Opinione scritta da dani79

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dani79 Opinione inserita da dani79    21 Novembre, 2024
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Trovare un senso! E se il senso non ce l'ha?

Questo libro - papale papale - non mi è piaciuto.
Ho faticato fortemente a portarlo a termine, così come ho faticato a rintracciare un senso.
Premesso e doveroso un gran bel bagno di umiltà, a lettura ultimata, ciò che mi è rimasto è solo un punto di domanda: tutto qui?
È un libro strano e surreale. Mancano, a mio avviso, sostegno, spessore e credibilità a personaggi e accadimenti. Non mi ha coinvolta, mi ha più che altro respinta.
Non è un'idiosincrasia personale con Murakami, che invece ho apprezzato grandemente in Norwegian wood.
Per quanto riguarda Dance Dance Dance, devo constatare con dispiacere che probabilmente non possiedo gli strumenti perché possa io valutarlo positivamente.
Non mi sento pertanto di consigliarne la lettura, anzi avrei preferito navigare verso altri lidi letterari.

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dani79 Opinione inserita da dani79    06 Giugno, 2024
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Nel vecchio sta il nuovo. Da leggere.

Avete presente quando per mesi e mesi vi passano tra le mani e sotto gli occhi dei libri brutti, e vi sentite perseguitati dalla sfortuna del lettore? Quando pensate che forse è arrivato il momento di mettere da parte i libri e dedicarsi, nonostante un'innata maldestrezza, al ricamo? Mi trascinavo ormai da una dolorosa lettura all'altra, quando nell'edicola del mio piccolo, piccolissimo paese mi imbatto in un leziosa e infiorata copertina di Jane Eyre. Ho sempre nutrito numerosi preconcetti su questo libro, in ragione del genere, che non è propriamente quello che più mi si aggrada, e del film (per intenderci, quello di Zeffirelli), che non ho mai gradito particolarmente, nonostante riconosca sia un capolavoro. Che dire, alla fine l'ho acquistato e ho fatto bene. Che magia, che meravigliosa scrittura, che diligenza intellettiva, che modernità! Dopo aver letto Jane Eyre, perdono generosamente chi ha scritto quei brutti libri, che i libri mi facevano odiare.
Comunque, leggetelo! Che siate lettori schizzinosi o no, che godiate di un temperamento romantico o che, come me, proviate maggiori e più profonde emozioni di fronte a una carbonara che a un tramonto, vi prego di non stornate questo classico dalle vostre prossime letture. È un libro di democratica bellezza. Merita tutta la vostra attenzione.

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dani79 Opinione inserita da dani79    01 Aprile, 2014
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In meinem Herzen, die Heimat!

Non esiste al mondo luogo migliore della montagna a far nascere una leggenda. I suoi impervi sentieri, i suoi laghi cilestrini, i suoi cieli d'acciaio forieri di neve ne fanno fonte eterna d'ispirazione.
Come eterne sono le leggende, perché, parafrasando quel che Calvino disse a proposito dei classici, mai smettono di dire ciò che hanno da dire.
D'obbligo, quindi, iniziare proprio da una leggenda.

Un bel giorno un montanaro, senza tema di mostrare il proprio disappunto, interrogò Dio sul perché avesse dato al cittadino la città, al contadino la campagna, al marinaio il mare, e a lui una terra ostica, dura e difficile. Dio allora, cercando di persuadere il caparbio montanaro, "creò tramonti di perla e albe rosse come il fuoco, fece ghiribizzi di nuvole sulle montagne, gelò le nevi". Tanta bellezza si rivelò però insufficiente. Il montanaro difatti continuò a redarguire Dio, il quale, persa la pazienza e senza indugio, "prese un pezzettino di roccia, due frammenti di abete, un po' di prati verdi, due gocce di lago alpino e li ficcò nel cuore del montanaro – Tu senza queste cose non potrai vivere – disse – Andrai dove vuoi, ma per morire tornerai qui, perché solo qui è la tua casa, la tua Heimat."

Questa è la storia che la piccola Gertraud narra al suo maestro elementare Mario, uomo trentino incaricato di fare dei bambini di Cordés, piccolo paese a sud del Brennero, dei piccoli e fieri italiani.
Siamo intorno alla metà degli anni Trenta e il clangore della propaganda fascista è assordante.
In questo frangente storico, Mario, inizialmente vettore di precetti fascisti, da legnoso automa nelle mani di un pomposo burattinaio, scoprirà col tempo la calda gioia di avere braccia, cuore e cervello umani.
Nell'arco di nove mesi, la durata di un intero anno scolastico - corso paradigmatico di una gravidanza -, Mario vedrà nascere un nuovo se stesso, assumerà la consapevolezza della sua più vera identità.
Un po' come fu per il Tenente Dunbar in “Balla coi Lupi, scoprirà finalmente dov'è che sta la propria casa e quanto avvolgente possa essere la consonanza sentimentale con quei montanari dalla tempra appuntita come le cime dei monti.
La casa, la tua Heimat, infatti, non è sempre e soltanto quella in cui nasci e la tua gente - se hai la fortuna di incontrarla - non è sempre, necessariamente e soltanto quella che ti ritrovi intorno, perché spesso sei tu che sei chiamato a sceglierla o è lei che è chiamata a scegliere te.

“Diario del maestro di Cordés” è un bel racconto, scritto con garbo e competenza. L'autore non appare mai in difetto delle parole adatte, dedica alla storia e al lessico una grande cura fatta di rigida ricerca, attenta riflessione e un pizzico di cuore. Mai il lettore dubiterà di avere davanti agli occhi le parole vere di un maestro elementare, che, nel periodo di piena vanità fascista, si ritroverà a dover scegliere tra assecondare i piani distopici di Mussolini e della sua compagine, volti a dissolvere l'identità di un popolo intero, o ascoltare e comprendere la voce di quei montanari, divenuti terra di conquista, che il fato ha voluto nascessero in una terra di confine, che parlano con il vento e con le montagne.

