzato-dall'Ente-del-Turismo-di" non manca (la Spagna ringrazia). Elementi ormai rassicuranti ai quali, in questa occasione a mio parere, si aggiungono diversi fattori negativi di stile. Per esempio l'irrompere continuo dell'autore nel racconto perché deve riferire un antefatto o dare informazioni di servizio; oppure il ricorso infinito ai demenziali pensieri virgolettati dei personaggi a scapito dei dialoghi. Inoltre, dopo un inizio dirompente, tutta una parte centrale che ho trovato noiosa, con l'impressione che si volesse tergiversare per non sapere dove si volesse andare a parare.
Però, come Inferno, anche Origin ha un enorme pregio, quello di veicolare al grande pubblico un tema importante controverso e di attualità. Se nel romanzo precedente era la sovrappopolazione mondiale, in questo è l'intelligenza artificiale, rappresentato qui da un personaggio virtuale davvero impressionante e che forse è il più bello finora della bibliografia di Brown.
Come ulteriore contenuto molto appassionante secondo me, il conflitto tra creazionismo ed evoluzionismo, tra religione e scienza, tra superstizione e razionalità, che sembra fare di Origin la continuazione ideale de Il codice Da Vinci.
In ultimo, ci sarà sì l'effetto "Sponsorizzato-dall'Ente-del-Turismo-di", però anche stavolta Dan Brown trasmette davvero un amore genuino per l'arte e per i luoghi che ci fa scoprire nei suoi romanzi.
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La Storia, prima di tutto
La prima considerazione è che questo terzo capitolo della trilogia di Kingsbridge è di fatto un romanzo autonomo e che può essere apprezzato pienamente anche da chi non abbia letto né I pilastri della terra, né Mondo senza fine. Tom il costruttore, il priore Philip, Caris o Merthin sono antenati lontani il cui nome riecheggia sporadicamente, qua e là in qualche pagina, mentre il racconto ci trasporta spesso lontano dalla immaginaria Kingsbridge e dalla sua mitica cattedrale, nelle città e nelle corti d'Europa che nel XVI secolo giocano un ruolo chiave nel tragico conflitto tra protestanti e cattolici.
Il periodo storico è interessantissimo, e infatti è proprio la Storia qui a essere la vera protagonista, dentro la quale sono intrecciate le vicende di tutti i personaggi, sia quelli reali, sia quelli di fantasia. La potenza narrativa di Ken Follett ci può far trovare al fianco di Ned per rivivere la travagliata ascesa al trono di Elisabetta I, oppure con Barney nel pieno della incredibile battaglia navale della Invincibile Armata. E poi, il grande tema della tolleranza religiosa, che forse è destinata a rimanere per sempre un ideale irrealizzabile.
Un unico elemento ho apprezzato meno: ho avvertito una insolita freddezza nello stile, un generale distacco dell'autore dai suoi personaggi. In alcuni momenti chiave mi sarei aspettato una tensione emotiva maggiore. Forse proprio perché qui la cronaca storica, rispetto ai due libri precedenti, non è solo uno scenario sullo sfondo, ma il binario principale del romanzo. Comunque una lettura avvincente che mi ha tenuto incollato per tutte le 900 pagine.
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I vincenti e i perdenti
I mass media non servono per dare le notizie al pubblico, ma a impiantare in esso un pensiero, condizionare la sua opinione, influenzare il suo comportamento, il suo voto… Attraverso tecniche collaudate il mondo dell’informazione mente senza mentire e accusa senza accusare. È il quarto potere, bellezza, e fin qui nulla di nuovo. In Numero Zero però lo tocchiamo con mano, tutto ciò. Lo sentiamo nei dialoghi durante le riunioni, possiamo immaginarci le espressioni facciali e i luoghi. Possiamo renderci conto della reale considerazione che l’informazione ha della propria audience.
