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petra Opinione inserita da petra    03 Giugno, 2013
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Nulla si oppone alla notte

Si rimane incollati alle pagine, con il fiato sospeso, nel leggere questo romanzo, potente, intimo, struggente e liberatorio della De Vigane.
Il libro comìncia, senza tanti fronzoli, con il suicidio della madre dell’autrice. Lucile Poirier, sessantun anni, muore dissanguata una mattina d’inverno, a Parigi, dopo una vita segnata dalla malattia psichica e dalla sofferenza dell'animo, fatta di deliri devastanti, brevi istanti di pace e fragili equilibri, segnata da un segreto terribile e da un disturbo psichico invalidante; più volte Lucile era stata sull’orlo del baratro, aveva accarezzato l'abisso col pensiero senza esserne però risucchiata. Il disturbo bipolare di cui era vittima, tardivamente riconosciuto, ha segnato per sempre la sua esistenza e così quella delle due figlie, appena bambine e inermi al manifestarsi del primo episodio di delirio.

Il suicidio appare così il capolinea di una lunga serie di tragedie personali e familiari, costellate da momenti di apparente serenità, in una vita dove la labilità delle certezze fa da padrona sin dall'infanzia.

Delphine, la figlia maggiore di Lucile, scrittrice affermata, per alcuni anni dopo il suicidio cerca invano di sottrarsi al " richiamo della scrittura" come mezzo per avvicinarsi alla faticosa, oserei dire tragica esistenza della madre, la cui malattia, il cui dolore immenso non hanno potuto che riverberarsi con violenza su di lei e sulla sorella. Ma un giorno sente, intuisce con forza che provare ad avvicinarsi, provare a ricostruire la drammatica storia della madre è non solo doveroso, ma necessario e terapeutico insieme: forse tentare di capire può costituire una sorta di dolente, tardivo ma sincero omaggio a sua madre , alla sua persona e alla sua memoria. Mi preme sottolineare come, in epoca di sensazionalismo a buon mercato, quello narrato in queste pagine sia un dolore sincero, pudico, pacato; non vi è nessun autocompiacimento morboso, come tanto va di moda nell’affrontare spesso questi temi, così come nessun fronzolo né alcuna ellissi addolciscono sessant’anni di una vita fragilissima; niente abbellisce il lento estraniarsi di Lucile dalla realtà in un mondo parallelo, unico pseudorifugio rimasto a un animo troppo sensibile di fronte alla spietatezza del mondo .

Nel libro, con l’inevitabile filtro affettivo e le mancanze, le lacune e le distorsioni dovute alle diverse interpretazioni della stessa realtà da parte dei parenti , sono ricostruiti dall’autrice sessant’anni di vita familiare, riportati da parenti, zii e cugini , tutti affettuosi e vicini a Lucile, i quali però ammutoliscono al solo accennare di Delphine alla probabile causa scatenante del suo mal di vivere, il morboso rapporto con il padre . L’autrice cerca di mettere insieme frammenti, ricordi, diari, fotografie, nel tentativo diricostruire il dramma di Lucille, di accarezzare più da vicino che in vita il dolore della madre. Ci sono però segreti su cui non riesce a indagare, fatti che è meglio seppellire nelle sabbie del tempo, che potrebbero inquinare il buon nome di una famiglia, gettare scompiglio. Segreti così terribili e devastanti che si preferisce tacerli; ma chi subisce il peso del loro contenuto può rimanerne marchiato a vita.

Mi è costato tanto leggere queste pagine, non lo nego, ma sono andata avanti perché, oltre al valore catartico, purificatore della vicenda ho veramente imparato tanto: per certi versi era come se la vicenda di Lucile mi parlasse , aveva una valenza quasi terapeutica e indubbiamente mi ha insegnato tantissimo sul disagio psichico, più certo di un trattato sul tema. Mi sono chiesta cosa posso fare in prima persona , come donna, amica , conoscente, medico, passante, quando vedo qualcuno soffrire in questo modo, quando lo vedo vittima di un delirio: per me la sofferenza psichica è infinitamente meno gestibile di quella fisica, mi cattura, mi coinvolge e mi paralizza. Da queste pagine ho potuto imparare come sia fondamentale ascoltare, non condannare mai, cercare sempre di capire, di accogliere il dolore dell’altro; premesso che i farmaci in tante situazioni sono necessari niente può sostituire un abbraccio, una carezza, è banale ma niente può sostituire il calore umano. Sono convinta che come per le ferite fisiche, così quelle dell’animo debbano essere spurgate, liberate all’esterno della loro tossicità, per potersi rimarginare. Se questo non accade, se l’omertà prevale, le conseguenze sono sempre tragiche. Questo è l’insegnamento più grande che credo di aver tratto da questo libro.

Sono convinta che questo romanzo abbia un grande valore, etico e umano oltre che letterario, ma ne consiglio la lettura solo a chi si senta forte abbastanza, capace a sufficienza di immergersi a lungo in un dolore così viscerale, primordiale, acuto, seppure catartico.

Chiedo scusa per il lungo commento, ma sentivo doveroso riportare, come posso, tutta la profondità e il valore di quest'opera.

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Consiglio il libro , con le riserve di cui accenno sopra, dovute alla forte drammaticità dell'argomento.
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petra Opinione inserita da petra    25 Mag, 2013
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Il deserto dei Tartari

" Così si svolgeva a sua insaputa l'inesorabile fuga del tempo"

Vi è mai capitato di dedicare tempo, forze, energie per uno scopo nebuloso, indefinito, lontano?
Vi è mai capitato di rimpiangere il tempo sottratto a una persona amata perché troppo presi dalle incombenze quotidiane, invischiati nella routine della quotidianità, comoda ma alienante,per poi accorgervi troppo tardi che stavate perdendo di vista voi stessi e chi amavate?

A me è successo , purtroppo, e la mia mente è tornata a quei momenti di amara consapevolezza leggendo questo piccolo ma grandissimo libro.

Il tenente Giovanni Drogo arriva alla fortezza Bastiani a ventun’ anni, colmo di speranza e proiettato verso una vita di gloria, onore e impegni mondani: i suoi sogni però si sgretolano già alla vista della fortezza, nuda, decadente, e ormai di poco rilievo strategico e militare. Giovanni è tentato di andarsene, pure qualcosa lo trattiene. Lentamente, col passare del tempo, egli si lascia invischiare da un vago e maldefinito presentimento, quello che una qualche gloria futura lo attenda , lì dietro l’angolo ,a un passo, se solo persevererà nella vita della Fortezza. Forse i nemici, i Tartari, che non si sa per certo siano realmente esisititi, potrebbero tornare: ecco che Giovanni potrebbe dimostrare a tutti il suo valor militare e dare senso, finalmente, a quegli anni di disciplina militare e di vita sacrificata.
Ma questi nemici arriveranno mai? O forse è solo una stupida illusione, un’ abitudine, un’inerzia ammantata di speranza che governa la vita di Giovanni e l rende possibile l’inesorabile “fuga del tempo”?

Onirico, a tratti surreale pure nella concretezza dettagliata con cui è raccontata la vita militare, questo romanzo offre davvero numerosissimi spunti per riflettere. Il magnetismo di Buzzati crea atmosfere sottilmente inquietanti , scuote la nostra coscienza e le sue pagine, le sue parole, ti rimangono sotto pelle come frammenti di sogno che ti accompagnano lungo la giornata.

Una penna magistrale, uno stile unico e potente che fanno di quest’opera, a mio avviso, un capolavoro.

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petra Opinione inserita da petra    14 Mag, 2013
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Telenovelas ante litteram

Ebbene sì, lo confesso: un’ombra macchia il mio passato in modo indelebile: da piccola guardavo Beautiful con le mie sorelle. Mi secca ammetterlo, ma chi è senza peccato scagli la prima pietra! Riflettendoci la sceneggiatura era quanto meno un po’ povera: di qua i buoni, i Forrester, sempre atletici, messa in piega, trucco e parrucco perfetti: dall’altra i cattivi, la Spectra, volgarotti, truffaldini e pure poveracci.

Questa terribile confessione spiega quanto mi sia divertita, vent’anni dopo, a leggere questo splendido romanzo nel quale Vargas Llosa mi ha svelato un mondo che non conoscevo: quello dei romanzi radiofonici degli anni ’50: rocamboleschi, svitati, surreali, e chi più ne ha più ne metta. Autore di tali "opere" è Pedro Camacho, piccolo personaggio boliviano, affettato e cerimonioso fino allo svenevole, che utilizza un vocabolario raffinatissimo e un tantino anacronistico pure per chiedere un caffè; Camacho vive lavorando 20 ore al giorno completamente dedito alla sua cosiddetta “ arte”, i romanzi radiofonici. Definirli assurdi è un eufemismo; in essi si mescolano allegramente e senza nessun principio di verosimiglianza o quantomeno sense of humor storie truci di incesti, di giovani uomini nel fiore delle forze che decidono di dedicare le loro giovani vite alla caccia ai roditori,devoti e pii religiosi che insidiano fanciulle in fiore, evangelizzatori che fondano improbabili comuni nei quartieri poveri di Lima, un arbitro analfabeta ma geniale che finirà immolato alla sua causa ( quale? In realtà non si capisce molto bene) fra pozze di sangue, legami familiari ritrovati, destini incrociati e chi più ne ha più ne metta.

Parallelamente la vicenda velatamente autobiografica di Mario, studente di legge impiegato ( a tempo perso) in radio, che si innamora della zia acquisita, Julia, con il gioco di sotterfugi e di segreti che rendono tenerissimo questo amore un po’ folle e improbabile, colorato, di rimando, dai suoni e dalle atmosfere dei chiassosissimi romanzi di Pedro Camacho. Mario rimane affascinato e stupito da questo uomo spettacolare e nel dipanarsi della vicenda la siua amicizia con lui ne rivelerà altri aspetti a dir poco esilaranti.

Un libro a mio avviso bellissimo, che consiglio vivamente, a chi voglia sorridere gustandosi letteratura di qualità.

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petra Opinione inserita da petra    08 Aprile, 2013
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SHOSHA


Sono rimasta letteralmente ammaliata da questo romanzo di Isaac Singer: una narrazione che sa coinvolgere e incantare come poche.

Shosha è un romanzo che ti rimane sottopelle, una vicenda che sa parlare di sensazioni e di mondi contrastanti, di miseria e nobiltà, di passioni e tenerezza. La vita di via Krochmalna, strada del ghetto ebraico di Varsavia dove il protagonista è nato, rappresenta il cuore di un’infanzia lontana e mai dimenticata, culla di un sentimento sorto nei primi anni di vita e che di quel passato porta con sé la freschezza e la purezza. E davvero via Krochmalna è un mondo a sé, pulsante di suoni e dicolori, ove convivono pacificamente scuole religiose ebraiche, mercanti, prostitute e religiosi : un grande affresco, variopinto e poetico di una vita caotica ma genuina, lontana dall’erudizione letteraria che forse ha inaridito il cuore del protagonista, lo scrittore Aaron Greidenger.

Per Aaron, che ha viaggiato e studiato molto, che ha avuto numerose donne e che ha conosciuto tanti intellettuali, il ritorno verso il mondo delle proprie origini, verso via Krochmalna, e verso Shosha, l' indimenticata amica d'infanzia, è sicuramente una follia, ma una follia necessaria. Egli infatti troverà nell'affettività immediata e spontanea di Shosha un rifugio sicuro all'inquietudine e al senso di profonda instabilità che lo attanagliano da sempre. Nessuno all'infuori di lei, giovane donna rimasta bambina nel corpo e nello spirito, e niente come l’ambiente di via Krochmalna possono restituirgli quella sensazione di pienezza e di armonia con la realtà esterna, di amalgama con l'universo intero e con la storia, tormentata, degli anni antecedenti la seconda guerra mondiale.

-Non sei pazza
-Che cosa sono?
-Un'anima dolce.

Una narrazione davvero magistrale, suggestiva e accattivante, che mi ha fatto immediatamente amare questo autore.

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petra Opinione inserita da petra    08 Aprile, 2013
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LOVE & ORDER

“Inquadramento obiettivo. Analisi e valutazione dei mezzi. Elaborazione di una strategia fattibile”. Il linguaggio di questo graziosissimo romance, è molto tecnico, all'apparenza freddo…non ci si aspetta in questo ambiente di feroci e superimpegnatissimi avvocati un' evoluzione di vicende sentimentali così piacevole e divertente. Il racconto lascia una sensazione godibilissima di brio e di spensieratezza, e considerato che far ridere è sempre, a mio avviso, più difficile che far commuovere, l’autrice merita davvero un plauso per questo lavoro frizzante e piacevolissimo.

Alice è una ragazza tosta, che ha fatto carriera con impegno e determinazione come avvocato, programmando sempre tutto con ferrea disciplina; d’improvviso si ritrova a meditare sulla sua situazione sentimentale di single, sull’amore e …sulle sue meravigliose implicazioni pratiche! Forse ad Alice un pizzico di autostima in più non guasterebbe, visto che i suoi supporter ( complici una bevuta di troppo ) diventano per magia i galletti disegnati sui boccali della birra… Come risolvere " efficacemente" il problema "amore"? Ma per quello,in fondo, c’è sempre tempo, prima la carriera… o no? Alice rimanda e soffoca questo sacrosanto desiderio finché non si avvicina il fatidico giorno del trentesimo compleanno. Stupende le considerazioni sul decadimento fisico / mentale delle trentenni, mi hanno davvero strappato una risata...
"Presto la mannaia dei trenta , con tutto il suo carico, la maturità, il tic - tic dell'orologio biologico, i primi cedimenti del corpo, la crema antirughe: orrore”! ( Urge che vada a comprare almeno una crema idratante…facciamo idratante rinforzata, va'.)

E così, in modo organizzatissimo e strategicamente impeccabile, Alice decide di festeggiare “come si deve" il suo sospirato compleanno, cercando in qualche modo di colmare le sue lacune sentimentali….ma nonostante la sua ferrea organizzazione qualcosa non andrà come sperato… o meglio, come previsto. Ma la vita a volte ci sa sorprendere nel bene e nel male, e forse un regalo di compleanno può cambiarti la vita!

La lettura è agile e scorrevole, e la protagonista è formidabilmente irriverente e simpatica nel mescolare problemi personali a ironiche e a volte esilaranti considerazioni personali.

Lieve, scorrevole e intelligente: davvero un libro piacevole, assolutamente consigliato.

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... a tutti, anche a chi non ha mai letto romance!

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petra Opinione inserita da petra    03 Aprile, 2013
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Una placida tensione

“Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma; quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai… E qua, come un sasso che porto ovunque, c’è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio”

Siamo nella flemmatica campagna a Nord di New York. John e Marion, membri esemplari della “società bene” newyorchese, hanno organizzato un week end nella loro tenuta con due vecchi amici, dove si sono ritirati a condurre un’esistenza fin troppo tranquilla. E’ passato un anno da quando il fratello di John, Tony, se n’è andato, vittima dell’Aids; l’ex compagno di lui, Lyle, è stato invitato a passare un paio di giorni dalla coppia. Porterà con sé, inaspettatamente, un ragazzo conosciuto da poco, Robert, fatto che desterà il malcelato disappunto della padrona di casa.

Quello che dovrebbe essere un placido week end di “rimpatriata” si avvia a diventare quasi un ordigno pronto ad esplodere. Tensioni sotterranee, silenzi carichi di imbarazzo e di parole non dette creeranno una elettricità quasi palpabile che percorrerà tutta la vicenda.