“ - Il papà dice: ti insegnano l'italiano e poi dovrai andar via. -
- Perché andarsene? -
Il piccolo è ora serissimo.
- Le nostre mucche non sanno l'italiano. Il papà dice che i nanetti del bosco parlano il tedesco e basta. Il vento, i monti capiscono solo il tedesco quassù. Mein Vater... il papà, lui parla sempre col vento e con le montagne. -”

Sono nata ascoltando un mare ieratico che riesce a parlare con parole fatte di acqua, oggi mi sento a casa sotto il cielo di grafite costellato di stelle che solo la montagna sa regalare. Credo che ognuno di noi abbia il dovere di trovare la propria Cordés, raccogliere le forze e la lucidità per “superare il confine”. Ché il confine altro non è se non una barriera, fatta delle nostre paure, dei nostri pregiudizi, delle nostre più egoistiche superficialità. Se non si vuol rimanere sempre e soltanto neofiti della vita, se si vuol essere artigiani della propria libertà, questa barriera va superata con ampio passo e a testa alta.

Questo è il messaggio sussurratomi dal "Diario del maestro di Cordés". Molti libri, infatti, oltre le pagine e le parole, tra gli spazi, hanno l'attitudine a sussurrare qualcosa di speciale al lettore, e questo libricino lo ha fatto con la dolcezza e l'energia dell'aria notturna di montagna.

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dani79 Opinione inserita da dani79    13 Marzo, 2014
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Middlemarch

"Middlemarch. Uno studio di vita provinciale" è un monumentale atlante di anatomia dell'anima.
Tante sono le "categorie umane" raccolte e tracciate in questo capolavoro senza tempo. La Eliot tiene così bene la penna in mano da consentire al lettore di osservare queste numerose "specie d'uomo" alla stregua di pesci in un acquario: c'è chi ha una natura dolce e il cuore ardente; chi crede di conoscere la vita guardandola attraverso preziosi merletti, e chi la vita la conosce davvero attraverso il duro processo dell'esperienza. C'è chi si vuole redimere da vecchi peccati, ma non vi riesce perché il passato corre più in fretta del futuro. C'è chi fallisce in progetti troppo ambiziosi e chi soccombe sotto il giogo dei capricci e delle ansie egoistiche degli altri o, peggio ancora, sotto il dogma inderogabile del dovere sociale.
Infine, c'è chi, guidato da nobili impulsi, – donchisciotteschi, forse - non si arresta di fronte al miasma dell'ipocrisia e dell'abiezione, ma prosegue con fiduciosa semplicità lungo il cammino sterrato della comprensione diretta e totale del prossimo.

In Middlemarch, mi aspettavo - più o meno lecitamente, conoscendone a grandi linee la trama e i temi trattati, vale a dire status delle donne, riforme politiche, religione, vecchie illusioni perse per strada nell'Inghilterra vittoriana - di trovare eroi ed eroine a profusione. Così non è stato, o almeno i miei occhi non hanno rintracciato nulla del genere.
Middlemarch è fatto di donne e uomini "ordinari", che vibrano per uno scopo giusto o cadono sotto il peso di uno scopo sbagliato. È la composta non troppo omogenea delle loro affezioni, dei loro sentimenti, delle loro miserie e nobiltà, del loro procedere vagolando o a passo deciso, delle loro scelte e dei loro destini.
Ciò che li rende differenti gli uni dagli altri è la consistenza delle loro anime, che possono essere vacuamente sbiadite o intense in modo abbacinante.
George Eliot appartiene alla categoria delle anime intense.
Ferisce il lettore, costringendolo a camminare su detriti acuminati di vite andate in frantumi.
Lo galvanizza, facendogli ingollare un concetto in apparenza banale: poiché meschine sono le occasioni della vita, un carattere epico non esige necessariamente una vita che sia un'epopea, difatti "il bene crescente del mondo in parte dipende da azioni prive di storia".
Gli impartisce infine una lezione, spronandolo a non fluttuare nei giorni, a non lasciare che la propria vita languisca stupidamente e irrimediabilmente.

La lettura di Middlemarch, a mio modestissimo parere, richiede una piccola dose di stoica pazienza. Non ha il piglio pronto, il "sound" leggero e l'immediatezza di molte opere a noi contemporanee, e la mole di certo non aiuta. Ciò non toglie che Middlemarch non sia nient'altro che un'opera d'arte. Lo stile superbo, l'evidente impronta balzachiana, lo sguardo mutevole della Eliot - sardonico, benevolo, didascalico, progressista e persino scientifico - fanno di Middlemarch uno dei libri più belli di sempre (figura nella decina di "The Top Ten: Writers Pick Their Favorite Books", testo curato nel 2007 da J. Peder Zane), un "libro magnifico", come ebbe a definirlo la grande Virginia Woolf.

"Noi mortali, uomini e donne, fra l'ora di colazione e quella di cena, ingoiamo molte delusioni; tratteniamo le lacrime e ci facciamo un po' pallidi attorno alle labbra, e per tutta risposta a chi ci chiede qualcosa diciamo: Oh nulla!. L'orgoglio ci aiuta; e l'orgoglio non è male quando ci spinge soltanto a nascondere le nostre ferite – e a non ferire gli altri".

