Opinione scritta da Ale96
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Una Versailles più intima
Versailles rappresenta un punto nevralgico della cultura, della storia, della politica e dell'economia francese. Tesoro d'arte e gioiello della politica assolutistica del Roi Soleil, la corte di Versailles si impone come arbiter elegantiae del gusto barocco e rococò, divenendo ben presto il modello per tutte le altre monarchie europee. I suoi fastosi saloni divengono il teatro di straordinari ricevimenti e dello scorrere imponente della storia: dai solenni balli dell'Ancien Régime al furore dei rivoluzionari francesi, dalla nascita e dal tracollo del Secondo Reich che si svolgono qua nel 1870 e nel 1918 ai summit presidenziali della Quinta Repubblica. Attraversare la celeberrima Galleria degli Specchi significa immergersi nei flutti trionfali e tragici della storia europea e mondiale. Proprio per questo lo Chateau de Versailles rappresenta uno dei cuori pulsanti del turismo francese: è l'accesso alla grandeur della nazione di Molière,Voltaire, Hugo e Proust.
Tuttavia non bisogna dimenticare che oltre i magnifici saloni della reggia si staglia quella presenza immobile e placida senza la quale svanirebbe l'atmosfera che incanta ogni giorno milioni di turisti ed è il parco. I boschetti di Le Nôtre costruiti con riga e compasso, gli spettacoli ottici delle fontane barocche, i sinuosi sentieri del Petit Trianon divengono lo scenario in cui si affiancano e intrecciano storie di regine, amanti, guerrieri ma anche visitatori di tutti i giorni, amanti dell'aria aperta che ogni giorno rinnovano l'incanto dell'eternità. E per rendere omaggio a questa Versailles più intima e quotidiana che il capo giardiniere del parco Alain Baraton ha pubblicato questo libretto in cui trattazione scientifica, autobiografia ed elegia si mescolano regalandoci visioni, inquadrature ed angolazioni del tutto inedite.
La narrazione parte da un evento traumatico: la terribile tempesta che il 26 dicembre 1999 sradicò più di 18.000 alberi. Tra i primi ad assistere a questa catastrofe è uno sconvolto Alain Baraton che vede il parco a cui da venti anni sacrifica tutto se stesso ferito nel profondo. Però lo sconforto lascia ben presto lo spazio al coraggio e alla forza con cui i giardinieri della reggia con l'aiuto dei militari e del governo sono riusciti a ridare vita a uno dei gioielli del patrimonio nazionale francese. Proprio per valorizzare questo polmone verde di Versailles che Baraton ci offre tutti i suoi numerosi anni di esperienza, tratteggiando con delicate tinte pastello aneddoti, curiosità, episodi della Versailles di tutti i giorni, della sua Versailles. Dalla rievocazione delle scenografiche coreografie organizzate da Luigi XIV per gettare l'aristocrazia nella prigione dorata dell'etichetta e del cerimoniale alle storie delle due gentildonne inglesi che agli inizi del XX secolo si erano perse nel parco ed erano finite, a quanto dicevano, indietro nel tempo alla corte di Maria Antonietta, l'autore con umiltà, ironia e accuratezza nei dettagli rievoca le tante persone che la storia ha messo da parte ma senza le quali oggi non ci sarebbe Versailles, come il giardiniere Richard che riuscì a preservare il parco dal progetto della Convenzione di dividerlo e venderlo in orti oppure di La Quintinie che rivoluzionò ne la coltura delle primizie e della frutta di stagione per poter rallegrare per tutto l'anno la tavola del Re Sole
Alain Baraton ci racconta con uno stile semplice, intimo e delicato le bellezze più sottili che il parco presenta ma anche la gioia della vita di giardiniere e l'evoluzione dei segreti del mestiere nell'ultimo quarto di secolo per donarci un quadro appassionato,vivo di un luogo che è riuscito a sostenere i colpi della storia dalla rivoluzione agli attentati terroristici, un luogo originato dalla Natura e che solo la Natura potrà disfare. Buona lettura!
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Il vuoto dell'esistenza
La donna entra nella piccola camera. Nell'odore ancora denso di tabacco gli schiamazzi e le risate della festa si dissolvono in una eco lontana. La notizia di quel suicidio, nella sua sconcertante e ordinaria banalità, l'ha colpita. Il perché di una tale azione ferma per un istante il suo vorticoso andare di feste e ricevimenti. La sacerdotessa della mondanità si ferma e guarda fuori dalla finestra. Come mai non ha mai scambiato una parola con l'anziana signora della casa di fronte?
Ecco. Per la prima volta tutta la sua vita assume un senso. Gli errori, le stupidaggini, le rinunce, i rimorsi di 53 anni di esistenza si fanno sentire tutti insieme non come un macigno ma con una chiarezza allucinante. Hanno finalmente un senso. Il suo incessante e frenetico movimento non diviene altro che un brancolare nella fitta nebbia di Westminster fino agli ultimi rintocchi del Big Ben. I minuti, le ore, i giorni scorrono come sabbia tra le dita ma noi continuiamo a rimandare, a illuderci di essere padroni di chi in realtà ci domina. Perché abbiamo paura del nostro destino? Perché disprezziamo quella che resta l'unica nostra certezza? Non siamo altro che polvere e ombra che danza fino all'abbraccio della morte. Quel suicidio non è un atto di follia ma è estremo atto di coraggio e di abnegazione verso i flutti del tempo. Forte di questa verità, forte di questa riconquistata fiducia, la donna si alza e torna alla sua festa. Così Clarissa Dalloway tornò alla sua vita di tutti i giorni.
“La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei”. Con questa semplice frase si apre una delle più lunghe ed affascinanti giornate della letteratura mondiale: il 13 giugno 1923. Armata di cappotto, alle 10 la rispettabilissima Mrs Dalloway lascia l'elegante dimora a Westminster per recarsi al fioraio di Bond Street. Un cielo terso velato da una tremola foschia accompagna questa conosciuta dama dell'alta società londinese che ha donato tutta se stessa nella scalata dello status sociale.
Mentre i passi avanzano per lo scivoloso marciapiede, tempo e spazio cominciano a confondersi, a dilatarsi nei sentieri tortuosi della memoria in cui riaffiorano le trame dei ricordi, delle amicizie di gioventù, delle esitazioni e dei sacrifici che l'hanno portata a essere una donna agiata e terribilmente sola. Così mentre il pensiero si invola lontano, la cara Mrs Dalloway non si accorge dei tanti volti che le passano accanto. Storie di successo, di povertà, di dolore, di mediocrità la sfiorano e tra di esse emerge quella di Septimus Warren Smith, giovane poeta reduce dalla Grande guerra affetto da allucinazioni da “schell shock” (trauma da esplosione). Due individui apparentemente inconciliabili ma incredibilmente affini: entrambi soli, entrambi dotati della capacità di comprendere la realtà dietro il fenomeno...
Da una trama evanescente che procede per intermittenze Virginia Woolf ha creato un'opera estremamente complessa, dai svariati piani di lettura.
Autobiografico: l'amata casa al mare di Clarissa a Bourton è l'amata casa al mare di Virginia in Cornovaglia e il male di vivere di Septimus è il male di vivere di Virginia.
Filosofico-esistenziale: La signora Dalloway è un romanzo sull'ambiguità di spazio e tempo, è una riflessione sull'irrealtà del reale che, nella sua irrequietezza, travolge l'uomo nella tempesta dei fenomeni e lo annega nella frenetiche onde della gioia e della sofferenza.
Storico-sociale: Virginia Woolf demolisce pezzo per pezzo la società inglese del primo dopoguerra, una waste land attraversata da ipocrisie e crudeltà.
Stilistico: l'autrice dà vita ad un'opera lirica, malinconica da leggere con le lenti dell'emozione e del sentimento, non della razionalità. Bisogna lasciarsi andare allo scorrere morbido e delicato di ricordi,immagini e allegorie e al susseguirsi dei preziosi cammei che rendono la narrazione unica. Il flusso di coscienza diviene il polo catalizzatore di un caleidoscopio di vite, intrecciate da fili sottili, impercettibili come le volute di un aereo o il correre di una bambina a Regent's Park. Buona lettura!
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Tutto diviene il contrario di tutto
11 maggio 1960: a Suarez, periferia di Buenos Aires, Ricardo Klement, operaio, viene rapito dai servizi segreti israeliani e tradotto in carcere a Gerusalemme. Perché Israele ha violato la sovranità dello stato argentino per rapire un anonimo lavoratore immigrato? Perché Ricardo Klement non è mai esistito. Dietro quel nome si nasconde Adolf Eichmann, membro dell' RSHA (Ufficio centrale sicurezza del Reich, un organo che aveva accorpato SS e Gestapo), esperto di questioni ebraiche, che ha avuto un ruolo rilevante nella attuazione pratica della Soluzione Finale e il cui nome era apparso regolarmente negli atti del famoso processo di Norimberga.
15 dicembre 1961: dopo un processo di ben centoventuno udienze, che si era protratto per mesi perché il pubblico ministero Haustner ( e il primo ministro israeliano) voleva concentrare l'attenzione del pubblico sullo sterminio degli ebrei tout court più che sui singoli crimini dell'imputato, viene emessa la sentenza di morte della corte.
31 maggio 1962: emessa la sentenza definitiva della Corte suprema e respinta la richiesta di grazia da parte del primo ministro, Adolf Eichmann viene frettolosamente impiccato.
1963: la filosofa tedesca Hannah Arendt, inviata del New Yorker al processo Eichmann, pubblica un'opera che, benché inondata e sommersa da pesanti critiche, presto si impone nel panorama internazionale fino a diventare un classico della riflessione sull'orrore del XX secolo: “Eichmann in Jerusalem:A Report on the Banality of Evil”
Adolf Eichmann è un uomo mediocre nato in Austria da una famiglia benestante. Studente pigro, lavoratore ancor più pigro, trova un'occupazione stabile grazie ai parenti ebrei della matrigna ma ben presto si stufa. Uomo privo di idee proprie, fanfarone che va avanti con frasi fatte e conformismo, su consiglio di un amico, entra nel 1932 nel partito nazista senza conoscerne l'ideologia e successivamente nel Servizio di Sicurezza delle SS, specializzandosi in questioni ebraiche ed espulsioni. Ben presto fa carriera, diviene tenente-colonnello (grado non eccezionale) e capo della sottosezione IV-B-4 dell' RSHA “Affari Ebraici, espulsione ed evacuazione”. Quando nel 1941 Hitler procede alla Soluzione Finale della questione ebraica, ovvero allo sterminio fisico, Eichmann diviene una rotella abbastanza importante della grande macchina burocratica. È lui che organizza la deportazione degli ebrei del Reich e dei territori conquistati nei vari campi di concentramento e si occupa dei rapporti con i vari consigli ebraici. Infatti, nel momento di annessione di un territorio, i nazisti entravano in contatto con questi consigli i cui funzionari trattati con i bianchi guanti distribuivano le stelle di David e redigevano l'elenco dei deportati, consegnavano cioè i loro fratelli al macello. Eichmann, “cittadino ligio alla legge” smanioso di promozioni, mostrò in questo suo lavoro grande zelo che non calò neppure alla fine.
Quello che emerge dall' argomentazione approfondita e serrata della Harendt è il ritratto non di una bestia inumana, sadica e perversa, inebriata dal sangue e dall'orrore, ma di un uomo normale. È propria la sua normalità a fare paura: Eichmann è un grigio burocrate privo di di iniziativa, di spessore culturale e morale. Non odiava affatto gli ebrei e non riusciva nemmeno a entrare in un campo di concentramento e ad avvicinarsi ad una camera a gas. Era interessato solo a statistiche, rapporti e avanzamenti di carriera e non si preoccupava che dietro quei numeri vi erano 5 milioni di ebrei massacrati. E la sua coscienza? Mai toccata da una crisi perché quando sei circondato dal crimine non ci fai più caso. Nel Terzo Reich l'illegalità era divenuta legalità, l'ammazzare il comandamento. Il bianco era passato per nero, e il nero per bianco e il criminale divenne un automa, inconsapevole del proprio crimine. Il male è banale e per questo più terribile: un uomo mostruoso e demoniaco non sarà mai imitato mentre c'è empatia con un uomo uguale a noi. In futuro la probabilità di un altro genocidio peggiore del proprio precedente è alta perché i servitori del male sono del tutto simili al nostro vicino di casa, ai nostri parenti, ai nostri amici, a noi stessi.
La banalità del male è un'opera densa, piena, complessa che ci svela l'enorme ragnatela del Terzo Reich, lo spirito di una nazione in cui il totalitarismo aveva fatto del paradosso la legge, della follia la normalità, senza che l'autrice si discosti mai dal processo, da Eichmann, dalla Corte. Buona lettura!
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Eros e Thanatos
Un cielo plumbeo ricopre Venezia. La città sospesa sul mare, tra sogno e realtà, dalla“bellezza adescatrice ed equivoca” è soffocata da una coltre rorida di malattia e di infezione. Le acque melmose della laguna ribollono, emanando un tanfo pestifero. Dalle finestre moresche delle facciate fuggono sospiri commisti all'odore pesante dell'acido felico. Pochi turisti passeggiano per piazza San Marco: mirano i colombi in volo ignari del morbo che le calli, i rii, i canali nascondono. Un mare grigio, debole, inerte sfiora la vuota spiaggia del Lido senza forze. Solo sporadici brividi di spuma.
Ecco! La funerea, lugubre gondola fa il suo ingresso sul Gran Canale. Lo attraversa lenta, solenne, inesorabile. Attracca. Una figura scura scende. I veli fittamente ricamati creano minacciose figure mosse da una gelida folata di vento (strano, siamo a maggio). Inizia la danza delle spade, sinuosa, muta e terribile. La dama senza volto non ha pietà, non risparmia nessuno. Il suo morbido bacio rappresenta la fine, è l'oblio che eterna la scomparsa. La Morte è a Venezia.