A più di vent’anni dai fatti del romanzo sembra che le cose non siano cambiate, e così come Manzoni usava i dominatori spagnoli del ‘600 al posto degli austriaci, Eco usa le redazioni degli anni 90 al posto delle attuali. E allora anche lui fa lo stesso gioco: insinuare, parlare d’altri mentre si riferisce ai protagonisti di oggi (il riferimento al magistrato dai calzini turchesi). Ma forse sono sempre gli stessi… Comunque, siamo nel…
Giugno 1992: i telefoni cellulari sono oggetti misteriosi alla portata di pochi, i dati sono salvati su dischetti, Tangentopoli è appena cominciata e, ancora in un mondo senza internet, i quotidiani hanno come unico avversario la televisione. La storia inizia come un thriller, con un omicidio, poi un flashback a scoprire come uno scrittore fallito si ritrovi a collaborare a un progetto fallito in partenza insieme a giornalisti falliti coordinati da un direttore naturalmente fallito anche lui, e a trovarsi inspiegabilmente in una situazione di estremo pericolo.
C’è un filo in effetti che corre lungo tutta la storia: il tema del perdente. Il protagonista, uno scrittore che si è fatto una cultura notevole anche senza essersi laureato, traducendo dal tedesco volumi dai temi più disparati, si ritiene un perdente “I perdenti hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte”. Ma qui tutti sono perdenti, l’imprenditore/editore che deve ricorrere a un giornale potenzialmente ricattatorio per farsi aprire le porte del salotto di chi conta, come anche la giornalista dagli strani ideali esterofili. Siamo perdenti anche tutti noi, abitanti di un Paese che non sa più cos’è l’indignazione.
Nonostante si tratti di un romanzo talmente breve e scorrevole che si legge con comodo in un weekend, la storia è densa di contenuti, affascinante per il suo ricostruire un complotto dal dopoguerra fino agli anni di piombo, con personaggi e dialoghi intriganti (l’imprescindibile Braggadocio su tutti) caratterizzati dal tipico umorismo di Eco.
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50 sfumature di Huysmans
La trama è nota ormai: in estrema sintesi siamo nel 2022 e le elezioni presidenziali francesi sono state vinte dal partito della Fratellanza Musulmana. La sua dirompente attualità, amplificata soprattutto dall’uscita in coincidenza ai fatti sanguinosi di Parigi, non deve tuttavia trarre in inganno: Houellebecq non è la Fallaci e “Sottomissione” non è “La rabbia e l’orgoglio“.
Lo sguardo che indossiamo è quello di uno stimato docente universitario quarantenne, di cui capiamo subito le due principali passioni: Huysmans e le proprie studentesse. Al primo ha dedicato anni di ricerche e una voluminosa tesi universitaria, e a lui si rivolge costantemente come a un amico immaginario. Alle seconde, come anche a diverse prostitute, dedica gran parte del proprio tempo libero. Senza lesinare in dettagli. Anzi, forse un uso consumistico della donna e la approfondita descrizione delle diverse acrobazie erotiche ci serviranno in seguito, quando vedremo applicata la concezione che ha il regime musulmano delle donne.
Al centro di tutto c’è però il nostro interesse a scoprire come, in questo futuro immaginato molto prossimo, possa succedere che un partito islamico prenda pacificamente e legittimamente il potere, e cominci la sua conquista dell’Europa (realizzando peraltro la profezia della Fallaci). In una Francia che sembra l’Italia, dove il nazionalismo berciante della Le Pen ha schiacciato l’immobilismo dei partiti di destra e di sinistra, troviamo un Paese stanco, disilluso, cinico e soprattutto senza ideali. Più di un secolo dopo il cammino di Huysmans verso la fede cristiana, ecco che l’Islam è accolto come portatore di una nuova visione del divino, perché la vera libertà, ora, possa scaturire attraverso l’assoluta sottomissione a esso.
Allora è colpa della crisi del Cristianesimo, del secolarismo dell’Occidente che non soddisfa più l’umano bisogno di fede? Davvero felicità e sottomissione sono strettamente collegate? Ma soprattutto: è la religione a usarci, o siamo noi a usare la religione per opportunismo? Tanti argomenti appassionanti e diversi personaggi affascinanti (come l’ex agente dei servizi segreti), raccontati in una forma a tratti forse fin troppo distaccata e pedagogica, cosa che succede quando il linguaggio del saggio diventa un po' invadente.