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dani79 Opinione inserita da dani79    21 Febbraio, 2014
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La "buona letteratura" di Mo Yan

Guan Moye è un ragazzo loquace, che ama ascoltare i cantastorie dei mercati locali e che, a sua volta, sa raccontare, arricchendole, le storie narrate da altri.
Un giorno la madre, avvinta dall'ancestrale preoccupazione che tutte le madri nutrono per i figli avvezzi più alle parole che alle cose pratiche, gli chiede: "Come sarai quando sarai grande, figlio? Non è che finirai a chiacchierare per vivere?"
Non a caso, anni più tardi quel ragazzino, ormai divenuto grande, firmerà i suoi libri con lo pseudonimo letterario di Mo Yan, "colui che non desidera parlare". Se il destino di un uomo, quindi, è quello di raccontare delle storie, le sue storie comunque e in qualunque tempo le racconterà. E le racconterà anche in tempo di censura, sfruttandola addirittura affinché abbia - come ebbe occasione di dire, per molti discutibilmente, lo stesso Mo Yan - un "effetto benefico sulla creatività letteraria".
La letteratura cammina su delle gambe giganti, ecco tutto.

In "Sorgo rosso", Mo Yan "il cantastorie" ci incanta con la sua Cina meravigliosa e disperata, stremata dal secondo conflitto cino-giapponese. Ci seduce e ci stupisce con i suoi grandi eroi uomini e donne, i suoi banditi dal sangue caldo, i suoi patrioti, i suoi "bastardi", i suoi diavoli e le sue canaglie; tutti turbolenti, capaci di odio e amore, incredibilmente belli o desolatamente sgraziati, imponenti, bassi, dai denti candidi o gialli, dai visi butterati o lisci come cera; tutti egualmente ansimanti per la gloria; tutti ostinati combattenti "per vendetta, per vendicarsi della vendetta" e per una miriade di altre storie.
Attraverso la sua prosa, a volte dura, spezzata e stridente come sanno essere "i fusti di sorgo toccati dalle punte dei picconi", Mo Yan, senza perdere una sola stilla di realismo, anima e umanizza cani, donnole, volpi, muli, gatti e vegetazione.
Il sorgo, "vasto e uniforme, saggio e dall'aspetto ottuso", è verde, rosso, giallo, splendente, fitto e impietoso, fornisce ricetto ai vivi e ai morti, guarda con occhi che fissano beffardi.
I cani sono sfacciati, impazienti di combattere, ansiosi, cercano anche loro una rivincita sugli uomini, riordinano razionalmente i loro impulsi, "guardano di sottecchi il proprio capo", si guardano "l'un l'altro in tralice con un sorriso furbo sul lungo muso".
Non mancano poi, come nella migliore tradizione orientale, la prossimità fisica e spirituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, possessioni, demoni, superstizioni, monaci e guaritori.

Nell'architettura della storia, nel realismo potente, magico, e nel linguaggio evocativo di Mo Yan sembra di ascoltare, seppur da lontano, le voci di William Faulkner e Gabriel Garcìa Màrquez, due grandissimi della letteratura amati dallo scrittore cinese per il "modo coraggioso e sfrenato in cui creavano nuovi territori nella scrittura" (come lo stesso Mo Yan affermò nella sua lectio magistralis all'Accademia di Svezia).
In ogni caso, nel raccontare le sue storie Mo Yan ha camminato da solo, narrando le vicende del suo popolo coi tempi e coi modi di un sublime cantastorie di mercato.
Sorgo Rosso è un libro imponente, maestoso, un libro di quelli che poche volte nella vita vi capiterà di leggere e al quale farete immancabilmente rimando, usandolo come misura di giudizio, in tutte le storie chiaramente o solo vagamente epiche che incontrerete nel cammino affascinante che ogni lettore percorre felicemente e ostinatamente giorno dopo giorno.
Perfetta simbiosi tra ciò che è tangibile e ciò che solo si può immaginare, "Sorgo rosso" è un caso paradigmatico di "buona letteratura", quella letteratura che, spiega lo stesso Mo Yan, "dovrebbe permettere al lettore di ritrovare se stesso nelle pagine che scorre, dovrebbe suscitare emozioni condivise. La buona letteratura consente allo scrittore di raccontare il proprio mondo emozionale e di esperienze. Allo stesso tempo, rappresentando le storie e l’universo interiore delle persone comuni, è in grado di fondere universalità e particolarità. Può darsi che lo scrittore non se ne renda conto quando prende la penna in mano, ma è qualcosa che accade comunque. Da sé".

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dani79 Opinione inserita da dani79    19 Febbraio, 2014
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Panino al prosciutto

A volte mi capita di entrare in libreria senza ispirazioni e senza un'idea precisa.
In questi casi adopero una tecnica che, per quanto stramba, ritengo infallibile. Mi avvicino agli scaffali con gli autori sistemati in ordine alfabetico e comincio a tirar giù i libri che mi colpiscono, per i colori, per la fattura della copertina, o per chissà che altro. Il più delle volte, infatti, è il solo caso a guidarmi.
Poi apro una pagina qualunque, di solito a metà del libro, e ne leggo non più di dieci righe. A questo punto il gioco è fatto. Se la reazione è di indifferenza, poso il libro immediatamente.
Ma se c'è qualcosa, anche una sola parola, che riesce a stupirmi in qualunque modo, allora procedo spedita. Prendo il libro, rientro a casa, e inizio a leggerlo, praticamente da subito.

Ecco le righe che ho letto di Bukowski, proprio in uno dei miei girovagare senza meta:

"Non mi piaceva nessuno, in quella scuola. Credo che loro lo sapessero. Credo che fosse per quello che mi odiavano. Non mi piaceva come camminavano, come parlavano, non mi piacevano le loro facce, ma d'altra parte non mi piacevano nemmeno mio padre e mia madre. Avevo ancora la sensazione di essere circondato da bianchi spazi vuoti".