“Gustav Aschenbach, ovvero von Aschenbach (questo era diventato il suo nome ufficiale dal giorno del cinquantesimo compleanno),” è un celebre scrittore della Bassa Slesia, conosciuto e decantato in tutta Europa per la sua inflessibile moralità e per il suo elevato senso civico. Grande romanziere e impressionante saggista è l'esempio vivente della rettitudine, della probità. Nonostante il fisico debole, ha compiuti sforzi immani per creare i suoi capolavori e vi è riuscito grazie alla sua indefettibile volontà. “Perseveriamo” è il motto dello scrittore e del suo idolo, il grande Federico di Prussia. Insomma per chi vuole condurre una esistenza onesta e onorevole Gustav von Aschenbach è il modello da seguire. Un giorno, al cimitero del Nord di Monaco, la visione sinistra di uno strano individuo risveglia in lui un'insana voglia di viaggiare. Notando come il suo stile troppo sentenzioso necessiti di una rinfrescata , decide di partire per il Sud e attracca a Venezia che trova, però, umida e spenta. È sul punto di andarsene quando nella hall del suo albergo rimane incantato dalla visione di un meraviglioso quattordicenne polacco, Tadzio. I riccioli melliflui, l'incarnato eburneo, la grazia che emana questo efebico fanciullo sconvolgono l'anziano scrittore, che, per la prima volta, trova incarnata quella Bellezza alla quale aveva immolato la sua arte. Inizia così la discesa agli inferi di Gustav von Aschenbach...
Thomas Mann con questo brevissimo romanzo raggiunge l'apice dal punto di vista stilistico. La parola che in lui ha sempre brillato entra ufficialmente nell'Olimpo della Letteratura. La sua penna traccia in poche pagine una sinfonia delicata, elegante, malinconica che è musica, pittura, poesia. La morte a Venezia è un'opera d'arte totale che non ha nulla da invidiare a Wagner. La sua grandezza, la sua unicità sta nell'equilibrio e nella perfezione della forma improntata a un nuovo classicismo. Il Simposio di Platone e l' Erotikos di Plutarco scandiscono questa storia di Amore e Morte, di Eros e Thanatos attraverso immagini epiche, quali il carro alato del Sole al sorgere del mattino e l'ultima epifania di Tadzio. Tuttavia l'autore non dimentica la sua cara, inconfondibile ironia che raggiunge spesso il paradosso e la caricatura senza mai appesantire la storia e rovinare il ricamo che ha così mirabilmente tessuto.
La storia di Aschenbach sconfina nel mito, nel dramma, nella filosofia. Il graduale infiltrarsi del dionisiaco nello spirito apollineo del protagonista non può non rimandare a Nietzsche ma è soprattutto il nesso tra arte e vita che interessa al nostro autore. “L'arte è vita sublimata”: l'artista nella sua bramosia di conoscere riesce a cogliere il bello e a evocarlo mediante la parola, le note, lo scalpello, elevando la vita a una dimensione celeste. Tuttavia la passione, il fuoco interiore che lo divora, lo precludono dalla reale esistenza fatta di piccoli gesti quotidiani, da irripetibili gocce di intimità. La sua sete di vita gli impedisce di vivere perché la bellezza, la conoscenza “hanno simpatia per l'abisso, sono l'abisso medesimo”. L'arte ,allora, diviene malattia ed Eros lascia la scena al proprio gemello.
Da leggere assolutamente
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L'ombra di una vita
Immaginate che la Fortuna vi abbia fatto un dono immenso. Dopo anni e anni di sopportazione, di incertezza, di delusione e amaro in bocca, vi viene data la possibilità di cominciare da capo. Ripartire da zero. Potrete ricreare la vita che vorrete senza commettere più gli errori e le stupidità che ancora vi fanno arrossire. Senza dimenticare il bel gruzzoletto che la sorte, incredibilmente sorridente, vi ha fatto trovare in tasca. “Che vorremmo di più?”, penserete tutti, “Siamo gli uomini più fortunati e felici della terra. La libertà! La libertà di scegliere, di condurre una vita come vogliamo noi e non come ce l'hanno imposta (direttamente o indirettamente) gli altri. Finalmente abbiamo in pugno la nostra esistenza!”. Ma siete sicuri? Pensate veramente che quella che chiamate libertà sia veramente tale? Vi siete accorti che il mondo è rimasto sempre lo stesso, con le sue convenzioni, le sue maschere, i suoi asfissianti ritmi? Né siete cambiati voi. Potrete farvi chiamare con un altro nome e trasferirvi in un'altra città, ma rimarrete sempre quelli che siete con i vostri dubbi e le vostre incertezze. Ben presto vi accorgerete che la libertà che avete tanto elogiato si rivelerà essere noia, solitudine, abbandono. Quella famosa libertà vi impedirà di vivere. E allora come vorrete rimediare al pasticcio che avete combinato! Non vi sto prendendo in giro, ve lo assicuro. Ho un testimone: Mattia Pascal, l'uomo dalle tre vite.
Mattia Pascal è un uomo semplice, scioperato, pieno di dubbi e incertezze. È uno come noi, forse un po' più sfortunato. Ha dovuto vedere il dissesto del proprio patrimonio famigliare. Tutte le case, i poderi, le terre nella sua bella Miragno sono ormai in mano ai creditori. Il povero Mattia si è trovato a vivere in una misera casetta con una moglie che non ama più e una suocera bisbetica. I debiti e i lutti lo perseguitano. Trova un po' di pace solo nell'odore stantio della semi-abbandonata biblioteca del suo paesello ma presto questa si trasforma in tedio. Mattia vuole fuggire, fuggire da quell'esistenza deludente e alla fine lo fa. Va a Nizza dove vince una ragguardevole cifra. “Scialato”, decide di tornare a casa ma durante il ritorno legge sul giornale una notizia sconvolgente: “Mattia Pascal trovato morto nella gora del mulino della Stia. Suicidio”. Ripresosi dallo shock iniziale, cambia treno. È il primo passo della sua nuova vita. Mattia Pascal ormai è il passato, Adriano Meis è il presente. Si trasferisce a Roma, dove potrà finalmente godere della sua nuova libertà ma ben presto si renderà conto del contrario....
Luigi Pirandello dà vita a una idea molto originale con uno stile semplice, chiaro, lineare. L'umorismo e l'ironia fanno da padroni. Un umorismo che snellisce e allo stesso tempo rinvigorisce la profondità concettuale. Un'ironia che rende la lettura frizzante, agile, estremamente scorrevole senza offuscarne il carattere paideutico. Lo stile pirandelliano sostituisce quel miele sui bordi del cucchiaio di lucreziana (e tassiana) memoria che attenua l'amarezza della medicina perché tra sorrisi e canzonature ci vengono presentati temi filosofici, esistenziali,metaletterari di non poca importanza. Abbiamo quindi “il buco nel cielo di carta” che ha permesso il passaggio dalla tragedia antica a quella moderna, da Oreste a Amleto e la “lanterninosofia” che ci viene sbattuta in faccia in tutto il suo relativismo, senza dimenticare la critica serrata alla società del consumismo sfrenato, del finto progresso, del movimento senza fine. Come potrebbe l'uomo non estraniarsi e perdere se stesso con tutte le distrazioni, i ninnoli, le futilità del mondo della scienza e delle macchine? Infatti non è dalla lampadina elettrica che si estrae l'olio per la nostra anima, per il nostro lanternino che dà colori e sfumature all'universo di cui siamo partecipi. Con tutti questi macchinari e catene di montaggio diventiamo degli automi senza personalità. Diventiamo delle maschere deprimenti che nascondono e tacciono. E che è una vita senza emozioni, comunicazione, senza trasparenza, senza insomma vita? Niente. Finiamo per essere ombre di defunti che benedicono la morte fisica dopo anni e anni di morte spirituale.
Pietra miliare della lettura italiana da leggere assolutamente. Buona lettura!
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La pazzia di maschere sociali
“Loro sì, tutti i giorni, ogni momento pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! -Che! Che!- E' il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno il suo! Avete anche voi il vostro eh? Certo! Ma che può essere il vostro ? Quello della mandra! Misero, labile, incerto... E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro! O almeno si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! Parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: pazzo! - Per esempio,che so? - imbecille! - Ma dite un po', si può star quieti a pensare che c'è uno che si affanna a persuadere gli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? - Pazzo Pazzo!”
Così si sfoga “un poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita”. Insomma un pazzo. Ma è veramente così? Perché non potrebbe trattarsi di un uomo saggio che si è ritirato nella sicura cristallizzazione della storia per fuggire la fatalità del tempo e soprattutto un mondo che lo circonda fatto di maschere e sopraffazione? Un mondo di tanti ratti con i bigodini che seguono il suono ammaliante di qualche pifferaio? Forse quell'uomo condannato all'isolamento e alla malinconia da una società di pazzi, dopo qualche inutile tentativo di reinserimento, ha finalmente compreso dello sterco di cui si è coperto tra gli applausi e gli elogi di un gregge belante che non sa esprimere un pensiero proprio. Solo seguire, solo obbedire ciecamente. E allora meglio, la “pazzia”, come quegli ebeti lì, quei veri folli, la chiamano. Così decide Enrico IV, che ha preferito “essere folle per proprio contro che saggio con le idee altrui”, come avrebbe detto Nietzche.
E' una splendida giornata. All'esclusivo Circolo della caccia, si tiene una carnevalesca parata storica. Abbiamo Matilde di Canossa, Barbarossa e tanti altri. Però la serenità di questa farsa è offuscata da un incidente: un Enrico IV cade da cavallo e batte la testa. Per miracolo non si hanno ferite, né perdite di sangue. L'uomo mascherato è solo svenuto ma al risveglio comincia l' “incubo”. Quel rispettabile signore di buona famiglia pensa veramente di essere l'imperatore tedesco Enrico IV di Franconia (1050-1106): inveisce contro il suo acerrimo nemico Gregorio VII, maledice la marchesa di Toscana, brucia di vendetta per l'umiliazione a Canossa. All'unanimità viene etichettato come “pazzo” e isolato nella sua casa-castello con quattro attori pagati per fingere di essere i loro consiglieri segreti . Nessuno lo viene a trovare: perché mai andare da un folle, un soggetto così pericoloso? Solo i più stretti parenti di tanto in tanto si recano da lui per farlo visitare da qualche psichiatra ma nessuno si è mai posto la domanda se sia volutamente pazzo.
Allargando la shakespearina tecnica del play within the play, Luigi Pirandello mette in scena una originalissima rappresentazione: una recita di una recita. Lo fa con un registro semplice, scorrevole ed estremamente arguto. Una commedia brillante ma da un profondo spessore filosofico. In poche battute, l'autore affronta il tema della sana follia e quelli a lui cari della maschera e del rapporto fievole tra finzione e realtà. Enrico IV, l'unico personaggio del dramma risparmiato dalla spietata ironia dell'autore, è il vero eroe, il folle che svela le convenzioni sociali, ma è anche l'antieroe che non solo rinuncia ma si rifugia pure nella propria maschera, pur di sfuggire dalla folle società di coloro che vivono agitatamente, senza vedere la propria pazzia. Una figura, quella del malinconico Enrico IV, a 360 gradi, potente nelle sue migliaia di sfaccettature che lo erge a emblema del teatro pirandelliano.
In conclusione, d'ora in poi, quando diremo “quanto è strano quel tipo” o “quello lì è proprio un pazzo”, pensiamo a Enrico IV e vedremo che siamo noi i pazzi che non ci rendiamo conto della maschera impostaci dagli altri. Buona lettura!
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Luci e ombre di un nuovo edonismo
“Chiunque insegua i piaceri di una forma fugace, si riempie la mano di fronde secche e coglie bacche amare”.
Così annuncia la sentenza del cardinale Maffeo Barberini (futuro papa Urbano VIII) scolpita sul basamento del meraviglioso Apollo e Dafne di Bernini. Sembra un paradosso: una predica contro la bellezza scolpita sull'emblema della bellezza. Ma ha un suo senso. Difatti cos'è la bellezza? Bello è ciò che ti fa comprendere che il mondo non è solo tenebre ma anche luce. Bello è ciò che ti fa sentire uomo tra gli uomini. Bello è ciò che dona la pace. La bellezza è ciò che ti rende parte di quell'unione di spirito e natura che è l'Assoluto.
Tuttavia la nostra esistenza è fatta di sparuti momenti di bellezza unici e irriproducibili. Non li possiamo forgiare e non li possiamo nemmeno cercare. Chi si desse a questa caccia paradossale finirebbe per disperarsi a causa della miseria che lo circonda o per corrompersi, sprofondando negli abissi cavi della depravazione e del peccato. Barberini ci invita a non perdere la nostra breve esistenza nell'amarezza della forma esteriore che sarà fatalmente consumata dal trascorrere del tempo. Tuttavia all'uomo è stata data la possibilità di immortalare una di queste tante gocce di bellezza nella pietra, nella tela, nell'affresco. Parliamo dell'Arte, la grande sacerdotessa del bello, l'unica che riesce a sottrarsi alle mani callose della Morte e a donare all'eternità i piaceri e le gioie della giovinezza. Questo ci dice Bernini con le sue due creature che rimarranno sempre strette nel loro sofferente dramma, in una vorticosa spirale di passione e pathos. E lo spettatore di ogni luogo e di ogni tempo non farà che purificarsi di fronte a tale spettacolo e a ringraziare il cielo per il bello che gli ha donato.
Questa grande lezione di vita che Barberini e Bernini hanno raffigurato nella pietra trova il proprio corrispondente letterario nel capolavoro di Oscar Wilde (1854-1900): “Il ritratto di Dorian Gray”.
