Opinione scritta da drysdale

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Gialli, Thriller, Horror
 
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drysdale Opinione inserita da drysdale    06 Marzo, 2014
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Quando l’omicidio seriale è il mezzo per un “busin

(contiene limitata percentuale di spoiler)

So di andare controcorrente, ma questo romanzo, che pure tanto successo ha avuto, mi ha convinto poco o niente.
Per carità, nella storia dei serial killer c’è di tutto e di più. Per trovare forme eccentriche o efferate di crimini che superino ciò che nella realtà è accaduto, bisogna veramente fare sforzi di fantasia. E qui veniamo al punto essenziale (scrivo essenziale, perché non unico).
Qui abbiamo – ma cerco di sintetizzare la narrazione, perché il rischio di farla, inutilmente, lunga, è concreto - una coppia che, contrariamente alla concorrenza, spinta per lo più da pulsioni sessuali, da vendetta, dal piacere del dolore altrui e via dicendo, vuole utilizzare la propria creatività criminale per metter su una sorta di business. S’inventa, così, il modo più semplice che esista per far soldi facili: sequestrare (ovviamente eliminando eventuali inutili comparse quali parenti, mariti, fidanzati, ecc.) donne in stato avanzatissimo di gravidanza, per seppellirle dentro una sorta di bara opportunamente interrata e nutrirle quanto basta per la loro sopravvivenza (l’autrice ci risparmia, per fortuna, ogni sgradevole descrizione circa le modalità più materiali di tale sopravvivenza, la cui durata può essere anche di settimane) fino al momento del parto. Dopodiché l’infausta viene eliminata e il neonato venduto, tramite “broker” all’uopo individuato, a coppia interessata all’adozione.
Un espediente, come d’ immediata comprensione, semplice, privo di rischi e di facile attuazione (tra parentesi, l’elemento femminile della coppia di s.k. a un certo punto finisce nelle patrie galere e a occuparsi del nascituro nelle successive fasi, con annessi e connessi, è quello maschile, notoriamente idoneo a tali incombenze).
Ma ho scritto che non è l’unico punto poco verosimile della storia. E in effetti, a parer mio, non lo è.
Questo racconto non è che una puntata di una serie di grande successo che ha come protagoniste Maura Isles, una patologa (epigono della più nota Kay Scarpetta) e l’ispettrice di polizia Jane Rizzoli.
Per rendere più appassionante questa puntata, si fanno risalire le origini natie della patologa giusto appunto alla decritta coppia di ingegnosi criminali (siamo alle soglie del fotoromanzo). Ma la cosa più originale è che il racconto inizia con il rinvenimento del cadavere di quella che – si scoprirà poi - è la sorella gemella della patologa, da cui deriverà tutto un susseguirsi d’indagini che porteranno alla scoperta dell’intero albero genealogico delle due nonché all’operatività della coppia di s.k. e dei loro brutali crimini, salvo venir fuori poi che l’originario omicida della gemella è quello che una volta nei gialli sarebbe figurato come il mitico “cameriere” (vale a dire, personaggio impensabile, fuori dai giochi).
Ribadisco il concetto che quest’autrice raccoglie grande successo, sicché quello sopra descritto è parere del tutto personale e relativo a questo unico titolo della serie da me letto. In simili circostanze direi che. pur con le riserve evidenziate, l’assegnazione delle “tre palle” sia atto dovuto.
Buona lettura.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    20 Febbraio, 2014
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L'amore nell'epoca di Internet

Arrivo buon ultimo (almeno per ora) a condividere il giudizio positivo che il libro ha ottenuto e ne ripercorro, quindi, solo brevemente la trama. Con qualche considerazione supplementare sul tema “L’amore nell’epoca di Internet” (tanto per non fraintendersi).
Il romanzo di Glattauer ha ad oggetto la conoscenza, del tutto casuale, tra un uomo e una donna, originata da un errore nell’indirizzo di posta elettronica utilizzato da quest’ultima per disdire un abbonamento editoriale. Da questo banale episodio trarrà origine un intenso scambio epistolare, rigorosamente via e –mail, che porterà i due a conoscersi, desiderarsi, amarsi.
E’ un racconto molto bello, ma anche particolare, proprio per la particolarità del fenomeno che ne è all’origine. Nella regola, le mail, in un rapporto nato in rete, sono un passo successivo e non sempre indispensabile.
Nella regola, su Internet, i rapporti nascono nei programmi di conversazione diretta dove, peraltro, le atmosfere, gli incipit, lo humor, le ripicche, le accuse, le scuse, i silenzi, sono esattamente quelli così ben descritti in questo romanzo, sia pure nella forma di mail.
Io credo che questo testo, in ogni caso estremamente gradevole, sia stato tanto più apprezzato da lettori che queste storie le hanno vissute - o le stanno vivendo - in prima persona e la lettura abbia strappato loro qualche sorriso e/o risvegliato qualche nostalgico ricordo (compreso il finale, perché no?). Lo penso perché per loro questa vicenda rappresenta di fatto una sorta di confronto attuale o di amarcord rispetto a situazioni delle quali sono o sono stati essi stessi partecipi. Situazioni che li hanno visti impegnati - a distanza dai loro interlocutori - in serate lunghe, fumose, musicali, nervose, spazientite, iperventilate, logoranti, ingiuriose, sdolcinate, erotiche, a volte.
E credo che la bravura di Glattauer sia consistita specialmente nella capacità di trasformare in sofisticato e delicato racconto il condensato di bilioni di conversazioni del genere che la rete, in quella sua sezione speciale costituita dai c.d. “social network”, ingurgita quotidianamente, fin dai tempi delle prime e storiche “chat” che chi le frequentava veniva inserito di diritto nella categoria dei “lebbrosi”, salvo poi scoprire che ogni sera si collegavano ad esse decine di migliaia di persone, sorprese, incuriosite, elettrizzate da questo nuovo sistema di comunicazione. Persone, animate spesso da una propria inquietudine, che, al riparo di un anonimo monitor, si raccontavano e si raccontano come non lo farebbero neanche con gli amici più intimi. Persone sole, coniugate, fidanzate, annoiate, irrequiete e quant’altro. Un mondo inizialmente sommerso e poi letteralmente esploso con i vari Messenger, Myspace, Facebook ed altri ancora.
Proprio come in questa storia, può scattare spesso il “dipiù”, legato a curiosità, coinvolgimento, fascino della parola. Da qui gli incontri. Divertenti, imbarazzanti, deprimenti, pazzeschi, anche indimenticabili. Raramente inutili.
Glattauer romanticizza questa storia grazie anche all’utilizzo univoco della posta elettronica (oltreché con l’uso ostinato del “lei” perfino in una fase avanzatissima di conoscenza e d’innamoramento, sia pure virtuale). Ciò gli consente la costruzione, anche, di lunghi e ponderosi scambi di pensieri che la chat, per sua stessa natura, avrebbe reso impossibile. Così, sono minuti, ore, giorni che trascorrono intensi tra una corrispondenza e l’altra a renderne più sospirato ed emozionante l’esito e, con esso, la trama del romanzo.
Una lettura decisamente piacevole.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    18 Febbraio, 2014
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Una storia dura.

Non farsi ingannare dal titolo: di romantico, in questo libro, c’è nulla. E’ un testo, anzi, decisamente crudo.
Las Vegas.
“Non esiste nulla che eguagli lo spettacolo di quasi sette chilometri e mezzo di strada chiamati Strip”. Le decine di casinò che si susseguono lungo questa strada sono costruzioni immense, “imperi autonomi”, con centri commerciali, ristoranti, parchi divertimenti, locali notturni di ogni genere. I loro profili, le loro luci, perfino i loro suoni, arrivano fino al deserto che lambisce la città.
Qui, specie durante il week end, la notte non è notte, ma “un baccanale senza fine”.
Non c’è neanche una riga per i meandri mentali compulsivi delle migliaia di persone che sui tavoli da gioco perdono i propri soldi, le proprie famiglie, la propria dignità. C’è uno stadio ancora inferiore cui far riferimento ed è in questo che l’autore spazia.
E’ il retrobottega della metropoli americana. Quello sporco e sordido che si vorrebbe non conoscere, fatto di violenza, droga, prostituzione, barboni.
Lorraine e Lincoln Ewing hanno perso il figlio, dodicenne. Un giorno è uscito di casa e non vi ha più fatto ritorno. La polizia, dopo lunghe indagini, ha praticamente chiuso il caso: è fuggito. La coppia, già con problemi di convivenza, implode, pur restando appesa ad una speranza.
Anche Daphney è fuggita di casa e adesso, seppure incinta e vicina alla gravidanza, continua a fare quel che ha fatto fin dal primo attimo di fuga: vive di elemosina, raccattando quello che può nei cassonetti delle immondizie e dormendo in qualsiasi anfratto trovi posto.
Daphney si è fatta un amico, Lestat, ma è un altro fuggitivo, un altro sopravvivente. Per lui c ‘è anche lo schifo del sesso a pagamento.
C’è Cheri, con un corpo da favola ma con l’unica ambizione di farne il massimo oggetto di desiderio nei “lap dance” del Nevada. E c’è il suo uomo, Ponyboy, il bastardo che la sfrutta.
Ci sono anche altri personaggi in questo racconto, tutti più o meno “border line”, le cui storie a un certo punto s’incrociano senza che ne esca alcunché di buono.
Da sottofondo al tutto, il dramma dei giovani che abbandonano la famiglia per vivere in strada: 1.300.000, circa, negli U.S.A., secondo una ricerca del National Runaway Switchboard (linea d’emergenza per i ragazzi che abbandonano la propria casa). Ragazzi ribelli, in fuga dai valori o dalle violenze dei propri genitori.
Una lettura per stomaci forti.
Ma la realtà è anche questa.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    06 Febbraio, 2014
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Un thriller/commedy per sorridere.

Avessi saputo che si trattava di un “sequel”, questo romanzo, probabilmente, non lo avrei proprio acquistato. Invece la scoperta è stata successiva ed è stato bene così.
Che sia chiaro: non è libro da storia della letteratura e, a dirla tutta, neanche da scaffale dei “the best” nella libreria di casa. Però è allegro, spiritoso, ironico e scritto bene. L’effetto è quello del ghiacciolo mangiato in spiaggia: non ti lascia nulla, però lì per lì è un piacere gustarlo (che ogni tanto non guasta).
Aggiungo che Chiara Moscardelli ha scelto di attribuire il proprio nome e cognome alla strampalata protagonista della sua storia; bene: se tale scelta dovesse sottintendere un che di autobiografico, credo che sarebbe piacevole conoscerla quest’autrice, perché, a mio avviso, una che scrive così e così si descrive non può che essere simpatica.
Brevi cenni sulla trama. C’è una quarantenne (graziosa, intelligente ma, per certi versi, anche un po’ imbranata), single non per scelta, con amiche fatte su misura, che si ritrova oggetto casuale di attenzione da parte di uno stalker, nella migliore delle ipotesi, o di un serial killer, nella peggiore.
Sulla scena compare anche un commissario di polizia “sciupafemmine” che, tra un letto e l’altro, un’inchiesta e l’altra, trova tempo e modo per collidere con la protagonista.
Un thriller/commedy piacevole, a tratti spassoso. Comunque originale. Niente d’impegnativo. Con sorriso…

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Politica e attualità
 
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drysdale Opinione inserita da drysdale    03 Febbraio, 2014
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Lo Stato e l'Antistato.