È tanta, è densa, è quasi gelatinosa, l'aria bianca che si insinua negli spazi vuoti intorno a Henry Chinaski, detto Hank, nient'altro che l'alter ego letterario, fatto di verità e immaginazione, di Charles Bukowski.
"Panino al prosciutto" è una cronaca spietata, è una sorta di romanzo di formazione, in cui lo scrittore racconta gli anni della sua infanzia e della sua prima giovinezza, mettendosi a nudo oltre ogni pudore.
La storia di Henry/Charles è una storia triste, in cui la disillusione insegue la disperazione, e in questa in fondo finisce per specchiarsi.
Non so quale sia la percentuale di verità contenuta nel racconto di Bukowski, so però che la vita di Henry Chinaski non è stata per niente facile: un'educazione tinta di sadismo, impartita dal padre a colpi di coramella; una madre fondamentalmente poco presente; la sensazione di vivere da reietto, sempre ai margini, a contatto con i bassifondi della vita e della società; un'acne deturpante sul corpo e sul viso, sui quali la gente faceva fatica a trattenere lo sguardo; la magica compagnia dei libri ("le sole voci che mi parlavano"); il rifugio alienante nell'alcol ("bere mi liberava dall'ovvio, e forse se si riusciva a liberarsi spesso dell'ovvio non si finiva col diventare ovvi"); i primi, tutt'altro che romantici, contatti con la sessualità.

Devo dire che Bukoswi è un maestro nel depistare il lettore. Infarcendo di frasi, parole, espressioni scurrili e triviali buona parte delle pagine, crea una sorta di insolente cacofonia che potrebbe indurre chiunque ad abbandonare la lettura, o peggio ancora a giudicarlo soltanto uno "sporcaccione" senza speranza.
Io, personalmente, dei suoi tentativi di depistaggio me ne sono infischiata.
E allora, ho visto tratti di genialità, una sensibilità esasperata che lo porta a rinvenire scintille di vita negli occhi del prossimo, la bianchezza spettrale della sua solitudine, la volontà di non trovare un cliché da adattare alla propria esistenza, uno stile quasi perfetto fatto di frasi schiette e serrate, certamente non frutto di meri esercizi di stile, e alla fine, chiamatemi illusa, sono riuscita a sentirlo quell'uccello azzurro che canta nel petto di Bukowski.

"nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
ma io sono troppo furbo, lo lascio uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
gli dico: lo so che ci sei,
non essere
triste

poi lo rimetto a posto,
ma lui lì dentro un pochino
canta, mica l’ho fatto davvero
morire,
dormiamo insieme
così col nostro
patto segreto
ed è così grazioso da
far piangere
un uomo, ma io non
piango, e
voi?"

(Frammento tratto da "Bluebird", poesia di Charles Bukowski)


Vi lascio, infine, il link ad un cortometraggio di appena due minuti. A parer mio, rende onore all'animo irrimediabilmente insolente, tenero e snervante di quest'uomo tanto discusso e controverso.

http://www.youtube.com/watch?v=jsc3ItAKSLc&feature=youtu.be

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dani79 Opinione inserita da dani79    14 Febbraio, 2014
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Mr Vertigo

Ladies and Gentlemen, meine Damen und Herren, Signore e Signori, Mesdames et Messieurs, osservate il volo del Bambino Prodigio!

Nel maggio del 1927, proprio mentre Charles Augustus Lindbergh compie la prima epica e solitaria traversata aerea dell'Oceano Atlantico, Walter Claireborn Rawley a soli dodici anni sorvola, senza prestidigitazioni e sorretto solo dal suo dono e dalla sua volontà, un piccolo stagno nel Kansas.

Walt è il Bambino Prodigio. È un levitatore di quelli veri, non certo un ciarlatano.
Non crediate però che imparare a volare per lui sia stata una passeggiata; niente di più falso.
Dietro un tale prodigio tre anni di fatica, sudore, panico e talmente tanto terrore da far somigliare l'addestramento al volo a un indimenticabile soggiorno nel budello dell'inferno.
Il tutto sotto la guida di Yehudi, un ebreo ungherese, sarcastico, cortese, appassionato di Spinoza, maestro di volo e di vita per il piccolo Walt.
Leggendo questo libro, crederete come me che Walt Rawley sia realmente esistito, che il bambino "più piccolo, più sozzo, l'ultimo dei miserabili di Sant Louis" abbia davvero raggiunto la fama levitando a qualche palmo e più da terra, che abbia poi sperimentato di nuovo la vita " normale" e si sia rialzato sulle proprie gambe.

Inizialmente, forse perché reduce dalla lettura de "Il Libro delle Illusioni", altra opera indimenticabile di Auster, mi convinsi che anche in Mr. Vertigo lo scrittore statunitense volesse puntare tutto sull'illusione di costruire una vita indimenticabile, destinata a non scolorire mai nella mente, nei ricordi e nelle parole degli altri.
Alla fine, ho dovuto ricredermi e abbandonare le suggestioni iniziali.
In Mr Vertigo non ci sono illusioni. Tutto è tremendamente reale: è reale la terra con i suoi pericoli e le sue ombre, ed è reale l'aria minata di insidie e gravità.
Ogni luce ha un'ombra, e a questa verità è impossibile sfuggire.
Lo stesso Auster ci dice che volare non è poi così difficile e si può cadere stando a mezz'aria, così come si può ruzzolare stando con i piedi per terra.
In qualunque modo e in qualunque momento ci si ritrovi a terra, ovviare ad una vita abietta è comunque possibile ed è inutile lambiccarsi il cervello, la soluzione è semplice e scontata: conservare la propria Dignità sempre, anche quando è il far della notte a sorprendere.
E poi, aver provato quella cosa straordinaria che si chiama Vertigine, l'averla avvertita anche solo per un attimo vuol dire che abbiamo avuto il coraggio di spingerci oltre. E questo è più che sufficiente per rendere mirabile la nostra esistenza.