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Sapete chi è l’assassino, non fate finta di niente
La sotterranea lotta tra bene e male è il tema classico di King che in questa occasione si muove sulle gambe di personaggi reali e in carne e ossa, in una caccia all’uomo che effettivamente è abbastanza lineare e forse poco originale. Considerando che il filone poliziesco, tra letteratura e serie tv, è ampiamente saccheggiato, cosa rende speciale questo romanzo?
C’è la classica e indiscussa capacità di King di costruire ad arte personaggi attraverso le loro emozioni, le loro debolezze, le loro aspirazioni. E naturalmente attraverso le loro paure. I suoi personaggi hanno loro stessi una storia, e sono sempre l’elemento fondamentale del racconto. È lo stile di King: ti prende per mano e ti fa entrare nella testa, nei pensieri delle sue creature, buone o cattive, reali o fantasiose che siano, senza giudicarle, e sembra suggerirti che quei mostri non sono poi tanto distanti da te. Anzi, in questo caso forse sono l’effetto collaterale di un mondo reale sempre più diviso tra poveri e ricchi, tra privilegiati e sfortunati.
Questo è secondo me l’elemento disturbante e attuale di Mr. Mercedes: la disuguaglianza sociale genera mostri. Un aperto razzismo e uno sfacciato disprezzo verso i disabili dettati dalla paura della povertà e dell’anonimato. La paura dell’indifferenza sociale. Sono elementi che possono portare ad atti di follia assassina, perfino a un infanticidio. Non è certamente casuale che la strage iniziale di disoccupati sia compiuta utilizzando un simbolo eloquente del benessere, una Mercedes SL500, la cui ricca proprietaria a cui è stata rubata è solo preoccupata che le sia restituita al più presto e ben ripulita.
Oltre che una avvincente caccia all’uomo, mi piace pensare che Mr. Mercedes contenga un sottotesto di denuncia sociale: l’autore sceglie di rivelare subito l’identità dell’omicida al lettore, come a volerlo allarmare, oppure a responsabilizzare, invitandolo implicitamente a non comportarsi con sbrigativa indifferenza, ma a fare più attenzione a quello che gli succede intorno.
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Nella nostra epoca non si possono avere dubbi
La reputazione che con il tempo si è guadagnato Mallarino è quella del disegnatore satirico duro e puro, che non guarda in faccia a nessuno, né all’oligarchia politica, né agli amici. Perfino dopo aver ricevuto minacce per una vignetta sgradita è sprezzante riguardo alle paure di sua moglie e non ha nessuna intenzione di tradire la sua missione: “la caricatura è un pungiglione intinto nel miele”.
Una carriera che ora viene consacrata dalla società colombiana in una importante cerimonia in suo onore in occasione della quale, però, una donna in cerca di verità costringerà Mallarino a fare i conti con un episodio del passato: una particolare vignetta che condizionò le vite di molte persone e che forse, ancora dopo tanto tempo, può ancora far male.
Il potere privo di dubbi dei media e della satira, i loro limiti e la loro effettiva utilità; ma anche gli inganni della memoria, che “ci permette di ricordare ciò che non abbiamo vissuto”… Molti temi interessanti, tante riflessioni affascinanti e tante implicazioni attuali; forse fin troppo materiale per sole 150 pagine, e tutto tenuto insieme da un racconto che in parte è un giallo, in minima parte è anche una storia d’amore. Una di quelle letture che meritano un secondo giro.
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Oltre i limiti delle proprie paure
Colomba e Dante hanno subito entrambi un durissimo colpo dalla vita, indeboliti psicologicamente da eventi tragici che hanno profondamente condizionato le rispettive vite. Eppure, una volta coinvolti loro malgrado nel caso del bambino scomparso, entrambi saranno travolti dalla propria stessa indagine e costretti ad affrontare ognuno le proprie peggiori paure per salvare se stessi e delle vite innocenti.
Quello che sembra una banale caccia all'uomo infatti si rivela essere presto solo un piccolo dettaglio all'interno di un quadro ben più ampio e via via sempre più articolato. Un susseguirsi di colpi di scena e intrecci sorprendenti, un ritmo sostenuto e personaggi tanto veri quanto ambigui. A partire proprio dai due protagonisti che, a dispetto del proprio ruolo di "eroi", con le loro spigolosità e debolezze non vogliono piacere a tutti costi, ma svelano se stessi poco a poco. Come se prendessero gradualmente e realisticamente confidenza sia fra loro, sia con chi legge.