Cameron è maestro nel delineare in poche pagine la psicologia dei personaggi e il clima di inquietudine che a poco a poco finirà col permeare tutta la vicenda. E’ come se tutte le figure faticassero a venire a patti con la realtà, sia esterna sia intima, e non potessero pertanto comunicare in nessun modo il loro disagio, le loro emozioni, il loro sentire. La tensione si evince da mezze frasi, parole non dette, convenevoli su come servire a tavola. E su tutto aleggia il ricordo più vivo che mai di Tony, onnipresente anche se mai citato in modo esplicito, lunga ombra che avvinghia i presenti e ne determina inconsciamente il comportamento.

L’autore possiede una innata capacità di descrivere con levità e grazia contraddizioni , malintesi e ipocrisie della cosiddetta upper class americana; il romanzo scorre via piacevolmente, senza intoppi, e ci si ritrova sprofondati in quest’atmosfera carica e tesa senza quasi accorgersene.

Impagabile la scena del “taglio dell’uva”, quando Marion propone delle inconsuete e raffinatissime cesoie per l’uva a un Robert visibilmente allibito e a disagio : in poche righe sono descritti in maniera sopraffina l’imbarazzo e la tensione che si annidano dietro ai convenevoli, quando non è facile dire le cose come stanno e ci si trincera dietro banali affettazioni, perché la realtà fa troppo male o ci si è abituati fin troppo bene a dissimularla in nome del quieto vivere.

"Il week end" è uno dei primi romanzi dell’autore, ma è già caratterizzato da una scrittura limpida, asciutta ma evocativa, davvero ricco di grazia e di profondità.
Una lettura sicuramente consigliata.

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petra Opinione inserita da petra    25 Marzo, 2013
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L’esplosione silenziosa

“Succede a tutti che una grande angoscia non si dissolva mai, sparisca soltanto dietro le quinte per ricomparire più tardi, per nulla incrinata nel suo potere”?

Splendido , doloroso, toccante questo romanzo di Pascal Mercier. Le pagine scorrono via leggere mentre una morsa preme il petto e non vuole andarsene dai nostri pensieri.

La prosa elegante e rifinita dell’autore ho il dono di non risultare mai fredda, al contrario: ci consegna una visione nitida e struggente di un lento discendere nella follia.

Esplosione silenziosa: così Martjn Van Vliet definisce la tragedia che ha colpito sua figlia.
Quando la piccola Lea ha soltanto otto anni viene a mancare sua madre. Il padre, Martin, scienziato di fama, uomo scanzonato e apparentemente forte, quasi sfrontato, subisce un doppio lutto : da una parte la perdita della moglie, dall’altra l’affievolirsi della luce negli occhi di sua figlia, che di giorno in giorno sembra spegnersi alla vita. Un dolore più lento e insidioso, questo, ma non meno corrosivo. E’ per questa ragione che un giorno, quando Lea sembra, d’improvviso, illuminarsi e riaversi al sentire il violino di un’artista di strada , Martin è ben felice di assecondare e di coltivare la nuova passione della figlia. Più volte, nel corso del romanzo, rammenterà quel momento come l’inizio della fine.

A volte il confine fra passione ed ossessione è molto labile, e non è facile distinguerlo; persino il troppo amore di un padre può fare danno, offuscandone il raziocinio. La fragile personalità di Lea si aggrappa sempre più allo studio del violino, con tutte le sue forze, quasi fosse una linfa vitale: in pochi anni il suo esercitarsi instancabile la porterà a eccellere, a diventare una musicista famosa e prestigiosa, ma anche a isolarsi dal padre, dagli affetti , e infine dalla realtà.

Non è sempre facile, nella mente umana, mettere paletti, delimitare con una linea netta giusto e sbagliato, sano e morboso, specie quando i confini sono labili, e qualcosa che ci aveva dato speranza sembra non essere più così salvifico, ma non ci si vuole arrendere, ci sembra di non poter tornare indietro. E’ difficile arginare qualcosa che ci ha traghettato lontano dal dolore, almeno in apparenza, almeno per un po’, anche quando si percepisce che è stato solo un miraggio, e forse un nuovo e più grande vuoto ci aspetta al varco. E’ difficile per i figli, lo è forse ancor più per i genitori; Martijn non si accorge, o forse non riesce a percepire il tenue confine che sua figlia sta per valicare, quello fra la realtà e la “ cattedrale di suoni” che Lea si è costruita come mondo parallelo, rifugio sicuro per sé e pochi eletti. Arriverà anche Martijn sul ciglio di quel burrone, in un vortice inarrestabile che travolgerà anche lui, pure uomo scaltro, razionale, lucido.

Una scrittura che fa male , mostrandoci i nostri fantasmi , le nostre fughe e i nostri vacui rifugi per quello che sono; un libro struggente, elegiaco e bellissimo, un profondo scavare nei recessi più profondi e più bui dell’animo umano.

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petra Opinione inserita da petra    17 Marzo, 2013
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Judith dei miracoli

La piccola Judith, dieci anni, un pezzo di stoffa che diventa campo, un filo di lana e uno stuzzicadenti che danno vita a un uomo. E così pazienza se a scuola i compagni ti emarginano, il bullo della classe ti prende di mira e i vicini ti reputano strana; loro non sanno che l’ Armageddon è vicino, loro non sanno che vivono in un mondo diventato una Sentina di Iniquità. Ma noi sì, l’ha detto papà, noi siamo al riparo, almeno pregando, almeno volendo fortissimamente che accada quello che desideriamo… non sta forse scritto che potremmo smuovere i monti con la nostra fede?

E così, in un impasto colorato di fantasia e di fede, suggestione e malintesi, una bimba troppo sola si ritrova a fronteggiare come può le proprie immense riserve affettive di bimba orfana di madre e il dolore sordo, senza fine, del padre. Quale risposta meglio di un miracolo può colmare la sete di giustizia, di serenità e di amore? D’ improvviso Judith si scopre ( forse) capace di fare miracoli, inconsapevole delle ricadute di questi presunti eventi sovrannaturali sulla vita degli altri.

Solitudine, emarginazione dei diversi, difficoltà a comunicare; tanti temi toccati da questo piccolo, meraviglioso libro. Così come tante sono le cose che mi hanno fatto affezionare alla piccola protagonista: la dolcezza di una bambina obbediente e sensibile, che nella sua ingenuità tenta di “ guarire” il padre e il mondo da guai troppo grandi per le sue forze; la piacevolezza e la semplicità dei suoi racconti e dei suoi giochi, dove un filo di lana e un pezzo di stoffa possono creare campi di grano e persone. Ho assistito con lei, stupita e incantata, allo spettacolo della natura, scorgendone con rinnovato piacere l’infinita bellezza; mi sono sentita piccola e inerme con lei, quando soffre o vede soffrire, e il corpo le viene scosso da un fremito, mentre il cuore batte all’impazzata e la vista si annebbia.
Sì, perché la scrittura di McCleen è davvero molto “fisica”: il buio, la luce , il vento, il dolore, sono tutte entità con un loro peso , una loro consistenza, e nel loro materializzarsi danno luogo a immagini suggestive ed immediate.

Una bella prova l’opera prima di Grace McCleen; una penna delicata e scorrevole che ci fa scoprire con tenerezza il mondo sofferto, incantato e ingenuo di una bambina allevata secondo le rigide regole di una setta millenarista, che cerca nella fede, o in quella che ritiene tale, una risposta e un aiuto
Una lettura piacevole, uno stile semplice e garbato e una storia che sa avvincere e intenerire.

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petra Opinione inserita da petra    07 Marzo, 2013
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Camere separate

Mesi fa sono rimasta letteralmente incantata da un commento su “Camere separate”, dal quale trapelava la grande finezza psicologica dell’autore, Tondelli, che non conoscevo, e la sua capacità di scavare nel profondo, in ogni pagina, in ogni riga, in ogni recesso dell’animo. La lettura di questo romanzo ha superato le mie aspettative, perchè si tratta di un testo che non ha il timore di indagare impietosamente le nostre paure più recondite, nascoste anche a noi stessi. Ed è proprio l’intimità dell’autore – protagonista che, messa a nudo in modo così schietto, genuino, talvolta doloroso, mi ha definitivamente conquistata.

In “Camere separate” Tondelli racconta, attraverso il suo alter ego Leo, il protagonista, del suo tormentato tentativo di vivere in pienezza un amore, pur mantenendosi “in camere separate”, cioè sempre a debita distanza, sempre un passo indietro dal manifestarsi all’altro per quello che si è realmente, con il terrore costante che questo sentimento possa diventare indispensabile, totalizzante, accentrante. Leo teme di abbandonarsi per paura, certo, ma soprattutto per eccessiva sensibilità, per il timore inconscio di essere fagocitato da una passione che non ritiene di meritare. Il senso di colpa, infatti, così come il senso di estraneità, giocano un ruolo fondamentale nella vita e nel sentire del protagonista, omosessuale, per il quale è doppiamente difficile lasciarsi andare a un legame che a livello profondo desidera ma che vive forse con una certa angoscia; è come seil suo trasporto si accompagnasse alla colpa, non fosse realmente autentico in quanto non riconosciuto e “categorizzabile” come tale anche in società, al di fuori della propria ristretta cerchia di amici.

Credo che una scrittura che scava così a fondo, così tanto da fare quasi male, possa suggerire anche a noi qualche riflessione sui nostri timori , sulle remore e sulle scuse che spesso accampiamo quando crediamo di non meritare abbastanza. Accade quando ci chiudiamo, come il protagonista, in un mondo solo nostro, un mondo fatto di stordimenti incessanti, viaggi, peregrinazioni, bevute, o distrazioni di qualunque tipo, senza però prestare attenzione a ciò che conta davvero nella nostra vita, senza badare alle reali ferite pulsanti dentro di noi. Il rischio però è che tali ferite, se ignorate, rischino di portarci a una sorta di vera e propria cancrena emotiva.

Si tratta di un centinaio di pagine soltanto, densissime però di riflessioni e descrizioni sublimi,arricchite da una prosa curata e splendida.

"Camere separate" è caratterizzato da una straordinaria raffinatezza narrativa e dalla squisita sensibilità con cui Tondelli ha saputo, senza inutili affettazioni, far scorgere al lettore un sentire autentico, sincero, in cui è facile immedesimarsi. Per tutte queste ragioni, anche se è una lettura non facile, mi sento di consigliarla di cuore.

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petra Opinione inserita da petra    02 Marzo, 2013
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Polvere

Brautigan scrisse quest’opera pochi anni prima del suo suicidio, quando la fugace fama degli anni della beat generation andava ormai sfumando, e tutto il suo mondo ormai andava sgretolandosi sotto il peso dei ricordi.

Vediamo un ragazzino cresciuto senza affetto da una madre assente, nella miseria e nelle difficoltà economiche dell’immediato Dopoguerra. I suoi non sono giochi soliti dei bambini: la sua passione consiste ascoltare gli altri, nell’osservarli, cercando di capirli . Tanti i personaggi in cui il protagonista si riflette. C’è un lago , nell’Oregon, lungo il quale il ragazzo passa le sue giornate scrutando uomini persi e smarriti, che sembrano personificare il declino e la follia che il tempo porterà con sé.

La polvere che à il titolo all’opera è quel velo opaco che lentamente si distende su quello che non siamo più, su quanto è caduto in disuso, inutile, dimenticato. La polvere è quello strato sottile che ci offusca la mente nel rievocare un’infanzia che non è mai stata tale , quando, a dodici anni, puoi scegliere indistintamente fra un fucile calibro 22 e un hamburger senza che nessuno se ne accorga.

Morte o vita, rosso o nero, gioco e realtà si mescolano: morte o vita, e niente a separarle. Una madre che a malapena ti tollera, il lutto, di cui fai esperienza precoce in modo tremendo, putrido, insensato, in una mattina della tua infanzia; il presagio della fine, di cui nessuno ti parla ma che ti rimbomba in testa, quasi un destino ineluttabile, che d’improvviso contamina tutto ciò che vedi... le mani della bimba con cui giochi, il bambino che corre con te in bicicletta, la casa disastrata dove tua madre piange e vive di ossessioni.
E quando tua madre piange tu non piangi, pensi che lei lo stia facendo già abbastanza per tutti e due. E mentre i tuoi compagni giocano, tu, bambino ,parli con i vecchi,li ascolti co amore, li osservi, e nella loro solitudine ti specchi e trovi il pozzo senza fine del tuo sentirti estraneo, diverso, colpevole di qualcosa che ancora non sai, qualcosa he sta per accadere.

Tanti i personaggi in cui il protagonista si riflette: uomini persi e smarriti, che sembrano preannunciare il declino e la follia che esploderanno poi.

Intanto il tempo passa, la polvere si deposita, inesorabile, anche sulla fama di uno scrittore, che dopo la gloria, facile e terribile inganno, conosce l’oblio, la fatica di risalire, il tonfo della caduta. Brautigan ci consegna come ultima un’opera che è un grumo di melanconia, un grido soffocato di rabbia e di disperazione, in cui risuona il senso inesorabile di un destino che non si può cambiare.

Pagine toccanti e dolcissime, un romanzo delicato come un ricamo e doloroso come un pugno allo stomaco. Una storia in cui l’innocenza perduta preannuncia dolorosamente la perdita di senso, il non riconoscersi più nella nostra immagine allo specchio, nella nostra identità. Una scrittura sublime ed elegiaca.


Un grazie sentito a Cub per avermi fatto scoprire questo splendido libro.

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petra Opinione inserita da petra    27 Febbraio, 2013
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Irresistibilmente scorretto

“Ma ho anch'io i miei principi. Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici”.

Confesso di aver faticato un po’ nella prima parte di questo libro, siccome il romanzo comincia in medias res, e il protagonista, nel suo monologo, accenna inizialmente a fatti e persone che si chiariranno solo successivamente. Ma la fatica delle prime pagine è stata ampiamente ripagata dal seguito, assolutamente spassoso e piacevole.

La versione di Barney nasce in risposta alle pesanti calunnie mosse al protagonista da un ex amico, lo scrittore Terry Mc Iver; come piccata replica Barney Panofsky, ultrasessantenne produttore televisivo canadese, spumeggiante e decisamente sopra le righe, scrive questo biografia involontariamente e genuinamente esilarante, costituita delle sue“ memorie”, certo politicamente molto scorrette e molto caotiche, ma assolutamente spassose.

Il protagonista è ben consapevole di non aver avuto un’esistenza definibile come morigeratissima, avendo passato allegramente gran parte di essa fra bevute e fumate con scrittori e artisti in fieri, e guadagnandosi da vivere con sceneggiature televisive di dubbio gusto, ma non rinnega nulla, non cerca scusanti o paraventi; la sua spontaneità e sincerità lasciano disarmato il lettore, suscitando una benevolenza e una simpatia inaspettate e inizialmente insospettabili.

Il suo racconto procede via via fra ricordi, divagazioni (soprattutto queste) riflessioni personali, parentesi aperte e spesso non chiuse, accuse e sfottò decisamente sarcastici ma che, personalmente, mi hanno fatto letteralmente sbellicare dal ridere. Barney è un fiume in piena, la sua ironia è caustica, corrosiva e molte delle sue frecciate sono fulminanti ma anche estremamente divertenti.

Non giovano al filo narrativo, ma certamente alla scanzonata piacevolezza della narrazione sì, gli improvvisi vuoti di memoria del protagonista, che tuttavia riesce a rimediarvi con associazioni mentali quantomeno fantasiose e sicuramente articolate. Il protagonista si conosce, è consapevole del suo caratteraccio e un po’ ci gioca, ma non fa nulla per nasconderlo: questa forse è la forza della sua simpatia.