Basil Hallward ha appena finito il ritratto della sua nuova musa,Dorian Gray. Costui è un giovane stupendo con il suo incarnato eburneo, i suoi morbidi riccioli dorati e i suoi profondi occhi blu oceano. Nessuno può resistere al fascino della sua grazia, della sua ingenuità e del suo candore. Non solo il pittore ma anche il suo amico, lord Henry Wotton, ne rimane incantato. Lord Wotton, cinico e raffinato esteta, con i suoi pungenti aforismi conquista in un baleno il giovinetto e ne diviene il mentore e l'iniziatore alla sua teoria del piacere. Il mellifluo aristocratico gli inculca la venerazione della bellezza e della giovinezza. Ai belli e ai giovani è concesso di tutto, ma per un breve periodo: il Tempo con la sua clessidra incombe e in ben che non si dica arriverà la Vecchiaia e infine la Morte. Dorian non vuole invecchiare e prega con tutta l'anima di avere salva la propria giovinezza. La sua preghiera non rimane inascoltata: sarà, infatti, il suo ritratto a subire il trascorrere degli anni e la perpetrazione del peccato. “Curare l'anima coi sensi, e i sensi con l'anima”. Questo diviene,allora, il nuovo motto del giovane che si inserisce in un circolo vizioso , finendo per commettere efferati crimini. E mentre l'ormai spregiudicato dandy non si meraviglia più delle propria disumanità, il quadro continua a deformarsi e a invecchiare....
Oscar Wilde, con il tocco delicato della sua preziosa penna, compone un esasperato inno alla bellezza e inaugura un nuovo estetismo fondato sul binomio vita-arte. Ma non solo. Per bocca di lord Wotton, l'autore ci dona un affresco graffiante e amaro della malata società vittoriana in cui i peccatori più incalliti sono i più ferventi moralisti e in cui il vizio viene tollerato se mascherato da cortesia e bon ton. Tuttavia la grandezza dello scrittore irlandese sta nella sua capacità di conquistare il lettore attraverso una scrittura ipnotica e drogante che accarezza e culla. Mai prima d'ora mi era accaduto di entrare talmente in simbiosi con un libro da tremare nei momenti di sofferenza, di soffocare nei momenti di suspense e di rimanere languidamente rapito dalle deliziose descrizioni di Wilde.
Un'esperienza davvero unica. Buona lettura!
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Un amore per l'eternità
Finalmente Atlanta...
E' totalmente cambiata dall'ultima volta in cui l'ho vista. Il crocevia di Five Points è talmente trafficato che non si riesce nemmeno a passare a piedi. La dolce campagna del sud è stata sostituita da gigantesche industrie e da estesi quartieri residenziali. I “miracoli” degli yankee...
Cerco di divincolarmi dagli spintoni che ricevo da ogni parte e di sottrarmi ai vapori dei treni fermi in stazione. Ma poi...il tempo si è fermato quando ti ho visto. Quegli occhi inconfondibili, quegli splendidi capelli corvini....Rossella! Da quanto tempo aspettavo questo momento! Ho pensato a te giorno e notte, non ho chiuso occhio immaginando il nostro incontro. Ho ripassato il discorso per tutta la durata del viaggio ma niente. Le corde vocali si sono impietrite. Tutto si è impietrito di fronte a tanta bellezza. Rossella! Vorrei stringerti, ricoprirti di baci appassionati e dichiarare il folle amore che provo per te. Ma non riesco a fare altro che stringerti la mano. Tu capisci il subbuglio che sta vivendo il mio cuore. Allora sfoderi quel tuo delizioso sorriso, quelle fossette che hanno fatto conquiste in tutta la contea di Clayton e non solo. Mi porti con te in un ristorante nelle vicinanze. Sei molto cambiata, mia cara. Non sei più la bambina viziata di prima della guerra, neppure l'arida e spregiudicata imprenditrice di quando ti ho lasciata. Sei una donna matura.
Non faccio tempo a sedermi che il fiume delle tue parole mi travolge. Quante ne hai passate, Rossella! La guerra, i lutti, la povertà, la solitudine. Hai amato un fantasma e quando hai capito veramente cosa era l'amore, Rhett è partito. E da qui che hai dedicato tutte le tue forze non più ad accumulare denaro o meglio non più solo ad accumulare denaro ma a riconquistare quello che avevi di più prezioso, tuo marito...
Quanto hai viaggiato, mia adorata: dalle tinte a pastello della sofisticata Charleston, alle numerose piazze della delicata Savannah e l'Irlanda, terra di millenari tradizioni, di secolari rivendicazioni, di quotidiane sorprese. Impossibile non venire ammaliati dal suo nobile popolo, capace della più commovente fratellanza ma anche della più spietata crudeltà. E poi che paesaggi! Quelle infinite lande verdi che si rincorrono all'orizzonte, con le loro antiche e placide rovine e con i loro inebrianti campi bene arati.
E poi quanta gente hai conosciuto. Le acide zitelle Eulaline e Pauline, l'arcigno nonno Robillard di Savannah e poi i vivaci cugini O'Hara, con le loro fulve chiome e il loro fare manesco.
O Rossella, quanto ti ammiro! Ammiro la tua forza, la tua determinazione, il tuo orgoglio, la tua energia. Mai conosciuto una donna simile. Perché mi lasci ora? Come hai detto? Abbiamo parlato per così tanto tempo? Incredibile come le ore volino quando parlo con te. Ma perché mi saluti in maniera così definitiva? Non parliamo di addii, di pianti e quant'altro. In fondo anche tu sai che il nostro è uno speranzoso arrivederci....
Sono rimasto solo al mio tavolo con un conto da pagare per due. Rossella cara, non sei poi così cambiata! Sto ridendo da solo, mi prenderanno per un folle. Ma che mi importa. Gli altri possono pensare quello che vogliono. Non sanno che oggi sono uscito sì con il portafoglio vuoto ma con il cuore carico di magnifiche perle, di momenti indimenticabili che nessuno potrà mai possedere perché nessuno di loro ha mai conosciuto Rossella, la mia Rossella....
Alexandra Ripley è riuscita a far rivivere l'epopea di Via col vento con una storia avvincente, fatta di passione, amore, tradimenti e colpi di scena a non finire. Pur commettendo qualche sbavatura e pur mancando del tono lirico-epico che ha fatto dell'opera della Mitchell un capolavoro assoluto della letteratura mondiale, l'autrice ha saputo far maturare i personaggi che aveva ricevuto in eredità, mostrando un acume psicologico davvero notevole e dando vita a una storia che merita assolutamente di essere letta. Buona lettura!
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La non esistenza delle vette dell'umanità
“Cos'è lei? Questo è più difficile.. Diciamolo: una quintessenza, una specie di ideale. Un vaso. Un'esistenza simbolica, Klaus Heinrich, e quindi un'esistenza formale. Ma forma e immediatezza- ancora non sa che si escludono a vicenda? Si escludono. Lei non ha diritto a confidenze intime, e se tentasse di farlo scoprirebbe lei stesso che non le si addicono, le troverebbe inadeguate e insulse. Devo esortarla a mantenere il contegno, Klaus Heinrich...”
Altezza Reale. Un titolo solenne, grandioso che implica fama, potenza, ricchezza: castelli, parchi secolari, servi, domestici, lacchè, balli e feste. No, Altezza Reale non è niente di questo o,meglio, è molto altro. Altezza Reale è la lontananza forzata, il distacco imposto, l'esilio fatale della rappresentanza. Altezza reale è l'idealizzazione che il popolo fa della sua “guida”, del suo prinz. “ Il popolo vuole il suo meglio, la sua cosa più alta, il suo sogno, vuole vedere personificato nel suo principe qualcosa come la sua anima”. E il principe deve rassegnarsi a questo suo alto ufficio: deve sorridere, mostrarsi con garbo ed eleganza. Il principe deve far sì che l'incanto avvenga: la sua altezza impone che il popolo per un instante, un istante solo, alla vista del suo supremo rappresentante, si elevi alla dimensione della favola e rompa la piattezza della quotidianità. Ma al principe? Chi pensa al principe? Lui non ha un'anima, non ha un cuore, non ha dei sentimenti? No, deve solo sorridere, mostrarsi con garbo ed eleganza. D'altronde non ha castelli, parchi, servi e lacchè ai suoi piedi e centinaia di balli che lo attendono? E così il prinz continuerà la sua malinconica messinscena nella propria gabbia dorata sulle vette dell'umanità...
Klaus Heinrich, è il secondogenito del granduca Johann Albrecht, E' nato con il braccio sinistro paralizzato che sarà costretto a nascondere continuamente perché non può spezzare l'incanto che il popolo prova alla vista della famiglia granducale. E così il povero, curioso Klaus Heinrich vine educato alla vita di rappresentanza, anzi, alla non vita della rappresentanza. Deve solo fingere e mantenere il contegno. Così va a scuola per finta, va per finta all'università, fa per finta il soldato e porta per finta l'uniforme; concede per finta udienze, partecipa per finta a inaugurazioni, feste, anniversari, supplendo per finta agli incarichi di suo fratello maggiore, Albrecht che non ha mai sopportato il suo alto ufficio. E così Klaus Heinrich conduce solo e infelice la propria esistenza nel proprio decadente castello del proprio decadente paese. Ma una svolta inaspettata lo sta attendendo, che darà linfa a lui e al suo paese, la svolta dell'amore...
La grandezza di Altezza Reale, secondo romanzo di Thomas Mann pubblicato nel 1909, sta nei suoi svariati piani di interpretazione. E' la storia della solitudine del prinz che è la solitudine dell'artista, del creativo, dell'intellettuale, di chi non si lascia omologare dall'opinione vigente e va oltre, alla ricerca gravosa del vero. E' una satira sociale dettagliata, pungente e storicamente ineccepibile che ha come bersaglio le minuscole monarchie tedesche in via di estinzione del primo novecento: emblematica è la malformazione di Klaus Heinrich, la medesima del kaiser di Germania Guglielmo II, l'artefice della prima guerra mondiale. E' un'autobiografia: con queste commoventi vicende l'autore ripercorre il suo innamoramento per Katia Pringsheim, la futura signora Mann. Ma sopratutto Altezza Reale è una lunga fiaba da assaporare lentamente parola per parola. La grandezza di Mann sta nel rendere con il suo stile melodioso fatto di andanti e leitmotiv, con le sue descrizioni realistiche, pungenti, ironiche un'atmosfera trasognata, fiabesca che fa volare il lettore nonostante la profonda melanconia che pervade il tutto. Ed è proprio il fatto che Altezza reale è una fiaba a giustificare il finale, da molti criticato come poco “manniano” e affrettato. La conclusione mantiene e accentua il clima da sogno, lasciando,invero, la situazione irrisolta, evidenziando così la profondità del messaggio che l'opera possiede.
Non posso far altro che consigliarvi caldamente Altezza Reale e augurarvi una buona lettura!
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Il capolavoro dell'orrido
All'esterno.
Nebbia cupa, nuvole pesanti, cielo spento. Un passaggio umido, sordido; un corridoio sporco e sinistro, con una parete pezzata come un lebbroso da una parte e con delle bettole impolverate e tetre dall'altra. Striscia putrefatta di un angolo di Parigi dimenticato, macabro teatro delle peggiori nefandezze: adulterio, prostituzione, omicidi, liti, pestaggi, urla, sevizie. Nessuno è risparmiato dall'aria sanguigna che aleggia in questo sepolcro a cielo aperto, in questa appestata topaia.
All'interno.
Un'anima dilaniata da nevrosi acute, da repressioni continue, da un continuo soffocare i propri istinti primordiali che dilaniano la carne, giorno dopo giorno.
Un'anima bestiale, sanguinolenta, facile all'ozio e alle mollezze del corpo, che mira all'appagamento dei propri rozzi piaceri, seguendo un'etica meschinamente utilitaristica.
È dall'incontro di questi due spiriti, uniti dall'immondezzaio che li soffoca, che traggono origine le atmosfere claustrofobiche e fetide che irrorarono quello che è stato definito da Oscar Wilde il “capolavoro dell'orrido”: Thérèse Raquin, uno dei primi romanzi del prolifico scrittore naturalista Émile Zola, pubblicato nel 1868.
Nel desolato e tetro passaggio del Pont-Neuf si trova una merceria impolverata con alloggio annesso in cui vive e lavora la dolce Madame Raquin con suo figlio Camille, impiegato, e la nipote e nuora Thérèse. Camille è un giovane gracile, smunto e debole che ha sofferto da bambino tutte le malattie possibili, superate grazie alle amabili cure della madre che lo ha terribilmente viziato, crescendolo nell'ambiente protetto e ovattato della tranquilla e amena cittadina di Vernon. Tuttavia Camille non ha mai ricambiato l'affetto materno e l'ha spinta a trasferirsi a Parigi per entrare in un ufficio amministrativo e potersi allontanare da questa, tronfio del proprio egoismo tipicamente borghese. Thérèse, figlia di donna algerina nota per la sua bellezza, è stata portata in Francia e lasciata dalla zia ancora in fasce. Non ha vissuto una sua infanzia, una sua adolescenza, sempre costretta a far compagnia al cuginetto malaticcio, chiusa in casa, lei spirito libero, passionale, ardente, selvaggio. Thérèse ha sviluppato una doppia personalità: all'apparenza è silenziosa, remissiva ma nella realtà i suoi istinti passionali pulsano energicamente. Drammatico è stato il trasferimento a Parigi: reclusa in quella topaia di merceria, si sente sepolta e i suoi nervi non riescono più a reggere la farsa. Ed è qui che entra in scena Laurent, amico d'infanzia di Camille, possente, muscoloso, ma estremamente pigro e utilitarista. Per soddisfare i propri piaceri carnali e avere allo stesso tempo un pasto caldo a casa Raquin ogni sera, decide di iniziare un rapporto illecito con la Thérèse che, incredibilmente, lo travolgerà con la propria passione e la propria sensualità per anni repressa. Ma il triangolo non può durare a lungo, così i due organizzano e compiono un omicidio efferato per cercare di appagare i loro vizi, ma questo porterà i due amanti alla pazzia e ad un tragico epilogo...
È un'opera che colpisce per l'asprezza del linguaggio. Non vi sono eufemismi, la nuda verità viene gettata in faccia al lettore che la sente come un pugno allo stomaco. Immagini atroci lo torturano, atmosfere funeree lo asfissiano, parole troppo affilate lo trafiggono, senza alcuna pietà. Zola non risparmia niente e nessuno: è un chirurgo che sta dissezionando due cadaveri. Non importa se hanno tradito, ingannato, ucciso. A giudicare ci penseranno i moralisti, il suo compito è analizzare il loro corpo, la loro psiche, le loro azioni. Thérèse Raquin, come l'autore stesso scrive nella sua prefazione, si prefigura come “lo studio di un insolito caso fisiologico”. Questo romanzo rappresenta una svolta in chiave naturalista nella produzione dell'autore ma ancora permangono elementi del romanzo nero tardo-romantico. Zola, talvolta, perde la propria personalità calcando troppo la mano sul macabro e il romanzato, forzando così la narrazione.