Insomma questo si può tranquillamente chiamare un gran bel thriller, crudo (memorabile il racconto dell'attentato) e a tratti spietato, che può stimolare confronti e interpretazioni.
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Dio esiste o non esiste? Non è questo il problema.
Quando Darwin si trovò a difendere la sua teoria dell’evoluzione lo fece sempre con un forte senso di rispetto nei confronti dei suoi avversari creazionisti, anticipando perfino le loro obiezioni e argomentando con estrema sensibilità. Era consapevole che decenni di ricerche, per quanto articolate e approfondite fossero, non sarebbero bastati a evitare gli attacchi che idee e convinzioni radicate da millenni avrebbero lanciato. Darwin sapeva già allora che è proprio la struttura stessa del cervello umano a rifiutare concetti come la selezione naturale, o a cercare un’intenzionalità per qualsiasi evento, anche per quello più casuale.
Con lo stesso spirito pacato e mai irriverente, tre docenti universitari si alternano nell’esporre attraverso studi, ricerche e moltissimi, sorprendenti esperimenti scientifici, i motivi secondo i quali la religione e le credenze sovrannaturali accompagnano la storia dell’uomo da più di ventimila anni.
Il risultato è davvero affascinante, per esempio scopriamo che già a pochi mesi i bambini per istinto riconoscono se un oggetto in movimento contraddice una legge della fisica come la gravità. Oppure che l’altruismo è un dono innato nell’uomo come in altri animali, o ancora che il comportamento dell’uomo è condizionato da automatismi che risalgono alla Preistoria.
A differenza di altri autori, come Augias o Ehrman, questo saggio non affronta le contraddizioni storiche dei testi sacri, o la domanda se Dio esista oppure no; ma piuttosto racconta con un linguaggio scientifico quasi sempre abbastanza semplice e scorrevole i motivi per i quali in una mente evoluta come la nostra è così radicata la credenza nell'irrazionalità, oppure perché esiste la superstizione. Un percorso davvero attuale che può rivelare tante sorprese su chi eravamo e su chi siamo oggi.
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Come prevedono il futuro i mercati? Lo causano
«La fortuna non esiste» è il motto che ripete continuamente il protagonista Massimo, e che identifica il suo mondo, quello della finanza speculativa bancaria, quello dei diavoli che non lasciano nulla al caso. Il “floor” è il luogo dove operano tutti i giorni, dal quale sono in grado di creare o distruggere denaro, di decretare il fallimento o la sopravvivenza di interi Stati e di trasformare lo stile di vita di quei Paesi in un inferno. O almeno per chi non appartenga a una classe sociale privilegiata.
La fortuna non esiste perché la ricchezza si controlla, si dirotta e si gestisce in modo che l’Occidente (ovvero gli Stati Uniti d’America e il dollaro) possa conservare il ruolo di guida morale ed economica del pianeta. Anche diffondendo paure destabilizzanti sull’Euro. Anche a costo di vite umane, perché la guerra in Europa non è mai finita, si è solo trasformata in un’altra cosa.
Non esiste il libero mercato, perché aziende sane e produttive vengono imbottite di debiti e distrutte, le vite di chi ci lavora spezzate. E poi il divario sempre più ampio tra poveri e ricchi, la classe media sempre più esigua, gli scontri sociali sempre più accesi. E resistere non serve a niente. Questi sono danni collaterali, sono sempre esistiti, è il prezzo inevitabile del progresso e i diavoli sono solo gli esattori di questa tassa occulta.
Sopraffatto dai ricordi di un passato che sembra indicargli sempre più intensamente la persona che lui è davvero, Massimo comincia a mettere in discussione se stesso e il suo lavoro, e lo fa proprio quando ottiene l’avanzamento di carriera che è il premio di una vita. Il suo, però, non è un ravvedimento miracolistico, ma è più un retrocedere per gradi, con un comportamento contraddittorio e non privo di ricadute, e ciò rende il personaggio più credibile, la vicenda più verosimile.