Egli è infatti un personaggio intelligentissimo, ma burbero, scontroso e avulso da ogni regola di minimo buon senso; beve e fuma troppo, non risparmia nessuno dei suoi nemici da battutacce al vetriolo, ma alla fine ti conquista, quando, dietro la facciata da uomo burbero, intravedi un uomo ancora perdutamente innamorato dell’ex moglie, un anziano signore cui l’età che avanza sta aggiungendo un bel po’ di confusione mentale senza riuscire, però, a intaccare mordente e vitalità.
Specie nell'ultima parte del romanzo, quando Mr.Panofsky ci appare in tutta la sua vulnerabilità,anche fisica, ben celata sotto la scorza da duro, ispira una tenerezza infinita.

“Posso querelare per diffamazione un tizio che mi accusa nero su bianco di avere picchiato mia moglie, di essere un plagiario, uno spacciatore, un alcolizzato con tendenze violente, e con tutta probabilità anche un assassino?"
"Non saprei. Mi sembra che il tizio sia piuttosto bene informato".

Un libro leggero e intelligente, una storia sconclusionata ma appassionante, un personaggio comico, arguto e irresistibile.

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petra Opinione inserita da petra    22 Febbraio, 2013
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"Alle volte uno si crede incompleto...

...ed è soltanto giovane" (I.Calvino)


Questo romanzo di Calvino mi ha spiazzata. Meno di cento pagine dense di una storia narrata con il ritmo incalzante e il tono surreale delle fiabe, pregne però di un significato importante, tutt’altro che semplice o superficiale.

Il visconte Medardo di Terralba partecipa alle crociate contro i Turchi. Dopo molto tempo ritornerà alla terra natia, completamente sfigurato, o forse, per meglio dire, completamente “ dimezzato”. Del suo corpo, lacerato da una cannonata, è tornata infatti la sola parte destra.

In seguito al suo ritorno Medardo si macchia, inaspettatamente, di continui atti di malvagità gratuita; non sono risparmiati né l’anziano padre né la vecchia balia del visconte, fino a che il terrore va disseminandosi in tutto il circondario. Qualcosa deve essere profondamente cambiato nella natura del nobile di Terralba... Come può verificarsi un cambiamento talmente improvviso, drammatico e inspiegabile, nella natura di un uomo ritenuto " normale"….ma stiamo parlando propriamente di un uomo o forse solo di una sua parte?

Già, perché dopo qualche tempo, fa la sua comparsa un “altro” visconte, speculare e opposto al primo. Il nuovo arrivato, infatti , è un uomo di grandi mitezza e delicatezza d’animo, capace di atti di estrema generosità verso tutti. Ci si aspetterebbe, a rigor di logica, che la metà buona del visconte debba portare solo armonia e serenità nel paese, ma la goffaggine e l’intempestività del “Medardo buono” provocheranno invece tutta una serie involontariadi guai e perfino l'uccisione di alcuni gendarmi venuti a soccorrerlo.

Calvino , con un linguaggio preciso, nitido e scorrevole, costruisce un racconto sicuramente suggestivo, gradevole e giocoso, come era nelle sue intenzioni, esplicitate prima della pubblicazione. Tuttavia, a mio parere, i contenuti non sono immediatamente accessibili, almeno non lo sono stati per me.

Credo che , dietro all’immagine delle due metà che solo unite possono vivere vi sia una volontà di sottolineare l’importanza dell’uomo nella sua interezza, pur fragile, e nella sua unicità. La mania attuale di etichettare rigidamente tutto, pregi , difetti, passioni, amori e così via è riduttiva, perché siamo soggetti sempre in divenire, non catalogabili come pezzi d’inventario. Talvolta anche gli stessi pregi possono racchiudere in sé difetti e piccole imperfezioni possono accompagnarsi ad altre qualità…
Possiamo apprezzare un uomo efficientissimo e perfezionista fino all’ossessione sul lavoro, ma che ne sarà di tali qualità nella vita privata?

A mio avviso, con quest'opera importante, celata sotto l'estetica di una fiaba, l'autore ci invita riflettere sulla complessità e sulla ambivalenza della natura umana, al di là di luoghi comuni e di comode ma frettolose generalizzazioni"preconfezionate".

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petra Opinione inserita da petra    18 Febbraio, 2013
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Scrigni, Segreti, Passioni

Negli ultimi anni ho riscoperto la piacevolezza che le poesie possono offrire. Su di me hanno una valenza che oserei definire quasi terapeutica, impressionando l’animo con immagini e metafore che, in modo simile ai quadri o ai paesaggi, rendono immediatamente consapevoli di quelle inquietudini, di quelle sensazioni e di quei sentimenti che ci riesce così difficile descrivere in modo totalmente logico e razionale.

E’ stato quindi un vero piacere leggere le parole di questa giovane autrice, che ringrazio. Sandra Riato ci offre tele dipinte di emozioni e nostalgie, le sue parole sono colori a tratti tenui e a tratti energici in cui vediamo fondersi stati d’animo e paesaggi, gli uni riflessi negli altri in modo mirabile e raffinato, con risultati di grande forza espressiva. “ Ho fatto scivolare i miei baci sulle onde del mare/ li ho fatti naufragare nel cielo azzurrissimo, li ho fatti risplendere sotto il sole d’estate/…ma non sono riuscita a disegnarli sulle tue labbra”. E ancora “Nemmeno una nuvola in cielo/ neanche un solo lontano bagliore celeste/ per calmare le mie lacrime”.

I temi predominanti, l’amore e la perdita, ma anche la gioia che il sentimento vero porta con sè sono trattati con grazia, sensibilità e potenza davvero rare e notevoli in un’autrice così giovane. Mi sono piaciute in modo particolare alcuni versi dedicati al rimpianto, al sentimento perduto, che ho trovato particolarmente toccanti e veritieri: “Ci stiamo inabissando assieme ai nostri stessi ricordi/ in questo oceano di rimpianti per il tempo passato/ Ma nulla ci sovviene più nel buio che regna in noi”.

Nello scrigno che dà nome alla raccolta, nel nostro intimo più recondito, dove custodiamo gli affetti e ricordi più cari, il passato a volte riemerge come una dolce ossessione che non riusciamo a scacciare, e ci troviamo anche noi “prigionieri nella nostra stessa realtà". La perdita di un amore spesso non dà pace al nostro animo inquieto e il tempo con il suo lento cammino può scolorare le immagini e i dettagli, ma non certo togliere vita alla passione, che, se sincera e totalizzante, rimarrà come una sorta di cicatrice, un segno indelebile che porteremo sempre con noi.

Ho gustato lentamente questi versi, che mi hanno coinvolta profondamente e di cui ho ammirato la profonda dolcezza.

Grazie Sandra per queste splendidi versi , profondi e mai leziosi, che mi hai dato la possibilità di leggere.

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petra Opinione inserita da petra    16 Febbraio, 2013
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letteratura, vita

E’ una storia intensa, drammatica, toccante quella fra il critico e scrittore francese Saint Beuve e Adèle, moglie di Victor Hugo. Helen Humphreys , documentatasi ampiamente prima della stesura del romanzo , ci offre una vicenda, pur romanzata, nella quale intravediamo come dietro alla grandezza , o meglio , dietro alla fama di uno scrittore noto e famoso come Hugo, si celasse una personalità totalmente egoriferita, piena di sé, letteralmente ossessionata dalla fama e dalla gloria.

Charles Saint Beuve, inizialmente affascinato dalla personalità di Hugo, ne diventa amico ed estimatore; non impiegherà molto a capire la grettezza di sentimenti che si cela dietro a un autore che, tuttavia, ha fatto certamente la storia della letteratura francese. Adèle seguirà un percorso parallelo: dapprima innamoratasi di Victor per l’energia, la forza apparente che egli pare emanare, con il tempo si ritrova soffocata, schiacciata e umiliata da un uomo il cui ego è grande ancora più della fama.
Il sentimento fra i due nasce improvviso e inaspettato e, come tutte le passioni, reca con sé una forza assoluta. Se Adèle ritrova in Charles quella tenerezza e quella empatia di cui ha visceralmente bisogno, Charles , menomato fisicamente dalla nascita, trova in lei vitalità, entusiasmo, freschezza, ma soprattutto la sensazione di essere interamente amato e compreso .

In un'epoca di pregiudizi e convenzioni quali la società francese del 1830, questo amore ha il sapore di una piccola rivoluzione , di una vittoria contro stereotipi e convenzioni. Ma si tratta di una vittoria temporanea; gli obblighi morali, il senso di responsabilità, la difficoltà materiale di sfidare regole e convinzioni borghesi dure a morire porteranno a uno sviluppo tormentato della vicenda dei due amanti, loro malgrado oppressi dal potere di un uomo megalomane e potente.

Gradevole scoperta,per me, quest’autrice: descrizioni e narrazione sono piacevolmente lirici e fluidi senza mai risultare retorici; le parole, accuratamente scelte, sembrano un ricamo delicato nel quale è bello perdersi e la loro eco rende splendidamente situazioni e stati d’animo, permanendo a lungo nell’animo del lettore.

Ho trovato questo romanzo davvero splendido e appassionante, mai banale o scontato nel trattare un tema forse già visto ma rinnovato dalla perizia dell'autrice e dalla sua penna,assolutamente fluida e musicale.

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petra Opinione inserita da petra    09 Febbraio, 2013
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Dopo di lei

“ Dopo di lei” è la traduzione del più riuscito titolo originale “How to Talk to a Widower”, Come parlare a un vedovo. Una storia semplice, a tratti tenera e divertente, a tratti ardua, spinosa, dolorosa. Ho riso e mi sono sinceramente commossa nel leggere queste pagine; schizofrenia mia a parte, trovo che quando un romanzo riesce a fondere in sé un argomento importante con frasi e situazioni francamente esilaranti, allora sia un libro assolutamente da leggere.

Doug, ventinove anni, è rimasto improvvisamente vedovo: solo, nudo , inerme di fronte al dolore più profondo che si possa immaginare: sopravvivere a chi si ama visceralmente .

Davanti a sé, apparentemente, il vuoto. Una fila di giorni tutti uguali, il ricordo che bussa alla porta ossessivo, impossibile da soffocare, aspro e crudele; né servono a qualcosa i tentativi di chi gli sta accanto per farlo emergere dalla nebbia della sofferenza . Perché a volte il dolore è anche questo, credo, un rifugio; cercare di uscirne può costare più che rimanervi intrappolati.

Doug però dispone di alcune risorse del tutto inaspettate: la sua bizzarra famiglia, che a volte pare insopportabile per tic, manie e stramberie, degni di ogni famiglia che si rispetti, e il figlio che la moglie ha avuto dal precedente matrimonio, Russ. Russ di anni ne ha sedici, ed è un groviglio di rabbia, inquietudine e sensibilità. Detta così non sembrerebbero elementi di grande aiuto… Ma la vita a volte ha il senso del paradosso, e ciò che può sembrare un ostacolo si rivela uno stimolo di cui avevamo bisogno. Doug e Russ cresceranno insieme, e troveranno un modo tutto loro di affrontare il loro enorme dolore, magari non superandolo totalmente ( ma si superano mai certe ferite?) ma riprendendo, finalmente, a vivere.

Un capitolo a parte meriterebbero le tante scene a dir poco esilaranti che fanno da contraltare ai momenti più profondi: i tanti (disastrosi) appuntamenti al buio organizzati da vicini e parenti, ; il padre naturale di Russ che, furioso, si arrampica goffamente sul tetto della casa di Doug per riacciuffare il figlio; un matrimonio dove per poco non scappa pure la sposa…

Insomma, “Dopo di lei” si fa leggere d’un fiato e, a mio avviso, sa regalare attimi di intensa, giocosa e pura bellezza.

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petra Opinione inserita da petra    02 Febbraio, 2013
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Il Maestro e Margherita

Ipnotico, surreale, profondo ed ironico: un caleidoscopio di emozioni mi hanno attraversata nella lettura serrata di questo romanzo, un turbinio di immagini e di sentimenti di volta in volta diversi: "Il Maestro e Margherita" racchiude e fonde in sé un’armonia di eventi, di visioni e di magia come nessun altro romanzo.

Siamo nella Mosca degli Anni Trenta quando fa la sua scena, nei giardini Patriarsie, un singolare personaggio straniero esperto di magia nera, Mr. Woland, che altri non è che il diavolo in persona. Un diavolo terribile, certo, ma nel quale l’alone di mistico terrore è moderato da tre strampalati compari, Azazello, Korov’ev e Behemorth,personaggi più bizzarri e folcloristici che temibili. Woland interviene nella discussione fra due letterati per dire la sua circa il fatto che Gesù Cristo sia realmente esistito; sarà il primo di una lunga serie di incontri tragicomici con vari esponenti della letteratura moscovita. L’arrivo del forestiero, infatti, getterà non poco scompiglio nell’ordinata e “categorizzata” Mosca stalinista; dall’incontro con Woland sascaturirà un susseguirsi scompigliati di surreali e a tratti grotteschi accadimenti, che vedranno protagonisti i vari membri dell’ “intellighenzia” culturale moscovita, dei quali saranno messe in luce, senza pietà, meschinerie e grettezze.

In parallelo vediamo svolgersi, mirabilmente descritta, la vicenda del Calvario. In modo particolare assistiamo alla tormentata prova esistenziale di Pilato, il quale, colpito e turbato dalla figura del Cristo, ne avrà l’esistenza sconvolta per sempre, e si macererà nel rimorso per la sua vigliaccheria. "....la codardia era indubbiamente uno dei vizi piú terribili. Cosí diceva Jeshua Hanozri. No,filosofo, ti obietto: è il vizio piú terribile di tutti!", questi pensieri tormenteranno fino all'ultimo il procuratore romano.

Assistiamo, infine, alla dolcissima vicenda dei personaggi che danno il nome all’opera: Il Maestro ( che in russo designa una persona che eccelle in una data disciplina) e la sua amata Margherita: un sentimento fortissimo, maledetto, tormentato, fra il sapiente scrittore, autore di un libro proprio sulla vicenda di Pilato, e la coraggiosa amante, Margherita, l ’unica, in tutto il romanzo, che pur nella sua fragilità tiene testa a Woland, lottando strenuamente per la salvezza del suo amore.

“- L'amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpí subito entrambi. Cosí colpisce il fulmine, cosí colpisce un coltello a serramanico! Del resto, lei affermava in seguito che non era cosí, che ci amavamo da molto tempo, pur senza esserci mai visti”.

Last but not least: l’opera di Bulgakov fu fortemente osteggiata dalla censura politica lungo tutta la sua vita: ecco allora come possiamo comprendere meglio la feroce critica che egli muove, indirettamente, al sistema di tessere e di scrittori “ di partito” che gli impedirono la libertà di espressione , ostracismo che portò alla pubblicazione del romanzo soltanto postumo, ben dopo la sua morte.

Un intreccio fittissimo, una prosa sublime e accattivante, che sa alternare momenti di schietta ironia ad altri di poesia profonda, e propone una sincera e onesta riflessione sulla natura dell’uomo, sulla sua viltà e sui suoi vizi, ma anche sul riscatto che solo il sentimento sincero sa dare.
Un grazie sincero ad Enrico per avermi fatto scoprire questo capolavoro.

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petra Opinione inserita da petra    17 Gennaio, 2013
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Il Piccolo Principe

Difficile commentare questo splendido libro senza rischiare di cadere nel banale; “Il Piccolo Principe” , infatti, è un’opera scritta in modo semplice,una sorta di fiaba,il cui contenuto ha però una profondità, una bellezza e una poesia davvero rare.

La vicenda comincia con un uomo, un aviatore, che, caduto rovinosamente nel deserto del Sahara, incontra un ragazzino dall’animo gentile e tenero con cui stringerà amicizia : Il Piccolo Principe. Si tratta, in filigrana, dell’incontro di un uomo adulto con la sua parte bambina, quella più autentica, più genuina e spesso dimenticata; soltanto facendo altrettanto, spogliandosi cioè dell’armatura da perfetto adulto, serio e disincantato, il lettore può avvicinarsi a questa meravigliosa lettura e comprenderne appieno il significato.