Credetemi, difficilmente riuscirete a dimenticare mamma Sioux che sorride come il sole, l'intelligenza vispa e giusta di Esopo, la rilassatezza di Mrs Witherspoon e le sue continue sorprese, le parole spesse come tronchi di albero secolari del maestro Yehudi, e Walt che in fondo non ha paura di niente, né di volare, né di cadere.

Se non lo avete già fatto, date un'opportunità a Paul Auster. La sua penna morbida, raffinata e ironica vi stupirà suggerendovi una caterva di emozioni, esaltandovi e facendovi persino sognare un po'.
Il che non guasta mai.

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Il libro delle illusioni, di Paul Auster
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dani79 Opinione inserita da dani79    12 Dicembre, 2013
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Un alieno un po' Icaro, un po' Tremotino

Vi sono alcuni scrittori talmente votati alla storia che raccontano da sparirvi completamente. Il lettore penserà alla storia e a questa soltanto. Lo scrittore per lui sarà l'autore, ma non l'uomo.
Altri scrittori, in uno slancio profondo di altruismo verso il lettore, si lasciano percepire parola dopo parola, pagina dopo pagina. Questi sono gli scrittori "empatici", quelli che non riescono a lasciare il lettore solo con la storia che raccontano, quelli che stabiliscono il contatto, la magica alchimia dell'affezione che lega il lettore allo scrittore, oltre che alla storia.
Walter Tevis è uno scrittore "empatico", entra nei libri che scrive, mostra attraverso le parole, senza ingombranti velature, ciò che è.
Userò pochissime righe per riportarvi una storia che può dare l'idea della personalità di Tevis. L'episodio è notissimo, viene citato migliaia di volte: Walter Stone Tevis se ne sta seduto, col capo inclinato, il sorriso gentile e grandi occhiali dalle lenti spesse - così, almeno, lo immagino guardando le raffigurazioni del suo volto -, come uno studente qualsiasi, in una classe di un corso universitario per aspiranti scrittori, l'Iowa Writers' Workshop.
L'oratore, il poeta americano Donald Justice, lo riconosce tra gli uditori e strabuzza gli occhi: grande probabilmente è la sua meraviglia nel constatare che il grande e già noto Tevis è lì, umile, in silenzio, ad ascoltare la sua lezione.
Tevis, che per gran parte della sua vita ebbe poca fiducia nel proprio talento, con "L'uomo che cadde sulla Terra" crea un capolavoro in cui si leggono solitudine, frustrazione, gracilità e incertezza di illusioni perdute.
"The Man Who Fell to Earth" è considerato un libro cult della letteratura di fantascienza, una mosca bianca che imperturbabilmente ha resistito alle ingiurie del tempo. Non è ridicolo, non è banale, non è obsoleto, è anzi straordinariamente irresistibile.
Non è però, stricto sensu, un libro di fantascienza, o meglio lo è se ci si ferma ad un'osservazione meramente superficiale. Squarciato l'involucro costituito da pianeti, navicelle e vitree comunicazioni aliene, si rinvengono i tratti di un romanzo anche psicologico, per alcuni versi politico, per altri dolorosamente esistenziale. Saranno difatti così fragili, disperate e a volte contorte le interiorità dei personaggi che, ad ogni loro incespicare nei fatti della vita, il lettore avrà la sensazione di un sordo dolore nel petto.
Thomas Jerome Newton – immediato è il rimando al noto Isaac e alla sua celebre mela - è l'"Uomo" che dopo un'accurata e lunga preparazione lascia, a bordo di una navicella monoposto, il proprio pianeta Anthea e "cade" sulla Terra per compiere, come un novello eroe mitologico, la sua missione.
Newton è un individuo strambo, dall'ossatura fragile, alto e leggero, che soffre tremendamente della gravità terrestre, simile nel corpo ad un delicatissimo uccellino e due volte più intelligente degli umani che spesso definisce simili a scimmie bugiarde, autolesioniste, presuntuose e stupide. Nondimeno, col tempo proverà per alcuni di loro un senso di affezione e sentirà che gli sono tremendamente somiglianti: "E io cosa sono, pensò, se non un pauroso edonista autolesionista?"
La parabola dell'Icaro alieno – umano, troppo umano, per dirla alla Nietzsche - che annega la propria tremenda solitudine di uomo/extraterrestre in una miserabile mistura di gin e angostura, forse ormai rassegnato ad una "vita di quieta disperazione", è struggente, emozionante, empatica.
Un giorno di se stesso Tevis disse: "sono un bravo scrittore americano di secondo livello". Fortunatamente il suo stesso oggettivo, incommensurabile talento e il tempo hanno smentito quest'affermazione, sigillo di una dolorosa, tormentata, straordinaria umiltà.

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dani79 Opinione inserita da dani79    23 Ottobre, 2013
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SETA

Dare presenza fisica alle parole.
Da lettrice credo che questo voglia dire "scrivere".
Lasciare che il lettore senza sforzo traduca le parole fuori dal foglio, quasi a percepirle, toccarle, odorarle. Questo è il compito dello scrittore.
Ed è un compito che Baricco, in "Seta", svolge egregiamente.
Fa uso delle parole così come un compositore fa uso delle note. Ne conosce a menadito le potenzialità sonore e le sfrutta a servizio e vantaggio della storia e del suo ego che, evidentemente, c'è ed è amabilmente ingombrante.
Chiama il protagonista del suo libro Hervé Joncour. Gli dà una moglie dalla voce bellissima, Hélène, e nessun figlio. Lo fornisce dell'indole di quelli che "osservano il loro destino nel modo in cui, i più, sono soliti osservare una giornata di pioggia" e tuttavia lo rende quasi eroico spingendolo ad acquistare i bachi da seta oltre il Mediterraneo "fino alla fine del mondo", fino al Giappone.
" Hervé Joncour provò a raccontare chi era. […]
Allineava piccoli particolari e cruciali eventi con voce uguale e gesti appena accennati, mimando l'ipnotica andatura, malinconica e neutrale, di un catalogo di oggetti scampati a un incendio."