Sandra Bonsanti è una delle “firme” del giornalismo italiano. Della sua penna, ma specialmente della sua capacità di stare sulla notizia, andando a fondo sulle origini, i retroscena e le conseguenze di tutti i più importanti eventi di cronaca e politica che hanno caratterizzato la storia della Repubblica dalla fine degli anni ’60 in poi, si sono avvalse nel tempo alcune tra le più importanti testate nazionali: tra le altre, “Il Mondo”, “Epoca”, “Panorama”, “La Stampa”, “La Repubblica”.
In questo testo la Bonsanti, riesumando ricordi, taccuini e corrispondenza varia, fornisce la propria testimonianza su fatti e personaggi che nel tempo hanno dato vita a ciò che lei definisce lo Stato e l’Antistato. E c’è veramente di tutto in questo racconto: dalla mafia, alla P2; dalle organizzazioni terroristiche di estrema destra e sinistra, ai servizi deviati; da Gladio al “Noto servizio” (organizzazione di cui non avevo mai sentito parlare); dal Banco Ambrosiano allo IOR. E, poi, da Sindona a Gelli; da Andreotti a Moro; da Craxi a Berlusconi; da Pertini a Cossiga; da Lima a Falcone e Borsellino e tantissimi altri che, nel bene e nel male, hanno fatto la storia d’Italia negli ultimi 45 anni.
C’è tutto un condensato di intrighi, intrecci e scandali di cui si è avuta più o meno conoscenza, ma che a ritrovarseli così, messi in fila, tutti insieme, viene veramente da riflettere. Perché quelli qui raccontati sono il nostro paese e la nostra classe politica (o, quanto meno, una tutt’altro che esigua parte di essa).
Il libro dedica molte pagine alla costituzione ed alla operatività della loggia massonica P2, una storia sconcertante e di una gravità inaudita, perché – ciò che si legge ne “Il gioco grande del potere” – all’esistenza della loggia devono essere ricondotte molte delle principali azioni eversive avvenute nel Paese e perché ad essa risultarono iscritti ministri, parlamentari, esponenti di primo piano del mondo finanziario e militare, giornalisti; di tutto un po’. Perfino l’allora capo della CIA in Italia, nonché un paio di generali argentini che avrebbero poi, con un colpo di stato, rovesciato Isabelita Péron e dato vita alla strage di desaparecidos. E c’era anche – ma il fatto è noto e lo cito en passant - il Cavaliere: tessera n. 1816.
Una storia finita nel dimenticatoio grazie proprio – sostiene ancora l’’autrice – all’intervento dei poteri occulti che ne avevano favorito la nascita. Inutile dire che ancora oggi molti degli iscritti a quella loggia occupano posti di potere. Scrive la Bonsanti: “Nella storia italiana la P2 ha rappresentato una sorta di cabina di regia per tutta quella melma che lavorava dentro lo Stato, a fianco e sotto le strutture istituzionali, avvolgendole in un abbraccio malato”.
E’ una scrittura appassionata e interessante quella della giornalista, con un limite, a mio avviso: il libro appare destinato più ad una platea di “addetti ai lavori” (politici, giornalisti, storici) che al comun lettore, per quanto esso possa essersi tenuto informato.
Gli episodi e i personaggi richiamati nel testo sono centinaia. Di molti la notorietà è tale che se anche il loro ingresso nel racconto è del tipo “spot” o viene data per scontata la loro conoscenza, si riesce a seguire perfettamente il filo del discorso. In altre circostanze, per contro, si può fare una certa fatica a star dietro alle citazioni dell’autrice, qualora non si svolga una parallela attività di approfondimento.
D’altra parte non si può pretendere l’esaustività da uno scritto di 240 pagine che concentra al suo interno, come dettosi, i misteri politici e finanziari di 45 anni di storia della Repubblica. Il consiglio che (almeno sulla base della mia esperienza) posso dare, per poter apprezzare al meglio quest’opera, è di leggerla con un pc collegato a Internet a portata di mano e far ricorso ad esso per acquisire tutta una serie d’informazioni inevitabilmente assenti.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    27 Gennaio, 2014
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Non fu solo "Il giovane Holden"

A volte, c’è un libro, più raramente una canzone, che ti segna la vita. L’effetto può essere più o meno duraturo, ma anche quando la sua reale dirompenza cessa, qualcosa, dentro, ti rimane comunque.
Questo romanzo lo lessi tanti anni fa. Erano, per me, altri tempi e di quelli non è rimasto più nulla. Allora fu una tempesta mentale. Strano, a scriverlo oggi, a proposito di un semplice romanzo. Però fu così.
Quando l’ho ripreso in mano, nei giorni scorsi, la tensione è stata comprensibilmente diversa. C’è molta spiritualità in questo libro, molto misticismo, anche se trattato in modo assai diverso da quello dottrinale; alla Salinger, direi.
Oggi mi sentirei di discutere di religione in termini solo storici (non fideistici), ma la lettura di questo testo mi ha restituito, comunque, delle emozioni.
Una cosa m’insegnò, in ogni caso, “Franny e Zooey”: che si può scrivere poesia senza far ricorso alle rime.
Salinger è universalmente noto per una sua opera, “Il giovane Holden” (“The Catcher in the Rye”), un testo che figura, ragionevolmente direi, tra i più importanti della letteratura moderna e che conserva una sua incredibile attualità, a dispetto degli anni trascorsi dalla sua pubblicazione (1951).
Nonostante quello di cui sopra sia il più famoso dei suoi quattro romanzi (gli altri, oltre a “Franny e Zooey”, sono “I nove racconti” e “Alzate l’architrave carpentieri e Seymour. Introduzione”) quello che all’epoca mi colpì maggiormente – li lessi tutti in rapida successione, esperienza letteraria indimenticabile – fu questo in commento, pubblicato nel 1961.
Franny e Zooey sono i due figli più giovani (di sette) di Less e Bessie Glass, artisti internazionali sul palcoscenico musicale. E’ una famiglia particolare, questa: tutti i ragazzi, per venti anni, dal 1927 in poi, hanno partecipato al programma radiofonico “Ecco un bambino eccezionale”, dedicato a giovani dotati di una intelligenza superiore alla media. A sei anni Saymour - il maggiore, il più intelligente ed anche il più problematico dei fratelli - leggeva i grandi della letteratura; parlava correttamente varie lingue (moderne e antiche) e altre ne studiava; avviava, il suo percorso di approfondimento religioso rivolto, in particolare, alla mistica orientale.
Saymour, una sorta di guru, si sarebbe, poi, suicidato nel 1948, sparandosi alla testa in una stanza d’albergo nel corso di una vacanza. L’epilogo della sua esistenza è descritto nel fantastico “Un giorno ideale per i pesci banana”, uno dei “Nove racconti”.
Lo stesso Saymour - e appresso a lui Buddy, il secondo genito – aveva rappresentato la guida spirituale e culturale per i fratelli e la sua morte determinò in tutti i componenti della famiglia una ferita tremenda, mai suturata.
A vent’anni – questo è il succo del romanzo, superando la descrizione, superabile, del suo rapporto con il boyfriend Lane – Franny, vive la sua crisi mistica. Dalla lettura di taluni testi appartenuti al fratello maggiore, che parlano di un pellegrino russo che ricerca e ottiene da un saggio spiegazione su cosa la Bibbia intenda quando dice che bisogna pregare ininterrottamente, apprende che la preghiera a Gesù (“Gesù Cristo, mio signore, abbi pietà di me”), ripetuta senza soste, anche con il solo movimento delle labbra, diventa autoattiva, nel senso che le parole si sincronizzano col cuore e non cessano mai. Così si perviene alla perfetta unione con Dio.
Questa lettura coinvolge profondamente Franny che inizia a recitare la sua preghiera silenziosa.
La ragazza trascorre il week end di vacanza dal college rifugiandosi nella casa paterna, dove la presenza di Saymour aleggia costante favorendo la sua ansia mistica che la porta, tra l’altro, al rifiuto del cibo. Toccherà al fratello Zooey – con una serie di dissertazioni che rappresentano la parte più toccante del racconto – il compito di convincere la ragazza a desistere.
Nonostante la storia si svolga quasi interamente nello spazio temporale di un’unica giornata e alla stessa partecipino solo tre/quattro personaggi, l’autore riesce a far rivivere in poche pagine l’intera saga della famiglia Glass, con i suoi successi e, specialmente, con i suoi drammi. E lo fa con uno stile letterario semplicemente meraviglioso.
Ritengo doveroso nei confronti dei pazienti lettori di questa recensione far presente due circostanze:
- questo racconto è tutt’altro che un pedante testo religioso (Salinger non lo avrebbe mai scritto, né io lo avrei mai recensito);
- la “Preghiera a Gesù” ha dei precisi riferimenti storico/religiosi; la pratica dell’enunciazione, anche silenziosa, dei “mantra”, come approfondii un po’ in occasione dell’originaria lettura di questo romanzo, ha origini antichissime ed ha anche una sua attualità: anche oggi, per dire, girando per Lhasa (Tibet) v’imbattereste continuamente, sia pure in strada o al mercato, in gente che con moto perpetuo delle labbra, inudibile, recita il mantra della compassione "Om mani padme hum", con obiettivi assai simili a quelli illustrati in precedenza.

E’ un testo che mi sento decisamente di consigliare.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    22 Gennaio, 2014
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Un quadro e un romanzo.

La trama.
Chatham, Cape Cod, cento chilometri da Boston, Massachusset. E’ una domenica sera di settembre. La stagione turistica è trascorsa e il “Phillies” è deserto.
“Phillies” è un bar con vista sull’oceano, piuttosto decentrato rispetto ai luoghi più elitari della zona. Ha preso il suo nome da quello dell’ormai anziana proprietaria e lo gestisce, di fatto, Ben, il barman.
La domenica sera, il “Phillies” può contare, comunque, su un cliente fisso. Louise ha 35 anni, un passato fallimentare di attrice e un presente di successo come scrittrice di opere teatrali. Ben e Louise si conoscono da nove anni: lo stesso giorno in cui lui prese servizio nel locale, lei vi mise piede per la prima volta. Da allora, il barman è diventato riservato testimone degli amori della ragazza e appassionato fan delle sue opere teatrali.
Questa domenica sera, Louise ha indossato il vestito rosso che più ama e che, come Ben sa, sceglie solo per particolari circostanze. E la circostanza è davvero speciale: Louise ha appuntamento con Norman, il suo amante, che le comunicherà, finalmente, di aver lasciato moglie e figli per vivere con lei.
Norman è sempre molto impegnato ed è un ritardatario cronico; tarda anche a questo appuntamento ma è consuetudine e non desta allarmi. Mentre Ben serve a Louise il consueto Martini, però, ecco fare il suo ingresso nel bar un cliente tanto noto quanto inatteso. Stephen Townsend è stato fidanzato di Louise per cinque anni, prima di tradirla con la sua migliore amica. I due si sono, quindi, lasciati; Stephen si è sposato e ha avuto due figli; Louise e Stephen non si sono mai più incontrati; sono passati, da allora, quattro anni.
Lui non è capitato, quella sera e in quel bar, per caso. Il suo matrimonio è fallito e spera di far resuscitare il rapporto con la sua ex.
L’apparizione di Stephen crea in Louise imbarazzo e nervosismo. Troppe ferite non rimarginate, troppo dolore perché l’incontro non risulti traumatizzante. Poche frasi; tanti ricordi.
Squilla il telefono di Louise. Norman ha parlato con la moglie; ci sono state scenate; questa sera non potrà venire all’appuntamento. “E le altre sere verrai?”.
(Con la trama, per ovvi motivi, finisco qui).