Il Piccolo Principe ci narra di aver incontrato, nelle sue peregrinazioni fra i vari asteroidi, curiosi personaggi non molto dissimili dagli abitanti del pianeta Terra… Curiosi come il signor Chermisi, eternamente impegnato a fare e rifare calcoli, che però “…Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno... E tutto il giorno ripete: " Io sono un uomo serio! Io sono un uomo serio!" e si gonfia di orgoglio”. Il signor Chermisi si illude di possedere le stelle e di poterle vendere e comprare, ma per il protagonista egli è paragonabile a un fungo...Come dargli torto?

Altrettanto simile nella sua stravaganza è il secondo abitante di una stella, un ubriacone; la sua vita è passata a cercare di affogare nell’alcool la vergogna… la vergogna di bere. Tutto ciò pare triste e insensato agli occhi dell' ometto: nella sua genuinità “i grandi” paiono davvero strani.

Il piccolo protagonista ci ricorda, nel suo lungo dialogo con l'aviatore. come gli uomini abbiano smesso da tempo di “ vedere col cuore”ciò che è essenziale, quanto cioè conta davvero, al di là di soldi, potere e fama: gli affetti, l’amore, l’amicizia. Proprio come gli insegnerà una saggia volpe incontrata sul suo cammino, infatti, gli adulti oggi non sanno più “addomesticare” gli altri, non sono più capaci di creare con pazienza dei legami, ma pretendono tutto e subito anche negli affetti : " Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici".

Credo che questo racconto sia una delle fiabe più belle da me mai lette; con un linguaggio piano e accessibile, dietro immagini splendide, delicate e poetiche, Il Piccolo Principe parla di verità tanto semplici quanto profonde e spesso dimenticate: il valore dell’amicizia, la bellezza di ciò che ci circonda e la capacità di occuparcene, l’importanza di conservare dentro di noi la genuinità e la sincerità d’animo dei bambini.

Un libro che credo sia impossibile dimenticare, di una bellezza struggente.

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petra Opinione inserita da petra    13 Gennaio, 2013
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I doni della vita

Ho letto “I doni della vita" mossa dalla curiosità su quest’autrice suscitata dai tanti commenti positivi che avevo letto. Be’, si è rivelata davvero una piacevole sorpresa.

La parola che mi viene in mente pensando a questo romanzo è “ forza”: una forza dirompente, interiore , travolgente, che non emerge nella violenza delle immagini e o nella crudezza delle scene, ma accompagna tutta la narrazione ,conferendole una potenza evocativa che ho trovato solo in pochi altri autori.

Energica e potente è la prosa così come la caratterizzazione dei personaggi ; estremamente incisiva è poi la critica dell’autrice alle meschinità della realtà piccolo- borghese. A fare da contraltare a quest’ultima, la vicenda cardine del romanzo: la nascita e lo sviluppo di un amore fra Pierre e Agnès, anch’esso solido, viscerale e profondo.

L’unione fra i due , inizialmente ostacolata dalle famiglie, si rivelerà invece tenace e sincera : i due vivranno insieme e si sosterranno con amore per anni, nonostante tutti gli ostacoli (e i doni) che la vita ha in serbo per loro. E di ostacoli ce ne saranno molti, visto che la vicenda si snoda fra le due guerre mondiali ; l’autrice, di lì a poco vittima della follia nazista, racconta con una sconcertante lucidità e forse con un tragico presentimento del suo destino lo stravolgimento che la guerra, ogni guerra, porta con sé.

Pierre e Agnès dovranno lottare, attendere, soffrire: Pierre dovrà combattere in battaglia, così come il giovane e sensibile figlio, Agnès sarà sola per tanto tempo e i due si ritroveranno a dover affrontare le enormi perdite e la distruzione che la guerra comporta, ma la fibra del loro amore non verrà scalfita.

Il loro sentimento è tratteggiato con le delicatezza e la raffinatezza di un’ acquerello, e , a mio avviso, proprio per questo è ancora più vero, più credibile. Splendido il rintracciare quelle frasi e quei gesti, magari minimi, non eclatanti, che possono condividere soltanto due persone unite da un legame davvero profondo e tenace.

Un romanzo che mi ha molto coinvolta e appassionata, stilisticamente sublime.

" Ma Agnès on avvertiva più nè dolore nè fatica. Si sentiva come al termine di una mietitura, di una vendemmia: tutta la ricchezza, l'amore, il riso e il pianto che Dio le riservava lei li aveva accolti e adesso che tutto era finito, non poteva far altro che mangiare il pane che aveva impastato, bere il vino che aveva pigiato; i doni della vita lei li aveva riposti nel granaio, e tutto l'amaro e il dolce della terra avevano dato i loro frutti".

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petra Opinione inserita da petra    06 Gennaio, 2013
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Solo un uomo

Velatamente autobiografico, questo breve racconto di Roth è attraversato da una grazia magnetica e da una sorta di candore narrativo che rendono letteralmente impossibile staccare gli occhi dalle pagine.

Siamo a Parigi, sotto i ponti della Senna, dove fra gli altri vive il clochard Andreas, appassionato, per così dire, del dono di Bacco. Inaspettatamente, nella sua placida esistenza, dove la "borghese" tranquillità del denaro non è contemplata, accade un piccolo miracolo: un ignoto benefattore salta fuori dal nulla e gli presta duecento franchi, con la sola condizione che Andreas le restituisca, quando potrà, presso la statua di S. Teresa della chiesa di Santa Maria di Batignolles.

Andreas inizialmente tentenna sbigottito ; non sa come e quando poter restituire la somma, non è preparato a questo dono, ma nemmeno alla responsabilità che esso comporta ...
Alla fine tuttavia accetterà, consapevole che la sua dignità, il suo onore, gli permetteranno senz’altro, in qualche modo, di saldare il debito.

Tale debito sarà effettivamente onorato? Andreas non è immune dalle tentazioni che il lusso, l’alcol, le donne gli offriranno…Andreas è solo un uomo, e in lui, come in tutti, convivono due caratteristiche antitetiche : la fragilità della natura umana e il senso della propria dignità, altro aspetto fondamentale dell’essere uomo, che in lui è molto vivo, nonostante le apparenze.

Con un velo di pacata ironia e dimostrando nelle osservazioni e nelle descrizioni una profonda conoscenza dell’animo umano, Roth ci consegna postuma questa breve, meravigliosa storia, ricca di molteplici letture sull'uomo, il senso dell'onore, la fragilità e la redenzione.

“Perché a nulla si abituano gli uomini più facilmente che ai miracoli, se si sono ripetuti una, due, tre volte….Così sono gli uomini….e che altro potremmo aspettarci da Andreas?”

Un libro caldamente consigiato, una lettura capace di infondere un senso di profonda serenità.

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petra Opinione inserita da petra    03 Gennaio, 2013
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Il signor Mani

(ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA)

Il signor Mani è un grandioso viaggio a ritroso nel tempo, nonché una vera e propria genealogia, quella di una famiglia ebraica, i Mani, i cui componenti sono costantemente alla ricerca una propria identità, nazionale e spirituale insieme.

Ci si immerge totalmente in queste pagine, sembra di percepire suoni colori e aromi di terre diverse: Creta, il Libano. la Polonia, Atene, infine Gerusalemme. Si partecipa col cuore in gola alle esistenze errabonde e affannate dei personaggi, segnate dallo spaesamento e dalla solitudine esistenziale che paiono perseguitarli, nonostante i mille tentativi di raggiungere un proprio centro di gravità, una propria sicurezza interiore.

La penna di Yehoshua ci conduce, con un linguaggio raffinatissimo, in luoghi e tempi lontani, i luoghi dell’Ebraismo, nelle varie fasi storiche che hanno contrassegnato la storia di questo popolo dal 1982 fino al 1842.

Grazie all’originale impianto narrativo, il romanzo prevede la narrazione a ritroso nel tempo delle vicende di questa famiglia : il primo capitolo è ambientato negli anni 80 del Novecento, ai tempi della guerra del Libano, e , di vicenda in vicenda, la narrazione procede nei decenni precedenti , attraversando varie epoche storiche e ripercorrendo i luoghi caratteristici dell’Ebraismo.

Con un efficace stratagemma narrativo Yehoshua struttura i capitoli in dialoghi, in cui uno degli interlocutori è virtualmente assente: possiamo soltanto intuire gli interventi di quest'ultimo dalle reazioni e dalle risposte del narratore principale. Questa tecnica invita a una maggiore concentrazione e ad una partecipazione più attiva del lettore e permette di penetrare più fondo nel clima emotivo e storico propri di questo romanzo.

Il primo dialogo è ambientato nel periodo dei kibbutz e dei contrasti con i Palestinesi,duante la guerra del Libano; il secondo si svolge durante la terribile fase storica del Nazismo, a Creta, dopo lo sbarco dei Tedeschi.In tale circostanza assistiamo esterrefatti e smarriti, al delirio collettivo che portò alla volontà di annullamento di un popolo. Il forte antisemitismo tedesco emerge sotto forma di un raggelante eppur lucido dialogo di un soldato tedesco con la sua nonna, convinti antisemiti, per i quali l'Ebraismo è un carattere da annullare prima ancora di essere l'appartenenza a un popolo.
l terzo dialogo si svolge invece a Gerusalemme , durante la prima Guerra Mondiale , mentre l'ultimo ci porta ad Atene, durante il regno Ottomano. E' proprio in quest'ultima parte ove , a mio avviso, culmina la storia, in un’origine,in una nascita tanto atesa quanto segnata dal sacrificio e foriera di dolore.


Si tratta di pagine straordinarie, nelle quali si viene come rapiti dal susseguirsi di vicende dettagliate nello spazio, nel tempo e nela psicologia dei personaggi: sulle vicende aleggia, come una nebbia sottile, un senso di perpetua, iterativa e irresolubile angoscia che, da sempre, accompagna la tormentata storia di questo popolo .

Tutte le voci narranti del romanzo hanno avuto a che fare con un membro della famiglia Mani per i motivi più diversi, e si rivolgono a un confidente per descrivere le impressioni e le emozioni suscitate da questo loro incontro.

Entriamo così a contatto con una civiltà i cui membri sembrano inseguire un sogno di unità e di acquisizione di una propria identità , sempre con grande sforzo e immenso dolore; avviene come se uno sradicamento sanguinoso della natura più intima di un popolo comporti una perdita definitiva, ineluttabile,del baricentro emotivo e spirituale dei suoi componenti. Tutto il romanzo è pervaso da questa quieta, terribile e rassegnata sofferenza.

E’ la sofferenza del Mani del secondo dialogo, costretto ad annullare le proprie origini, a rinnegare la propria identità quasi fosse, assurdamente, una colpa, per salvarsi dalla follia omicida nazista; è la sofferenza che si legge nel primo capitolo , in cui non si riesce a intravedere una possibile pace fra due popoli contigui e in cui il primo signor Mani cheincontriamo cerca senza trovare il coraggio diporre fine ai suoi giorni; è il senso di ineluttabilità del dolore e del male, che nel quarto dialogo segna l’anziano medico il cui spirito è affaticato dalla ricerca di una pace mai trovata e dal susseguirsi di enormi frustrazioni ; è l'intimo tormento del "signor Mani" dell’ultimo capitolo, il capostipite, nella cui vicenda pare di assistere al ripetersi del sacrificio biblico di Abramo, in forma simile per modi e dolorosamente uguale per contenuti; per poter perpetuare la stirpe, annullando una pecca primigenia e cercare disperatamente un senso alla propria esistenza egli compie un gesto estremo, discutibile e sconvolgente. Un lacerante tormento lo accompagnerà infatti per tutta la vita, portandolo a cercare invano un’assoluzione o una condanna che nessuno sarà in grado di dargli.

Romanzo epico, nel senso di romanzo di un popolo intero, pur nel suo carattere personaggistico, straordinario per la forza dirompente che trascina il lettore nelle viscere di una sofferenza secolare di una gente : nelle pagine si apre uno squarcio sul profondo, incessante tormento di un popolo cui sfugge impietosamente la rassicurante certezza di una solidità interiore ,il senso di una protezione che viene dall’unità, ove la diaspora ha seminato non solo disgregazione fisica ma soprattutto un disorientamento spirituale e psicologico.

Un libro per certi versi non facile, che richiede grande attenzione e "dedizione" , se mi è lecito il termine, "Il signor Mani" sa però ripagare e appagare ampiamente il lettore; si ha infatti la sensazione , a lettura ultimata, di essersi davvero addentrati, per qualche ora, nel cuore di una civiltà e di una sensibilità particolari, che chiedono di essere conosciuti, compresi e amati per la loro ricchissima storia.

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petra Opinione inserita da petra    01 Gennaio, 2013
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Il rumore dei ricordi

Un romanzo che di legge d’un fiato, un ritmo pacato e dolce che accompagna la narrazione senza ai imporsi , con un linguaggio piano, accessibile, eppure molto musicale, gradevole, delicato.

Roberto, carabiniere, temporanamente dispensato dal servizio, ha superato da poco un “ terremoto emotivo” non da poco. Carofiglio descrive con grande perizia il senso di estraneità , quasi di alienazione, che ci coglie nei momenti di sconforto, quando fra noi e il mondo sembra frapporsi un velo invisibile che non riusciamo a squarciare, e la realtà ci pare sfocata ,sfuggente, come annacquata.
La vita di Roberto è una lenta ripetizione di gesti, tutti uguali, fatti per tentare di controllare un’implosione dell’animo lenta e terribile, che per poco non lo ha devastato.

Diversi personaggi entrano in gioco nel riportare il protagonista a una vita più piena. Il primo è un medico, con le sue domande un po'strambe e le sue parole a volte ostiche, talvolta, per questo, rifiutato dal protagonista, ma con il quale Roberto riesce a stabilire un clima di fiducia e quasi di complicità, portando alla luce quegli angoli bui e quei segreti che paiono incancrenire nel suo intimo. Piano piano, Roberto si riconcilierà con questi fantasmi.

Altre due figure hanno un ruolo decisivo nella svolta umana e psicologica dell’uomo: una donna, un’ex attrice, sconcertata e frantumata nel profondo come lui, e un ragazzino, sensibile e intelligente, segnato prematuramente dal dolore e dalla perdita.
Due incontri che paiono slegati e che , fortunatamente,sfuggono a una trama che poteva andare in direzione prevedibile e scontata. Due personaggi che, in un certo qual modo, fungono da specchio per le sofferenze del protagonista , permettendogli indirettamente un rapporto via via più sereno con la sua vita, finalmente nuova.

La parte finale del romanzo è quella che più si avvicina a un thriller vero e proprio, pur contrassegnato, indubitabilmente, da una ricerca psicologica non da poco. Tale parte è verosimile e trattata con stile e delicatezza, sebbene forse non siano, a mio parere, le pafìgine più interessanti dell'opera.

Una bel romanzo, forse un po’ azzardato nel difficile equilibrio fra intimismo e azione, ma comunque consigliato sia per i contenuti, mai banali , sia per la straordinaria capacità introspettiva dell'autore.

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petra Opinione inserita da petra    09 Dicembre, 2012
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La banda degli invisibili

Davvero gradevole questo romanzo di Bartolomei, scritto molto bene, con un buon ritmo e con qualche richiamo alla parlata romanesca che colorisce la narrazione senza stravolgerla. La penna dell’autore mette a nudo realtà talvolta scomode sul mondo degli anziani con un’ ironia garbata che rende particolarmente agile e piacevole la lettura.