Nonostante queste sottili sbavature, Thérèse Raquin rappresenta un'egregia tela a tinte forti in cui predominano il grigio, il nero e il rosso. Creature mostruose, abissi senza fondo, incubi , fantasmi, allucinazioni la animano. Una tela che a prima vista causa degli intensi bruciori agli occhi, ma che, superata la crisi, non si può non apprezzare perché ritrae l'angolo più oscuro, più demoniaco che alberga nel nostro animo. Buona lettura!
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Un "rispettabile" caso di cannibalismo
Perbenismo. Un suono sibilante, viscido, scivoloso come la lingua di una vipera.
Perbenismo. Una parola diversa dalle altre, perché falsa, meschina, debordante.
Perbenismo. Non è realtà ma maschera della realtà. Uno stratagemma per dissimulare la più sozza mediocrità, la più lurida maldicenza dietro i grandi nomi di rispettabilità, onore, decoro.
Perbenismo. Un male che ancora dilania la nostra società. La sincerità lo scandalizza, la piatta ottusità lo ristora.
Perbenismo. E pensare che una volta era la virtù per eccellenza, la meta da raggiungere, il meglio che si poteva avere. Fu cantato come miracolosa scorciatoia agli ostacoli dell'esistenza, come unica via per il conseguimento del successo. Un'intera classe sociale, la borghesia, ne fece il proprio motto. I benpensanti banchieri, gli onorevoli imprenditori, le impeccabili dame spopolarono in questo mostruoso inferno di cartapesta.
Perbenismo. Per fortuna non vi furono solo servili sostenitori ma anche obiettivi critici. Il santo Vero palpitava in questi uomini contro corrente, spesso tormentati, dilaniati dai loro vizi ma estremamente sinceri nel non nasconderli. Dobbiamo a loro l'isolamento di questo virus, annientabile unicamente con la prevenzione. Ed è a loro che si sono inimicati la società, a loro che hanno affrontato titanicamente la dottrina imperante, a loro che è necessario dire grazie. E tra i tanti eroi ricordiamo Dickens, Tolstoj, Dostoevskij, Verga, i naturalisti francesi e il loro più ardente e passionale membro: Guy de Maupassant (1850-1893).
Dimenticatevi i fastosi balli e gli ambienti dorati di Parigi perché ci troviamo nella provincia, a Rouen. Dimenticatevi pure le bucoliche campagna della Normandia, perché è inverno e tutto è ricoperto da un'algida poltiglia di neve e fango. E infine dimenticatevi pace e sicurezza. Il “grande” Napoleone III è stato appena sconfitto e catturato a Sedan e i famelici prussiani occupano mezza Francia.
Elisabeth Rousset è una nota prostituta rovenese, soprannominata per la sua precoce e fresca pinguedine Boule de suif ( balla di sego). E' in fuga dalla sua città in una scomoda e tetra carrozza insieme (incredibilmente) alla créme della créme di Rouen: imprenditori, grossisti, conti blasonati. Il viaggio verso la “salvezza” si allunga più del previsto e nessuno degli augusti passeggeri ha con sé delle provviste eccetto Boule che le condivide amorevolmente con coloro che in città la guardavano dall'alto in basso con viziosa altezzosità. Appena arrivano all'Hotel de Commerce di Totes ( a metà percorso) si verifica un altro intoppo e ben presto la colpa si riverserà sull'indifesa Boule, che verrà divorata dai suoi rispettabilissimi compagni di viaggio, che mostreranno tutta la loro grettezza e trivialità...
Maupassant con il suo fare sobrio ed elegante dà vita ad una breve e allo stesso tempo denso racconto che rende a tinte forti il perbenismo e l'arrivismo borghese in tutte le sue formi. A vivere la sua storia non vi sono re o regine, cavalieri o dame da salvare, eroi o eroine, maghi o fate ma la nuda e cruda realtà. Non ci sono finali epici o melodrammatici e neppure il classico happy end bensì l'inevitabile decorso di una vicenda segnata già dai suoi esordi. Eppure l'autore non cade mai nel banale o nel noioso, anzi incanta, ammalia, diverte e appassiona il suo lettore, grazie al suo cavallo di battaglia: lo stile. La sua ironia, il suo sarcasmo sono talmente acidi, pungenti, corrosivi che un esercito non sarebbe riuscito minimamente a raggiungere i risultati che egli ha ottenuto con la parola. Nessuno dei suoi personaggi ne è graziato: dalla suora devastata del vaiolo “ come se qualcuno le avesse mitragliato a bruciapelo in piena faccia” all' asmatico albergatore di Totes, che pare avere un fischietto piuttosto che l'ugola. Tuttavia il cinismo, l'anticlericalismo,la spregiudicatezza dell'autore non vanno minimamente a urtare con l'eleganza dello stile, sensuale negli ammiccamenti e lirico nelle rare descrizioni paesaggistiche.
Un'opera brevissima ma estremamente profonda, che mandò (giustamente) in estasi il grande Flaubert e che non potete assolutamente perdere. Buona lettura!
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La terza via: vivere
Vi fu un tempo lontanissimo in cui a dominare non era l'uomo bensì la donna. Tuttavia il verbo dominare non è corretto. Dominio implica oppressione, schiavitù, ingiustizia. Tutto ciò non fa parte del pensiero femminile nel quale la guerra diviene discussione, il pregiudizio comprensione, la conquista condivisione.
Dunque era la donna a reggere questo atavico mondo. Non dei, ma dee. Non re, ma regine. Non padri, ma madri. E in questo grande alveare non vi era odio, invidia,ipocrisia ma amore, letizia, sincerità. Vi potevano essere controversie, lievissime tensioni che, tuttavia, venivano risolte attraverso la via del confronto e della disponibilità. Insomma quello era un mondo di pace. Non armi, non battaglie, non aggressioni. Stiamo parlando del matriarcato: un'istituzione, anzi, un modo di vivere, sentire, relazionarsi che a noi moderni appare leggendario, divino, impossibile. Invece è esistito e anche a lungo.
Però è scomparso. Per colpa di chi? Di un popolo di abietti, di “bestioni” vichiani che si elogiavano per i loro sanguinari fratricidi, per i loro incesti, per la loro gretta volgarità: gli indoeuropei. Millenni or sono, decisero di trasferirsi per esportare la loro violenza altrove e presto giunsero presso le acque cristalline del Mediterraneo dove scoprirono il superiore mondo del matriarcato. Pur essendo delle creature selvagge, avevano costruito dei mezzi di tortura orribili, le armi, con le quali in brevissimo tempo martoriarono ed estirparono quell'antico Eden. Allora dopo essersi stanziati diedero vita ad una nuova istituzione, il patriarcato che portò con sé egoismo, tracotanza, empietà. Prima di tutto,però, si adoperarono a demolire ogni rimasuglio della civiltà precedente: le donne non furono più dee, ma schiave; non più creature umane ma animali da riproduzione. E questa istituzione è giunta, sebbene mascherata dietro le parole diritto, uguaglianza, pari opportunità fino a noi. Eppure una donna estremamente sensibile, femminile nel pieno senso della paura, rimasta inorridita dalla degenerazione del mondo maschile, cercò di rifondare il matriarcato prima tentando una impraticabile riforma del maschio e poi riproponendo la via della pace e dell'equilibrio. Il suo nome è Cassandra e, non si sa per quale grande fortuna, è riuscita a sfuggire alla damnatio memoriae maschilista e a confessarsi a noi moderni grazie alle parole di una tedesca, Christa Wolf.
Dimenticatevi la guerra di Troia di omerica memoria. Achille è la bestia che stupra, massacra, deturpa per piacere sadico. Agamennone un impotente pusillanime. Elena un fantasma, uno stratagemma per giustificare un conflitto economico-commerciale. Priamo un vecchio irresoluto. Paride uno smorfioso viziato. Gli dei non esistono. I sacerdoti sono propagandisti del potere. Troia non è la grande città, ma un villaggio sterilizzato dal terrore, dall'ottusità di una dittatura militare.
A raccontarci tutto questo con una dura lucidità è Cassandra, la non più orgogliosa figlia di re di Priamo, prima tanto amato e poi realmente compreso. Sta aspettando a Micene sul carro la sua morte preannunciata e allora sfrutta il suo ultimo tramonto per ripercorrere la sua esistenza. Rivive la nascita, l'infanzia felice, l'affetto di genitori e fratelli, la lunga e vivida storia d'amore con Enea. Ma non può dimenticare lo sverginamento rituale, lo stupro consenziente da parte del sacerdote Pantoo e la guerra. La guerra che le ha fatto aprire gli occhi: Troia, il “palazzo” è diventata un'opprimente fortezza incancrenita dalla paura della sconfitta e dal militarismo di Eumelo. E' allora che ha cercato di cambiare la situazione, il mondo maschile ma non con la violenza sanguinaria dell'amazzone Pentesilea che voleva tutti gli uomini morti né con la seduzione della sorella Polissena che ha venduto spudoratamente il proprio corpo ma con le comunità pacifiche e autosufficienti lungo il fiume Scamandro, perché ( e ricordatelo bene) “tra uccidere e morire c'è una terza via: vivere”.
Christa Wolf con la sua opera brevissima ma estremamente pregnante demolisce la logica maschile dell'aut-aut, che ha causato solo miseria e devastazione. Ci propone una visione totalmente diversa, quella femminile fondata sulla sensibilità, sul dialogo, sull'apertura a nuove vie e ci chiede: è possibile oggi che una donna sia al potere? Non una donna che ha sposato la logica maschile ma una vera e propria Donna? E' poi possibile ricreare in questo mondo guerriero e menefreghista delle nuove comunità dello Scamandro, autarchiche e pacifiche?
Un libretto estremamente attuale, da leggere, interpretare, discutere. L'unica difficoltà è lo stile spezzato, ansimante, ellittico, irrazionale che tuttavia non può essere altrimenti dato la natura profetica di Cassandra. Un fiume che rompe gli argini della ragione e straripa, travolge, affoga. Buona lettura!
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“Il bello è il brutto, il brutto è il bello”
Notte. E' sempre notte. Notte oggi, notte ieri, notte domani...
Se almeno vi fosse la luna! Non chiedo il sole, voglio la luna. Quest'astro soave che inargenta e nobilita il fosco che ci sta soffocando. Il suo flebile raggio è una flebile speranza. La flebile speranza che un giorno potrà tornare il sole. Ma non ci sono: né l'uno né l'altra.
Se almeno fosse una notte serena! Invece no. Tuoni, lampi, saette. Urla, lamenti, disperazione. Mai un sorriso, mai una carezza. Solo pugnalate, impiccagioni, squartamenti.
Se almeno il cielo avesse il colore della notte! Una notte profonda, sincera, ammaliante ! Invece permane questa nebbia sanguigna. Questo tanfo di cadavere. Questa putrefazione continua.
Ormai non si piange più. Le nostre lacrime si sono prosciugate. Le nostre riserve esaurite. La nostra terra non è più madre, ma sepolcro. I suoi abitanti spiriti usciti dalle bare.
L'unica luce che affiora è quella più pericolosa. Statene lontani! E' la torcia dell'assassino, dell'usurpatore, del mostro avido del nostro sangue, bramoso delle nostre sventure. Ci tortura per rimediare alla sua inevitabile solitudine: sua moglie è un'arpia sonnambula, i suoi cortigiani sono degli schiavi impietriti dal terrore, i suoi amici sono fuggiti o sono morti. Chi poi vorrebbe stare con una creatura simile. Persino i sicari fuggono appena vedono la sua sagoma.
Egli ha trasformato la nostra amata patria nell'Inferno: la brughiera è il deserto, il fiume l'Acheronte, la città Dite. Siete giunti nella terra di re Macbeth. Benvenuti. Ma che dico? Benvenuti?! Statevene alla larga! Fuggite! Qui non troverete che cadaveri, squilibrati e criminali...
Macbeth è uno dei più valorosi nobili scozzesi. Ha appena salvato eroicamente la sua patria dall'invasione dei norvegesi. Sta tornando dalla battaglia con il suo amico, il valente generale Banquo, quando viene fermato da tre sorelle orribili, lugubri, terrificanti. Sono le Fatidiche Sorelle: tre fattucchiere che predicono a Macbeth che sarà thane di Cawdor e re di Scozia mentre a Banquo che sarà fondatore della futura casata reale per poi scomparire nel nulla. Immediatamente arrivano due messaggeri che annunciano a Macbeth che per il suo coraggio mostrato in battaglia è stato nominato da re Duncan thane di Cawdor. Non ci può credere. La profezia delle tre vecchie si è realizzata! Ma allora ciò significa che sarà presto re di Scozia! Oh Macbeth, perché ti sei affidato a quelle vecchie vipere! Perché stai alimentando così pericolosamente la tua ambizione che sai bene essere smisurata! No! Non informare tua moglie dell'accaduto...
Ormai tutto è finito: Lady Macbeth sa. E' una donna crudele: capace di fracassare il cranio di un neonato che sta allattando. E' una donna determinata: quel che vuole lo realizza. E' una donna spregiudicata: per il potere può fare stragi. E' una donna? Di aspetto si, ma di cuore no: è un uomo, un uomo che mira ad essere tale sotto ogni aspetto, specie quelli più oscuri.
Pertanto, sebbene la tua morale sta recalcitrando, o Macbeth, lei con le sue arti demoniache riuscirà a convincerti a compiere il delitto più mostruoso, più raccapricciante che possa essere immaginato. Verrà sparso sangue e quel sangue cambierà radicalmente la tua vita trasformandoti da pio patriota a lurido pluriomicida...