Come nel romanzo di Walter Siti, citato esplicitamente e il cui protagonista Tommaso è in parte ispirato a Guido Maria Brera, ci si chiede fino a che punto arrivi il confine tra vero e verosimile. Fino a che punto è avverabile il disastroso scenario futuro che si descrive nel romanzo? Esiste davvero questo potere al di sopra della politica e dell’economia reale in grado di condizionare gli eventi? Ma soprattutto: se è vero che la fortuna non esiste, è possibile modificare il corso degli eventi e costruire da ora un futuro più degno?
Scritto molto bene, nonostante qualche caduta di ritmo, “I diavoli” è in grado di appassionare già dalle prime pagine. Con una intrinseca propensione divulgativa, il romanzo è inquietante e avvincente soprattutto per il suo forte legame con l’attualità e per la cognizione di causa dell’autore. La lettura è forse un po’ complicata dall’uso di termini del gergo finanziario, ma nulla che non si possa risolvere con una visita a Wikipedia, e poi è giusto anche sforzarsi di capirne qualcuno di questi letali meccanismi della finanza.
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E poi ci si chiede se davvero li scrive tutti lui…
Del miglior Stephen King ho sempre amato la capacità di inventare personaggi autentici che, con un geniale dosaggio di debolezze, virtù e linguaggio sembrano davvero continuare una vita propria anche quando non sono presenti sulla pagina. Oppure quando il libro finisce e ognuno di loro (almeno tra quelli sopravvissuti) è abbandonato al proprio destino. E’ il caso di Danny Torrance, sul quale insistentemente, e da tempo, i fan del “Re” chiedevano notizie.
Gli ultimi trent’anni di Dan fino ai giorni nostri compongono la prima parte del romanzo. Un racconto toccante che ci restituisce un alcolista cronico sull’orlo dell’autodistruzione, il cui riscatto è però ora necessario affinché possa compiersi uno dei temi cari a King, lo scontro in squadra tra Bene e Male. Questa volta coinvolgendo una ragazzina speciale la cui potente luccicanza è unica al mondo, un dono che da gioco si rivela essere anche una maledizione.
I classici temi Kinghiani ci sono quasi tutti: il passaggio all’età adulta, la comunità della provincia americana, l’alleanza, l’amicizia, il legame genitoriale, e tanta propaganda contro l’alcolismo. Quello che sorprende è una certa piattezza. Me ne ricordo solo un paio, di sani colpi di scena; perfino chiudere il libro a fine capitolo è stato più facile del solito, senza quella bramosia bulimica che fa tirare le ore piccole.
Insomma, senza svelare nulla, dall’iperannunciato seguito di Shining mi aspettavo decisamente qualcosa di più adrenalinico e originale, almeno per quanto riguarda i personaggi del Vero Nodo, creature un po’ ridicole e molto meno inquietanti dei fantasmi dell’Overlook Hotel. Infatti è proprio quando questi ultimi riemergono dal passato che avvengono i passaggi più spaventosi.
Non saprei davvero se consigliarlo o meno. Forse lo consiglierei solo ai fan più affezionati come me, per collezionismo e perché si formino un proprio parere (è un sequel che tende a dividere). Per tutti gli altri resta comunque una lettura trascinante, che fa mantenere alta la guardia fino alla cruciale resa dei conti… questa sì, insolitamente per King, molto più appassionante di molte altre.
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Si può donare senza chiedere nulla in cambio?
Chiunque abbia mai superato un momento difficile nella propria vita lo sa: è il senso di solitudine la trappola più insidiosa e subdola nella quale si cade inevitabilmente. “Ognuno sta solo sul cuor della terra…” scriveva Quasimodo, e mai come nella sofferenza (piccola o grande che sia) ci sentiamo distanti e incompresi da tutti.
Se nella realtà esistesse il posto ideale dove rimettersi in pista, questo sarebbe L’Atelier dei miracoli, un’associazione no-profit dedicata a chiunque, senza distinzioni di sorta. La premessa è sicuramente di grande presa, ed è molto interessante che i tre “casi umani” protagonisti, Millie, Mike e Mariette, siano molto diversi fra loro, sia per estrazione sociale e cultura, sia per personalità. È ancor più interessante che ognuno di loro racconti in prima persona la propria toccante storia, a capitoli alterni. Peccato che il tono sia sempre lo stesso, senza una caratterizzazione tipica, quindi l’ex-militare si esprime con lo stesso linguaggio della docente, moglie del politico.