“La banda degli invisibili” ha proprio il grande merito, a mio parere, di offrire un’immagine degli anziani meno stereotipata di quella che troppo spesso ci viene proposta in maniera neanche troppo velata. Non persone “invisibili”, come nel titolo, più simili a cose che a persone, ormai incapaci di intendere , di volere e soprattutto di provare emozioni, bensì signore e signori pensanti e dotati di cuore, che hanno dato e hanno da dare ancora tanto, che meriterebbero ben più attenzioni e ben più calore di quelli che spesso sono loro riservati da parenti ed amici.

Voce narrante è Angelo di Ventura, ex partigiano, ora vispo ultrasettantenne pieno di idee,di vita e tante volte anche di rabbia, il quale ci racconta la sue disavventure quotidiane vissute con tre altri amici over settanta. Piccolo cuore del loro mondo è il centro anziani, dove si ripetono le stesse identiche dinamiche che animano qualunque gruppo dai cinque ai cent’anni: le innate simpatie o antipatie, le liti per futili motivi, le amicizie inaspettate che nascono lentamente e, perché no, anche gli amori, nati in sordina e difficili da far venire alla luce, specie in un età non più verde.

Stupendi alcuni passi, dolorosamente realistici, come la gita delle pentole: venti padelle da acquistare, inchiodati su un pulmino, per potere avere accesso a un fantastico tour di un’ora scarsa ad Assisi. Realistico? Sì, purtroppo sì.
Altro capitolo che ho trovato emblematico è quello in cui Angelo e i suoi recitano per far ritrovare il sorriso a un signore, ricoverato, o meglio parcheggiato, in ospedale e lì dimenticato dai parenti e, qualche volta, anche dal personale. I quattro si atteggeranno a vecchi compagni di scuola del signor Emilio, improvvisando un surreale dialogo fatto di compiti in classe misti a ricordi bellici.

La parte finale è poi una delle meglio riuscite, divertente e con momenti francamente comici. I quattro vegliardi organizzano il “ rapimento “ dell’ex premier in modo decisamente ingegnoso e folkloristico; pagine sicuramente liberatorie per chi ha più volte storto il naso di fronte all’ennesima barzelletta del cavaliere…

Solitudine, bisogno di affetto, bisogno di sentirsi vivi, di non venire dimenticati: necessità fondamentali di una fetta consistente della nostra società. Si tratta di temi importanti che, trattati con delicatezza e, direi, con stile, fanno de “La banda degli invisibili” una lettura piacevole e arricchente, sicuramente consigliata.

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petra Opinione inserita da petra    02 Dicembre, 2012
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Ogni persona è una storia

Leggere Marcela Serrano è un po’ come guardare a fondo in noi stessi, affrontando, talvolta dolorosamente, anche i lati oscuri e meno piacevoli del nostro essere. Lati che ogni tanto, in ciascuno, emergono con veemenza e chiedono asilo, specie nei momenti di difficoltà, di delusione e di dolore.
“Dieci donne” è la storia, o meglio, l’insieme delle storie di dieci persone completamente diverse fra loro per età, vissuto, estrazione sociale. Impossibile non scorgere tracce di noi nelle loro fragilità, nel desiderio di fuga di Andrea, nella volontà di scordare il passato per Layla, nella difficoltà di comprendere chi amiamo e nella necessità di venire a patti con il nostro passato, comune a tutte le donne del racconto.
Straordinaria, a mio avviso, la capacità dell’autrice di rendere personaggi così marcatamente diversi attraverso un sapiente uso del linguaggio e del ritmo narrativo: ogni racconto ha un suo gergo,un suo registro, parole ricorrenti, una lentezza o una vorace rapidità che riflettono l’animo, di volta in volta scoraggiato , affannato o turbato delle protagoniste.

Si tratta di pagine a tratti commoventi e sicuramente dense di spunti di riflessione per chiunque si chieda il perché, il senso delle proprie azioni, la possibile influenza dell’esperienza passata e il loro riflesso nelle relazioni con gli altri.

“Ricordare tutto significa afferrare ogni giorno un coltello affilato e tirarsi via strati di pelle…”

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petra Opinione inserita da petra    14 Novembre, 2012
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La banalità della follia

La sonata a Kreutzer è un’opera densa, intrisa di dolore, disperazione, inquietudine : un’opera che da un lato incanta per la prosa, dall’altro fa rabbrividire per la lucida follia descritta. Sembrerebbe un delirio, di primo acchito, se Tolstoj non avesse creato un’atmosfera claustrofobica e soffocante, nella quale le argomentazioni di un assassino sembrano quasi convincenti, o forse no, forse è l’ars retorica del personaggio, forse è quel suo nervosismo tradito da scatti repentini e bruschi, ma non si riesce proprio a distogliere l'attenzione da Podznisev, il protagonista, dal suo estremo convincimento, a tratti freddo, a tratti pervaso dall’ossessione e dalla gelosia. L’impressione suscitata dalle sue parole è terribile, sia per la spietata e meschina idea dell’amore che egli va cervelloticamente costruendo, sia per l’ideale astratto e discutibile di purezza cui egli anela e che sembra quasi avallare ogni suo gesto, come se in qualche modo la corruzione o la violenza attorno a noi ci autorizzassero a comportarci allo stesso modo.

Stretti anche noi nell’angusto vagone di un treno, ascoltiamo stupefatti, rapiti e turbati il suo dissertare, il lento insinuarsi del germe della follia in un uomo sano, divorato dall'ossessiva gelosia per la moglie.

Una lenta discesa agli inferi alla luce del sole che comincia con un' iniziale e banale incomprensione, capace di creare rancori senza fine, discussioni interminabili, addirittura repulsione. Questi sentimenti, lentamente, degenerano in un vero e proprio abisso di incomunicabilità fra i coniugi: ecco allora che in Podnizev, che pure ci pare così razionale nella sua narrazione, prende il sopravvento una terribile e spietata follia: la dissertazione cessa, il razionale rivela quelle ombre che ci creavano affanno e restiamo, inermi e sgomenti, ad assistere all’esplosone dell’ira e della vendetta nella loro forma più tragica.

Un lungo, incalzante monologo, forse confessione, forse arringa difensiva: in ogni caso un’opera di immensa forza narrativa, da leggere.

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petra Opinione inserita da petra    02 Novembre, 2012
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Madame Bovary

Flaubert costruisce la storia di Emma, Madame Bovary, con un lessico talmente musicale, poetico e dettagliato da far pensare alla sua opera come a quella di un “orafo" della parola, che seleziona e dispone con cura e attenzione quasi maniacali ogni singolo lemma, creando uno spaccato di vita di rara intensità e bellezza.

Entriamo a poco a poco nella storia di Emma, e le sublimi descrizioni psicologiche del personaggio ce ne fanno cogliere con immediatezza l’animo volubile, fragile e capriccioso. Nella sua mente ciò che vale la pena di essere vissuto e può dare senso ai propri giorni è solo una vita pari a un feuilleton rosa , denso di intrighi amorosi, colpi di scena e paesaggi fiabeschi; ma quando il desiderio da immaginifico si fa impellentemente reale, quando le lusinghe della fantasia portano a desiderare di essere ciò che non si è, allora è facile per Emma confondere desiderio con realtà, amore con eccitazione, lusso di tessuti e vesti con nobiltà d’animo e di sentimento in sè e nei suoi spasimanti. Una sovrapposizione fatale di realtà e fantasie, che sulle prime sembra solo un gioco innocente, volto a rianimare una vita piatta e noiosa; in realtà tale incoscienza svela la sua natura crudele nell’attimo in cui il gioco delle apparenze crolla ed Emma si ritrova, di nuovo, amaramente sola, vittima delle sue illusioni.

In questa perenne attesa di mutamento della sua esistenza, imprigionata in un matrimonio capitatole più che voluto, con una figlia e un marito che non riesce o non è capace di amare e nella convinzione di meritarsi un amore sconvolgente da romanzo, Emma cede inevitabilmente ad ogni lusinga del destino, nella speranza di cambiar vita, di avere di più, di riuscire ad essere più serena, finalmente appagata.

Romanzo straordinariamente attuale per la perpetua ricerca di una felicità che tiene in gran conto l’emozione fugace e la suggestione delle cose materiali, dove vige un'incomunicabilità drammatica fra i personaggi: all’inizio del romanzo Charles, marito di Emma, non riesce a integrarsi e a interagire con i suoi compagni di scuola; Emma non riesce a manifestare la sua frustrazione al marito, il quale la crede devotamente innamorata e scambia la sua insoddisfazione per una malattia nervosa; gli amanti di Emma nutrono sentimenti ben lontani dalla sua concezione dell’amore, quando non totalmente diversi: e poi spicca il ruolo della ricerca affannosa dei beni di lusso,il cui possesso vorace diventa un palliativo per curare un vuoto interiore enorme, certamente non colmabile dall’ennesima seta pregiata.

Decisamente esilaranti, poi, alcune indirette critiche di Flaubert alla piccola borghesia dell’epoca, come la figura di Homais, farmacista borioso e fanfarone, o la scena del comizio agricolo dove roboanti lodi dello Stato e dell'agricoltura si alternano al contemporaneo, artificioso e smielato corteggiamento di Rodolphe, producendo un effetto di smaccata ironia.

Un romanzo magistrale, di una bellezza descrittiva assoluta e caratterizzato da una profonda analisi psicologica della protagonista. Ne ho apprezzato soprattutto la seconda parte, quando il lettore entra nel vivo della vicenda di Emma; questa figura certo non risulta essere di grande simpatia, ma in lei, nella sua fragilità, credo che ognuno possa talvolta riconoscersi e possa dire, come l’autore, il famoso “Madame Bovary c’est moi”.

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petra Opinione inserita da petra    25 Ottobre, 2012
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Un legame forte come la vita

La vita e la morte, il destino e le scelte, le colpe e il perdono, la nostalgia e il ritorno…Mille sfumature del quotidiano colorano questo splendido libro di Nevo, mille piccoli accadimenti raccontati con disarmante onestà dal protagonista, Yuval, giovane Israeliano che affida alla carta la storia di un’amicizia forte e fragile, e perciò tanto vera, come quella fra lui e i suoi tre amici : Amichai, Ofir, Churchill.
I quattro si conoscono dal liceo: il tempo passa e, quasi a volerlo “bloccare” si fanno propositi, come rituali, in vista dei successivi Mondiali di calcio: assaporiamo la speranza innocente e l’ingenuità proprie dei sogni e dei grandi ideali. Poi il tempo continua a scorrere e costringe alle scelte, più o meno impegnative, più o meno sofferte, sempre difficili, magari non in linea con le nostre vere aspirazioni. Ma questa è la vita.

C’è l’intifada, il servizio militare, ci sono i viaggi, i momenti scanzonati e quelli tragici, e d’improvviso ci si ritrova uomini: trent’anni, mille dubbi e tante responsabilità. Per fortuna ci sono loro, un’ àncora di salvezza, gli amici veri ; solo loro sanno dare sapore ai nostri giorni, sanno tirare fuori il meglio di noi e sanno aiutarci nel modo migliore, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

Il romanzo di Nevo è un inno vero e sentito a questo sentimento, l’amicizia, meno passionale e fragoroso di altri, ma vitale e necessario come l’aria che respiriamo. Lo sa bene Yuval, il protagonista, che vive visceralmente quest’amicizia fraterna, affrontando e superando anche cocenti delusioni , godendo della compagnia e delle linfa che sono per lui i suoi tre amici, anche quando si comportano male, anche quando non li capisce o da loro non si sente compreso .

Nella lunga , disarmante e a tratti comicamente sincera narrazione di Yuval si alternano momenti esilaranti ad altri di grande struggimento e di dolore, com’è poi nella vita reale. I sentimenti sono a volte confusi, contraddittori: in certi momenti prevale la delusione, a volte la tenerezza; a tratti si prova rabbia, a volte invece un sorriso cancella ogni ombra, nella consapevolezza che quando un’amicizia è sincera allora può resistere a tutto, anche alla lontananza , fisica o morale che sia.

Quasi a riprova dell’universalità di dubbi e ripensamenti che pervadono il suo animo, Yuval costella il racconto con stralci della sua tesi, imperniata sui filosofi che hanno cambiato repentinamente idea: una piccola corazza per le nostre inquietudini, perché, se il dubbio tormentava persino Aristotele- (“Addio idee platoniche, perché non avete più significato di una canzoncina, la la la”)- forse anche la timidezza di Yuval e il senso di smarrimento di ciascuno di noi può essere accettabile, perché siamo umani, e , proprio in quanto tali, l’amicizia ci rende senz’altro più forti.

A mio avviso un libro splendido, emozionante, commovente.

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petra Opinione inserita da petra    14 Ottobre, 2012
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la prima notte

"Finisce molto. Non tutto. Niente finisce mai del tutto, non credi?"

Il cuore ha continuato a battermi forte per molto tempo dopo aver terminato la lettura di questo romanzo.

Amore, odio, violenza, morte: come nelle tragedie greche le grandi passioni umane entrano in scena creando situazioni che sconfinano spesso nella follia, mentre emozioni troppo intense si traducono in azioni dirompenti, al di fuori di qualsiasi controllo.

E’ una lunga notte, quella fra Irene e il suo misterioso amante. Una notte fatta di amore e di una lunga, irruente e magica narrazione, capace di creare fra i due un’intimità quasi forte come quella fisica.

E’ soprattutto lei, Irene, la protagonista di questo lungo e accattivante racconto. Con parole suadenti, ammalianti, questa giovane donna incanta il lettore, introducendolo negli oscuri meandri della sua vita, segnata fin da ragazzina dalla tragedia. Con il tempo scopriamo che Irene ha cercato, nonostante un destino impietoso, di rifarsi una vita “normale” : amici, casa, studio. Ma il dramma è destinato a ripresentarsi più volte alla sua porta. La prima volta sarà sotto le spoglie di un uomo, “il Mercante”: una sola apparizione, fugace e una sensazione forte, che Irene chiama “la magia",irresistibile, saranno sufficienti a farle decidere istintivamente il ruolo che questo sconosciuto avrà nella sua vita. Un incontro stregato, maledetto, o forse necessario, certamente foriero di una vicenda torbida e oscura.

Sarà il primo tassello di un lungo e turbinoso mescolarsi di intrighi, colpi di scena, tuffi in un passato irrisolto, con troppi conti in sospeso col presente.

La narrazione avviene lungo tutta la notte , in un crescendo fra rimandi temporali, presagi e intrecci, culminando in un pericoloso e inaspettato quadrilatero di ruoli.

Il ritmo serrato della vicensda è reso più sofferto e teso dalla pacatezza del racconto ; l’angoscia e il non detto avvolgono come una nebbia sottile ogni avvenimento, in un gioco di specchi, fino alla fine.

Montanari, oltre a tenere perennemente sulla corda il lettore, lo fa riflettere sul significato e sul peso che coincidenze, intuizioni e suggestioni esercitano sulla nostra vita. La tensione narrativa pervade tutto il romanzo, in un climax emotivo magistralmente creato e interrotto ad arte.

L’ho trovato un libro intenso, terribile e bellissimo insieme.

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petra Opinione inserita da petra    03 Ottobre, 2012
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siii forte e paziente...

...un giorno questo dolore ti sarà utile".
(Ovidio)

Mi è stato impossibile non provare un’immediata tenerezza per il protagonista del libro.
James ha diciotto anni, vive con la madre e la sorella, e lavoricchia in una galleria d’arte. Non ama molto la compagnia dei suoi coetanei, si sente diverso da loro, e si rifugia nei libri come in un mondo a parte, perfetto, “un mondo non ancora completamente sopraffatto dalla stupidità, dall'intolleranza e dall'odio”. La persona con cui è più in sintonia è Nanette, sua nonna, donna intelligente e saggia, l’unica dalla quale James si senta davvero amato e accettato per quello che è.