William Shakespeare con il suo stile poetico, eclettico, metaforico,evocativo ci scaraventa in un abisso senza fondo, l'abisso del male, dove dominano le tenebre, il macabro, il sanguinario. Con streghe, con omicidi, con apparizioni e fantasmi ci fa rabbrividire. Con spasmodica tensione ci angoscia e ci sconvolge con il fulmineo capovolgimento delle sue creature: Macbeth da eroe passa ad antieroe, Lady Macbeth dalla lucidità passa alla follia, entrambi da carnefici passano a vittime della loro carneficina. E' la caduta della ragionevolezza di fronte alla attrattiva del male. Ma il male non può portare che male: ciò che prima era bello ora è brutto e ciò che prima era brutto ora diventa bello. Si finisce in un circolo vizioso dal quale si può uscire solo con l'annientamento. Il tutto per che cosa? Per una disgustosa ambizione. Per un miserevole e meschino innalzamento di gradino in una piramide originaria, frutto delle nostre perverse fantasie.
Tuttavia non dimentichiamo che la terra di Macbeth descritta all'inizio non è scomparsa: è ancora presente, anzi è imperante, solo che si è nascosta dietro alla maschera dell'ipocrisia, del perbenismo del mito della scalata sociale. E leggere Macbeth aiuta proprio ad aprirci gli occhi, a reagire anche se il suo autore sa che è veramente difficile contenere la forza devastante della propria ambizione.
Un'opera densa, potente,da leggere assolutamente.
Buona lettura!
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Adieu '800
Il XIX si rivela essere un secolo ricchissimo da un punto di vista letterario e storico: abbiamo il neoclassicismo con Napoleone, il romanticismo con i moti liberali e il '48. Ma soprattutto abbiamo il trionfo del romanzo, strettamente connesso al trionfo del capitalismo, della borghesia, dell'imprenditorialità. Ed è proprio il romanzo a celebrare, a intrattenere questa nuova egemonica classe sociale e al tempo stesso a criticarne l'egoismo, l'avidità e la meschinità: da qui il naturalismo francese, il romanzo sociale inglese e il romanzo russo in cui irrompe magistralmente la psicologia, l'anima dei personaggi.
Tuttavia il XIX si rivela essere anche il secolo della decadenza della borghesia, con quell'incrinarsi degli ideali fondanti di decoro e rispettabilità che esploderanno in tutta la loro potenza devastatrice nel XX secolo, con le sue guerre mondiali, i suoi stermini, i suoi totalitarismi.
Credete possibile ritrovare tutto ciò in un unico libro? Condensare queste due matrici opposte in un numero limitato di pagine? Non dando vita a un insipido minestrone ma a un prelibato piatto d'alta cucina? Be' sì, è stato possibile per un incredibile scrittore del '900, il tedesco Thomas Mann (1875-1955) e i suoi Buddenbrook, storia dell'ascesa e del tramonto di una famiglia dell'alta borghesia mercantile di Lubecca in un ampio arco temporale (1835-1877).
Per la Mengstraße è giorno di festa: nell'enorme casa dalla facciata rococò la ricca e potente famiglia Buddenbrook celebra con succulente prelibatezze, risate e vino a fiumi il suo fastoso trasferimento: vi sono il vecchio Buddenbrook, gioviale ed estremamente pragmatico, sua moglie Antoinette, il loro figlio Johann, tipico esempio di austero e dignitoso commerciante luterano, l'elegante consorte Betsy e i loro 3 figli: la vivace e graziosa Tony, il silenzioso, intelligente e imprenditoriale Thomas e il buffo e comico Christian. In questo momento splendido è bandita ogni tristezza, ogni apprensione per il futuro, ma nel profondo aleggia la preoccupazione: un morbo ha attecchito nella famiglia, particolarmente nel dignitoso Tom: è una malattia impalpabile, subdola e disperata: cresce molto lentamente con delle eccitanti febbri che porteranno il giovane al culmine del successo economico e politico, per poi con una rapidità, prima impensabile, attaccare ogni valore, ogni certezza che avevano incoraggiato il giovane Buddenbrook: il pragmatismo, l'intraprendenza ,l'entusiasmo, l'iniziativa su cui si fondano gli affari. Tom sente come disgusta il mondo viscido, maligno, corrotto del commercio, sente come sia differente da suo padre e da suo nonno, sente come sia solo, perso, incompreso. Allora si crea una maschera, una estenuante maschera di decoro e rispettabilità, che gli dissipa ogni forza, ogni energia. Tale terribile morbo è la decadenza che ha imputridito e annientato la sua vita, la sua famiglia, la sua ditta. Da tutto questo marcire, soffrire, patire nasce, però, Hanno, giovane creatura fragile, sensibile, che disprezza ogni meschinità, ogni convenienza sociale, dedicando tutta la sua candida e timida anima alla musica, quel mondo puro, superiore, a lungo rimasto incompreso dalla sua “stirpe” presa solo da granaglie, numeri e azioni. Hanno è riuscito a superare il padre, a superare la società anseatica in cancrena, a superare l'egoismo e la malignità di questa vita orripilante. Hanno è la rottura, Hanno è la novità, Hanno è il 900...
Oltre al carattere enciclopedico di questa opera d'arte, a colpire incredibilmente è lo stile: l'apice del genere del romanzo difficilmente raggiungibile di nuovo. Una sinfonia armonica, perfetta, dove ogni nota, ogni strumento, ogni variazione è talmente unica, sublime, divina da non poter essere mutata. Con i suoi leitmotiv wagneriani, con la sua equilibrata raffinatezza che non si annienta mai in noia, ma scorrevolmente e al tempo stesso delicatamente compie crescendi ironici, diminuendi malinconici, allegri, forti, fortissimi, si priva dei pesanti virtuosismi, e nella sua purezza, nel suo splendido candore, eleva spiritualmente, innalza al mondo celeste.
Per questa sublime perfezione, per questa unicità, per questa forza imprescindibile che ammalia, incanta, strega il lettore, vi invito con tutta l'anima a leggere questa perla, quest'unicum della letteratura, se proprio non volete esagerare, europea, ma io sarei più propenso per quella mondiale. Buona lettura!
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Il dinamismo di una dinastia “doganale”
17 Marzo 1861
Con regio decreto, “Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio re di Sardegna,di Cipro, di Gerusalemme, duca di Savoia, di Genova ecc. ecc., principe di Piemonte ecc. ecc., assume il titolo di Re di Italia”. E' nato lo Stato italiano anche se ci vorrà una Porta Pia per avere Roma capitale, una terza guerra di indipendenza e una prima guerra mondiale per avere l'unificazione completa. A capo del neonato stato italiano si pongono i Savoia, dinastia di ben 800 anni, di cui solo 100 passati con il titolo regio. Ma chi sono i Savoia? Come ha fatto una dinastia di evidente origine francese ( fino al trattato di Parigi del 1860 possedette infatti la regione che dà il nome alla famiglia e la contea di Nizza) e a lungo rimasta sconosciuta allo scacchiere internazionale, a essere salita al trono italiano? E perché non dinastie più “made in Italy”, come i Medici, i Gonzaga, gli Este? Ce lo spiega con arguzia e chiarezza Gianni Oliva con il suo “I Savoia. Novecento anni di una dinastia”.
Tutto ha origine nell 'XI secolo circa con dei contratti notarili concernenti delle donazioni di un certo “Humbertus comes”. Si tratta di Umberto Biancamano, primo conte di Moriana e capostipite dei futuri re d'Italia. Di lui sappiamo pochissimo, ma da atti di proprietà e da cronache medievali possiamo notare il rapido espandersi territorialmente e politicamente di questo conte sulle Alpi occidentali, specialmente sul Moncenisio e sulla Val di Susa. Sono territori aspri, rocciosi, avari di frutti e di risorse per un'economia che, nonostante la rivoluzione del 1000, è ancora fondata su un'agricoltura piuttosto arretrata. E come può quindi un signorotto insignificante avere rapporti con l'imperatore tedesco o con il re di Francia? Semplice: perché tra quelle fredde gole sono presenti valichi e passi montani, come il San Bernardo, che erano le uniche via di accesso per la Francia, sia dall'Italia che dall'Impero. Gli stretti divengono fonte di potere, perché su di essi possono essere posti dazi elevati e perché per essi devono passare,oltre che mercanti e soldati, anche ambasciatori, dignitari, aristocratici e regnanti. Quindi per le due principali teste coronate europee avere l'appoggio del Biancamano era indispensabile. E il conte Umberto di fronte a ciò, come si comporta? Ora si allea con uno ora con un altro, servendosi di spregiudicati interventi diplomatici che gli permettono di accrescere i propri territori fino al lago di Ginevra. E quale è lo strumento migliore per sancire un'alleanza? Il matrimonio: Umberto farà sposare suo figlio e successore Oddone con la contessa di Torino, Adelaide -donna carismatica ed energica del calibro della coetanea Matilde di Canossa- la quale farà entrare il Piemonte nell'orbita dei conti di Moriana. Ecco spiegato il segreto attraverso il quale i Savoia riusciranno a sopravvivere alla stagione dei Comuni, al Tramonto del Medioevo, alle guerre di Italia del '500, alla decadenza del Seicento fino ad ergersi a paladina della causa dell'unità italiana, sposata solo per mantenere e possibilmente accrescere il potere della dinastia: “stretti fra vicini potenti ( via via la Francia, l'Impero, la Spagna, l'Austria), i conti prima, i duchi poi, i re di Sardegna dopo ancora, hanno giocato la carta del dinamismo diplomatico e militare per salvaguardare la propria autonomia e per sfruttare le congiunture internazionali favorevoli in vista dell'espansione”. Il tutto è stato reso possibile grazie al carisma di Amedeo VI, il Conte Verde (1334-1383), alla scaltrezza di Amedeo VIII,(1383-1449), alla genialità di Emanuele Filiberto (1528-1580) e alla capacità di previsione del “padre della patria” Vittorio Emanuele II, ma anche a grandi donne come la spregiudicata Cristina di Francia (1606-1663) e l'amatissima regina Margherita (1851-1926). Tuttavia non bisogna tralasciare che i Savoia ebbero alti e bassi e svariate volte furono sul punto di perdere tutto, producendo “pecore nere”, quali Carlo Alberto “il re che vuole e disvuole”, Umberto I, “re-mitraglia” e Vittorio Emanuele III, “un re troppo piccolo costretto a regnare in un'età troppo grande”.
Gianni Oliva tratta così di un vasto periodo che spazia dal 1000 al 1946, districandosi tra le iperboli dei cortigiani adulatori e il disprezzo dei studiosi anti-monarchici, e riesce miracolosamente a rimanere imparziale e oggettivo mediante uno stile chiaro ma non banale, coinciso ma non sommario, approfondito ma non prolisso e mediante l'uso di un buon apparato iconografico, di limpide cartine storiche e di utilissime tavole genealogiche.
Un'opera che ci illumina profondamente sulle virtù e vizi, sulle genialità e ottusità, sui trionfi e le cadute di una dinastia che ha fatto la storia di questo paese e che vi è riuscita grazie alla flessibilità, già ritenuta da Machiavelli nel suo Principe basilare per il mantenimento del potere. Non posso fare,dunque, che consigliarvi questo saggio approfondito e ben strutturato. Buona lettura!
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La poesia come spinta al progresso sociale-morale
Uno dei cardini dell'Illuminismo fu quello della superiorità della ragione,l'unica capace di poter vagliare criticamente la realtà e di individuare la verità con un metodo empirico e sperimentale, fatto di curiosità, osservazioni e raffronti. Nonostante la scoperta durante il secolo dei Lumi del sentimento e dell'emergere della riflessione e della psicologia che in campo letterario si rifletterono nel romanzo epistolare, l'intellettuale illuminista era un saggista, un giornalista, un filosofo ma di sicuro non un poeta. La poesia venne aspramente biasimata dai philosophes in quanto rivolta più al cuore che al cervello e comunque soggiogata dalle trionfanti scienze. Il dibattito sulla superiorità o meno del trattato sul poema fu accesissimo tra francesi ( strenui difensori dell'Enciclopedie e del progresso) e italiani ( fissati sulla preminenza del classicismo e inchiodati ancora all'Arcadia, ormai in cancrena). In questo dibattito si inserisce anche Milano mediante l'agonismo tra Accademia dei Pugni, “filo-francese”, e la “filo-italiana” Accademia dei Trasformati, in cui assunse un ruolo di primo piano Giuseppe Parini. Proprio lui, strenuo classicista, risolse il problema innovando le fondamenta della poetica italiana d'allora: i versi da raffinato e dotto intrattenimento si fecero portatori di modelli sociali e soprattutto etici ( in un secolo in cui la morale era assai lontana dall'austerità vittoriana), in quanto - servendoci di una fortunata espressione dello studioso Dante Isella- “la bellezza nella poesia , nella sublime serenità delle sue forme , è l'espressione eternatrice dei massimi valori della civiltà”. E tale paradigma lo praticò nelle sue odi, che ebbero una grande fortuna, facendo entusiasmare grandi come Foscolo, Manzoni e Carducci.
Le Odi sono un insieme di 25 componimenti variegati composti da Parini in un ampio lasso di tempo che va circa dal 1758 al 1795 e poi messi insieme in un corpus unico da due suoi studenti,Agostino Gambarelli e Giuseppe Bernardoni. Possiamo individuare una stratificazione temporale e stilistica che permette di suddividere il corpus in 3 sezioni:
- quella illuminista ( 1758-1766), costituita dalla Vita Rustica, La Salubrità dell'aria, L'impostura, La musica, La educazione, L'innesto del vaiuolo e il Bisogno. Qui notiamo la forte componente sociale che spinge Parini mediante l'uso di versi,strofe e rime a occuparsi di costumi a lui contemporanei e di vagliarli criticamente con un metodo da secolo dei Lumi (perciò la ragione, la ricerca della felicità e del benessere comune possono essere trasmessi non solo da saggi o giornali, ma anche dalla bellezza espressiva della poesia). Così l'autore ci mostra la disumanità della pratica della castrazione operata dai padri ai figli senza alcun rimorso, per destinarli al teatro ma spesso alla miseria e alla rovina di ogni possibile progetto familiare. Oppure evidenzia il pregiudizio e l'ignoranza dei ceti non solo bassi per far vaccinare i giovani, evitando così il vaiolo, che uccideva dopo una terribile agonia o deturpava il corpo, demolendo il destino dell'ammalato. O ancora si focalizza nella necessità di una giustizia volta più alla rieducazione che alla punizione, perché gran parte dei crimini commessi sono dovuti alla penuria e al bisogno, che annullano il sottile confine tra giustizia e “ingiustizia”( tematica poi sviluppata largamente nei Delitti e delle pene di Beccaria);
- quella intermedia (1771-1790), in cui si inseriscono scritti di occasione- composti nei periodi di “relax” dal compito di professore di Belle Lettere nel ginnasio di Brera ( come Il piacere e la virtù, Il Brindisi, Le nozze e La recita dei versi)-, dediche per avvenimenti importanti ( come La laurea in onore del diploma in giurisprudenza conseguito da Maria Pellegrina Amoretti, evento incredibile nella società maschista dell'epoca) o personaggi molto cari al poeta ( come La Gratitudine, destinata al cardinale Angelo Maria Durini, ammiratore sincero di Parini) e componimenti di carattere più riflessivo e intimistico ( come La tempesta che si incentra sulla caducità dei favori e dei privilegi umani)
- quella neoclassica (1793-1795), con Per l'inclita Nice, A Silvia e Alla Musa in cui l'impegno politico del poeta lascia più spazio all'interiorità ,all'introspezione con un lirismo affascinante di evidente ascendenza classica.