Col suo racconto, delicato e trasparente come un pannello di carta di riso, in poco più di un'ora di lettura, Baricco sorprende, scuote e commuove.
Cito, infine, le arcinote parole di Salinger, tratte da "Il giovane Holden": "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira."
Ebbene, Baricco, a dispetto della sua fama di "scrittore alla moda", lascia proprio senza fiato e questa è una cosa che, ahimè, non capita spesso.

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dani79 Opinione inserita da dani79    07 Ottobre, 2013
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Il sogno di Alice

Nell'aggirarmi con aria trasognata tra gli scaffali della mia libreria preferita, ormai totalmente inebriata dal profumo tanto rilassante della carta, ecco che una copertina tutta viola e rosa conquista a tutta prima i miei occhi per poi dirigersi spedita verso il cervello, il quale, stimolato dal tripudio dei colori graditi alla più parte del popolo femminile, imprime la sua forza propulsiva alla mano che, ringalluzzita, cattura il libro.
La caccia è finita.
Leggo finalmente il titolo: "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie".
"Un libro da bambini? Va bene lo stesso, non mi farà certo male!", penso.
E male non ha fatto, anzi mi ha sorpreso moltissimo.
Lewis Carroll mette giù una favola colta in cui è impossibile rintracciare un senso o una morale e purtuttavia, giunto alla fine della lettura, pensi di avere comunque imparato qualcosa.
La storia è avvincente, i continui cambiamenti di scenario fan sì che non abbia niente da invidiare, quanto a ritmo, ai moderni thriller che ti trascinano, quasi privandoti della volontà, da una pagina all'altra.
La protagonista, come è noto, è una bambinetta di nome Alice, carina, ben educata, di buona famiglia (L'istitutrice […] Se non si ricordasse il mio nome, mi chiamerebbe "Signorina", come fanno le persone di servizio), con una gran massa di capelli in testa, che, in un sogno-non sogno, si trova a relazionarsi con personaggi per lo più scorbutici e grotteschi per i quali lei stessa è un mostro di cui solo si vociferava la leggendaria esistenza.
"Cosa… è… questa?[…]
È una bambina! […]
Avevo sempre creduto che fossero dei mostri leggendari!, disse l'unicorno […]"

Segnatamente le avventure di Alice sono raccolte in due libri entrambi contenuti nell'edizione Oscar Mondadori, quella che io ho letto. L'uno è per l'appunto "Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie", l'altro è "Attraverso lo specchio", due libri quasi complementari in cui dominano in uno le carte, nell'altro gli scacchi.
Fondamentale apporto al fascino della storia viene conferito dalla pregevoli illustrazioni di John Tenniel.
Unica pecca, averlo letto in italiano. Purtroppo nella trasposizione dall'inglese inevitabilmente molti "bisticci linguistici", schemi metrici e assonanze vengono a perdersi.
Utilissime in questo senso le bellissime note, in calce al libro, del traduttore Masolino d'Amico.
Non ho letto da bambina questo libro perché in verità il film e il cartone non mi erano un granché graditi.
Sono contenta comunque di aver incontrato Carroll, "principe del nonsense" e specialista di problemi matematici, almeno da adulta. Ho potuto apprezzarlo pienamente nel suo genio e nel suo estro.
Consiglio di leggerlo perché sognare, in genere, fa bene e poi chi può giurare, come Carroll insegna, che questa realtà non sia anch'essa soltanto un sogno?

"Eternamente scivolando lungo la corrente…
Indugiando nell'aureo bagliore…
Che cosa è la vita se non un sogno?"

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Romanzi
 
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dani79 Opinione inserita da dani79    27 Agosto, 2013
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Manga Dream

"High and dry. Primo amore" è un comfort book, un libro da leggere quando fuori, o dentro di noi, impazza la tempesta, e vento e pioggia tamburellano incessantemente sul vetro sottile di una finestra.
È un libro di sentimenti, colori e scintillii che, senza ricorrere a disagevoli inquietudini o a parossismi sentimentali, capta saldamente anima e cuore del lettore.
I personaggi di Banana Yoshimoto sono dotati di un'essenza quasi evanescente, in stabile equilibrio tra il mondo reale, che appartiene a tutti, e il mondo irreale, che solo alcune sottili sensibilità riescono a percepire e inglobare.
Ancora una volta protagonista di questo breve componimento, dalla struttura narrativa pregevole e non tradizionale, è una ragazzina adolescente, Yuko, che vive, attraverso le sfumature rarefatte della sua personalità riflessiva, sensibile e magicamene lungimirante, la malinconia delle assenze, il primo turbamento amoroso, l'affettività dolorosa e splendida che lega i figli ai genitori.
La semplicità della storia, come disegnata dalla Yoshimoto, e la leggerezza dello stile potrebbero indurre il lettore a considerarla una scrittrice banale, di second'ordine. In realtà vi sono una luce e un'autorità in ciò che scrive, e in come lo scrive, da renderla a tutti gli effetti un talento unico e memorabile.
Giorgio Amitrano, orientalista e traduttore, nella postfazione di "Kitchen", altro celebre romanzo della Yoshimoto, ha scritto di lei: "Il sapore particolare dello stile della Yoshimoto, con la combinazione di ingenuità e sicurezza che si ritrova in tutti i suoi libri, è già nella disinvoltura consumata con cui manipola i generi …. e somministra i colpi di scena senza paura di scadere nel melodramma, anzi giocando a sfiorarlo con libertà da professionista."
"High and Dry " è un libro che consiglio di leggere a chi vuole passeggiare per un po' in un mondo ovattato dove urla, stridori o livori vengono banditi a favore di consistenti sfumature di magia, tenerezza e poesia.