Il "dolore" cui si allude nel titolo è proprio questo sentirsi estraneo rispetto agli altri, alla stupidità universalmente accettata, al dover uniformarsi al gregge ; ma è anche, soprattutto, paura di entrare in contatto sincero e diretto con gli altri, paura delle proprie emozioni e della loro forza a volte dirompente.

Facile identificarsi in lui, così come sarebbe spontaneo catalogare come “età difficile” il periodo della vita in cui si affacciano spesso questi sentimenti,cioè lo sconforto, l’alienazione, l’estraneità di fronte a un mondo da cui non ci si sente protetti. Ma forse, rievocando la nostra adolescenza, un po’ di quella insicurezza, un po’ di quello spavento nel dover fare scelte decisive per il futuro sono stati vissuti anche da noi…chi più chi meno, e tutti con forme di difesa diverse; ma credo che l’inadeguatezza, nel passaggio all’età adulta, sia un sentimento assolutamente comune.

Mosso dalla confusione di idee e di sentimenti che gli frullano in testa, James , senza esserne pienamente cosciente, ferirà molto una persona cui tiene: questo sarà, per lui, un grosso dolore, ma, allo stesso tempo, sarà un punto di svolta per lui. E'un errore commesso con leggerezza, che però gli permetterà di riflettere su di sé, sulle proprie relazioni con gli altri, su cosa fare del proprio futuro.

“Hai agito. Stupidamente, ma hai agito, e questo è l'importante. E spesso le persone si comportano in modo stupido quando c'è di mezzo l'amore”.

Ci si affeziona immancabilmente a questo personaggio, timido e involontariamente comico, facendo il tifo per lui sino alla fine. La grazia, il garbo e l’ironia tipici di Cameron impreziosiscono la lettura, evitando derive stucchevoli o esageratamente intimiste. Considerazioni ironiche e a volte ferocemente sarcastiche sulla società in cui viviamo cesellano il racconto, strappando più di un sorriso.

Un libro che intenerisce, diverte e forse “castigat ridendo mores”.

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Romanzi autobiografici
 
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petra Opinione inserita da petra    29 Settembre, 2012
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Cronaca familiare

AVVISO:ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Pratolini, In questo breve romanzo, descrive la nascita e la difficile e tormentata “costruzione” del rapporto con Dante, suo fratello, scomparso prematuramente. Del suo incompiuto affetto per lui, Pratolini prova un acuto e angoscioso rimpianto di cui è permeata tutta l’opera.

Avere un legame di sangue e sentirlo visceralmente come tale, provare affinità per qualcuno non soltanto perché si porta il medesimo cognome, ma per una comunanza di sentire e di educazione: non sempre queste due condizioni vanno di pari passo.

Così accadrà fra i due fratelli: riallacciare i fili di un rapporto che il tempo e le circostanze hanno reso sempre più flebile, diventa sempre più difficile.

In un primo momento il piccolo Dante, nato poco prima della scomparsa della madre, è ritenuto responsabile, da un Pratolini bambino, della morte della stessa. La giovane donna, indebolita dal parto e vittima dell’epidemia di spagnola, è mancata in realtà in seguito a una complicanza. Inevitabilmente, nella situazione traumatica del lutto e senza che nessuno intervenga per dare spiegazioni e conforto, Pratolini riterrà il fratello responsabile di tale sciagura. Per tale ragione, nei lunghi anni a venire, gli sarà impossibile nutrire affetto per lui.

Al dramma della perdita della madre si aggiunge l’allontanamento del piccolo Dante; ancora neonato, il bimbo viene adottato da una ricca famiglia, mossa a compassione dalla sua sorte . Qui il bimbo sarà educato secondo rigide maniere borghesi, che alla sostanza preferiscono la forma dei modi e delle apparenze. Tale educazione è assolutamente lontana dal modo di vivere e di pensare del fratello. Dante diventerà un giovane azzimato e impeccabile nei modi, ma del tutto impreparato ad affrontare il mondo. Il giovane Pratolini, intanto, si divide fra lavori saltuari e sforzi da autodidatta per diventare scrittore. I due fratelli vivono esistenze opposte, inconciliabili.

Quando, a causa di un improvviso dissesto economico, Dante dovrà abbandonare la sua vita dorata, cercherà l’aiuto del fratello: comincerà allora un lento, faticoso riavvicinamento, in cui il lettore assiste al riconciliarsi non solo di due anime, ma di due mondi agli antipodi.
Dante, sotto la scorza del formalismo, rivelerà una sensibilità profonda, quasi eccessiva. La sua infanzia protetta e ovattata, purtroppo, lo hanno reso del tutto inadatto alla vita al di fuori del suo guscio dorato: Pratolini rimpiange di non averlo saputo proteggere e sostenere come avrebbe voluto.


Nella nota introduttiva l'autore afferma, che “ Cronaca familiare” è stato scritto per una propria consolazione e come “ sterile espiazione” per non aver compreso in tempo la nobiltà d’animo del fratello. Scorrendo le pagine s’intuisce la valenza catartica del romanzo, nel quale la figura di Dante è rievocata sempre con immensa tenerezza; la seconda persona, usata nella narrazione, contribuisce a rendere con immediatezza il clima di intimità e di complicità che va lentamente instaurandosi fra i due.

Lirico e superbo, pur nella sua brevità, questo libro affascina e commuove, senza bisogno di grandi discorsi o retorica altisonante: l’intensità del rimpianto è palpabile e resa più sferzante dal linguaggio asciutto, pulito, privo di fronzoli.

Sullo sfondo di una guerra appena accennata, le vicende del riavvicinamento fra i due sono descritte con un lirismo toccante e commovente, reso più acuto dalla prosa diretta e franca di Pratolini. Brevi descrizioni e momenti di riflessione si alternano ad ampie parti di dialogo.

Uno splendido gioiello letterario per contenuti e prosa, una dedica elegiaca e toccante.

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Religione e spiritualità
 
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petra Opinione inserita da petra    25 Settembre, 2012
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La serenità di un mondo scomparso

Da bambina, mio padre aveva l’abitudine, ogni sera, di mettermi sulle sue ginocchia e di raccontarmi una storia. Era un rito, qualcosa di rassicurante e inebriante insieme, per le cose che scoprivo e per quella saggezza concreta, esperita nel dolore della guerra, che mio padre mi trasmetteva come una testimonianza preziosa: unico suo prezioso lascito, custodito gelosamente in me dopo la sua scomparsa, ormai tanti anni fa.

Leggendo “ Il pane di ieri sono tornata con la memoria a quei tempi, a quella dimensione, sospesa fra la fanciullezza e l’età adulta, in cui un uomo buono e saggio riempiva il silenzio delle mie sere e quello mio, di bimba malinconica, con aneddoti sulla campagna del Monferrato. Motti dei contadini, vendemmie descritte come feste, cene fatte di poco o niente, ma cui non mancavano mai l’accoglienza e l’ascolto reciproci, erano il cuore di aneddoti che divertivano o facevano riflettere,e che mi scaldavano l'animo.

Questa pacata armonia l'ho ritrovata nelle pagine di questo libro. Come in un lungo e poetico racconto, Enzo Bianchi ci conduce, senza retorica né buonismo, in quella civiltà contadina del Dopoguerra, indissolubilmente legata alla terra , ai suoi ritmi e alle sue stagioni. Pur non negandone la durezza ( una grandinata improvvisa poteva rovinare,improvvisamente il duro lavoro di un anno nei campi),si coglie, nella descrizione dei vari riti come la vendemmia o la festa de paese, i momenti di gioia e quelli del lutto,una rasserenante armonia con la vita , con gli altri , con la natura stessa. Nessuna nevrosi nell'affrontare le avversità, nessun dolore che non si fosse preparati ad accogliere come parte stessa dell'essere vivi, sempre insieme agli altri, sempre insieme a qualcuno disposto a sorreggere e a dare una mano.


Era la comunità, il paese, a sopperire alle necessità e alle mancanze di ognuno, morali e materiali,; era un’epoca in cui il semplice sedersi attorno alla tavola a sgranare pannocchie o la preparazione della mostarda dal mosto e dalla frutta diventavano, per tutti, una fonte di gioia, un’occasione per stare insieme rallegrata sempre, come nella tradizione monferrina, da un buon vino forte.

Questo libro mi ha lasciato in dono una grande serenità, facendomi riflettere sulla freneticità con cui,oggi, consumiamo tutto senza “assaporarlo” veramente: il cibo, il tempo, l’amore, l'amicizia.

E' stato, per me, come una meravigliosa e rasserenante "fiaba vera".

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petra Opinione inserita da petra    13 Settembre, 2012
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L'idiota

“L’idiota” è uno di quei capolavori che lasciano un segno indelebile nell’animo.

Non è solo un romanzo, ma una vera esperienza, emotiva e intellettuale insieme, che coinvolge il lettore nel profondo e non si dimentica in fretta.

Le passioni dell’animo umano, la sofferenza e il senso della vita e quello della morte: tutti questi temi sono trattati in modo sublime e profondo , conferendo al romanzo una potenza magnetica.

Il principe Lev Nikolaevic Myskin, protagonista della narrazione, è l’ultimo discendente di una nobile famiglia russa. Passata la giovinezza in Svizzera, in cura per una forma di epilessia, egli ritorna a Pietroburgo. La sua intenzione è quella ricostruirsi una nuova vita; a tale vita, però, si presenterà drammaticamente e totalmente impreparato.
Egli, come detto,soffre di epilessia; ma l’idiozia del Principe è legata a una condizione di malattia? No, il Principe Myskin racchiude in sé una nobiltà d’animo e una sensibilità superiori, che lo rendono “idiota” agli occhi del mondo, nel 1869 così come sarebbe oggi, per ben altri motivi. Questi risiedono nell’incapacità di sopravvivere, senza difese, “come un agnello sacrificale”, in un mondo dove domina il più astuto , il più calcolatore, il più cinico.
Il protagonista,al contrario, è privo di qualsiasi pregiudizio o malizia, non sa mentire e ha uno sguardo limpido e diretto sul mondo ; soprattutto, è un uomo compassionevole, nel senso etimologico del termine. Non può restare indifferente a chi ha vicino, ne scruta l’animo in profondità e ne percependone istintivamente, gioie , turbamenti, perplessità.

Ma la superiorità morale del Principe, questa “luce” che egli emana e che rischiara fugacemente l’animo altrui, non solo non viene accolta, ma ,anzi è oggetto di scherno e di derisioni. Per tutti egli è sì un buon uomo, ma, soprattutto, nella migliore delle ipotesi un povero sciocco.

Uno dei pochi personaggi che realmente comprenderanno la profondità d’animo del Principe sarà Nastas’ja Filippovna, altra figura cardine della narrazione: donna bellissima e “segnata dal disonore”, animo sensibile e orgoglioso, è condannata dai duri colpi che la vita le ha inferto a un tremendo tormento interiore. Nonostante i pregiudizi che l’hanno “marchiata” in società e segnata nell’intimo, Nastas’ja ha la stessa nobiltà di sentimenti del Principe . Soltanto lui, infatti, sarà capace di scorgerne il tormento interiore la vastità della sofferenza e del sentimento; il resto della “buona società” è invece acciecato dal pregiudizio.
Sarà inevitabile che la vicende di Nastas'ja si intersechi a quella di Myskin in modo imprescindibile, sofferto e tumultuoso.

Le storia è molto articolata , sono tante le riflessioni così come i colpi di scena ,e la grandezza del racconto tiene alta l'attenzione del lettore, costantemente, in uno smanioso tentativo di trovare un senso a quella bontà tanto osannata a parole che il mondo, di fatto, rifiuta.

Viene da chiedersi se davvero, come Dostoevskij fa dire , indirettamente, al Principe, “la bellezza salverà il mondo”. Il libro è senz’altro un’occasione di riflessione su questo e su moltissimi altri temi.

Un romanzo denso, impegnativo e di spessore, ma anche altamente appagante ; spontaneo chiedersi cosa significhi ,realmente, l’amore come compassione, l’agape ,per noi e per la nostra società.

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petra Opinione inserita da petra    07 Settembre, 2012
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il dolore e la magia

Poesia, sogno, speranza; sono queste le sensazioni che mi ha lasciato questo breve romanzo della Agus.

Sullo sfondo di una Sardegna ritratta magnificamente, nella sua bellezza primitiva e paradisiaca, si articolano le vicende di un piccolo mondo :la narratrice, una ragazzina di 14 anni, “Madame”, che gestisce un piccolo albergo attiguo alla casa della piccola, il nonno, i vicini di casa.
La ragazzina tiene un diario dove annota le su riflessioni su ciò che le accade intorno, a volte con stupore e turbamento, a volte con arguzia e saggezza, velate da una leggera ma onnipresente ironia.

La vera protagonista è però Madame, donna eccentrica, caparbia e dolcissima insieme; è un'animo generoso ma mal ricambiato, sempre alla ricerca di un affetto che possa colmare la sua esistenza.Le sue bizzarrie e le sue rocambolesche avventure amorose, un po’ strampalate e senza molte speranze, irritano il nonno e addolorano la piccola, che, per Madame, nutre un affetto particolare; sembra che, più degli adulti, la ragazza possa scorgere le fragilità di questa donna un po’ fuori dalle righe.
“A volte Madame , per la mancanza d’amore, si sveglia nel cuore della notte, allora si ricorda che è sola e le sembra di soffocare, va a bere un bicchiere d’acqua, ma l’amore che non c’è le toglie l’aria”.

Altra figura per me splendida è il nonno, uomo d’altri tempi burbero e sagace, che con la sua presenza granitica fa da contraltare alla bizzarria di Madame, cercando di correggere le sue stranezze e il suo dolore con salaci battute e infinite elocubrazioni.

“Nonno dice che quella donna non la vorrebbe neanche se fosse l’ultima della terra, e non nel letto, ma nemmeno vicina di loculo in cimitero. Tuttavia la nonna dei vicini è un umano importante, perché ha il cervello talmente vuoto, ma vuoto, che è la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Infatti come farebbe, completamente senza cervello com’è, a camminare, parlare, esprimere pensieri e provare sentimenti, se non con l’anima? Quindi l’anima esiste. Quindi Dio esiste”.

Nell’aria aleggia un’atmosfera onirica e fantastica, che permette di non sentire il dolore dell’anima, e sembra sorreggere la speranza di un futuro migliore.

La narrazione è asciutta e lineare e le descrizioni dei paesaggi sono realmente degne di nota.

Una piacevole lettura, una narrazione gradevole e una storia dolce che invita alla speranza.

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petra Opinione inserita da petra    27 Agosto, 2012
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amara ironia

Una strana sensazione mi ha colto al termine di questo libro. Qualcosa di non ben definibile a parole, una sensazione “di pancia”, intensa… un non voler credere ai propri occhi davanti a una realtà che ci sconcerta. Ammaniti ,con il suo stile ironico, dissacrante, a tratti onirico rappresenta situazioni surreali indagando senza remore nella meschinità umana. In questo sta la sua bravura , credo: nel rappresentare situazioni immaginate( ma assolutamente verosimili)che, senza bisogno di grandi sproloqui, lasciano riflettere, magari anche con una risata, sul mondo che ci circonda.
Già, perché mentre leggevo il libro più volte mi sono domandata: ma questa che leggo, potrebbe essere la realtà? E tutte le volte mi sono risposta che sì, purtroppo lo è.