Rispetto al pungente e inflessibile precettore del Giorno, fisso nel ruolo di stilizzare con caricature e antifrasi i vuoti e freddi gesti di una aristocrazia in degrado, qui troviamo un Parini interessato a questioni di pubblico interesse ma sopratutto troviamo un Parini più umano, con i suoi “acciacchi”( indimenticabile La caduta in cui l'autore casca più volte a causa del peso dell'età e della gamba malata), le sue virtù e incredibilmente caparbio nel lasciarci una vera immagine di sé, che sia immune dalle deformazioni dell'invidia e delle malelingue e che si può sintetizzare con dei versi dalla Vita Rustica: “ Me non nato a percotere/ le dure illustri porte/ nudo accorrà ma libero/ il regno della morte. No, ricchezza né onore/ con frode o con viltà/ il secol venditore/ mercar non mi vedrà.”
Da qui anche la concezione della poesia che non deve essere encomiastica e lucrativa, ma deve essere genuina, tendere al vero e celebrare chi veramente merita di essere celebrato.
Sebbene il linguaggio non raggiunga i fuochi pirotecnici del Giorno, consiglio fortemente questa breve opera franca e schietta che senza fronzoli ci descrive i vari mali del diciottesimo secolo e sopratutto ci svela un Parini più au naturel. Buona lettura!
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La salute sta nella consapevolezza della malattia
“La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e,se mancano, s'affrettano di nascere. Presto la preda basta appena e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l'equilibrio, per un istante, venne ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano.[...] Perché non muoiono e non vivono tacendo?. […] L'unico grido ammissibile è quello del trionfatore”. Stiamo parlando della più antica legge che ha retto la terra dalla comparsa dei primi microrganismi viventi: la legge del più forte, la legge della sopravvivenza. Per millenni si è riuscito a creare sotto l'egida di questo paradigma una sorta di armonia, dovuta al fatto che gli esseri viventi per evitare di finire nella classe dei deboli destinati alla soppressione siano “naturalmente” progrediti con l'evoluzione del proprio organismo. Tale equilibrio planetario è rimasto intatto finché non ha fatto la sua comparsa un bipede originario dalle scimmie, furbo, maligno ed estremamente tracotante. Costui, mediante l' ingegno, è riuscito a prendere il potere stravolgendo tuttavia il sistema precedente. Con l'andare avanti di questa usurpazione che ha definito progresso, bramando di poter prevaricare sulla natura stessa, l'uomo ha cominciato a inventare terribili ordigni, degli orripilanti veleni i quali ha chiamato farmaci. Così l'essere umano ha creduto di poter supplire ai mali che lo dilaniavano, per aver soppresso l'ordine primordiale. Ma tali mali che furono chiamati malattie sono rimasti e sempre rimarranno finché l'umanità non si renderà conto come “la vita è sempre mortale, non sopporta cure”. Insomma come l'unica via per la salvezza, per la salute è la consapevolezza della malattia. Questa la grande conclusione a cui arrivò nel suo La coscienza di Zeno (1923) un piccolo scrittore triestino che lavorava in una impresa commerciale. Si chiamava Aron Hector Schmitz ma noi oggi lo conosciamo meglio come Italo Svevo (1867-1928).
Zeno Cosini è un vero e proprio nomen omen. Infatti queste due brevi parole ci introducono già il personaggio a cui esse si riferiscono. Cambiando la n di Zeno in r otteniamo zero, ovvero la nullità, mentre Cosini rappresenta la mediocrità e la piccolezza.
Infatti Zeno è un uomo comune che conduce una vita comune in una Trieste Belle Epoque. Non ha bisogno di lavorare duro perché è nato benestante e perché ha l'astuto signor Olivi ad amministrare il “suo” patrimonio.
E' sempre assorto e perennemente indeciso. Ogni qualvolta vuole intraprendere una qualche azione rimpiange il suo contrario, finendo per non combinare nulla. Ciò avviene nella scelta dell'università, dove fa continuamente la spola fra le facoltà di chimica e giurisprudenza,e anche nella scelta della moglie: di 4 sorelle finisce per chiedere la mano di 3, sposandosi infine con la più bruttina e più virtuosa, Augusta. Nonostante ciò per colmare il vuoto e la noia della sua esistenza decide di avere una relazione con la dolce Carla però anche qui le indecisioni e le elucubrazioni mentali sono le predominanti. Quando è con Carla pensa ed ama follemente Augusta mentre quando è con Augusta pensa ed ama follemente Carla. Inoltre bisogna aggiungere i suoi continui propositi che si rivelano essere giustificazioni dei suoi vizi, in primis l'assuefazione alle sigarette. E infine non si deve dimenticare la sua fissa per le malattie. Si sente sempre pieno di dolori immaginari e perciò ripiange chi ha dolori concreti e si imbottisce dei più variegati farmaci. Cosicché per far cessare le sue fitte e i suoi formicolii si affida alla neonata psico-analisi, nella persona del Dottor S. il quale lo invita a iniziare un diario dove ripercorrere il suo passato. Tuttavia il caro Zeno per l'ennesima volta non porta a termine tale compito ma questa volta perchè fa una scoperta incredibile... Ma il Dottor S. non molla e per convincerlo a tornare in cura da lui fa pubblicare addirittura il suo diario, rendendo nota a tutti la sua storia.
La coscienza di Zeno segna un passo fondamentale nella letteratura italiana ( ed europea) del Novecento in quanto supera definitivamente la narrativa ottocentesca e l'esperienza verista aprendo la strada alla letteratura d'avanguardia (che avrà come promotori anche Proust e Joyce, strenuo ammiratore di Svevo) dove diviene protagonista la coscienza interiore dell'io narrante, che assorbe nel racconto tutta la sua incertezza, la sua scarsa considerazione di una logica consequenziale degli eventi. E così i D'Artagnan e le Anna Karenina del XIX secolo vengono surclassati dall'ordinario antieroe Zeno Cosini, con le sue incertezze, i suoi propositi mai realizzati e le sue manie mentali. Il tutto narrato da uno stile sufficientemente scorrevole ma al limite del banale, assolutamente lontano dalla suspense di Dumas o dai fuochi di Pirandello o dal fascino di Tolstoj.
Ciò che contraddistingue l'opera di Zeno è la disarmante semplicità della vicenda che rasenta la piattezza ma che d'altronde non potrebbe essere diversamente, essendo l'opera presentata come il resoconto di un uomo scialbo sulla sua scialba vita. Per questo motivo la Coscienza di Zeno non ha colpito minimamente il sottoscritto,anche per l'incompatibilità del suo carattere con quello di Zeno il quale più volte lo ha fatto esasperare con i suoi cervellotici piagnistei , facendogli preferire di gran lunga il più faticoso ma più scoppiettante Uno,nessuno e centomila pirandelliano.
Ad onta di ciò, come direbbe Svevo, consiglio questa opera che per la modernità del messaggio e per la novità dell'introduzione della psico-analisi al fine di scavare nei recessi dell'animo umano e della sua decadente esistenza non può non essere tralasciata, in quanto ha segnato la storia della letteratura, ma siamo sinceri. La Coscienza di Zeno non ha nulla a che vedere con il capolavoro. Buona lettura!
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La folle vittoria dell'apparire sull'essere
La vita culturale del XVIII secolo fu dominata da un grandioso movimento intellettuale, che a partire dalla Francia del 1730 conquistò tutta Europa, raggiungendo perfino l'America. I principi fondamentali di questo imponente ed eterogeneo movimento furono l'esaltazione della ragione come unico mezzo per vagliare criticamente la realtà e la centralità della figura dell'intellettuale, il cui proposito è quello di assicurare felicità e benessere agli uomini. Per questi due motivi il movimento divenne noto con il nome di Illuminismo. Fu una corrente di pochi, di un' élite cosmopolita e laica di intellettuali bramosi di modernizzazione dello Stato e di miglioramento della società. Tanto che la realizzazione concreta di buona parte dei principi illuministici furono attuati da monarchi disposti a innovare i loro regni che presero il nome di “despoti illuminati”. L'Italia, nonostante la sua frammentazione politica, non fu immune da tali spinte. I centri più importanti furono il Granducato di Toscana con Pietro Leopoldo d'Asburgo-Lorena ( il primo stato del continente in cui fu abrogata la pena di morte in tempo di pace!), il Regno di Napoli e Sicilia con Carlo III di Borbone e Milano. Propaggine della Felix Austria dell' illuminata imperatrice Maria Teresa d'Asburgo, la città lombarda non fu esentata dalle riforme della sua sovrana che invitò a partecipare gli intellettuali lombardi. Ben presto questi si concentrano in due poli: l'Accademia dei Pugni con esimi personaggi quali i fratelli Verri e Cesare Beccaria e la più “letteraria” Accademia dei Trasformati dove brillò l'ultima stella dell'illuminismo italiano e la prima a congiungerlo con il neoclassicismo sino alle sponde del Romanticismo. Il suo nome? Giuseppe Parini (1729-1799) che passò alla storia con il suo capolavoro (ahimè incompiuto), Il giorno.
Poemetto in endecasillabi sciolti ( secondo l'ironia del suo autore per attenersi alla moda del momento), Il Giorno fu riunificato in tutte le sue componenti ( sebbene le ultime due mutile) soltanto nei primi dell'Ottocento da F. Reina. Infatti Parini pubblicò a tappe dei poemetti che insieme sarebbero andati a costituire un tutt'uno con il nome di Il giorno. Inizialmente programmò tre parti: Il Mattino(pubblicato nel 1763), Il Mezzogiorno ( pubblicato nel 1765) e la Sera. In seguito ad un lungo periodo di astinenza dovuto agli impegni “politici” ( nel 1769 ottenne la cattedra di Belle Lettere nelle scuole di Brera), Parini tornò alla sua opera rivedendo le parti precedenti (Il Mezzogiorno divenne Il Meriggio) e programmò di dividere la Sera nel Vespro e nella Notte ma, a causa della morte nel 1799, non le pubblicò mai.
Il Giorno tratta della giornata tipo del Giovin Signore, archetipo della gioventù dorata milanese, e dei pesanti fardelli che quotidianamente deve sopportare. Si passa dalla toilette del mattino ( tra i dolori atroci dei pettini e delle pomate del parrucchiere) alla casa da gioco della Notte passando per il pranzo a casa della sua Dama ( “la pudica d'altrui sposa a te cara”) di cui è cavalier servente del Mezzogiorno e per le sfilate in carrozza presso il corso e le visite agli amici del Vespro. Il tutto narrato dalla voce dell'autore che si presenta come precettore del Giovin Signore al quale dà saggi consigli e ammonimenti sagaci per poter superare gli orribili ostacoli che incombono su di lui (come scegliere per colazione il “cioccolatte” o il caffè). Ma a dominare l'intero assetto è la satira pungente del Parini che si fonda sull'antifrasi. Questa è una figura retorica per cui il significato di una parola, di un sintagma o di una frase risulta opposto a quello che assume normalmente. Così mentre il narratore-precettore descrive con cura maniacale le abitudini e le occupazioni giornaliere degli aristocratici (“almo concilio di semidei”), non fa altro che sottolinearne la vacuità e il degrado. Servendosi a scopo parodico di formule epiche classicheggianti e di favole eziologiche su cianfrusaglie ( come la cipria e il tric-trac), si viene formando un ampio ritratto a tinte forti sulla decadenza che sta lentamente logorando l'aristocrazia lombarda. Ciò che colpisce di più è la mancanza di attività, di vita, di sentimenti. Tutto è coperto da un freddo velo di etichetta, cerimoniale ed ipocrisia il quale ha fatto cadere la noblesse milanese in un eterno torpore. Gli aristocratici si sono chiusi in un mondo immaginario dove a dominare è l'indifferenza e dal quale non si sporgono mai a sentire l'atmosfera rovente che in breve tempo porterà alla Rivoluzione Francese e alla fine dell' Ancien Règime. Non se ne preoccupano. Vivono il presente, denigrando il glorioso e virile passato degli avi e beffando il futuro, occupati come sono ad organizzare merende, balli e ricevimenti, a metter su discussioni pseudo-colte e ad attenersi alle amorali convenienze del loro status sociale, in primis il famelico cicisbeismo (cicisbeo - o cavalier servente - era il gentiluomo che accompagnava una nobildonna sposata nelle occasioni mondane e l'assisteva nelle incombenze personali come toletta,compere, visite, giochi. Passava con lei gran parte della giornata e doveva elogiarla, sedersi accanto a lei nei pranzi e nelle cene, nelle passeggiate o nei giri in carrozza).
Parini si serve di uno stile accuratissimo, solenne, aulico, elevato, ricco di nozioni mitologiche, di eufemismi ironici pazzeschi e di descrizioni minuziosissime, che variano dalle raffinate miniature rococò in cui intervengono amorini ed allegorie ad un sublime lirismo neoclassico.