Qualche osservazione.
Come evidenziato dalla casa editrice, e rappresentato nella copertina del libro, Philippe Besson ha tratto ispirazione per questo suo racconto da un noto quadro di Edward Hooper, “The nighthawks”.
Il quadro è molto bello. Poiché, però, qui in commento c’è il racconto di Besson e non il quadro, devo dire che dal racconto non sono rimasto affascinato.
La storia, che si svolge interamente tra le quattro mura del bar e nell’arco temporale di poche ore, sembrerebbe ideale per una sceneggiatura teatrale. In realtà non si adatterebbe minimamente ad essa per il semplice motivo che nelle 158 pagine di testo sono presenti si e no una trentina di frasi virgolettate, tutto il romanzo essendo impostato sui ricordi e sulle sensazioni (inespresse) dei suoi tre protagonisti, Louise, Stephen e Ben. E le poche frasi presenti nel testo, quand’anche assumano la forma della domanda e della risposta, sono inframezzate da tante pagine che bisogna tornare indietro per ricordarsi l’oggetto di esse.
L’atmosfera è certo calda e, diciamolo, sofisticata. I due, poi, sono entrambi giovani, belli e affermati. Ma le loro elucubrazioni, “che dovrebbero far pensare”, sono talvolta discutibili, talaltra contraddittorie. Louise, p. 62, “E’ in questo che, talora, gli uomini sono più forti delle donne. Quando decidono di giocare con il loro desiderio, quando vengono colti dall’idea di costringerle ad accettarlo, quel desiderio, non c’è nessuno che sia bravo quanto loro. E’ una forza ineguagliabile degli uomini in simili casi”. Bah! Vogliamo parlarne?
E il rapporto extraconiugale, rispetto al quale l’autore non ha certo ecceduto in originalità? Sono storie sulle quali ognuno è libero di pensarla come crede, cercando di conservare, però, un minimo di coerenza. Che ne è della coerenza di Louise che dopo aver condannato come del tutto imperdonabile il peccato di “menzogna” (da parte di Stephen), non si pone minimamente il problema con riferimento al proprio rapporto con Carter, e tanto meno alle sue conseguenze. P. 90: ”Louise non crede minimamente al bel quadro prospettato da Norman: sa che ci saranno urla, ribellioni, implorazioni, grida, silenzi di rimprovero, occhiate di volta in volta cupe o seducenti, preghiere, bestemmie…”.
Però lei è al bar ad attendere la lieta novella.
Ma senza ulteriori interventi sul merito della storia, vorrei esprimere una personalissima opinione sullo stile narrativo di Besson. Io l’ho trovato di una lentezza tremenda, in certi momenti insopportabile. Le continue digressioni mentali dei personaggi, che si sovrappongono pagina dopo pagina, tolgono continuità al racconto e danno la sensazione di ricercati obiettivi cerebrali che, sinceramente, non ho rinvenuto.
E’ uno stile che può piacere o non piacere e non sto certo scoprendo, con la lettura di questo romanzo, che in sede letteraria, come in qualsiasi altra, l’oggettivo non esiste.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    19 Gennaio, 2014
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Non è certo il meglio di questo autore

E’ il terzo romanzo di Francesco Carofiglio che leggo, dopo “Wok” e “Radio pirata”. “Wok” l’ho trovato bellissimo; “Radio pirata”, meno; questo, ho fatto un po’ fatica a finirlo. Probabilmente perché le aspettative erano elevate e il riscontro deludente.
Nelle prime pagine si legge che il protagonista ha vissuto un’estate che ha cambiato la sua vita e nella copertina del libro c’è l’immagine di un enorme cane nero che troneggia accanto al titolo.
Ci si aspetta (ma lo si fa anche perché, al di là delle positive recensioni, si conosce e si apprezza l’autore) che in quell’estate accada qualche cosa di veramente sconvolgente; che probabilmente impegnerà l’ attenzione del lettore per tutto il racconto; per non parlare dell’enorme cane nero che lascia immaginare chissà quali apparizioni, più o meno metaforiche.
Bene.
Nelle prime 80 pagine non succede assolutamente nulla, a parte la descrizione di certi ricordi di adolescenza letti, straletti e, anche, vissuti (magari con minori capacità descrittive)più o meno da tutti.
Quindi si sta lì ad aspettare che qualcosa d’importante, se non addirittura sconvolgente, come da premessa, avvenga veramente in quell’estate. E il cane nero?
Qualcosa, di particolare indubbiamente, succede. Ma si è già alla p. 141 (prossimi alla fine del romanzo) e prima s’è constatata solo un’esercitazione di bella scrittura che, detto per inciso, sicuramente all’autore non manca.
Perfino l’avvenimento particolare – che non descrivo per evitare spoiler – scorre via in assenza di autentici approfondimenti sulle cause (tra l’altro, preceduto, poche pagine prima, da fatto quasi analogo, che ne smorza ulteriormente l’impatto e priva un po’ di verosimiglianza il tutto).
Si arriva, così, stancamente alla fine chiedendosi veramente cos’abbia questo romanzo di tanto attraente, per non parlare dell’originalità.
E il grande cane nero? Data la sua presenza nella storia, direi che è servito giusto per dare un titolo al libro e introdurre un motivo di curiosità.
Non avessi letto “Wok”, il mio – personalissimo, è ovvio – giudizio sarebbe anche più negativo.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    13 Gennaio, 2014
Top 500 Opinionisti  -  

Come trovare "il lato positivo"...

Questo romanzo giaceva abbandonato nella libreria da mesi. Era un regalo, per cui sapevo che, presto o tardi, avrei dovuto affrontarlo, caso mai mi fosse stato chiesto un commento. Però, ogni volta che passavo in rassegna i libri non ancora letti, questo lo evitavo accuratamente. Non so se a rendermelo inviso fosse la copertina, con i due faccioni di Bradley Cooper e Jennifer Lawrence a ricordarmi che da questo racconto era stato tratto un film di successo, circostanza che, riprovevolmente lo ammetto, mi crea sempre qualche imbarazzo nell’approccio. Tra l’altro, Hollywood era intervenuta tempestivamente, con il risultato che in molti hanno visto il film; pochi letto il romanzo.
Alla fine, in ogni caso, rimasto improvvisamente a secco di letture, l’ho prelevato dallo scaffale.
Risultato: non è che mi sia semplicemente piaciuto; mi è piaciuto proprio. La storia è un po’ strampalata e per conoscerne i contorni esatti occorre arrivare alle ultime pagine (che, ovviamente, non descriverò).
Inizia - il racconto è in forma di diario - con un trentasettenne (Pat) che viene prelevato dalla madre presso un ospedale psichiatrico e riportato a casa. Non ricorda come e perché ci sia finito, né quanto ci sia rimasto; ha memoria solo del fatto che quell’ospedale era un “postaccio”. Ricorda inoltre, e perfettamente, di essere sposato con una donna meravigliosa (Nikki) dalla quale è stato allontanato, sicuramente per propria colpa, per volere dell’autorità giudiziaria. Lui l’ama ancora e vuole ricomporre il rapporto. Più che un desiderio è un’ossessione.
Tornando a casa trova una situazione abbastanza simile a quella lasciata. Una madre che l’adora; un padre che s’interessa solo della squadra locale di football (i mitici “Eagles”); un fratello al quale vuole un gran bene; amici vari. La novità è Tiffany, sorella di un’amica, che entra nella sua vita come il napalm.
Quella che segue è una storia di beghe familiari; di partite di football; di riscoperte di amicizie perdute e di nuove conoscenze, in particolare lo psichiatra cui è affidato in osservazione e una pittoresca e rumorosissima comitiva di fans degli Eagles.
Riguardo a questi ultimi, non ho mai capito come funzioni il football americano e le mie conoscenze non si sono certo ampliate in questa circostanza. Tuttavia, nonostante agli incontri della squadra di casa siano dedicate numerose pagine, il piacere della lettura non ne risente.
Il racconto è scritto bene, con ottima caratterizzazione dei personaggi (ciò che sicuramente ha favorito la realizzazione del film). Il diario di Pat, nella sua singolarità, è allo stesso tempo estroso, ironico e commovente. Una lettura piacevole, coinvolgente e che consiglio.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    09 Gennaio, 2014
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La foto di una generazione?

La foto di una generazione?

Per comprendere il senso del titolo del libro e farsi un’immediata idea del suo contenuto sarebbe sufficiente riportare questo suo passo (un padre sta raccontando il proprio figlio). “Eri sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole. […]. Sopra la pancia tenevi appoggiato il computer acceso. Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica, a evitare che sprofondasse per sempre nella tenebrosa intercapedine tra lo schienale e i cuscini, laddove una volta ritrovai anche un wurstel crudo, uno dei tuoi alimenti prediletti. […] Non essendo quadrumane , non eri in grado di utilizzare i piedi per altre connessioni; ma si capiva che le tue enormi estremità, abbandonate sul bracciolo, erano un evidente banco di prova per un tuo coetaneo californiano che troverà il modo di trasformare i tuoi alluci in antenne, diventando lui miliardario in poche settimane, e tu uno dei suoi milioni di cavie solventi”.
Il romanzo è una sorta di diario di un padre divorziato alle prese con il difficile compito di gestire il rapporto con il figlio diciassettenne. Con riferimento a quest’ultimo, vengono descritte, con analisi caratteriale e ironia tipiche di Serra, le problematiche proprie di una generazione sulla quale, peraltro, si possono formulare, a mio avviso, solo ipotesi circa l’origine, ma non la conclusione. Credo, al riguardo, che tra il diciassettenne attuale e quello di venti anni fa non siano rinvenibili esagerate differenze, se non quelle prodotte dall’esplosione tecnologica di questo ultimo periodo, con ciò che essa ha comportato negli usi e costumi di tutti, ma in particolare - per gli effetti più che altro voluttuari - dei giovani. Se il protagonista, come avviene nel racconto, avesse cercato di far partecipare venti anni fa il figlio diciassettenne alla nobile attività della vendemmia, con i suoi orari e i suoi ritmi, avrebbe riscontrato un analogo senso di (non)partecipazione. Forse il figlio non se ne sarebbe rimasto a letto fino all’ora del pranzo; sicuramente si sarebbe dovuto accontentare della musica prodotta da un modesto lettore di cassette e non avrebbe potuto smanettare uno smartphone; assai difficilmente, in ogni caso, avrebbe fatto molto più che sedersi all’ombra di un albero secolare, fumando una sigaretta e a discettando col cugino o l’amico di turno. Forse un’altra differenza potrebbe essere rappresentata dall’oggetto della conversazione: sarà un’idea mia, ma il diciassettenne di venti anni fa aveva un maggiore impegno culturale. Comunque sia, tanto allora quanto adesso nessuno di loro si sarebbe fatto irretire dal progetto campagnolo del genitore.
Il problema è che la generazione degli “sdraiati” – colpa anche delle problematiche occupazionali che stanno aggredendo specialmente i giovani – si sta allungando e, allo stato, non se ne vede la fine. Certe descrizioni che Serra dedica al modo d’essere e di atteggiarsi del figlio diciassettenne e degli atri membri della sua “tribù” ben potrebbero adattarsi a soggetti di età nettamente superiore.
Lo smanettamento, stravaccati su un letto o su un divano (ma anche a tavola), di smartphone e pc (o tablet), utilizzati più che altro per la comunicazione attraverso totem ormai universali quali Facebook e What’s up (per citarne un paio), magari con gli auricolari dell’Ipod a tutto volume, accomuna giovani di età ben diversa.
Anche la massificazione dei consumi nel settore dell’abbigliamento, con propria identificazione in pochi marchi, spesso di gusto e qualità piuttosto discutibili, è caratteristica che non trova pause temporali e che affratella soggetti anche con dieci e più anni di differenza.
In questo romanzo Serra dà prova, ancora una volta, del suo talento poliedrico. Chi lo segue da sempre conosce bene le sue capacità di destreggiarsi egregiamente in ogni campo. Potrebbe descrivere e commentare, con la giusta competenza e senso dell’ironia, avvenimenti di ogni genere.
Nel testo in commento, assolutamente esilaranti sono, tra le altre, le pagine nelle quali descrive le atmosfere ridicole e la tipologia di utenza del negozio trendy Polan & Doomphy. Un po’ stiracchiata, per contro, la parte dedicata dal protagonista ad un proprio romanzo in fieri, “La Grande Guerra Finale”, che egli ipotizza come inevitabile, in un giorno futuro, tra vecchi e giovani.
Lettura, nel complesso, ovviamente consigliata.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    04 Gennaio, 2014
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Una lettura inutile.