A Villa Ada, storico parco di Roma, si prepara una festa colossale in onore di un palazzinaro arricchitosi in modo ambiguo; in tale sede si dipanano le vicende parallele di Saverio Moneta, impiegato di mobilificio e satanista a tempo perso, e Fabrizio Ciba, scrittore intellettualoide completamente ripiegato su se stesso. Tutto il “ bel mondo” di star e starlette varie della Tv accorre, chiassoso e sbrilluccicante , a questo evento “imperdibile”: tutto per ottenere il famoso quarto d’ora di celebrità, incurante di ogni cosa che non siano il proprio aspetto, il proprio guadagno e la propria immagine.

Esilaranti i non troppo convinti adepti della setta di Saverio, che più che un rituale satanico sembrano preparare una grigliata… oppure il chirurgo plastico che, candidamente, dichiara che il tempo delle figuracce, il tempo in cui si provava ancora vergogna per qualcosa, “è morto e sepolto. Se n’è andato col vecchio Millennio”.

Alla festa, trionfo del kitsch, accade di tutto : il maldestro tentativo di Saverio & colleghi di effettuare un rito, e con ciò trovare un senso alla propria vita, scatenerà un vero e proprio caleidoscopio di eventi tragicomici, con un finale inatteso e onirico, proprio dello stile dello scrittore.
Immagini forti, dialoghi surreali e ossessioni narcisistiche completano il quadro, stappando non di rado una risata e suscitando una riflessione, non troppo ottimistica, su cosa significa essere e apparire oggi.

“…Aveva capito che era necessario fare cose straordinarie(non necessariamente intelligenti) per farsi notare”.

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petra Opinione inserita da petra    22 Agosto, 2012
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Quella sera dorata

“Perché ci eccita tanto viaggiare, andare lontano? Per quello che ci lasciamo alle spalle o per quello che troviamo”?

Delicatezza: questa parola potrebbe riassumere efficacemente il romanzo di Cameron “Quella sera dorata”. L’autore tratteggia, con grande bravura,una storia molto intimista che vede la maturazione del protagonista, il suo confronto con un mondo nuovo e la conquista di una rinnovata consapevolezza; tutto questo attraverso le sfumature dell’animo , i silenzi , la scelta delle parole e il tono con cui sono dette.
Omar, ventisette anni, lavora come dottorando presso l’università. Ultimamente la sua carriera si è un po’ arenata , così come, soprattutto, la sua voglia di vivere. I giorni si trascinano uguali nell’irresolutezza e nel dubbio. Spinto dalla (terribile) fidanzata, il ragazzo si risolve a dare una svolta alla sua vita decidendo di scrivere la biografia di uno scrittore scomparso, Jules Gund. Per poterlo fare, tuttavia, gli occorre il consenso dei familiari di Gund, che decide di incontrare di persona. Comincia così il suo viaggio alla volta di un paesino sperduto dell’Uruguay, dove lo attendono una famiglia e un mondo anni luce distanti dal suo.
Un luogo dove il tempo si è fermato.
Un silenzio carico di parole non dette.
Sarà proprio il timido Omar a scuotere queste atmosfere un po’ stantie, pur con i suoi modi garbati; a poco a poco egli vincerà la propria abulia, scoprendo dentro sé capacità e risorse che non credeva di avere. La polverosa vita della famiglia dello scrittore sarà letteralmente scossa da questo improvviso visitatore, che rimetterà in gioco vicende e sentimenti volutamente seppelliti e cacciati con forza nel dimenticatoio. In questa vicenda anche Omar cambierà profondamente, riuscendo a far emergere la sua personalità e a vincere le sue mille esitazioni .Seguirà la propria strada e non , per la prima volta, quella tracciata da altri.
Le atmosfere e le ambientazioni ,magistralmente delineate dall’autore, sono un riflesso dei sentimenti suoi e degli altri personaggi. L’Uruguay , con il suo silenzio e la sua pace, fa da cassa di risonanza e amplifica il sentire dei personaggi.
Ho apprezzato molto la finezza psicologica con cui sono ritratte le varie figure del romanzo, soprattutto i dialoghi, mai banali e vividissimi, che occupano buona parte del libro.
E’ un romanzo che si legge d’un fiato, gradevole e scritto con garbo. Benché non ci siano passioni violente o sorprendenti colpi di scena, ci si innamora davvero di questa figura di ragazzo gentile , che si riappropria della sua vita e dei suoi sentimenti con la stessa levità con cui si stava lasciando andare.

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petra Opinione inserita da petra    16 Agosto, 2012
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perdersi per ritrovarsi

Josefa e Violeta si conoscono sin da bambine; la loro è un’amicizia solida, indissolubile, una comunione fra due personalità distanti eppur complementari. Violeta, con il suo idealismo, la sua vulnerabilità, il suo sguardo a tratti ingenuo sul mondo ; Josefa, con il suo pragmatismo, il suo disincanto, la sua razionalità. In apparenza due mondi agli antipodi che, nella realtà, non sono poi così distanti.
“Sì , Violeta cantava alla vita. La cantò fino al punto di maledirla…con l’illusione intatta, che un giorno, il destino degli uomini sarebbe cambiato”
Nell’intreccio delle loro vite si consuma la tragedia, improvvisa e violenta, di Violeta: per un momento sembra la fine di tutto, un punto di non ritorno per la loro amicizia. Sarà invece l’inizio di un nuovo, lungo percorso, che porterà le due donne a rivedere le loro scelte;si fa strada in entrambe il desiderio di una nuova consapevolezza, di una vita più aderente al proprio mondo interiore. Dopo il dramma Josefa sente, improvviso, il bisogno di narrare la loro amicizia. Scavando a fondo nelle radici della storia dell’amica rievoca la sua esistenza e comprende meglio la propria.

“MY LIFE IS A PAGE RIPPED OUT OF A HOLY BOOK
AND PART OF THE FIRST LINE IS MISSING”
“La mia vita è una pagina strappata a un libro sacro / e parte della prima riga è andata perduta”
(Adrienne Rich)

La ricerca di questa prima riga, la ricerca di una risonanza della propria vicenda in quella delle proprie antenate guida Josefa in questo percorso di rinnovata consapevolezza. Poco importa se ognuna delle due protagoniste ha un vissuto profondamente diverso, i propri tempi, la propria personalità: lo sforzo di ricostruire tutto dopo un trauma, dopo che qualcosa si è spezzato in noi o nella nostra esistenza è sempre un percorso lento e doloroso. Non ci sono ricette preconfezionate, non ci sono facili suggerimenti: ognuna trova dentro sé, nella propria storia, la forza per affrontare il dolore, cercare di guarirlo e farne germogliare una nuova coscienza di sé.
Antigua rappresenta il luogo della rinascita: Antigua permetterà loro di ripartire da zero. “Sono arrivata ad Antigua con i pori della pelle sigillati. Solo ad Antigua sono riusciti ad aprirsi. Questa città sì che ha nella pelle la pelle dell’America”.

E’ un libro appassionante e appassionato, molto intimista; la Serrano sa indagare con delicatezza e maestria la complessa psicologia femminile ,soffermandosi sulle debolezze ma anche sulla immensa forza interiore delle donne, forza che, paradossalmente, risiede in buona parte nella loro sensibilità.

“Una donna è la storia delle sue azioni e dei suoi pensieri, di cellule e neuroni, di ferite e di entusiasmi, di amori e disamori. Una donna è inevitabilmente la storia del suo ventre, dei semi che vi si fecondarono , o che non furono fecondati, o che smisero di esserlo, e dal momento , irripetibile, in cui si trasforma in una dea. Una donna è la storia di piccolezze e banalità, incombenze quotidiane, è la somma del non detto. Una donna è sempre la storia di molti uomini. Una donna è la storia del suo Paese, della sua gente”


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petra Opinione inserita da petra    13 Agosto, 2012
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sogni, incubi e ossessioni

La particolarità più accattivante de “La casa del sonno” sta in due elementi: nel gioco di rimandi temporali e nella tematica delle problematiche del sonno, affascinanti e ancora poco conosciute.
Il testo presenta una struttura narrativa un po’ complessa, con i capitoli dispari riferiti al passato, e quelli pari al presente. Questo “sfasamento” temporale, ammetto, disorienta, specialmente all’inizio; tale tecnica riesce, però, a dare un assaggio del clima di smarrimento che pervade il romanzo. L’autore ordisce un continuo intreccio passato-presente in cui il sonno, o la sua mancanza, hanno un ruolo decisivo; a seconda dei personaggi esso viene visto come un’alternativa alla realtà, un’ ossessionante perdita di tempo, o, ancora, come un mondo non ben distinto dalla veglia, e sconfinante con essa. Il tutto crea un’atmosfera stralunata, con figure che si ritrovano o si rincorrono negli anni, modificando le proprie esistenze in funzione di equivoci, sogni, tormenti ricorrenti.

Due sono le fasi temporali della narrazione : il 1984 prima e il 1996 poi. Al centro della vicenda vi sono un gruppo di studenti universitari , diventati ormai professionisti dodici anni dopo. Il tempo porterà a un’evoluzione nelle loro vite, ma alcuni nodi non risolti della loro personalità, presenti in nuce già nel loro periodo universitario, riaffioreranno prepotentemente nel periodo successivo. E il sonno, in tutto questo, gioca un ruolo quasi da protagonista: rimescola le carte, confonde realtà e sogno, crea disguidi e comici equivoci.
Coe è davvero bravo nel tenere le fila di quest’ordito , in cui tutto ha un suo riscontro temporale preciso, dando al lettore l’idea di un mosaico narrativo che, via via, si fa più nitido e chiaro.
Ci sono passaggi molto spassosi, con alcune figure delineate al limite del caricaturale, che riescono davvero a strappare una risata amara; tuttavia altre, a mio parere, risultano meno approfondite, sono più funzionali alla storia che dotate di vita propria. Per i miei personalissimi gusti tali figure sono un po’ troppo carenti di intensità emotiva e di configurazione psicologica; le ho avvertite troppo fredde e distanti.. E’ molto interessante, tuttavia, la visione del sonno e dei suoi meccanismi; esso ,nel romanzo è quasi come un rituale che scandisce le esistenze e le modifica. Attuali e metaforiche, le varie problematiche dei personaggi riescono a creare un’atmosfera onirica e surreale, dove nulla è scontato, fino alla fine.

Sicuramente una trama originale, a tratti esilarante, ordita con ironia e ingegno; nutro un po’ di perplessità solo sul lato più “umano” della vicenda .
Nel complesso, l'ho trovato un libro gradevole, con qualche riserva sulla descrizione dei personaggi.

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petra Opinione inserita da petra    08 Agosto, 2012
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chiedo scusa

Uno dei più bei libri da me letti in questi anni: una storia intensa ,toccante, commovente, ma anche ironica e leggera. Francesco Abate ci regala un piccolo gioiello. Nonostante nel libro usi un alter ego, la narrazione dell’autore è assolutamente autobiografica.
“Questo romanzo è ispirato a una storia vera. La finzione è presente per rendere il racconto un po’ più accettabile, dato che la realtà aveva superato i limiti della credibilità”.
Valter, protagonista del libro , è un cronista di nera in un quotidiano locale che, d’improvviso, si trova a dover fare i conti con una malattia subdola, covata da anni , ma sempre dissimulata, anche con sé stesso. La rabbia per la sua condizione fisica non l’ha mai portato a curarsi per tempo, ma lo ha indotto, fatalisticamente, ad annullare la realtà ,autocompiacendosi nel suo ruolo di vittima.
“Cure o non cure .Analisi e controanalisi. Tutto sarebbe stato inutile.”
Improvvisamente però, l’aggravarsi delle condizioni non permetterà a Valter di negare ulteriormente la sofferenza del suo fisico. Dopo un estremo tentativo di minimizzare le sue condizioni, comincia la narrazione del lungo e difficile cammino che dovrà affrontare per poter guarire.
Dolore, ricordi, speranza, rabbia, panico: nelle pagine si alternano e si mescolano sentimenti contrastanti. La vicenda di Valter-Francesco è un viaggio ,toccante e mai patetico, nella malattia e nel passato: è una rivisitazione di luoghi e personaggi , di vicende familiari e personali che hanno condizionato il protagonista nelle sue scelte di vita.. Scelte difficili, fatte per sopperire a una mancanza, a un’ingiustizia che ritiene di aver subìto dalla vita, fatte per non provocare altro dolore.
“Ho visto i bambini e la mia rinuncia. Forzata(…)Ho visto le mie solitudine, le assenze, i vuoti”.
“Non ho mai spiegato a nessuno (…) che la malattia non ti corrode solo i tessuti ma anche la mente. Il fegato si decompone e rilascia un veleno che intossica il cervello”.
L’autore descrive il suo doloroso percorso con uno stile asciutto, non privo di ironia e di leggerezza; non c’è spazio per l’autocommiserazione, neanche nei momenti di più alta tensione emotiva.
Il suo percorso nella malattia lo porta a una rinnovata consapevolezza. Egli, vissuto sempre con la convinzione di essere in credito con la vita, si addolcisce, prende atto di non essere il solo a soffrire; capisce come la speranza , corroborata dall’azione di persone sensibili , siano esse medici ,amici, parenti o sconosciuti, possa rendere realizzabile un sogno, possasanare una vita.
Non mancano i momenti ironici, teneri, addirittura tragicomici; Abate è bravissimo nel ritrarre con humor e disincanto il variegato mondo delle corsie di ospedale, non sempre all’altezza delle serie di E.R., come spesso vorremmo… Terribile nella sua veridicità la descrizione della poca sensibilità e della superficialità di tanti medici, così come commovente e drammaticamente realistica è la descrizione di personaggi immersi nella solitudine di una stanza d’ospedale, con la sola compagnia di piccioni cui dar da mangiare. Un’umanità variegata per età, estrazione sociale, cultura, ma accomunata dalla sofferenza, dalla sopportazione, dalla speranza. Proprio a Valter, cronista di nera, abituato a trattare delle tragedie altrui con freddezza, d’improvviso il dolore e la morte non paiono più temi da analizzare asetticamente, a tavolino, cercando di renderli più accattivanti per far vendere un giornale o far decollare un programma TV.
. “Chiedo scusa” è anche questo: un bisogno di guardare con occhi nuovi alla sofferenza, e con rinnovata gratitudine alla vita. A chi, in modi diversi, ce l’ha donata, e a chi, ogni giorno, continua a permetterci di sopravvivere: con un sorriso, un lavoro, un dono di generosità estrema.

“Alla fine l’unica cosa che conta è l’amore che hai dato e quello che hai ricevuto”.

Un libro che sa emozionare, fa commuovere e sa far ridere con la stessa magistrale scrittura.

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petra Opinione inserita da petra    02 Agosto, 2012
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DELICATO ED EMOZIONANTE

L’arte di ascoltare i battiti del cuore è un romanzo d’amore, ma non solo questo. E’ un inno alla speranza, una metafora sull’importanza di “ vedere con il cuore”; un invito a non lasciarsi sopraffare dall’ira, dall’avidità e dalla paura perché “esiste solo una cosa più grande della paura, l’amore”; sentimenti e vicende umane sono narrati con una delicatezza e con un lirismo superbi.

La storia comincia quando Julia, giovane avvocato newyorkese, decide di intraprendere un viaggio alla volta della Birmania, Paese d’origine del padre,Tin Win, scomparso misteriosamente.
Nella testa della giovane donna rimbombano tante domande, tanta rabbia, tanto dolore per una perdita così dolorosa e insensata. Il suo viaggio, mosso proprio dalla volontà di tornare sulle tracce del padre, le farà scoprire un’altra realtà, lontanissima dalla sua. E, con essa ,scoprirà la meravigliosa storia di Tin Win e del suo amore.