Perfino l’elemento thriller che a un certo punto si inserisce nel racconto e che offusca con un velo di ambiguità il personaggio del benefattore Jean, non riesce a dare alla storia quel colpo di coda che ci si aspetta e che avrebbe reso meno scontata la domanda “È davvero possibile fare del bene senza chiedere nulla in cambio?”.
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Agli sdraiati un divano glielo hanno pur fornito
Un monologo che in poche pagine descrive una realtà contemporanea con la leggerezza dell’ironia e la solidità di una riflessione sociologica. Il protagonista racconta la propria frustrazione di genitore davanti a un figlio pigro, sporco, disordinato, sprecone, narcisista, sprovveduto… insomma questo giovane esemplare di un allarmante stadio evolutivo a cui sembra essere giunto il genere umano. Ma contemporaneamente compie una necessaria autocritica, consapevole che si tratti del risultato di una educazione deficitaria, che per essere esercitata al meglio richiede al genitore pazienza, autorevolezza, esemplarità… «troppe virtù per chi nel frattempo cerca di continuare a vivere.»
La comicità esilarante di certi episodi, come il colloquio con l’insegnante, l’avventura della vendemmia, o il negozio alla moda, recano un risvolto amaro, nostalgico o polemico: «Che probabilità di successo ha la trasformazione in atto degli esseri umani in Scemi Totali?».
Il racconto parallelo della “Grande Guerra Finale”, con uno stile da action movie, allarga il conflitto genitore-figlio su scala generazionale, immaginando una futura tragicomica guerra tra vecchi e giovani.
Una domanda sembra comunque ripetersi: è più sbagliata la natura selvaggia, debosciata, apatica dello sdraiato o la superficialità, l’ipocrisia, la pigrizia del genitore fornitore del divano? Invettive si rivolgono in egual misura a entrambe le parti, e si articolano su diversi livelli prestandosi per far superare una prima lettura di puro e irresistibile intrattenimento. Senza rivelare il finale, che ad alcuni è sembrato banale, credo che forse, mettendo insieme i pezzi e restando sul piano della metafora, non poteva essere diverso di così.
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Il Dan Brown della padania
Sarebbe un peccato discettare troppo sulla trama di questo romanzo, come d'altronde lo è secondo me per qualsiasi romanzo, allungando ciò che già è brevemente riportato sul risvolto di copertina. Ne sciuperebbe il principale pregio: il fattore sorpresa.
Sono diversi e costanti infatti i colpi di scena disseminati nel corso del racconto che rendono la lettura piacevole e appassionante.
Il riferimento a Dan Brown, che ormai è diventato un'unità di misura, è nel trasformare elementi storici, artistici e topografici in enigmi utili alla risoluzione del giallo, e Milano è il contenitore di eccellenza di questa storia. Personalmente mi aspettavo una maggiore profondità di questo aspetto (ma io pecco chiaramente di conflitto di interessi, visto che è la mia città). Così come in altre parti del racconto, una maggiore attenzione a implicazioni storiche e sociologiche avrebbe dato quel qualcosa in più per distinguerlo da una lettura avvincente ma senza pretese.
Oltre al ritmo sostenuto, una seconda rilevante qualità è l'ironia nel rapporto conflittuale fra i due protagonisti, il giornalista Malerba e il commissario Ardigò. Uniti da un'antica amicizia ed entrambi coinvolti attivamente nell'inchiesta, si trovano spesso in contrasto per i diversi doveri professionali: lo scoop da una parte e la riservatezza dall'altra.
Infine una nota polemica: trovo subdolo e ridicolo l'uso di disseminare qua e là tracce di propaganda leghista. Giornalista a La Padania, testata che nel romanzo è «tra le più lette dai milanesi» (!) e portavoce di Calderoli, l'autore evidentemente tradisce il suo coinvolgimento politico nel tirare costantemente in ballo rumeni, slavi, tunisini, albanesi, ecc. come comparse in ruoli di criminali brutti e cattivi.