A p. 29 del libro, Francesco, personaggio di passaggio del racconto, chiede al protagonista dello stesso, l’insuperabile Giacomo, se ha mai letto un libro che abbia spostato anche di un decimillimetro il suo punto di vista sul mondo. Ottenuta risposta negativa, Francesco consegna a Giacomo un testo (che cito, ma avrebbe potuto essere qualunque altro, data l’ignoranza dell’interpellato, “Opinioni di un clown”, di Heinrich Boll). Tale consegna, considerata la naturale predisposizione di Giacomo a scalare ogni vetta dal nulla, ha originato la sua insaziabile sete di letture (addirittura una droga, la definisce, anche se a quell’epoca le sostanze che assumeva erano differenti), e che letture!
Ecco, mi chiedo: se Francesco gli avesse proposto questo “Non molto lontano da qui”, sarebbe insorta nel nostro la predetta sete e, specialmente, gli avrebbe cambiato di un decimillimetro il suo punto di vista del mondo? Ma non è da escludersi anche questa possibilità: il soggetto ha capacità mirabili.
Su di me, in ogni caso, questo romanzo non ha prodotto veramente alcun effetto. Ho, anzi, riflettuto un po’ su quale aggettivo usare per qualificarlo, propendendo alla fine per un più moderato “inutile” rispetto a quello inizialmente ipotizzato di “fastidioso”.
I personaggi che si muovono in questa storia sono pochi ma tutti speciali. Affascinante è Cristina, l’inseparabile amica di Giacomo con la quale quest’ultimo ha un rapporto poco credibile nella realtà. Affascinante e “tombeur de femmes” è il suo amico disk jockey, Francesco, che il nostro supera rapidamente in successo, sia nel lavoro che con le donne. Affascinante è Lorenza, la sorella di Giacomo, della quale però il marito, che è però anch’egli affascinante, a un certo punto si disfa. Affascinantissima è Alice, l’ultima fiamma, in ordine di tempo, del protagonista.
E che dire di quest’ultimo? Con qualche consiglio (al padre) ed un paio d’ore di disponibilità (sua) trasforma di fatto una bettola per ubriaconi in locale “cool”. Quando abbandona gli studi per frequentare il fighissimo Francesco, gli dà rapidamente la pista superandolo qualitativamente nel lavoro e portandosi a letto più donne (anche più di una a notte), attività svolta a livello praticamente sportivo, ma, si badi, senza alcun antagonismo (p. 44,.“Quante volte mi è successo di sc…con una convinta che fossi Francesco. Succedeva anche il contrario. La cosa ci divertiva da morire”). Era, quello, un periodo della vita in cui il nostro aveva le idee chiare sulle donne: (” Spesso tornavo in albergo con qualche fighetta tutta tatuaggi e piercing, la sc… e la rimandavo a casa in taxi. Avrei anche potuto ammazzarla se non si fosse tolta subito dai c…”.
Quando il padre muore, il grande Giacomo abbandona la sua redditizia (in tutti i sensi) attività di disk Jockey ridedicandosi agli studi. Inutile dire che anche lì eccelle e, recuperando tutto il tempo perso, si laurea brillantemente. E poiché gli astri sono dalla sua parte, trova subito un ottimo lavoro nel terziario dove, neanche a dirlo, le sue qualità intellettive emergono rapidamente. Un grande, davvero!
Che, poi, mentalmente sia un tipo eclettico, non c’è dubbio. Da importanti riflessioni esistenziali sulla ricerca dell’io, il nostro trasmigra rapidamente in riflessioni altrettanto intellettuali sulla valenza dell’amore (p. 122: “In fondo è questo l’amore: pensare al c… della propria donna e avere un’erezione”).
Che dire? Quando, a p. 189, Alice lo molla senza neanche un saluto mi è venuto spontaneo un: “E vai!”.
Non so a quale modello si sia ispirato l’autore nello scrivere questa roba. Se il modello era dignitoso, ha fallito l’obiettivo.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    01 Gennaio, 2014
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Tra "cianfrusaglie" e amore.

Leggo che questo romanzo, pubblicato nel 2000, è diventato un mito per i fanatici del collezionismo, anche se, come l’autore le ha sempre definite, quelle di cui egli tratta sono in realtà semplici “cianfrusaglie”.
Non sono uno “junker”, anzi, meglio, sono l’antitesi dello junker. Provo una sorta di ritrosia nei confronti di tutto ciò che è vecchio e di vera e propria repulsione nei riguardi di quella miriade di oggetti inutili e plurimanipolati che si vedono in giro nelle bancarelle o in qualche raro shop (quello che si legge nel romanzo mi pare fenomeno abbastanza americano, piuttosto raro in Europa, quasi inesistente in Italia dove, ormai, la categoria dei rigattieri si è praticamente estinta e i mercatini da garage o le svendite negli appartamenti non sono mai esistiti). Non parliamo, poi, dei capi di abbigliamento, che solo l’idea di indossarne uno mi fa venire i brividi.
Detto tutto ciò, mi sono innamorato di questo romanzo. Ogni tanto mi capita. E’ quel modo di scrivere che mi fa impazzire, che mi stupisce e che mi crea emozione e anche invidia (perché quella è un’arte e artisti non ci s’improvvisa). E’ un modo di scrivere che, nel mio ignorante modo di pensare (o, costretto sulla difensiva, direi nella mia “congrua sensibilità letteraria”), collega questo Zadoorian all’Hornby dei bei tempi, a Nichols, a Tropper e ad alcuni altri – perché mi viene in mente, seppure lo spessore e l’epoca di riferimento siano diversi, l’immenso Salinger? – che quando li leggo, mi sembra di averli accanto a mangiare bistecche ed ascoltare rock, raccontandoci le cavolate di una vita (in realtà non so se a loro, a parte Hornby, piaccia il rock; non gliel’ho mai chiesto; ma, secondo me, si). Perché li leggi e rivivi quello che, in qualche altro modo, hai vissuto solo qualche anno prima, o l’altro ieri. Solo che loro hanno questa capacità incredibile di descrivere situazioni e sentimenti che uno qualsiasi non ha.
Sono cronache di vita quotidiana quelle di cui narrano e, in particolare, le loro storie d’amore non è che siano diverse da quelle che hai vissuto tu. Ma loro sanno descriverle in un certo modo; magari esattamente quello col quale tu le hai percepite senza essere in grado di raccontarle neppure a te stesso.
Così mi sono ritrovato per 313 pagine nel furgone di Richard, a girovagare tra garage, mercatini e appartamenti disabitati, alla ricerca di oggetti assurdi, perfino immedesimandomi in questa sua passione, lontana da me come la luna.
Quanto a Theresa, chi non ne ha conosciuta una (magari priva di gatti) nella vita – deliziosa, cerebrale, umorale, ansiogena - senza essere in grado di gestire adeguatamente il rapporto, percepire esattamente cosa stesse accadendo, non parliamo poi di raccontarlo? E i momenti di esultanza e di disperazione propri di quel maledettissimo – perché effimero e comunque destinato a scomparire o a trasformarsi in qualcosa di diverso – sentimento che si chiama amore, chi non l’ha vissuti? Ma quanti sanno descriverli proprio così, come tu li hai provati?.
Un bel romanzo. Semplice, immediato. Che dà qualche ora di emozioni e bella lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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drysdale Opinione inserita da drysdale    30 Dicembre, 2013
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Un thriller svedese

“Un thriller spietato. Un libro che in Svezia ha fatto scalpore”. Così recita la seconda di copertina del libro, invogliando al suo acquisto.
In Svezia, a quanto pare, è in atto una proliferazione di autori del genere giallo/thriller. Petter Lidbeck, con il suo vero nome (questo) scriveva, fino a qualche anno fa, esclusivamente romanzi per bambini. Con un certo successo, a quanto pare. Poi la sua casa editrice – come si legge in una intervista rilasciata nel novembre 2012 – iniziò a pubblicare anche romanzi per adulti e lo invitò a misurarcisi. Così, tanto per non esser da meno al fenomeno pilota Stiegg Larsson, il nostro non solo si è riciclato come autore di thriller, ma, con lo pseudonimo di Hans Koppel, ha messo in cantiere addirittura una trilogia, della quale “Non tornerai mai più” ha costituito il primo passo seguito poco dopo dal secondo, “Ora sei mia”, pubblicato da Piemme lo scorso ottobre.
La storia non è molto complessa e neanche particolarmente originale. Un terzetto di bulli di scuola, con la complicità di un quarto componente di sesso femminile, Ylva, sottopone ad abusi sessuali una compagna, esperienza che condurrà quest’ultima al suicidio. I suoi genitori si vendicano, successivamente, nei confronti dei tre autori, per poi sequestrare Ylva, nel frattempo sposatasi e divenuta madre di una bambina. L’idea della coppia di sequestratori è quella di stravolgere la mente della donna, con la segregazione e la violenza, anche sessuale, fino a portare anch’essa al suicidio.
Il libro - che non capisco per quale motivo avrebbe fatto tanto scalpore in Svezia dato che la storia non è certo più truculenta di tante altre, letterarie e non, che l’hanno preceduta – non sarebbe neanche tanto male. Qualche personaggio, però, ha dovuto sacrificare la propria credibilità alle esigenze narrative dell’autore, assumendo comportamenti poco comprensibili (vedi quello dei due agenti investigatori, modelli stereotipi d’imbranataggine) se non addirittura irrazionali (la moglie del sequestratore sa perfettamente che tra marito e prigioniera la violenza è stata da un pezzo sostituita da erotismo hardcore ma, chissà perché, continua a sperare che quest’ultima si suicidi).
In definitiva, un romanzo senza troppe infamia e lode: lo leggi in un pomeriggio e più o meno nello stesso tempo lo rimuovi dalla mente. In giro, comunque, c’è sicuramente di molto peggio.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    27 Dicembre, 2013
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Non è il Tropper migliore