Non è assolutamente un linguaggio semplice, è ricchissimo di sfumature e di riferimenti che irrimediabilmente scombussolano il lettore se non spreme di continuo le meningi. Ma, nonostante ciò, è incantevole, intrigante, raffinato e seducente.
Il Giorno non è un'opera leggera. Può annoiare terribilmente come conquistare richiedendo comunque da parte del lettore tempo, energia e sforzo. Però il risultato è oggettivamente strabiliante. Buona lettura!
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La bellezza invisibile della città
Grigio. Colore di passiva neutralità e di agghiacciante monotonia. Non possiede la passione del rosso, la speranza del verde, la serenità del giallo, la purezza del blu e neppure la raffinata cupezza del nero. Atono, spento, omogeneo. Non ha emozione, sentimento,vitalità e neppure infonde emozione, sentimento e vitalità. E' impersonale e inespressiva freddezza .
Pensate se questo gelido pigmento si estendesse mano a mano, secondo un processo lento ma pur sempre inesorabile. Pensate se gradualmente inghiottisse il verde dei campi, l'oro del sole, l'argento della luna, il blu del mare e del cielo. Pensate se il mondo divenisse esclusivamente grigio. Pensate se la vita divenisse esclusivamente grigia. Allora ogni sentimento appassirebbe, ogni energia si estinguerebbe e l'uomo infine crollerebbe in un abisso di fiacchezza e inespressività.
Vi sembra un incubo lontano mille anni luce dalla realtà ma non è così. Pensateci bene. Aggiungete al grigio smog, cemento, spazzatura e fetore. Non vi viene in mente niente? E se vi parlassi allora di inurbamento, cementificazione, metropoli, periferie? Ora è tutto più chiaro!
I canoni di costruzioni delle città d'oggi tendono al guadagno, alla speculazione, all'ammassare e non si preoccupano dell'abbellire, del rendere l'ambiente migliore dal punto di vista ecologico ed estetico. Sentirsi circondato dal bello stimola comportamenti nobili, retti, moralmente belli. Tuttavia, sebbene l'aspetto poco invitante, milioni di persone si ammassano nella città. Ma perché la città? E soprattutto perché la città di oggi? Che cosa si cela dietro facciate di vetro e condomini di cemento, sotto catrame e strade ipertrafficate? La città può avere una qualche bellezza nascosta?
Risponde a tutto in ciò in maniera affascinante e allo stesso tempo enigmatica Italo Calvino(1923-1985), con il suo “ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”: Le città invisibili, pubblicato per la prima volta nel 1972.
Partiamo ab ovo. Che cosa sono le città? “Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.” Ecco l'essenza delle città ,la loro bellezza intrinseca invisibile essendo coperta da tonnellate di edifici e di materiali da costruzione.
Da questa definizione, Italo Calvino, librandosi nelle ali della fantasia che (appare paradossale) non superano mai i confini della realtà, dà vita a un'opera all'apparenza breve ma ricchissima di riflessioni, discussioni e meditazioni di una vita che, grazie a uno stile sublime e incantevole, si proiettano in città verosimilmente impossibili. Queste ultime vengono “classificate” in undici sezioni costituite ognuna da cinque città (con nomi femminili e classicheggianti) eterogenee ma comunque con un tratto in comune. Allora troviamo:
1. Le città e la memoria dove “la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee della mano”.
2. Le città e il desiderio dove luogo abitato e desiderio si fondono nella mente del viaggiatore e del cittadino.
3. Le città e i segni dove segnali e cartelli vanno a marcare l'essenza stessa dell'abitato.
4. Le città sottili dove vengono esplorate città astratte ma rasenti la realtà.
5. Le città e gli scambi dove i commerci avvengono in maniera particolare e con mercanzie particolari
6. Le città e gli occhi dove lo sguardo assume il posto centrale
7. Le città e il nome dove il nome del luogo influenza la natura dei suoi abitanti
8. Le città e i morti dove aldilà e mondo vivente vanno a braccetto
9. Le città e il cielo dove il firmamento non è mai posto in secondo piano
10. Le città continue dove le città non finiscono mai
11. Le città nascoste dove le città celano altre città.
Il tutto poi è amalgamato dai discorsi tra il meditabondo mercante veneziano Marco Polo ( l'ideatore di tutte le descrizioni delle città presenti nell'opera) e del suo malinconico imperatore Kublai Khan, desolato perché mai riuscirà a comprendere razionalmente il suo sterminato impero.
Calvino,con il suo stile profondo ma non pesante, raffinato ma non intricato e attraverso i filosofici pensieri e le perle di saggezza di Marco Polo, affronta la tematica della città non da un punto di vista apocalittico e scettico ma da un punto di vista antropologico: più dello spiegarsi le ragioni della cementificazione e dell'urbanizzazione si chiede quali sono “le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi”. E inoltre si domanda anche quali sono le soluzioni per superare la nostra frenetica vita, “quell'inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
Nonostante la presenza di contenuti così interessanti, la fluidità della lettura e lo stile ammirabile dell'autore, alla fine ho provato un forte senso di amaro in bocca. Non è stata la particolarità della impostazione dell'opera a provocare ciò ma l'enorme profondità di pensiero di Calvino. Ho sentito di aver colto solo la scorza, non l'essenza. Ho provato un senso di vuoto e di incapacità di catturare ciò che si trova al di sotto dell'evidente, la profondità della profondità del messaggio dell'opera. Anche alcuni dei dialoghi tra Kublai Khan e Polo sono apparsi appartenere ad un progetto, ad un disegno che ahimè non non ho decifrato completamente.
Malgrado ciò l'opera continua ad affascinarmi e ,chissà, con qualche anno di distanza riuscirò a raggiungere il cuore di questo piccolo ma geniale monile, che vi consiglio vivamente. Buona lettura!
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Una dittatura mascheratasi da democrazia
Londra, febbraio 1944
In piena seconda guerra mondiale, in un clima rovente, continuano da parte degli Alleati gli attacchi al nazifascismo. Nel Regno Unito,tuttavia, mentre l'opinione pubblica si scaglia contro i regimi totalitari nemici, si tura le orecchie di fronte ad un qualsiasi attacco o insinuazione verso un altra importante dittatura di fatto: l'URSS. Infatti dietro la facciata di potenza militare e di uguaglianza e fratellanza comuniste, la Madre Russia di Stalin è un paese fortemente centralizzato, con una censura imperante e dominato dal sospetto, dalla delazione, dall'utilizzo massiccio dei gulag e dalla corruzione dilagante. Però l'Inghilterra, sebbene accetti critiche verso la propria classe dirigente e sebbene rimarchi continuamente la propria tolleranza di pensiero, soffoca sul nascere ogni possibile critica contro l'alleato russo, indispensabile per vincere le potenze dell'Asse. Proprio in questo frangente di tempo un giovane autore inglese- nato in Bengala da una famiglia scozzese, che ha lavorato nella polizia imperiale inglese e poi come giornalista e che ha partecipato alla guerra civile spagnola- conclude la stesura della sua opera La fattoria degli animali, la quale sotto forma di favola biasima il regima comunista. Nessun editore si prende il carico di stampare questo scritto, perché,secondo l'opinione pubblica , non sta bene pubblicarlo. Perciò solo a guerra finita il testo viene dato alle stampe e inaspettatamente riceve un enorme successo che è proseguito sino ai giorni nostri, rendendo celebre il suo autore. Il suo nome? Eric Arthur Blair, meglio conosciuto come George Orwell (1903-1950).
In una notte di inizio marzo, nel granaio principale della Fattoria Padronale, il Vecchio Maggiore, un anziano verro, fa riunire tutti gli animali della tenuta. Sentendosi ormai vicino a morire, lo stimato maiale mostra ai suoi compagni come sia la realtà della fattoria: “La vita degli animali è sofferenza e schiavitù. Per qual motivo continuiamo dunque a vivere in tanta miseria? Perché il frutto del nostro lavoro ci viene quasi interamente rubato dall'Uomo. L'Uomo è l'unico vero nemico che abbiamo . Eliminiamolo dalla scena, e la causa prima della fame e del superlavoro sarà abolita per sempre. Ricordate: tutti gli uomini sono nemici. Tutti gli animali sono compagni. E sopratutto tutti gli animali sono uguali .” Il discorso del Vecchio Maggiore raccoglie il consenso di tutti, ma per la liberazione dal giogo umano dovranno occuparsi altri animali perché l'anziano verro muore pochi giorni dopo. La direzione viene affidata agli intelligenti e sagaci maiali Palladineve e Napoleone i quali danno vita ad una vera e propria ideologia-l'Animalismo- e grazie alla loro energia e abilità oratoria la notte del 23 giugno il padrone della azienda agricola, l'alcolizzato Mr. Jones, viene cacciato con tutta la sua famiglia. Ora sono gli animali a comandare: è finita l'era della Fattoria Padronale mentre inizia quella della Fattoria degli animali. Questa diventa un vero e proprio stato con la propria bandiera, il proprio inno, le proprie leggi (7 comandamenti che si incentrano sull'uguaglianza degli animali e sull'odio verso gli umani) e la propria forma istituzionale (assemblea plenaria che si riunisce ogni domenica). Palladineve e Napoleone sono gli unici a proporre agli altri compagni(ancora frastornati per la loro vittoria) piani di organizzazione, che vengono accettati all'unanimità. Tuttavia i due iniziano ad avere idee contrastanti e le assemblee settimanali diventano roventi finché Napoleone prende il potere con la forza. Da questo momento la Fattoria degli Animali conoscerà numerose novità. Napoleone e tutti i maiali gradualmente si accollano sempre più privilegi( e vizi propri dell'Uomo) in nome della difesa della fattoria mentre gli altri animali sembrano lavorare duramente più per il sostentamento di quelli che per il loro. Non sarà che tutti questi cambiamenti stanno portando la situazione a quella precedente la cacciata del signor Jones?
George Orwell, con un tono leggero,semplice e allo stesso tempo gravido di sarcasmo e pungente ironia, mostra come sia rapida la parabola discendente da utopica democrazia, basata su una assoluta uguaglianza, a regime totalitario,basato sul “tutti gli animali sono uguali ma alcuni animali sono più uguali di altri”, mediante la demagogia, il lavaggio del cervello e la disinformazione (rappresentati dal maiale Piffero, il portavoce di Napoleone capace di rendere credibile il paradossale). Ed inoltre evidenzia quanto sia lento, anzi impossibile il processo inverso in quanto gli uomini ( nella favola rappresentati dagli astuti, ingordi ed egoisti porci) faranno sempre il loro comodo e se ne avranno l'occasione prevaricheranno sempre sui più deboli e ingenui.
È difficile non provare a fine lettura un senso di sgomento per la modernità del messaggio del libro. Infatti, anche se ad essere al centro è lo stalinismo, vengono rappresentate dall'autore ( forse non inconsapevolmente) le dittature odierne, che sfruttano il populismo e un'oratoria suadente per ricevere dal popolo stesso (spesso analfabeta) tutto il potere il quale viene accentrato nelle mani di un'unica persona o di un ristretto gruppo.
Per l'attualità del messaggio e per l'originalità dell'esposizione consiglio animosamente questo brevissimo libro che oltre a scovare i mezzi usati dai tiranni del XX-XXI secolo per ottenere il potere ci mostra anche l'unico strumento per abbatterli: l'indipendenza di pensiero. Buona lettura!
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"Solo la virtù e la bontà possono fare la...
... vera bellezza"
Nel 1714 alla morte della regina Anna Stuart, fu incoronato re del Regno Unito un piccolo principe tedesco imparentato con la sovrana: Giorgio d'Hannover. Tale evento diede inizio ad un'era della storia inglese che prese il nome di georgiana in quanto a regnare vi furono dal 1714 al 1830 quattro re Giorgio. Quest'epoca conobbe un grande commerciale e l'Inghilterra divenne( anche se a prezzo della perdita delle colonie americane) capo indiscusso delle rotte commerciali. Importanti ministri come Robert Walpole e William Pitt si adoperarono ad innovare l'economia e la società britannica ponendo le fondamenta della rivoluzione industriale di fine secolo. Sotto i re Giorgio, la borghesia assunse sempre più importanza mentre l'alta aristocrazia finì surclassata da banchieri, mercanti e dalla gentry ( la piccola aristocrazia di campagna). Tuttavia con il progredire economico e sociale progredirono anche i costumi che divennero sempre più disinibiti e liberi, specie nelle classi elevate. Infatti il '700 è il secolo del libertinaggio, della corte francese che era poco fornita di verecondia , del cicisbeismo all'italiana, di Madame de Pompadour, di Casanova e l'Inghilterra non fu immune da tali caratteri. Tuttavia specie nell'incalzante ceto medio si levava un grido di protesta, di ritorno all'austerità. Prosperarono i scritti didascalici, ma anche quei romanzi che avessero seguito i criteri di verosimiglianza e che avessero avuto uno scopo etico. Qui si inserisce uno dei bestsellers settecenteschi e uno dei primi esempi di romanzo epistolare, che avrà in questo secolo un grande successo: “Pamela o la virtù ricompensata” di Samuel Richardson (1689-1761), pubblicato per la prima volta nel 1740.
Pamela Andrews è una giovane sedicenne, figlia del Gentleman Andrews, noto in tutta Inghilterra per la probità e onestà. Mr Andrews a causa di fallimentari investimenti era caduto nella più pietosa povertà ma per la sua amata figlia era riuscito a trovare l'occasione per farla uscire da tale stato. Pamela a 12 anni era divenuta cameriera personale della Signora B., una ricca e importante aristocratica inglese, che le diede una buona educazione, incentrata sull'onore e la virtù. Infatti diceva la signora B. vi erano troppe dame che avevano perso ogni decenza e troppi libertini, che sotto la finta maschera di gentiluomini ingannavano e rovinavano le fanciulle.