Una sentimento capace di cancellare ogni dolore, ogni tragedia.
Un’ affinità che permette di superare ostacoli fisici ed emotivi, fin quasi ad annullarli.
Una “corrispondenza di amorosi sensi” che non solo non svanisce, ma , anzi, sembra rafforzarsi con la lontananza e il tempo.
Un amore che è “una forza contro cui né il tempo né la distanza possono nulla" perchè "è un potere che unisce gli uomini ,più forte della paura e della sfiducia. Una forza che dà la vista ai ciechi e che non obbedisce alle leggi del degrado e della rovina”.

Tutto è trattato con toni lievi, ritmi pacati, e la civiltà birmana, con la sua cultura e la sua filosofia così affascinanti, rivive in ogni pagina del racconto .Essa non è solo uno sfondo, ma la chiave per comprendere scelte di vita apparentemente inspiegabili e sicuramente lontane dal nostro modo di pensare. Il racconto è scorrevole, la descrizione dei luoghi approfondita e piacevole; ci si sente trasportati in un altro mondo, in terre lontane traboccanti di profumi e di suoni.
Il romanzo induce poi, secondo me, a una riflessione sulla mentalità e sullo stile di vita occidentali .Stile di vita che, alle volte, rende più ciechi di chi non può vedere davvero, perché rende “cieco il cuore”.
Un libro delicato, che sa parlare di sentimenti senza inutili sdolcinatezze.

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petra Opinione inserita da petra    26 Luglio, 2012
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L’AMORE E LA SPERANZA

“Lui è un viaggio nella vita. Ci ha iscritto alle olimpiadi di salto in lungo dal problema alla soluzione. Non abbiamo vinto molte medaglie, ma perlomeno non ci siamo fatti corrodere dalla tristezza, dalla rassegnazione, schiacciare dal peso delle difficoltà”.

E’ una storia intensa, quella di Andrea e di suo padre, e delle loro "olimpiadi"nei problemi della vita: un viaggio nell’animo e fra le genti, ma, soprattutto, la ricerca interiore di una nuova comunicazione, profonda, autentica, fra un padre e suo figlio. Un figlio di diciotto anni, autistico sin da piccolissimo. Sono ancora un po’ commossa da questo romanzo, finito da poche ore, che ha saputo trattare con delicatezza, senza retorica o pietismo, un tema controverso come quello di questa malattia.
Andrea si è ammalato intorno ai tre anni e da allora, dopo lo shock iniziale, i genitori non hanno lasciato intentati nessuna terapia, nessuno specialista, nessuna cura, medica o spirituale che fosse, ma tutto senza risultati. Tuttavia loro non mollano: “…Non avrei vissuto con un continuo pianto senza lacrime, con una smorfia o con un ghigno. Davanti a questa prova avrei imparato a sorridere: l’avrei affrontata con fatica, ma anche con responsabilità, con intenzione. Con positività”.Questo è lo spirito , questa è la forza con cui Franco, il papà di Andrea, decide di affrontare questa battaglia.
Giunta l’estate del diciottesimo compleanno del figlio, Franco matura dentro di sé l’idea di una nuova “terapia”… un viaggio. Posti nuovi, emozioni diverse possono, se non guarire suo figlio,almeno farlo stare bene. “Siamo sempre in viaggio, anche quando aspettiamo che Andrea torni da scuola…. E’ arrivato il momento di prendere il largo. Adesso dobbiamo perderci”. Così, contro il parere di tutti, medici in primis,organizza alla bell’e meglio un viaggio nelle Americhe, guidato dai mille consigli di amici e conoscenti, ma soprattutto dal suo istinto e dal desiderio, fortissimo, di vedere felice suo figlio. Non sa ancora che quest’avventura darà molto ad Andrea, ma forse arricchirà ancora di più lui come uomo e come padre.
Inizia così un percorso che porta i due protagonisti lontano, in America, dapprima coast to coast negli Stati Uniti, poi in America centrale, e da ultimo, in Brasile. E’ un viaggio lungo e meraviglioso, fatto in moto, in auto e in aereo; una strada che brulica di vita, piena di paesaggi pittoreschi, di scoperte e di colori, quei colori così importanti per Andrea. “I colori sono i miei umori e le parole che non riesco a dire”. Lui non comunica tanto a parole, quanto con lo sguardo e con la sua affettività, prorompente e viva: gli piace abbracciare le persone che incontra, è con tutti mite e benevolo, ed esercita , come un incantatore, un forte istinto di simpatia e di tenerezza. Sarà perché, con la sua innata sensibilità, riesce forse a percepire sensazioni e sentimenti che i cosiddetti “normali” non sanno vedere?

“Sento la pancia di persone per conoscere chi mi sta vicino. Mi presento alle persone toccandole e sto tranquillo”. Andrea ha necessità di sentire “visceralmente” chi ha accanto. Se ne accorgono tutti quelli che lo incontrano e ne rimangono conquistati.
E nel lungo viaggio s’incontrano personaggi di tutti i tipi: una coppia di anziani gestori di Bed&Breakfast con la passione per i fuochi pirotecnici; due rider del deserto, imponenti e apparentemente scontrosi; un anziano signore che percorre il deserto in bicicletta; Yorge, un ragazzo con lo stesso problema di Andrea, che vive in condizioni miserrime…un’umanità variegata con cui i due entrano in contatto, scoprendo un affiatamento sempre maggiore.Franco si stupisce nel constatare come nulla sembri turbare la pace del figlio, che affronta gli imprevisti con un'inaspettata serenità.

Il romanzo è intenso, in tanti passaggi si sorride, ma ci si commuove tremendamente in altri. Si percepisce il profondo dolore di Franco, la sua fatica, la sua impotenza di fronte alla malattia,e ci si rende conto dell’intima sofferenza di Andrea, amplificata dalla sua difficoltà a comunicare. "Non è facile sentirsi pecora nera”.
In una delle ultime tappe Andrea e Franco conoscono Joana, una donna che sa guarire l’anima, sa “sgonfiare” la mente dalle preoccupazioni e dal dolore. Joana intuisce l’estrema sensibilità del ragazzo, e a lui affida un incarico delicatissimo, di vitale importanza,per lei. Questo incontro sarà decisivo per le sorti del viaggio, che si concluderà in Brasile; sarà determinante anche per Andrea, per la sua crescita come uomo, e per Franco, che sentirà rinascere una nuova forza per andare avanti.

“ Eppure io la sento una speranza, sento che il futuro è ancora nelle nostre mani. Siamo ancora capaci di agire e non subire”.

Consiglio vivamente questo romanzo, forte,pieno di vita e intenso come possono esserlo solo la speranza e l'amore di un padre.

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petra Opinione inserita da petra    19 Luglio, 2012
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Questo bacio vada al mondo intero

E’ l’agosto del 1974, a New York. La vita in città scorre tranquilla, finché, d’un tratto, un episodio cambia e colora la giornata: un funambolo sta attraversando lo spazio fra le Torri Gemelle su di un di un cavo, a 400 metri d’altezza.
Comincia così un affascinante romanzo che è insieme affresco della città, fatto di varie voci narranti, che, a poco a poco, si dipanano e s’intersecano fra loro, sullo sfondo di questo episodio realmente accaduto. Ogni personaggio appartiene a un microcosmo notevolmente diverso da quello degli altri, ma tutte le voci narranti, con il loro retroterra, la loro cultura, i loro vissuti così diversi gli uni dagli altri, devono affrontare una perdita del proprio baricentro emotivo, per poi recuperarlo…esattamente come il funambolo sul filo. C’è la prostituta Tilly, che vive nel Bronx, la pittrice che cerca da anni una sua stabilità sentimentale e di vita, la dolce Claire che, nella sua casa dell’Upper Side, elabora, come riesce, un dolore importante. Su tutti l’autore ha un occhio tenero e, direi, quasi paterno; ogni figura ha in sé un’umanità forte, a volte “mascherata” dal ruolo sociale o dai pregiudizi della società, ma la penna di Mc Cann riesce a dare profondità psicologica e spirituale ad ognuna.
La lettura è molto scorrevole ,anche se all’inizio ho avuto qualche difficoltà nell’inquadrare la trama, frammentata in modo un po’ insolito. Tutte le situazioni sono descritte con garbo e delicatezza, anche nelle vicende più toccanti; ne risulta un intreccio appassionante e gradevole. Ci si ritrova a immedesimarsi nelle situazioni più disparate eppure facenti parte della stessa realtà urbana: questo credo sia un punto di forza del romanzo, che ci invita ad “allargare la visuale” sul mondo, un esercizio mai superfluo.
Personalmente ho apprezzato molto la coralità del romanzo e il sapiente fondersi dei vari punti di vista, oltre alla ricerca umana e spirituale di ogni singolo personaggio; pian piano mi sono affezionata ad ognuno di loro e alle loro vite.Ho gradito molto prospettiva diversificata della città e dei suoi abitanti che questo libro dipinge,con un apprezzabile sforzo di ricerca introspettiva che non è mai retorica o forzata.
Una lettura piacevole e densa di significati, sicuramente da consigliare.

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petra Opinione inserita da petra    14 Luglio, 2012
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LA POTENZA DELLA VITA E DELLA GUERRA

Ho amato molto questo libro, immenso, della Mazzantini. L’ho riletto da poco, come richiamata, stregata, dalla potenza del racconto. Si tratta di un romanzo complesso, di vita e di morte insieme. Leggerlo ti apre uno squarcio nel profondo, fa rivivere sulla tua pelle le sensazioni, la fragilità, la forza dei protagonisti: le pagine, spesso struggenti, ti lasciano un sentimento a volte di tenerezza, misto a impotenza, alternato a dolore sordo e speranza. E’ un romanzo che ti prende, ti trascina con la forza dirompente della vita; vita che ogni giorno nasce e finisce. La scrittura della Mazzantini è sublime; con realismo e attenzione ai dettagli l’autrice scava dentro i suoi personaggi, senza timore di fotografarne le contraddizioni, le vigliaccherie, le paure. Ci si commuove, si sorride, si piange; trasuda da ogni pagina l’umanità di questa storia che pare vera più del vero, resta incisa nella memoria e ti chiede di non dimenticarla.
Da principio l’incontro fra Gemma e Diego: una passione imprevista, incauta, fortissima. “E’ la vita che mischia le carte, che d’improvviso canta e anticipa il giorno”. I due si conoscono a Sarajevo, durante le Olimpiadi invernali dell’’84. Lei è lì per una tesi post laurea su Andric, lui è un giovane fotografo. Sarajevo, non ancora dilaniata dalla guerra, con i suoi giochi olimpici e la sua gioia precaria, sarà più di uno sfondo, sarà quasi un interlocutore per i vari personaggi. Per qualche tempo Gemma tenta di sottrarsi alla forza di questo sentimento fortissimo per quel ragazzo, magro e tenero, conosciuto in Jugoslavia. Scivola così, inerte, nella normalità fredda, calcolata, di un matrimonio organizzato da tanto ma non realmente voluto. A poco a poco, però, si sentirà soffocare. “Non sono contenta di me stessa” dirà dopo qualche mese dalle nozze.
Di nuovo sarà Sarajevo a riavvicinarla a Diego, che non l’ha mai dimenticata, che l’ha sempre aspettata con lo stesso identico ardore. I due vivono insieme per un periodo, a Roma, ubriachi di sentimento, felicità ed entusiasmo. Ecco però che un’altra prova tremenda, fisica e spirituale segna Gemma: la ricerca, via via più affannosa e disperata di un figlio che non arriva. Ogni tentativo, ogni speranza, poi ogni minaccia d’aborto rimangono impressI in lei come cicatrici dello spirito.
Proprio questa lotta contro il tempo e contro il corpo riavvicina la coppia a Sarajevo. Sono passati anni, la guerra in Jugoslavia è vicina. Il martirio di Gemma la trasfigura, la scava, stravolge sempre più il suo amore per Diego, verso cui forse si sente inconsciamente in colpa; questi, invece prova un sentimento integro, fortissimo, quasi viscerale per lei. “Era come stare dietro a una moglie malata di un’ossessione solitaria”.
La guerra poi esplode; la guerra temuta, inconsciamente rimossa, che di colpo fa precipitare in un baratro, rende lontane le piccole sicurezze della vita normale, sbatte in faccia le immagini di corpi lacerati, di bambini strappati alle madri, di granate che sfigurano i palazzi e segnano l’anima. Diego, con le sue foto rende testimonianza di questa follia disumana. Egli decide, dopo una pausa in Italia, di ritornare in Jugoslavia, per non abbandonare chi è solo, per aiutare, per testimoniare quell’orrore di cui poco e male si parla. Gemma lo segue, lo rintraccia a fatica; ne scopre, inevitabilmente, lo sguardo diverso, fisso nel vuoto, trasfigurato dall’orrore. E' chiaro come la guerra gli sia entrata nella pelle, nell'animo.
“Eppure questa città dove si continua a morire sprigiona una forza nascosta, linfa che si leva dal folto di una foresta”.
“ll viaggio della speranza.… La speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso”.
E’ proprio la speranza la cifra ultima che, dopo tanto orrore, consente alla protagonista di venire a patti con il passato, di capire non solo con la testa, ma visceralmente, che il filo con Diego non si è mai spezzato. Diego ha assistito alla guerra negli aspetti più crudi, ha cercato di colmare in qualche modo l’orrore che l’ha circondato e forse ne è stato travolto, ma non ha mai cessato di amare Gemma. Attraverso una lunga chiacchierata con Aska, altra figura centrale del romanzo, riemerge una verità celata per tanto tempo, sepolta sotto montagne di orrore. Pietro, quel figlio tanto desiderato, tanto cercato è “venuto al mondo” in una guerra, fra l’orrore e le macerie, ma è segno di una nuova luce, di una rivincita, di una fiducia fortissima nel futuro.
“Vorrei ringraziare qualcuno, qualcosa….l’infinito percorso di tutte le vite”

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petra Opinione inserita da petra    10 Luglio, 2012
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una passione ...stereotipata

Ammetto di essere un po’ prevenuta, perché ho amato molto “Le luci nelle case degli altri” della Gamberale e, per questa ragione, da questo libro mi aspettavo un po’ di più. L’idea di base è simpatica, la passione fra due persone d’ideologie e stili di vita contrapposti, avvicinata alla storia d’Italia degli ultimi venti anni; ma, nonostante la piacevolezza della scrittura, la trama è un po’ troppo scontata, i personaggi sono molto stereotipati e la loro “passione sinistra” un po’ troppo prevedibile. A differenza di altri testi della Gamberale, dove ci si emoziona, ci si commuove o si sorride, sempre con ironia e con leggerezza, qui la trama e i dialoghi sono un po’ costruiti e aridi, da spot pubblicitario. Forse sono io un po’ “pesante” nei gusti, ma preferisco se un testo, anche divertente, mi lascia dentro una sensazione, un sorriso, un’emozione; di "Una passione sinistra", invece, non mi è rimasto molto...

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petra Opinione inserita da petra    07 Luglio, 2012
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non tutto si può comprare


Sicuramente “ L’Agenzia dei desideri” è un libro che non lascia indifferenti, destinato a far discutere
Delphine, la protagonista, pare avere messo un muro fra sé e gli altri, un muro di freddezza e insensibilità mascherato da professionalità. La sua agenzia, “Per Voi” offre servizi che sono messinscene, pericolose recite dove la finzione e la realtà si fondono inesorabilmente , al servizio di chi , fragile, vuole un sollievo fatto di illusioni. Delphine ha “trasformato in lavoro la capacità di manipolare il cuore e il corpo degli altri”. Ma a poco a poco la vita le presenta il conto e le emozioni , tanto represse e cacciate nel profondo del proprio io, torneranno a galla prepotentemente, a farle scoprire il valore autentico della vita , delle persone, dei legami.
In un periodo dove tutto sembra essere mercificato e vendibile, l’ho trovato un libro intelligente, piacevole anche se a tratti duro;mi ha molto appassionata.

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