A volte ci si trova a dover criticare i propri idoli letterari (con Hornby, per me, sta diventando un’attività ripetitiva visto che sono anni, ormai, che scrive solo cose risibili). Che sia chiaro: il romanzo in commento non è un bidone. Solo che dopo aver tanto apprezzato le prime tre opere di Tropper pubblicate in Italia – “Tutto può cambiare”, “Dopo di lei” e “Portami a casa” – questa mi ha un po’ deluso. Il marchio di fabbrica c’è: il linguaggio diretto, l’ironia, il sentimento, la caratterizzazione dei personaggi. In questo caso, però, il dosaggio non è ben riuscito e la parte sentimentale, ma in questo caso meglio sarebbe dire sentimentalista, è strabordante. Tanto da dare l’idea che l’autore abbia forzato un po’ la mano puntando troppo, con qualche impaccio, alla commozione del lettore.
Riassumo la storia che, da quanto leggo, costituirà oggetto di un film della Paramount Picture.
Conseguenza di una vita sbandata da rock star, il protagonista principale del racconto, Silver, distrugge il proprio rapporto familiare divorziando dalla moglie e perdendo completamente di vista la figlia. Si lascia quindi vivacchiare, trascorrendo il tempo in compagnia di personaggi in analoghe situazioni (divorziati) e mantenendosi esclusivamente con i diritti di un vecchio successo musicale nonché fornendo il proprio contributo, retribuito, alla banca del seme.
A sette anni dalla separazione, la ex moglie si appresta a risposarsi mentre la figlia diciottenne rimane incinta. Silver entra in crisi; realizza di aver sbagliato tutto; cerca di riallacciare il rapporto con moglie e figlia, ma nel frattempo viene colpito da una sorta di ictus che richiederebbe un rapido intervento chirurgico, al quale però è restio a sottoporsi perché ritiene di non aver validi motivi per vivere ulteriormente. Ciò non gli impedisce di entrare come un bulldozer nel ménage della propria ex famiglia combinando disastri a non finire fino ad una ricomposizione felice del tutto.
Ho fatto cenno a certi eccessi dell’autore. Silver, che pure è un omaccione sotto i quarantacinque, piange (non in senso metaforico) e si autoflagella (in senso metaforico) una pagina si e l’altra pure, sulla base di recriminazioni descritte un numero indefinito di volte. Gli accade poi, in qualche caso, di esternare i propri pensieri senza accorgersene (non mi pare possa ritenersi una conseguenza della malattia) e nei momenti più sbagliati, provocando reazioni isteriche e pianti (ci risiamo!) negli astanti.
L’ex moglie e la figlia sono un po’ più contenute nei loro stati emotivi: in qualche caso (ma solo in qualche caso) riescono a partecipare alla vicenda senza cader preda di lacrime e/o stati ansiosi.
Insomma, nel corso della lettura si ha la frequente sensazione di muoversi nella melassa.
Il romanzo, come sempre, è scritto bene, sicché la sufficienza se la merita comunque. Da questo autore, però, c’è da attendersi di più.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    25 Dicembre, 2013
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"...e morirono felici e contenti".


Su questo romanzo sono state scritte tante di quelle recensioni che inizialmente ho pensato fosse abbastanza superfluo aggiungerne un’altra. Se poi ci ho ripensato è perché la loro stragrande maggioranza era perfettamente in linea (poetico, stupendo, emozionante, commovente, imperdibile, uno stile di scrittura fluido e affascinante, ecc.), mentre a me, lo dico subito, non è piaciuto. E credo che in questi casi anche una voce dissonante possa rendersi utile.
Ho letto questo testo in poche ore, ma non perché particolarmente coinvolto dalla storia: a metà lettura, la parte rimanente mi appariva già piuttosto scontata, con gravi timori di successive lungaggini e stucchevolezze, poi riscontrate, che mi avrebbero accompagnato stancamente alla parola fine di tanto strazio (d’amore). Tanto valeva, dunque, liberarmene quanto prima.
Se questo racconto, anziché in località sperduta della già poco nota Birmania, fosse stato ambientato che so, 50 km a sud di Copenaghen, probabilmente – questo è il mio opinabile pensiero - non staremmo neanche qui a parlarne. Poiché, però, da recensioni lette, il maggiore impatto ottenuto da questo testo sarebbe la straordinaria prova d’amore (a prescindere da razza e confini) dei due protagonisti, potrei anche non tener conto della localizzazione della storia. Che in realtà è, sempre a mio modesto avviso, l’unico aspetto interessante di essa.
L’autore voleva descrivere “un amore per la vita”; un amore che non trova fine o pause neppure a distanze temporali e spaziali apparentemente (ma solo apparentemente, a quanto pare) incolmabili. L’obiettivo non era certamente dei più scontati. Perché se tanti hanno vissuto “il grande amore”, poi la vita scorre e di quello rimane solo un caro ricordo, amorevolmente conservato, di sicuro, ma un ricordo. In realtà, di quel grande amore, a distanza di tanto tempo, non si saprebbe neppure più misurare l’effettiva entità.
La circostanza che tale rapporto venga ricondotto a due giovani affetti da gravi menomazioni fisiche non mi pare possa incidere positivamente sulla solidità e longevità di esso. Incrementa solo la componente commotiva (e narrativa, ovviamente) del racconto. Racconto che inizia come un giallo a New York (capofamiglia che scompare all’improvviso senza lasciare tracce di sé) e si trasforma in fiaba nel sud – est asiatico. E uso il termine fiaba perché di essa vi sono veramente tutti gli ingredienti: dai poteri extrasensoriali del protagonista maschile, che danno titolo al romanzo, a certi passaggi, riferiti alla protagonista femminile, che riecheggiano favole dell’infanzia (…”Dopo la guerra giunsero scapoli da tutto lo stato di Shan…addirittura da Rangoon e da Mandalay, tanto si era diffusa la fama della sua bellezza”; “C’erano uomini che avrebbero voluto morire nella speranza di reincarnarsi in un maiale, in una gallina, in un cane, pur di diventare uno dei suoi animali domestici”…). E si potrebbe andare avanti.
Personalmente non ho riscontrato neppure l’indicato stile di scrittura fluido e affascinante. La storia è appesantita da lunghe e spesso ripetitive descrizioni di circostanze e sensazioni e il comportamento della giovane e normalmente sbrigativa avvocatessa, che se ne sta ore e ore e giorni ad ascoltare il racconto cinquantenario di un vecchio sconosciuto prima di ottenere risposta all’unico interrogativo di suo interesse (che fine ha fatto il padre), non appare molto compatibile con la realtà. Come piuttosto irreale, d’altra parte, risulta tutto il resto di questo romanzo, con l’eccezione del ritratto concreto del povero e sperduto paesino birmano dove la gente si nutre male, invecchia presto, muore per nulla e nel quale, aggiungo io, le favole trovano poco spazio d’esistenza.



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drysdale Opinione inserita da drysdale    18 Dicembre, 2013
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“Non so”, che è il titolo del libro e anche...

“Non so” se, in quanto primo romanzo che leggo di questo autore, resto con qualche perplessità.
Licalzi è bravo. Sa far sorridere e, a volte, ridere di gusto. E sa anche (un po’) commuovere. Il problema, forse, almeno per me, è che fa tutto insieme, mescolando ingredienti non sempre compatibili.
Quello in commento, per dire, è un romanzo che si potrebbe dividere in due parti, o forse anche in tre.
Nella prima, quella dei ricordi dell’età scolastica ma anche del matrimonio e della nascita del figlio, è, di fatto, quasi una sorta di cabaret.
Ci sono passaggi veramente spassosi, tipo quello in cui il protagonista arriva a fare “calcoli prospettici con penna e righello per stabilire quale fosse il banco meno visibile dalla cattedra” per evitare le interrogazioni; o quello in cui prova ad immaginare l’avventurarsi di un lupetto, fattispecie forse estinta di giovane boyscout, in quella sorta di Bronx che era l’oratorio. E anche tanti altri, maggiormente godibili, peraltro, da coetanei (o quasi) dell’autore, in quanto da essi vissuti in prima persona.
C’è, poi, una seconda parte più seria che – lo dico con consapevole, masochistica e fustigabile ironia – dovrebbe piacere molto alle lettrici coniugate, visto che il nostro, per amore della moglie (distante migliaia di chilometri), non solo si rifiuta ad una bellissima ventenne giapponese seminuda, con tanti “no” da riportare alla mente quelli indimenticabili di M. Douglas a D. Moore in “Rivelazioni” (però, mi si consenta, “è più facile che un cammello…”), ma, sia pure, in momento della storia che è drammatico, s’impratichisce ed impara ad amare, e perfino a desiderare, roba come pannolini, pappine, ecc. fino a quel momento a dir poco evitata.
Ecco, direi che lo stacco tra la prima parte e certi punti della seconda – dagli sketch al racconto della moglie in coma, con annessi strazianti ricordi di vita comune – sia talmente dirompente da creare qualche scompenso nel lettore, se non altro circa l’esatta tipologia di romanzo che sta leggendo. Su di me, quanto meno, ha prodotto questo effetto.
C’è, infine, una terza parte (quella dei “neo sposini” in viaggio negli U.S.A.) che non aggiunge alcunché alle precedenti; non fa ridere, né piangere, né riflettere. Allunga solo un po’ il brodo. Inutilmente.
Lettura consigliata al mattino, sulla metro, per non giungere troppo incupiti in ufficio.
P.S. Le citazioni musicali sono veramente eccessive, anche per cultori della materia.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    16 Dicembre, 2013
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Se ve lo siete perso, recuperatelo!