Ma raggiunge il massimo quando tesse le lodi dell'infallibile Ministro dell'Interno dell'epoca (è il 2009): «…uno che non lascia nulla al caso e lavora 24 ore al giorno per combattere la criminalità organizzata e quella spicciola, con gli ottimi risultati a cui stiamo assistendo. Stiamo arrestando ogni giorno mafiosi, camorristi,...» e bla bla bla.
Be', nel caso non bastasse il titolo del romanzo a fornire un'impronta diabolica.
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Una lotta tra razionalità e superstizione.
Il racconto di una ricerca, di un viaggio, di un'ossessione, di una caccia e di una bellissima amicizia.
Ciò che improvvisamente stravolge la pragmatica e tranquilla vita dell'illustre speziale Andreas Saint-Loup è una sequenza di fatti assurdi e inspiegabili che all'inizio crea smarrimento, in seguito frustrazione. Ma è uno stato d'animo provocato sapientemente, che rende ancora più intrigante la ricerca della verità rappresentata da un misterioso libro che forse non esiste.
L'ambientazione medievale è articolata: la quotidianità della gente comune e gli intrighi di corte, la vita vivace di città e quella bucolica di campagna. Inoltre si arricchisce di personaggi e fatti storici, come l'annientamento dell'ordine dei Templari sotto Filippo il Bello, accaduta proprio in quegli anni, e l'intervento della tremenda Inquisizione.
Il fascino dei personaggi è la vera forza di questo romanzo. Lo speziale Andreas è un vero illuminista ante litteram, iconoclasta e asociale, dal sarcasmo pungente, le cui convinzioni da uomo di scienza sono messe a dura prova durante questo viaggio dai risvolti esoterici enigmatici. Il suo intelligente e coraggioso apprendista, e la ragazza ribelle e istintiva sono i suoi compagni di viaggio che diventeranno preziosi alleati e anche insospettabili fonti di insegnamento.
Trascurando alcuni marginali aspetti involontariamente comici dello stile dell'autore, come il ricorso a liste interminabili, oppure la sospensione della narrazione per rivolgersi direttamente al lettore per una lezione di storia o per approfondimenti puntigliosi, il romanzo è molto appassionante. Azione e racconto storico, avventura e passione per l'arte, religione e scienza… "Il segreto dello speziale" è davvero un bel viaggio.
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Il coraggio di essere se stessi
Più appassionante di "La cura Schopenhauer" e "Le lacrime di Nietzsche", questo è per me il più bel romanzo di Yalom. Narrazione, storia, filosofia, religione e psicologia si intrecciano con un equilibrio e una passione trascinanti. La narrazione scorre parallela tra le vicende del filosofo ebreo del XVII secolo e l'ascesa del nazismo nel XX secolo ed è folgorante, perché attuale.
Baruch Spinoza, ovvero Bento, il suo nome di origine iberica, emerge come una persona vera, onesta e pacifica che per difendere le proprie idee accetta una vita di solitudine. Ventiquattro anni, istruito e curioso, commerciante rispettato nella comunità ebraica olandese, le sue teorie diventano sempre più scomode nel sostenere una natura diversa di Dio, nel sottolineare le contraddizioni nei testi sacri e nel contestare i dogmi della fede («Ci controllano con la paura e con la speranza. La paura di quel che accadrà dopo la morte, e la speranza che, se viviamo in un modo particolare godremo una vita beata nel mondo a venire»). La scomunica arriverà nella forma di un documento letto in pubblico, un testo spietato e lacerante, di una cattiveria rara.
Tre secoli dopo, Alfred Rosemberg, il massimo ideologo antisemita nazista e capo della squadra specializzata in saccheggi, preleva e occulta l'intera biblioteca nella casa-museo di Spinoza. È ossessionato infatti dall'inaccettabile idea che il filosofo ebreo fosse tanto apprezzato da Goethe, un'icona della cultura tedesca. Ma Rosemberg è soprattutto un debole, plagiato da Hitler e da quei dogmi che lui stesso ha concorso a creare, e che lo schiacciano sempre di più portandolo a una crisi. Troverà un medico che pratica una tecnica inventata da Freud, una nuova terapia basata sulla parola…
Il coraggio di un ragazzo che scontrandosi con l'autorità ecclesiastica dà il via all'illuminismo, contrapposto alla viltà di un uomo che perde se stesso nel delirio di un regime. Il problema Spinoza racconta come qualsiasi ideologia, religiosa o politica che sia, è sempre pericolosa quando crea dogmi e si sostiene sull'ignoranza e l'incontestabilità.