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dani79 Opinione inserita da dani79    21 Agosto, 2013
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Asylum

Le pennellate vigorose, cupe e melodrammatiche di Pierre Soulages sulla copertina dell'ultima edizione di "Follia" sono la più fedele rappresentazione delle impalcature mentali di Stella, protagonista di questo romanzo psicologico dell'universalmente osannato McGrath.
Stella, bella nell'aspetto, moglie di psichiatra criminale e madre di un bimbo di appena dieci anni, è incardinata nei ranghi di un'esistenza in apparenza risolta quando, nella calda estate del 1959, decide di rompere gli argini dell'ordinarietà. E lo fa nel modo più sconvolgente. Ingaggia una relazione passionale di natura ossessiva con un criminale uxoricida, Edgar Stark, uomo intelligente, astuto, dalla "vitalità animale", stimato scultore, completamente schiavo della sua arte e della sua follia.
Il marito di Stella, Max Raphael, uomo votato alla carriera e dalla madre ingombrante, è il vicedirettore della struttura manicomiale inglese che ospita Stark. A narrare le drammatiche e distruttive vicende della protagonista, distorta paladina della libertà di scelta, è la benevola voce di Peter Cleave, anch'egli psichiatra nel medesimo ospedale, che segue personalmente Stark ("era uno dei miei" ripete più volte nel corso della narrazione).
L'ambientazione scelta da MacGrath è austera come solo può esserlo una struttura manicomiale criminale costruita seguendo le lineari regole architettoniche vittoriane, "un'architettura morale, che esprime regolarità, disciplina e organizzazione". È contro questa pulizia di luoghi e di intenti, contro l'asfissiante disciplina sociale che Stella decide di stagliarsi in favore del disordine, dell'emotività esasperata, dell'azzardo e perfino dell'anaffettività. La moglie e madre decide di non brillare di luce riflessa, ma di far onore al suo nome, Stella appunto, e splendere di una propria torbida lucidità.
E allora sceglie la sua temeraria ossessione anche a costo di subirne lo squallore:
"basta stare in un lurido buco e guardarsi allo specchio per vedere qualcosa di altrettanto lurido, e cominciare a comportarsi di conseguenza."
"Follia", il cui titolo originale è "Asylum", termine ambivalente (rifugio e manicomio) e dalla sonorità inquietante, è un romanzo a strati, in cui i ruoli si capovolgono, in cui la voce del forte si fa flebile e il debole mostra un vigore inaspettato e in cui persino la voce narrante procede quietamente come un corso d'acqua sotterraneo per poi riemergere in superficie con sconvolgente e propulsiva ambiguità. E così l' incipit, in apparenza banale, "le storie d'amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni" assume man mano che gli eventi ci vengono mostrati, attraverso lo sguardo a volte "svagato" di Peter Cleave, una pregnanza tutta nuova.
Lo stile di MacGrath è sicuramente accattivante. La costruzione del personaggio di Stella quale campione di ostinazione, se si riesce a porre resistenza alla naturale forza ammaliatrice di MacGrath, viene fuori nitidamente così come le considerazioni del lettore su sentimenti, famiglie e loro simulacri, vite a-normali o folli, e sulla psichiatria, guest star del libro.
Una buona lettura. Da consigliare, indubbiamente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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dani79 Opinione inserita da dani79    10 Agosto, 2013
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La cognizione del dolore

"Guardai in fondo al pozzo. Non c'era la luna, quella che desideravo. Dorata, illusoria, suadente.
Contemporaneamente guardai dentro il mio animo. Complessivamente era la stessa cosa. In entrambi i casi, non vedevo il fondo. Era tutto buio."

Delle parole usate nelle 170 pagine di questo romanzo giallo di Bruno Elpis nessuna è superflua, sono tutte egualmente necessarie per comporre la miscela perfettamente calibrata di lirismo descrittivo e suggestione psicologica che avvince il lettore in un plot coinvolgente dall'inizio alla fine.
La storia si dipana ordinatamente seguendo i canoni classici del giallo, senza cedimenti e senza sbavature.
I ritmi non sono certamente quelli serrati propri di molti thriller di fattura soprattutto americana o nordeuropea. Ciò nonostante, Elpis riesce ad esercitare una grande fascinazione sul lettore. La narrazione procede di pari passo con l'indole del protagonista, il commissario Giordàn, uomo riflessivo, solitario, contemplativo, che si avvale della pesca e dei suggerimenti arguti della giovane nipote per giungere alla risoluzione dei casi.
La scrittura è piacevole, colta senza mai essere affettata o artificiosa. La cifra stilistica di Elpis, perfetta coniugazione di prosa e poesia, si rivela originale e, quindi, facilmente riconoscibile.
"Il carnevale dei delitti" è un libro che lascia dietro di sé una profonda scia emotiva ed è questo, a mio avviso, il maggiore merito dell'abilità creativa di Elpis.
Inquietante è l'oscurità emotiva in cui l'assassino si muove con passo deciso, senza brancolare mai, verso un unico intendimento, vendicare la sua sorte attraverso un disegno fatto di maschere e fiabe. Al lettore è dato vedere il punto di vista dell'omicida, i suoi lividi affettivi, il suo dolore psichico e fisico, entrambi egualmente consistenti, ed infine il male che, nella sua mente, da larva diviene progetto, imbastitura di una fiaba sinistra.
Elpis riesce a disegnare egregiamente l'oscuro stigma dell'assassino, la sua profonda cognizione del dolore, la sua resistenza ossessiva alle ferite della vita, il dualismo flessibile della sua mente:
"I miei occhi ora sprigionavano un delirio di onnipotenza e lampeggiavano schizofrenici, scomponendo il mio animo dimidiato in due polarità contrapposte.
Il bene, che era il mio desiderio.
E il male, che corrispondeva alla realtà circostante."
Ed è con quest'animo paurosamente e dolorosamente disarticolato che l'assassino agirà, seguendo un folle piano purificatore, per realizzare il suo disegno di vendetta circolare.