Lessi questo testo, per la prima volta, tanti anni fa. Era in un’edizione diversa, ormai introvabile, che persi, in malo modo, rimpiangendola. Me l’aveva regalata un amico sorridendo, e poi capii perché.
Ricordo ancora quando avvenne la lettura. Era una giornata incredibilmente afosa di luglio, le vacanze ancora lontane, i condizionatori assenti. In casa, l’unico sistema di sopravvivenza era rappresentato dall’immobilità più assoluta, seduto sul divano, nella penombra. Ogni minimo movimento era produttivo di istantaneo sudore appiccicaticcio.
“Tutti al mare” giaceva su un ripiano della libreria già da qualche settimana: era un librettino di poche pagine, scritto fitto, da autore sconosciuto. Quel giorno, non potendo fare null’altro che leggere, pensai di sfogliarne qualche pagina: il minimo utilizzo di movimento fisico avrebbe reso fattibile l’impresa. Tra l’altro, il titolo si addiceva al periodo stagionale.
Lo lessi in poco più di tre ore, senza soste, e in quelle smisi perfino di avvertire il caldo. E risi come mai mi era avvenuto con un libro. Se vi è sfuggito, recuperatelo perché ne vale assolutamente la pena.
“Tutti al mare” è una raccolta di articoli che Serra (ma che grande!) produsse nell’agosto dell’85 come inviato, allora, dell’Unità. A quell’epoca il suo nome era ai più ignoto, ma la qualità del suo scrivere, l’ironia, lo humor e le capacità descrittive non passarono inosservate. Così, quella che lui stesso descriverà, poi, come una propria iniziativa per riempire un po’ il giornale in periodo tradizionalmente asfittico di notizie (agosto, per l’appunto), si risolse in un tale successo da indurre Feltrinelli - scomparsa rapidamente la prima edizione by Milano Libri – a ripubblicare quattro anni dopo la raccolta di articoli, in tale circostanza impreziosendola con le illustrazioni di Sergio Staino (il creatore del mitico “Bobo”).
Ecco come andarono le cose.
Con budget limitato e a bordo di una Panda 4 x 4, messa a disposizione dallo sponsor Fiat, Serra, il 1° agosto dell’85, partì da Ventimiglia per un viaggio, lungo circa 4.000 chilometri (ultima tappa Trieste, trenta giorni dopo), che lo avrebbe portato a toccare tutte le principali località della costa peninsulare, trasmettendo al giornale, quotidianamente, un servizio sulle esperienze vissute.
Ciò che ne venne fuori, e che purtroppo, a quasi trent’anni da allora, appare immodificato, se non ulteriormente peggiorato, fu la perversa strategia paesaggistica (spesso legata a connivenze politiche; qualche volta anche a quelle malavitose), il degrado, il malcostume locale (ma anche quello turistico) che ha relegato negli anni quella che doveva essere una risorsa primaria dell’italico paese a coacervo di speculazione e trascuratezza nonché di vero e proprio abbandono.
Una cronaca che avrebbe potuto essere, in genere, solo tristissima, ma che Serra, descrivendo, luoghi e realtà locali con l’ironia e l’uso del “colore”, di cui è maestro, riuscì, senza nulla nascondere delle ignominie riscontrate, a rendere nello stesso tempo riflessiva e divertente
In certe pagine troverete delle descrizioni talmente esilaranti che se presente qualcuno nelle vicinanze verrà a chiedervi che diavolo state leggendo che vi faccia ridere in maniera così rumorosa (nei passaggi a Vico Equense e al villaggio Valtur di Crotone, per citarne un paio, vi ritroverete, probabilmente, con le lacrime agli occhi).
Ho riletto “Tutti al mare” in questi giorni, ricavandone le stesse riflessioni e risate di allora. Un testo che garantisco 100%.



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drysdale Opinione inserita da drysdale    09 Dicembre, 2013
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Illeggibile (a mio giudizio)

Lo so. So che questo sito richiede delle recensioni ponderate. E che una recensione ponderata prevede, quanto meno, una lettura integrale del testo che si va a commentare.
Nella circostanza, chiedo un’eccezione a questa regola. Per un semplice motivo: ho acquistato questo romanzo sulla base di valutazioni positive (in qlibri ce n’è una sola, ma se ne trovano altrove). Ho abbandonato la lettura (a malincuore, perché il libro mi è, comunque, costato) dopo una quarantina di pagine.
Non m’interessa sapere cosa succede; quale sia la prosecuzione della storia. Lo trovo scritto talmente male, in maniera talmente infantile – e fastidiosa – da ritenerlo totalmente irrecuperabile.
Non so quale seguito abbia avuto, in termini commerciali, questo testo. Se altamente positivo, mi chiedo cosa ci sia dietro al seguito altamente positivo di un testo.
Commentare così negativamente uno scritto dispiace sempre e comunque. Ma se una recensione deve avere lo scopo di fornire al prossimo informazione delle proprie sensazioni, queste, purtoppo, sono le mie.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    08 Dicembre, 2013
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Meglio un urlo che il silenzio...

“Ma venne un momento, indistinguibile nel tempo, in cui tutto questo s’interruppe. Non fu all’improvviso, non ci fu un istante in cui, come la morte, mette fine a tutto ciò che è stato prima; fu semplicemente indolenza graduale e crescente”.
Eutanasia di un amore che doveva spaccare il mondo.
Le fasi, quelle di sempre: i silenzi; la noia; i rancori. E anche una quarta e peggiore: la disperazione.
I rientri a casa senza saluti; le cene consumate in desolato e imbarazzante silenzio; il letto, come luogo per solo dormire (o vegliare, consumandosi). Distesi a pochi centimetri di distanza, ma lontani da ogni contatto, cerebrale o sessuale.
Ricordi lontani di fiammate sentimentali; grovigli di passione; grandi prove di amore senza fine. Gli interessi, i desideri, le abitudini comuni. Tutto stravolto, deformato, svanito.
L’incancrenirsi di situazioni nelle quali non si trova il coraggio o la volontà di sfondare il muro dell’incomunicabilità. Basterebbe, magari, una frase, una discussione, perfino un affondo o un grido. Ma non avviene nulla.
La fine di una coppia.
Il tutto, all’interno del girone infernale della monotonia: un’esistenza vissuta quasi esclusivamente nel lavoro e per il lavoro. Colleghi, più o meno simpatici, divenuti indesiderata confraternita forzosamente sostituiva del rapporto essenziale.
Colpisce allo stomaco, questo romanzo, a quanti questa situazione la vivono o l’hanno vissuta, a volte in modo inconfessabile; insinua dubbi in chi non ha ancora autentiche certezze.
Di questo tratta “Ricomincio da te”. Il resto è contorno.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    03 Dicembre, 2013
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Una storia infinita...

(il testo contiene mezzo spoiler).

L’attimo suggestivo, nella lettura di questo testo, l’ho vissuto all’ultima pagina. Quando ho potuto finalmente liberarmene. Non potevo farlo prima? Si, però mi secca sempre tanto abbandonare prematuramente un romanzo. Non so: è come se non dessi all’autore la possibilità, fino all’ultimo, di redimersi (almeno ai miei occhi). Però stavolta ho fatto un po’ di fatica.
Intendiamoci: non è un brutto romanzo. E’, a mio avviso, un romanzo piuttosto noioso. Conclusione alla quale sono pervenuto sulla base di alcune essenziali considerazioni:
- la sua lunghezza - 533 pagine, 129 capitoli - è del tutto sproporzionata rispetto all’entità concreta dei fatti narrati (specie nella parte centrale, se ne potrebbe sfoltire tranquillamente la metà senza alterare minimamente la storia ed anzi rendendola più interessante e meno ripetitiva);
- lo stile narrativo non è certamente tra i più moderni;
- la trama del libro mi sembra adatta per una “soap opera”, da un centinaio di puntate, sul piccolo schermo .
Ma di che parla “La strada in fondo al mare”?
E’ la notte del 14 aprile 1912. A bordo del Titanic, tra i 2223 passeggeri e uomini dell’equipaggio, ci sono, nella terza classe, quella dei paria, May Smith, con il marito Joe e la figlia neonata Ellen, in viaggio per gli Stati Uniti all’inseguimento del sogno americano; nella prima classe, quella dei ricconi, Celeste Parkes, moglie di un facoltoso uomo d’affari statunitense, di ritorno dall’Inghilterra dove ha assistito ai funerali della madre.
Dopo l’impatto del transatlantico contro l’iceberg, Joe ed Ellen spariscono nelle acque gelide; May viene recuperata a bordo di una scialuppa di salvataggio, grazie all’intervento di Celeste. Prima di morire, il capitano della nave issa bordo della scialuppa un fagottino contenente un neonato che (chissà perché) viene attribuito a May. Quest’ultima si accorge ben presto che è avvenuto uno scambio di persona ma, superando un dramma interiore – che costituirà il tormentone di quasi tutto il romanzo, riproponendosi periodicamente e stancamente pur con il trascorrere dei lustri – decide di far apparire la piccola come propria figlia.
Da questo punto in poi, il racconto segue le storie delle due donne, divenute amiche per la pelle, dei loro figli (veri o presunti), dei loro parenti. Una storia che va avanti per decenni; passa attraverso due guerre mondiali; perde lentamente, per lutto, alcuni protagonisti; si conclude come da previsioni abbondantemente scontate.
Taluni personaggi o episodi sono talmente caricati da guadagnarsi un posto in prima fila nel settore “inverosimiglianza”. Il marito di Celeste, per dire, è uomo cattivissimo che più cattivo non si può. Troverebbe divieto di accesso perfino all’inferno.
E Angelo? Angelo è un emigrato italiano a New York, in attesa della moglie e della figlia neonata che si trovavano a bordo del Titanic. Si immagini la scena. La sera del 18 aprile 1912 il transatlantico inglese Carpathia, protagonista del salvataggio dei sopravvissuti del Titanic, giunge al porto di New York. La notizia del naufragio ha fatto il giro del mondo e all’arrivo della nave il porto è gremito da migliaia di persone (almeno 10.000, secondo le cronache dell’epoca): amici, parenti e conoscenti dei passeggeri; masse di curiosi: rappresentanti della stampa; un numero indefinito di agenti del servizio d’ordine; mezzi e personale per il pronto soccorso. Dalla nave scendono i 706 naufraghi del Titanic e tutti passeggeri della Carpathia. La zona è transennata e la situazione è, presumibilmente, di vera e propria bolgia. Bene: in tutto ciò, Angelo non solo s’imbatte in una scarpina da neonato abbandonata in terra ma, dal tipo di ricamatura propria della stessa, stabilisce, una volta per tutte, che essa debba necessariamente appartenere a sua figlia, la quale, ovviamente, non può che essere sopravvissuta.
Una volta descritta una simile scemenza, l’autrice non poteva che perseverare. Così…..

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drysdale Opinione inserita da drysdale    02 Dicembre, 2013
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Non lascia il segno, ma si fa leggere.

Sembrerebbe quasi che ci sia un “filone” in atto. In realtà, più semplicemente, è il calcolo delle probabilità che ogni tanto fa cilecca. Fatto sta che nel giro di pochi giorni, e del tutto casualmente, mi sono capitati tra le mani due romanzi caratterizzati da evidenti similitudini (l’altro è “Mathilda”, in precedenza recensito).
In entrambi i casi la storia viene raccontata in prima persona e a farlo è un’ adolescente americana, 14-15 anni.
In entrambi i casi il personaggio che narra aveva una sorella un po’ più grande che ha fatto una brutta fine: è stata uccisa.
In entrambi i casi la sorella uccisa è quella che, nei ricordi e nelle tensioni della sopravvissuta, avrebbe meritato maggiormente di vivere. Perché più bella, più brillante, più tutto.
In entrambi i casi, infine, c’è l’estenuante indagine da parte della sorella più giovane nella personalità di quella maggiore, allo stesso tempo amata e invidiata, anche per individuare eventuali circostanze che abbiano potuto rendere possibile il verificarsi dell’evento criminoso.
Le similitudini, poi, finiscono qui.
In “Mathilda” si sa da subito come l’omicidio sia avvenuto, ma con sorpresa finale circa l’autore. Qui le informazioni circa le modalità dell’omicidio vengono razionate nel corso dei capitoli e il finale, pur bello, non propone colpi di scena.
Segreti & sorelle non è certo romanzo che lasci il segno. Però è scritto benone, scorre e non induce in tentazione di prematuro abbandono.
Da tenere a portata di mano per giornata piovosa :-).