«Solo gli uomini liberi sono genuinamente utili gli uni agli altri
e possono intrattenere autentiche amicizie». B. Spinoza
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Il potere logora tutti
Faticoso e irritante, toccante ed emozionante, folgorante e disturbante… un romanzo fatto di opposte sollecitazioni, che sembra chiedere di non essere amato; che racconta l'attuale decadenza umana, politica, economica, culturale, a causa dell'ossessione per il denaro. Possedere per ostentare e per possedere ancora di più; il sesso è una moneta di scambio che acquisisce valore in base alla notorietà, alle fattezze e al prestigio del partner.
Tommaso Aricò è il trentacinquenne protagonista, un genio della speculazione finanziaria che, anche grazie al sostegno della criminalità organizzata, si è arricchito gestendo hedge fund al motto di "niente è illegale se non ti beccano". Ex obeso e di povere origini, attraversa questo mondo come un parvenu. In una crisi di solitudine e di identità («Dimmelo tu chi sono») si rivolge allo scrittore Walter Siti, di cui ha letto un articolo su scimmie, denaro e prostituzione, per raccontarsi e proporgli di trasformare in romanzo la sua vita di nefandezze.
Molto emozionante la prima parte con l'infanzia povera di Tommaso, la sua diversità, la sua passione per la matematica e la sua voglia di riscatto («L’unica cosa che gli importa è mettere più cielo possibile tra il sole del futuro e le proprie radici avvelenate»), il rapporto con la mamma Irene («ja’a faremo, ranocchié»), l'amicizia con Nando e con la ragazza dell'ospedale. Mentre un intero capitolo dedicato al "teorico" mafioso e all'intreccio finanza e criminalità è in una forma di saggio asciutta e quasi indigesta.
Una lettura non sempre facile: cambi improvvisi di scena e di personaggio, alternanza tra narrazione empatica e saggistica cruda, tra reale e verosimile, lunghi dialoghi senza attribuzione, gergo finanziario, frequenti divagazioni tra parentesi… è richiesta una bella dose di concentrazione per non scivolare fuori dalla pagina e perdere il filo.
Tuttavia c'è un'energia potente dentro questo romanzo, che ci mostra un mondo che possiamo sovrapporre a ciò che ci viene raccontato tutti i giorni su politica, finanza, show business, criminalità. Un mondo logorato dal suo stesso potere ma che inconsciamente ci affascina («Nessuno vuole davvero rinunciare al potere salvifico del consumo, le vittime sono invidiose dei carnefici ed è facile ingannarle con l’elemosina di un simulacro anche miserabile.»), perciò, forse, resistergli non serve a niente.
La frase che non voglio scordare: «Non si fidi, avere non risolve niente… l’importante è ammirare e comprendere.»
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Tanta passione per l'arte, poca per i personaggi.
L'amore che Dan Brown prova per l'arte, la cultura e la storia è genuino, ed è travolgente. Che sia un dipinto, un manufatto, un edificio, o un poema, ogni oggetto è un tesoro che incorpora una storia, e perfino un'anima.
Anche in Inferno, questi oggetti meravigliosi sono le tappe di una frenetica e appassionante corsa contro il tempo, e solo se compresi nella giusta angolazione diventeranno alleati nella lotta contro il potente nemico di turno. Inoltre trovo coraggiosa la scelta di inserire il tema controverso della sovrappopolazione in un romanzo così commerciale.
Peccato che Dan Brown non provi evidentemente la stessa grande passione per le persone. I suoi personaggi non bucano la pagina, sono come attori che non sanno recitare, tanto che a volte sembrano essere solo dei pallini che corrono su una mappa. Ed è forse questo, unito a uno scarso senso dell'ironia, a creare una distanza e rendere la lettura meno coinvolgente. Giustificando così le critiche feroci di qualche lettore, per il quale emerge solo una presuntuosa pretesa pedagogico-turistica, o un indigesto sfoggio di erudizione.
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