Quest'ottimo e mai banale romanzo è il primo episodio di una trilogia. Spero vivamente che gli altri due vengano pubblicati al più presto. Io, personalmente, sto ad aspettare.

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Fantasy
 
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dani79 Opinione inserita da dani79    25 Luglio, 2013
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Chi legge "Lo Hobbit" trova un tesssoro....

Sono appena scoccate le otto della sera. Un bambino ha cenato, ha indossato il suo pigiamino preferito, e adesso è a letto, coperto sino alla testa da un leggero lenzuolo a quadretti. Ben nascosto dalla sua tenda improvvisata tiene Lo Hobbit nella mano destra e con la sinistra brandisce una torcia. È così che immagino il piccolo lettore di questa favola meravigliosa, epica, mitologica. È in quel bambino che mi sono trasformata per qualche sera e per qualche ora. Tolkien è un narratore eccezionale, con la sua scrittura semplice e accessibile porta il lettore dentro l'avventura, lo fa marciare coi nani, sentire odore di elfi e volare con le aquile, gli fa avvertire la paura, il sollievo e il senso della vittoria, e infine gli fa dono del regalo più bello di tutte le favole, vale a dire la morale perfetta che non si impone e non terrorizza.
Tolkien, con maestria espressiva e abilità stilistiche senza eguali, ci dice che un uomo normale può essere chiamato a fare scelte eccezionali, e non è destinato sempre alla sconfitta perché seguire l'avventura, che tu sia uomo, elfo, nano, o una qualunque altra straordinaria creatura, può rivelarsi meraviglioso e farti scoprire ciò che non credevi di essere, migliore di quanto credevi perché sei stato leale e hai scelto il bene sempre, anche quando gli altri non potevano vederti.
Buona avventura a tutti!

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dani79 Opinione inserita da dani79    09 Luglio, 2013
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Volti e risvolti di un geniale tamburino

Credo che leggere un libro equivalga a salire uno ad uno i gradini di una scala. Ogni nuovo libro letto può farti avanzare di uno o più gradini, o farti rimanere lì fermo dove già eri. Nessun libro può farti scendere perché, citando lo stesso Grass, "anche i cattivi libri sono libri e perciò sacri".
Il Tamburo di latta è un libro, per ciò solo è sacro, e non è un cattivo libro. Tutt'altro, è un libro di una bellezza grandiosa e grottesca allo stesso tempo. Leggerlo può farti salire un'intera rampa di scale.
La scrittura è geniale. Magistrali sono la naturalezza con cui Grass passa dalla prima alla terza persona e la capacità di rendere il movimento delle parole, che si rincorrono e si arrestano, all'interno delle frasi.
La storia è carica di simbolismi. Il romanzo è allegorico e a tratti surreale. Protagonista è Oskar, il tamburino che dai tre anni in poi decide di non crescere più di un dito rimanendo il treenne " che tutti gli adulti sormontavano e che agli adulti sarebbe stato tanto superiore, che non voleva misurare la propria ombra con la loro ombra, che dentro e fuori era perfettamente compiuto". Oskar non ha bisogno di sperimentare le cose del mondo per conoscerle. Lui, grazie alla sua intelligenza prodigiosa ben celata agli adulti, già le conosce e in ciò che vede non fa che trovarne conferma. Osserva gli adulti dal basso, dalla sua prospettiva lillipuziana ne scruta i demeriti, le falsità e le ipocrisie. È dotato di una voce adamantina e vetricida che, insieme al ritmo che impone al suo tamburo laccato bianco e rosso, usa per esprimere la sua anarchica ribellione al mondo abnorme e assurdo degli adulti. Quando dopo anni Oskar si risolverà nel riprendere la propria crescita fisica, questa sarà lenta e dolorosa e lo lascerà comunque deforme e gibboso. Probabilmente la storia di Oskar rappresenta il destino e la storia della Germania nazista, sicuramente Grass con la sua favola nera ci ha fatto vedere la storia dal basso, ci ha mostrato i facili entusiasmi giovanili, le seduzioni del malvagio, le bruttezze e le nefandezze che tutte insieme hanno segnato l'esibizione di un periodo storico mistico, terribile e barbaro.

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dani79 Opinione inserita da dani79    14 Giugno, 2013
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Il romanzo di una geisha

Le parole di questo libro scorrono nella mente decise e leggere come le acque di un fiume. Raccontano una storia con gli occhi di chi l'ha vissuta regalando al lettore immagini e suggestioni di un mondo lontano, per alcuni versi oscuro, per altri incantevole. È il libro che tutti vorrebbero leggere, che lasci sul comodino la notte e i cui personaggi si insinuano delicatamente nei tuoi pensieri durante il giorno. Forse non è un capolavoro e non è sicuramente il libro migliore che abbia mai letto, ma fa quello che deve fare un libro, ti regala esperienze e ti fa pensare.

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