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drysdale Opinione inserita da drysdale    20 Novembre, 2013
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Quanto era bravo De Carlo...

Spiace a chi, come me, tanto apprezzò certi suoi romanzi - come “Uto” o “ Due di due” e perfino, più moderatamente, il più recente “Lei e lui”, pur tanto criticato - dover commentare in modo totalmente negativo questo "Villa Metaphora". Un testo risultatomi veramente insopportabile. Lungo, tedioso, con personaggi tanto esagerati da apparire in taluni casi caricaturali e pessima l'idea di attribuire loro il racconto in prima persona: si passa così , tanto per citarne un paio, dall'imbarazzante "tarese" del marinaio, all'ipersboccato inveire dell'attricetta americana che più stereotipa non si può. E poi il noiosissimo, ripetitivo e assolutamente inutile utilizzo di frasi in lingua madre (ce n'è per tutti: spagnolo, tedesco, inglese) ad infarcire il testo ed a rendere ancor più indigeribile l'opera: una storia che, oltretutto, avrebbe potuto essere tranquillamente rappresentata in un quarto delle pagine utilizzate. Un romanzo tremendo, che De Carlo si (ci) doveva risparmiare.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    19 Novembre, 2013
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Fuori dal coro esaltante

La Versilia d’inverno non è quella estiva. E ci sta. E le prime pagine del romanzo, nelle quali Genovesi descrive, con simpatica ironia, questa diversità, sono le migliori e a mio avviso le uniche che hanno presa e significato. Quando, poi, si passa alla caratterizzazione dei personaggi che tale situazione dovrebbero esemplificare, cade tutto.
C’è un ex dj di successo che, per motivi rimasti ignoti, ha deciso un bel giorno di segregarsi in casa (meglio: in una stanza) e trascorrere il tempo a scaricare files da Internet (?) e ad ingurgitare pasticche che lo accompagnino in qualche modo al sonno notturno.
Uno zio dell’ex dj cui i trascorsi di droga e di carcere hanno devastato la mente. Tant’è che il suo sogno, tra un episodio e l’altro di violenza quotidiana, è costruirsi una barca per intraprendere l’attività professionale di pirata. Nel frattempo gli scappa fuori dal nulla pure un figlio tredicenne, che entra nel romanzo senza una storia ma viene ben presto arruolato dal manipolo di soggetti strampalati che danno vita a questo romanzo.
C’è un ex primo della classe, laureatosi, per far piacere alla mamma, in informatica (nei confronti della quale non prova alcun interesse) che si trasferisce a Milano in cerca di opportunità e che sfonda, pensate un po’, producendo viaggi esotici inventati per sfigati che se ne vogliono vantare con i conoscenti. E nel racconto entra di forza anche un suo cliente, surreale come tutti gli altri personaggi.
Tutto sommato, il soggetto meno atipico è l’avvocatessa Trapasso, donna di successo, con vita relazionale normale (evviva!)che però si fa travolgere dalla volgarità e dall’eros piuttosto bestiale del già descritto zio, finché non recupera la giusta lucidità per mandarlo al diavolo.
Un racconto come questo non poteva avere un finale degno di tal nome. Che, infatti, non c’è. Tutti insieme al molo, in notturna ipotizzata fuga verso la Sardegna, lasciandosi dietro un cane e un bambino (forse) morti ammazzati, una madre moribonda in ospedale, una figlia in disperata attesa di notizie del padre scampato allo tsunami che ha investito il suo viaggio inventato. Tutti in fuga allegramente. O, come meglio inteso dalla critica dominante, tutti decisi a lottare contro un destino che li vorrebbe segnati.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    18 Novembre, 2013
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Come entrare in un incubo dopo poche pagine.

Koontz è uno degli autori più prolifici della letteratura moderna. Forse troppo. Al punto da ingenerare legittimi dubbi sulla genuinità di talune opere che recano la sua firma (e personalmente ho riscontrato in diversi testi inventiva e stile narrativo difficilmente compatibili con il suo). D’altra parte non sarebbe l’unico caso, e non sto qui a far nomi.
Detto ciò, se dovessi stilare una graduatoria dei 10 thriller più coinvolgenti a tutt’oggi letti, “Intensity” ci rientrerebbe di sicuro. E questo testo lo ha scritto indubbiamente lui.
Tutto inizia dalla vacanza a Napa Valley (California) di due studentesse ed amiche presso la residenza dei genitori di una delle due. Non racconto altro per non rovinare l’effetto a chi non l’ha letto. Dico solo che dopo poche pagine si entra in una sorta di incubo, con colpi di scena a ripetizione e finale mozzafiato.
Suggerirei di non iniziarlo a serata inoltrata per non correre il rischio di fare le ore piccole…:-).
Assolutamente consigliato.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    18 Novembre, 2013
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Quando la coppia scoppia...

Nonostante il romanzo appaia più indirizzato ad una lettura femminile, a me non è dispiaciuto. E' un po' lungo, d'accordo, ma, secondo me realistico (non è certo una storia fuori dal mondo e basta anche solo farsi un giro su Internet per trovarne a centinaia di similari). Ed è anche perfettamente comprensibile da lettore di sesso opposto. Anche perché, "mutatis mutandis", potrebbe essere stato scritto da un uomo. Magari le riunioni di lettura e lo jogging sarebbero state sostituite da una partita di golf o, più modestamente, dal ritrovo in un pub o in un campetto di calcio (tanto per rimanere negli stereotipi). A parte ciò, non ci sarebbero state grandi differenze. Lo scoppio della coppia, analiticamente descritto nel racconto, è quasi sempre bifase. Qui abbiamo il resoconto di lei, ma al povero Phil non è concessa difesa intellettuale. Si: è un onest'uomo, grande lavoratore, bravo padre di famiglia, che all'occorrenza, e senza far troppe domande, si presta anche a giochini con le manette. Ma, a quanto si capisce, nel pensare di lei, non sa mettere il pepe giusto nel rapporto e, alla fine, commette l'irreparabile errore di menar le mani, fornendo alla protagonista l'unico effettivo alibi per una separazione che non avrebbe altrimenti ulteriore giustificazione rispetto a quella, da non pochi sostenuta, che l'unico rapporto più innaturale e costrittivo del matrimonio è il condominio :-).

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drysdale Opinione inserita da drysdale    17 Novembre, 2013
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Tropper è uno che sa scrivere.

Altro bel romanzo di Tropper. Per quanto il punto di partenza sia completamente diverso rispetto a "Portami a casa" (lì, nelle prime pagine, la moglie del protagonista veniva pescata a letto con il datore di lavoro di lui, con quel che ne conseguiva; qui, la moglie muore in un incidente aereo, prima ancora che il racconto inizi, segnandolo in modo indelebile), gli elementi comuni non mancano. In particolare il peso specifico che nelle due storie assume la famiglia, con intense caratterizzazioni dei suoi membri, sempre un po' bislacchi e in apparente contrasto, ma legatissimi tra loro. E, poi, il rapporto tormentato di lui con le esponenti, sempre belle (beato lui!) ma anche complicate (e qui è più normale :-) ), dell'altro sesso. Tropper mi piace. Ha un modo di scrivere scorrevole, non artificioso, moderno. Sa essere ironico ma anche emozionante. Per stile narrativo, gli metto accanto altri due autori per i quali ho una particolare predilezione: Hornby (quello di un tempo…) e Nichols.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    15 Novembre, 2013
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C'è un serial killer di troppo...

A mettere troppa carne sul fuoco, a volte, si rischia di rendere il prodotto finale poco commestibile. Ed è, un po', il caso di questo romanzo. C'è una storia di base che non è neanche malee. Un uomo viene accusato di aver ucciso la ex moglie sulla base, essenzialmente, della testimonianza di un soggetto impresentabile. La giovane (e ovviamente attraente) rappresentante della pubblica accusa, pur tra mille dubbi, fa del suo meglio per dimostrare la colpevolezza dell'imputato. Fin qui, nulla da dire. Il problema è che l'autrice, in questa traccia già di per sé abbastanza intricata, ce ne infila a viva forza una seconda - mal caratterizzata, inutile, perfino fastidiosa - di un serial killer talmente imbranato che la prima cosa che al lettore vien da chiedersi è: ma come ha fatto questo a diventare "serial"? Gli do la sufficienza facendo finta di dimenticarmi dell'inutile.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    14 Novembre, 2013
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Ma chi l'ha scritto questo obbrobrio?

Una storia inverosimile. Un thriller da ridere, scritto anche male. A parte i continui, e patetici, colpi di scena che si susseguono giusto per tirare avanti la carretta fino alla fine, sono sufficienti le patetiche elucubrazioni del personaggio principale, sedicente top-detective in carriera, nei momenti di c.d. grande tensione, per relegare questo romanzo a vendita nelle bancarelle. Mirabile esempio di prestazione di firma a scritto altrui (tanto per far cassetta). Una lettura irritante,

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drysdale Opinione inserita da drysdale    14 Novembre, 2013
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Un thriller adrenalinico.

A volte vengono pubblicati dei romanzi assolutamente validi che, per motivi incomprensibili, sfuggono – quanto meno in Italia - all’attenzione del grande pubblico. “Dio è un proiettile” è uno di questi. Adire il vero era sfuggito anche alla mia di attenzione, in quanto, acquistato, era finito in uno scatolone nel corso di un trasloco e rinvenuto, per caso, in occasione di quello successivo :-).
Il testo è ormai datato (1999) e non se ne trova quasi traccia nei siti letterari. Anche il reperimento del volume è abbastanza difficoltoso ( ma su Internet tutto è possibile e, infatti, si trova). Agli appassionati del genere thriller-azione ne consiglio vivamente la ricerca.
Per quanto a mia conoscenza, trattasi dell’unico romanzo scritto da questo autore, ma all’epoca ottenne (non in Italia) un notevole successo, tanto che un noto sceneggiatore e produttore, Ehren Kruger, manifestò pubblicamente l’intenzione di farne un film (progetto poi sfumato).
Ma a chi può piacere questo romanzo? Sicuramente, percitarne un paio, a un fan di Tarantino o dei fratelli Coen di “Non è un paese per i vecchi”.
La storia, adrenalinica e scritta benissimo, si svolge pressoché interamente nel deserto della California del sud, ai confini col Messico, ed è incentrata sul rapimento, da parte di una banda di psicopatici, della figlia di un poliziotto. Quest’ultimo, con l’aiuto determinante di una ex tossica nonché ex membro della banda, si mette alla caccia dei criminali.
Provare per credere: questo libro, una volta iniziato, non lo si molla.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    12 Novembre, 2013
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Una storia deprimente.

Sono arrivato alla fine di questo romanzo per mera "tigna". E' tra le cose più deprimenti che abbia mai letto. Non dubito sul fatto che, nella realtà, personaggi come quelli descritti possano esistere, mi chiedo, però, se valga la pena - tanto più in assenza di qualsivoglia introspezione psicologica - scriverci sopra 220 pagine. Una storia noiosa, pesante, claustrofobica. E visto che l'autrice ha voluto, comunque, raccontarla, avrebbe dovuto perdere un po' più di tempo a farci capire cosa passasse nella mente dei vari soggetti (dei due principali, in particolare), che, così come descritti, appaiono invece una sorta di esseri inanimati che agiscono a livello praticamente vegetale.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    12 Novembre, 2013
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Un altro romanziere inglese da seguire

Il richiamo a "Un giorno" di David Nichols, pur proposto nella presentazione in quarta di copertina , mi pare eccessivo (probabilmente perché sono un esagerato estimatore di Nichols in generale e di quel romanzo in particolare). Non c'è dubbio, comunque, che Hornby abbia fatto da battistrada ad un gruppo niente male di brillanti romanzieri inglesi e farei rientrare - con qualche curiosità per il futuro - Watson tra questi. "11" è scritto bene: è scorrevole , ironico e sentimentale con adeguato dosaggio. Consigliato.

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Hornby e Nichols
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drysdale Opinione inserita da drysdale    11 Novembre, 2013
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Mathilda e l'abilità creativa di uno scrittore

Che dire? Riesco ancora a sorprendermi per come, a volte, un autore riesca ad immedesimarsi nei protagonisti del proprio racconto a tal punto da costruirne perfettamente la personalità, a dispetto di ogni propria diversità di età, sesso, ambient.
In questo caso il quarantaquattrenne Victor Lodato, tra l’altro al suo primo romanzo, effettua un’operazione esemplare entrando nel personaggio di una ragazzina di tredici anni e descrivendone , con lucida coerenza, il modo di pensare, di parlare, di atteggiarsi; i sentimenti di odio e amore; i timori, i turbamenti, le frustrazioni.
Mi pare improponibile il paragone – pur da taluni fatto – tra questo racconto e “Il giovane Holden” di Salinger, nel suo genere, probabilmente irragiungibile. Ma certo è che trattasi di testo che colpisce.
Non ne descrivo il contenuto, a ciò pensa la scheda, e tanto meno il finale, che lascia impietriti.
Un’ultima annotazione: è stata generalmente lodata la traduzione del testo originario effettuata da Sergio Claudio Perroni, valutazione sicuramente giusta, anche se non sempre ineccepibile mi è parso l’utilizzo della “consecutio temporum”.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    10 Novembre, 2013
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Un romanzetto.

E' il primo romanzo che leggo di questo autore e non sono proprio riuscito ad entusiasmarmi.. La co-protagonista della storia, Irene, se dovesse esser assunta come attuale modello di riferimento, lo troverei quanto meno imbarazzante. Lascia il marito (non si sa perchè: noia? fine della passione? assenza d'interessi in comune? boh!) dopo una tresca con un collega di lui (sposato) nella quale, peraltro, decide di non volersi impegnare più di tanto. E, infatti, ne decreta la fine. Poi comincia a trascorrere un tot numero di ore da sola in un bistrot, sorta di pesciolino rosso in un acquario. Ammette con sé stessa di stare lì per rimorchiare, ma il suo atteggiamento nei confronti di chi prova ad avvicinarla è a dir poco supponente. Non manca neppure un pizzico di cattiveria, che la signora (l'autore è connivente?) cerca di spacciare per atto eroico: lo sputtanamento pubblico di un avventore che la corteggia a distanza nonostante sia in compagnia della propria ragazza. E dopo la descrizione "ad abundantiam" della superficialità, della pochezza nonché dell'immoralità di quanti cercano di abbordarla, ecco che lei non trova assolutamente riprovevole il fatto di portarsi a letto un collega d'ufficio, più giovane e belloccio, con l'unico, dichiarato, fine di farci sesso "usa e getta", avendolo, per il resto, già catalogato negativamente. Al co-protagonista maschile, Nicola, viene dedicato spazio inferiore. D'indole tranquilla e sottomessa, quanto meno nel suo rapporto coniugale, il nostro conserva tali caratteristiche anche allorché resta vedovo. I due personaggi s'incrociano solo alla fine del romanzo. Finale aperto. Personalmente augurerei a Nicola, bevuto il suo passito, di uscirsene dal bistrot senza guardarsi troppo intorno.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    08 Novembre, 2013
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Si può scrivere di eros (anche meglio) senza...

Un romanzo “tosto”: erotico ma anche sentimentale. Forse qualche descrizione poteva essere un attimo sfrondata, ma non mi pare il caso di scandalizzarsi e ho piacevolmente constatato che, in generale, le recensioni femminili su questo sito sono state generalmente positive. Il protagonista è “un maschio”, che, in fatto di sesso, ragiona come un “maschio” (ovviamente ci si può esercitare in distinguo tanto per indorare la pillola, ma, a parte qualche mosca bianca, le cose stanno esattamente così) e che descrive i suoi desideri e i suoi stati d’animo senza nascondersi. In ogni caso non è racconto di solo sesso. Ci sono pagine molto belle nelle quali è descritto il rapporto dolcissimo con la figlia e in queste il protagonista riscatta in qualche modo il suo “peccato originale”.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    07 Novembre, 2013
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Il Vangelo. Cos'è?

Tra la tesi ortodossa propria del cristianesimo più rigido, che non deflette dal dettato evangelico, e quelle critiche, orientate, in genere, ad individuare storicamente il personaggio Gesù in un guerriero zelota, armato contro il potere dei Romani, Saramago, in questo libro, prende un'altra strada. Pur assumendo come base narrativa la versione classica della vita di Gesù, egli la riscrive, ristrutturandola ed umanizzandola: dal concepimento naturale, alle comuni problematiche adolescenziali e famigliari, all'amore carnale nei confronti della donna che gli starà accanto fino alla morte, Maria di Magdala. Non mancano gli interventi ultraterreni, di Dio e del diavolo (e, nel confronto, è quest'ultimo a uscirne con maggior decoro), che Gesù è costretto a subire, ma di essi Saramago si serve essenzialmente per perseguire quello che appare il suo evidente obiettivo: una critica feroce nei confronti delle fondamenta stesse di questa religione. Il Dio che si bea dello scannatoio che in suo onore avviene ad ogni Pasqua presso il tempio di Gerusalemme; che costringe Gesù ad accettare una morte atroce, predicendogli, allo stesso tempo (nel corso di una surreale conversazione con Gesù stesso e con Satana, nella quale assume toni da serial killer) le stragi che in suo nome e per secoli avverranno al fine di assicurare il proprio potere. Quel Dio che è, a ben vedere, lo stesso collerico, violento e vendicativo dell'Antico Testamento, non ha alcunché di sacro. Tremenda l'ultima immagine del Vangelo di Saramago: "Allora Gesù capì di essere stato portato all'inganno come si conduce l'agnello al sacrificio e, ripensando al fiume di sangue e di sofferenza che sarebbe nato spargendosi per tutta la terra, esclamò rivolto al cielo, dove Dio sorrideva, Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto". Un testo di grande impatto, sicuramente poco apprezzabile da parte di un lettore credente.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    06 Novembre, 2013
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Quasi viene da chiedersi se fosse un vero mostro

La scelta di questo romanzo non è stata consapevole e la sua lettura integrale quasi un atto autopunitivo nei confronti dell'incauto acquisto. In ciò il disaccordo con i pareri che mi precedono.
Il giudizio negativo non è dovuto solo alle caratteristiche claustrofobiche del racconto che, attenendosi, almeno da questo punto di vista, alla reale, macabra storia di Elisabeth Fritzl, si svolge interamente all'interno di un bunker sotterraneo. A crearmi un notevole fastidio è stata l'arbitraria, inappropriata e, per quanto si sa della vicenda, quasi offensiva (nei confronti della vittima e dei lettori di buon senso) ricostruzione dei fatti operata da Sortino. Gli atti del processo sul "caso Fritzl", come ammesso in prefazione al testo, sono stati secretati, ma da quel po' che ne è uscito, la valutazione effettuata dai giudici in sede processuale e la durezza della condanna inflitta al "mostro" (l'ergastolo), appaiono in evidente contrasto con il senso a tratti vagamente umanitario e, se non addirittura sentimentale, attribuito a quest'ultimo. E improponibili - oltreché antitetici con la realtà nota - appaiono le ultime elucubrazioni mentali effettuate da Sortino: quelle con le quali individua nella vittima di tanta efferatezza - nel corso delle fasi processuali - un sentimento non solo di compassione ma perfino di una sorta di quasi difesa nei confronti del proprio aguzzino. Leggo che trattasi del primo romanzo scritto da questo autore: sullo stile letterario, niente da dire. Per il resto, meglio lasciar perdere.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    05 Novembre, 2013
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Splendido

Per una volta la prefazione a un romanzo rispecchia in modo talmente fedele il suo contenuto che merita veramente di essere (quanto meno in parte) trascritta: “ William Stoner ha una vita che sembra essere assai piatta e desolata. Non si allontana mai per più di centocinquanta chilometri da Booneville, il piccolo paese rurale in cui è nato, mantiene lo stesso lavoro per tutta la vita, per quasi quarantanni è infelicemente sposato alla stessa donna, ha sporadici contatti con l'amata figlia e per i suoi genitori è un estraneo, per sua ammissione ha soltanto due amici, uno dei quali morto in gioventù. Non sembra materia troppo promettente per un romanzo e tuttavia, in qualche modo, quasi miracoloso, John Williams fa della vita di William Stoner una storia appassionante, profonda e straziante”. (Peter Cameron).
Ho inizialmente pensato di abbandonare questo romanzo dopo poche pagine di lettura, tanto sciatta mi era apparsa la storia. Piano, piano, poi, mi ha attratto e poi travolto. E, alla fine, ci ho rimuginato sopra per giorni.
Un libro fantastico, che parla di tutti noi, che nasciamo, viviamo e moriamo senza lasciare traccia della nostra esistenza. Un esercito di “x”. Vite vissute, spesso, proprio come quella del protagonista di questo romanzo, con grande intensità e grandi emozioni. Ognuno con le proprie. Ma non ne rimane nulla, se non nella memoria di pochissimi…e anche questi, non scontati.
Un testo stupendo e che fa riflettere.

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drysdale Opinione inserita da drysdale    04 Novembre, 2013
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Come rovinarsi una reputazione

Null’altro che una poco dignitosa operazione commerciale, rispetto alla quale la casa editrice dovrebbe andare poco fiera (65 pagine scritte con caratteri cubitali). Adoro lo stile narrativo di Hornby ma, evidentemente, la sua ispirazione è in via di esaurimento se tutto ciò che da qualche tempo riesce a produrre - e si presta a far pubblicare - sono brevi e un po’ insulsi raccontini (non saprei dire se la sfida per la maggior pateticità sia appannaggio della storiella in commento o del precedente “E’ nata una stella”), per di più offerti in vendita allo spropositato costo di nove euro.
Si potrebbe provare a cercar consolazione nella circostanza che Hornby, contrariamente a certi altri famosi romanzieri, non ha imboccato la perversa strada dell’appalto a terzi delle nuove opere, ma è magra consolazione.
“Alta fedeltà” e “Non buttiamoci giù” sono lontani ricordi... sui quali si sta facendo cassetta.

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