Appena compiuti sedici anni, Pamela vede spirare la sua signora che la affida a suo figlio, il venticinquenne Mr. B. Su di lui si dice che abbia avuto una giovinezza assai spericolata e che sia stato un incallito libertino ma Pamela ha grande fiducia e riverenza nei suoi confronti. Difatti la giovane ha sviluppato una grande umiltà che mista alla sua intelligenza, prudenza e naturale bontà la rende irresistibile a chiunque stia vicino a lei. Oltre a ciò, bisogna aggiungere una grazia innata e una bellezza angelica che la rende praticamente perfetta ( sebbene sia un po' troppo melliflua, ingenua e sensibile, ma questi sono “difetti” superabilissimi). Proprio per questo, pur non volendolo, la giovane cameriera finisce nelle attenzioni del suo stesso padrone, che,dopo averla blandita con innocenti cortesie, tenta di sedurla. Uno shock per la povera Pamela che è stata educata sin dalla fanciullezza a difendere con la vita la sua virtù: e quale è per una fanciulla non ancora maritata la virtù per eccellenza se non la castità? Sentendosi attentata al bene più prezioso che possiede, la giovane non si lascia intimidire dal potere e dal rango del suo padrone e con il massimo coraggio affronta l'ira e i continui marchingegni di Mr. B, alcuni dei quali veramente subdoli e impensabili. Ma se tra i due si insinuasse Cupido, cosa succederebbe? Si “abbasserebbe“ tanto l'altezzoso e irascibile Mr. B. a sposare la cameriera di sua madre e a subire un'onta simile?
La vicenda di per sé è semplice e lineare con qualche colpo di scena al momento giusto e infarcita di una buona dose di zucchero e sentimentalismo. Allora che cosa ha fatto sì che questa graziosa telenovela ante litteram divenisse un successo del '700 e un classico letto ancora oggi?
Prima di tutto la trama di sconvolgente novità per l'epoca, dovuta al fatto che ruota intorno ad un personaggio in primis di bassa condizione sociale, in secundis per il fatto che sia una giovane donna, la quale, con uno spirito ed una forza superiori alla sua età, abbia ingaggiato una battaglia contro le convezioni sociali per affermare la parità di sessi in materia di etica sessuale.
Inoltre con Pamela, come sottolinea lo studioso Masolino d'Amico,”la ristretta ideologia calcolatrice della nuova borghesia entra nella sfera dell'arte , fino ad allora campo esclusivo della classe colta e spregiudicata”. Difatti l'aristocrazia per tutto il romanzo viene criticata in quanto si crede di possedere in virtù della nobiltà di sangue la nobiltà di animo mentre, chiusa nella sua gabbia di altezzosità e vanagloria, è sprofondata nell'abisso del vizio e del malcostume da cui non ha più via di uscita, se non mediante l'esempio della umiltà propria della gente comune( rappresentata da Pamela). Ecco il clamore e anticonformismo dell'opera!
Perciò per la ricchezza e finezza con cui Richardson grazie all'azzeccata scelta del genere epistolare ha riuscito a rendere a tutto tondo la psicologia dei personaggi, con i loro dubbi e con le loro incertezze, per l'importanza antropologica dell'opera in quanto consegna uno squisito e minuzioso ritratto della vita quotidiana del '700, per l'avvincente e piacevole storia d'amore presentata( anche se lo stile dell'autore eccede talvolta nella lentezza e ripetitività), consiglio questo gioiellino, affinché inviti dilettando il lettore ad un ritorno ad una moderata austerità dei costumi, della quale oggi abbiamo veramente bisogno. Buona lettura!
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Quando l'impossibile diventa possibile
Sono molti i motivi che hanno segnato la fortuna imperitura di Agatha Christie, molti i motivi per i quali fu soprannominata la regina del giallo mentre lei preferiva definirsi nei confronti delle sue opere un'artigiana, molti i motivi per i quali i lettori di ogni tempo non possono fare a meno delle sue opere. Eccovene soltanto alcuni:
1. Agatha Christie, come nota la studiosa Della Frattina, si è attenuta alla struttura classica della detective story,ma trovando sempre delle innovazioni;
2. A.C. ha dato al lettore ciò che gli chiede: la sorpresa continua, senza mai provocare confusione ma al massimo solo disorientamento;
3. A.C. ha reso unici i suoi romanzi grazie alla sua ironia e al senso dell'humour tipicamente British;
4. A.C. ha dato vita a personaggi indimenticabili come Poirot con la sua famosa “testa d'uova” o la simpaticissima anziana Mrs. Marple, i quali nonostante la loro grande capacità nel risolvere delitti,non appaiono mai irrealistici o disumani, perché anche loro hanno difetti, tic e manie;
5. A.C ci ha lasciato un affresco vivido e caratteristico dell'Inghilterra dalla Prima Guerra Mondiale agli anni Settanta;
Tutto ciò lo si ritrova chiaramente in un incredibile capolavoro, frutto della sensazionale capacità della regina del giallo: “Ten Little Niggers”, pubblicato per la prima volta nel 1939.
Al largo della placida costa del Devon si trova un'isola, Nigger Island, chiamata in questo modo perché il suo aspetto dall'alto assomiglia al profilo di una persona di colore. Tale isola era stata comprata da un milionario americano che vi aveva fatto costruire una lussuosissima e moderna villa ma a causa del mal di mare della terza moglie l'aveva venduta ma a chi non si sa: a una diva hollywoodiana? Ad un principe? All'Ammiragliato per compiere segreti esperimenti?
Sta il fatto che dieci persone, dal profilo assai variegato e che non si conoscono tra di loro, sono stati invitati chi per un motivo chi per un altro da un fantomatico U.N.Owen in questa isola.
Cosicché un maggiordomo e sua moglie, un militare in pensione, una acida zitella, un playboy amante della velocità, un famoso medico londinese, un ex poliziotto, un noto giudice, un ex esploratore e una giovane insegnante di ginnastica si ritrovano insieme nella tranquilla isola. Tuttavia ad aspettarli non vi è Mr. Owen ma dieci statue di porcellana rappresentanti dei giovani negri e una filastrocca appesa su ogni camera da letto che comincia così: “Dieci poveri negretti se ne andarono a mangiar: uno fece indigestione, solo nove ne restar...”. Tutti ridono di fronte a tale componimento ma l'ilarità e la pace dell'isola lasceranno posto al terrore: infatti a cena una voce dal nulla accusa tutti i presenti di essere assassini e li condanna alla pena capitale: ben presto gli ospiti muoiono (stranamente secondo i metodi espressi nella filastrocca) e mano a mano le statuette di porcellana scompaiono. Chi è l'artefice di tali delitti paradossali? Uno straniero (strano visto che a causa del maltempo nessuno può accedere a Nigger Island...) o uno degli ospiti (anche se è ancor più strano)?
Agatha Christie con il suo stile misurato, razionale, preciso, quasi scientifico è riuscita a creare magistralmente un romanzo ad incastro perfetto dove ogni particolare non va tralasciato e con un esito davvero incredibile. Ma non è solo il giallo a contraddistinguere Ten Little Niggers perché l'autrice ha dipinto mirabilmente la psiche dei dieci ospiti, che diventano progressivamente animali in una spirale di sospetto e terrore.
Non posso far altro che consigliare spassionatamente questa perla immancabile a tutti gli amanti del giallo e a chi vuole cominciare questo genere dal momento che vi lascerà sicuramente a bocca aperta! Buona lettura!
“Tutta la faccenda ha l'aria di un romanzo poliziesco. Un giallo pieno di emozioni.”
(Anthony Marston, uno dei dieci "ospiti" di Nigger Island)
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Il vulcano e le formiche
Milano 1881
La città è in festa per la grande Esposizione Nazionale. In questi giorni alla Scala si rappresenta il Ballo Excelsior che si conclude con l'inno alla Scienza, al Progresso, alla Fratellanza, all'Amore. Questo storico evento rappresenta la massima espressione di una città in pieno fermento industriale e urbano. Milano si riempie di importanti industrie, come la Pirelli, e assume un aspetto nuovo che rispecchia le innovazioni della Belle Epoque (basti pensare alla Galleria Vittorio Emanuele II) e anche la sua estrema vitalità. Gli eventi mondani prosperano e tra i sfavillanti saloni di contesse ma anche di mogli di ricchi imprenditori passeggia un siciliano,conosciuto per un romanzo epistolare intitolato Storia di una capinera. Il suo nome è Giovanni Verga, nobile di provincia, partito prima da Catania poi da Firenze per avere successo. Egli è colpito dai grandi passi del progresso delle tecniche e delle scienze di quel tempo, ma dietro il lusso ostentato della borghesia e dei pochi nobili rimasti, riconosce la folla, divenuta proletariato che vive in condizioni infime e che reclama i propri diritti. Lo scrittore catanese rimane sconvolto dai numerosi individui che si sono lasciati trasportare dalla corsa del progresso e ne sono stati travolti e che ora sono abbandonati nel dimenticatoio della loro triste miseria. Egli vuole smascherare nella luce gloriosa dello sviluppo “quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono” e lo fa con un ciclo purtroppo rimasto incompiuto: I Vinti che si apre con i Malavoglia. Ambientazione: la feudale,intatta, solida, fuori dalla storia Sicilia. Soggetto: “lo studio sincero e appassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio”.
Nel piccolo villaggio di Acri Trezza, nei dintorni catanesi, vive tranquillamente nelle sue abitudini cicliche e stagionali e nelle sue tradizioni di pescatori la famiglia Toscano, chiamata in antitesi con la sua energica voglia di lavoro, Malvoglia. Essa è formata da: Patron 'Ntoni, il più anziano e perno del nucleo famigliare, con le sue ampie conoscenze marittime e con il suo sterminato registro di proverbi; suo figlio Bastianazzo, un uomo dal cuore buono, forte e molto rispettoso nei confronti del padre; sua moglie Mariuzza (Maria) detta la Longa, un'ottima e affettuosa massaia, e i loro figli 'Ntoni, un ragazzo buono ma ingenuotto e un po' brontolone, Luca, molto più giudizioso del fratello, Mena (Filomena), giovane timida chiamata Sant'Agata perché passa tutto il suo tempo a tessere, Alessi (Alessio), birbantello tutto suo nonno e la più giovane di tutti, Lia (Rosalia). Questa unita famiglia vive serenamente nella casa del nespolo grazie alla propria imbarcazione, chiamata Provvidenza. Ma il bucolico idillio viene interrotto dalla chiamata in leva di 'Ntoni, il quale andando lascia più lavoro agli altri familiari. Allora patron 'Ntoni, per ottenere un cospicuo guadagno nel quale possa rientrare la dote di Mena, accetta di far trasportare un carico di luppoli (senza saperlo avariati) presi a credito da zio Crocifisso Campana di Legno, l'usuraio di Acri Trezza. Tuttavia succede una disgrazia: in una tempesta la Provvidenza affonda con il suo carico e con Bastianazzo. Iniziano le sciagure per la famiglia Malavoglia: lutti, malattie, debiti, pignoramenti, minacce, sacrifici assaltano i suoi membri che rimangono comunque uniti e disposti a ricreare le antiche fortune, aggiustando il relitto della Provvidenza. Ma di provvidenza alla Manzoni non se ne trova le tracce, la casa dei Malavoglia è continuamente visitata dalla Morte e dalla Sfortuna. Oltre a questo ad aggravare la situazione ci si mette il giovane 'Ntoni, tornato dalla leva per sorreggere la famiglia, che odia il suo mestiere, il suo destino misero ed immutabile mentre in città aveva visto uomini andare in carrozza tutto il tempo e donne ricoperte tutte di seta. Che senso ha lavorare quando la Sorte torna a sempre a disfare quel poco che si è ricostruito? In un paesino dove tutti si conoscono tra loro, e dove ognuno sparla dell'altro, tra pettegolezzi e intrighi rusticani, i poveri Malavoglia riusciranno a risollevarsi dalle sciagure che li colpiscono continuamente? E pensare che tutto ciò è stato causato dal desiderio di guadagno proveniente da un carico di luppoli!
Verga con questa storia- epurata del romanzesco, dell'intreccio a vantaggio di una struttura circolare che richiami la ciclicità della dimensione contadina dominante nell'opera- ci mostra la sua visione pessimistica della realtà, dove ognuno non può far nulla per cambiare il proprio destino e innalzare la propria posizione e vincere la propria miseria, dove gli apparenti vantaggi del progresso aggravano solamente la situazione in quanto la natura è dura e malvagia e distrugge eternamente le opere che gli uomini costruiscono e ricostruiscono in una spirale senza fine. Come afferma Vincenzo Consolo, “il mondo come luogo aspro e inospitale al pari d'un vulcano; la vita degli uomini come quella precaria e disperatamente ostinata delle formiche. E nel deserto della natura e della storia, unica consolazione si trova nella fratellanza umana; si trova nelle religione della tradizione e dei legami famigliari, nell'attaccamento, tenace come quello dell'ostrica allo scoglio, al paese natio”. E tutto ciò si incarna nella figura del patriarca 'Ntoni, strenuo difensore del principio “per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro”.
Dunque Verga ci lancia un richiamo al regresso, al ritorno alle tradizioni degli antenati, al culto dell'unità famigliare, alla fratellanza rusticana, uniche soluzioni alle meschinità che si celano dietro il progresso. Il tutto con uno stile quanto più oggettivo e realistico possibile, con la resa acuta e precisa del dialetto popolare, grazie all'uso del discordo indiretto libero, il quale stile, specie all'inizio, può confondere il lettore e che richiede comunque una continua attenzione. Ma ne è valsa veramente la pena. Non posso dire altro che consigliarvi energicamente questo breve romanzo e augurarvi una buona lettura!
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Ottanta giorni per scoprire la felicità
Il XIX secolo fu l'epoca del colonialismo, del selvaggio assalto europeo all'Africa, del domino dell'Impero inglese, giunto all'apogeo sotto il lungo regno di Sua Maestà Graziosissima la regina Vittoria ( 1837-1901). Il Regno Unito infatti controllava le principali tratte mondiali, aveva colonie in ogni continente ( Canada, Sud Africa, India, Australia ecc..) ed una flotta impareggiabile.
Il XIX secolo fu l'epoca della febbre dell'oro nei sempre più ricchi Stati Uniti che attrasse migliaia di avventurieri da tutto il mondo.
Il XIX fu l'epoca dei grandi viaggi: transatlantici a vapore venivano costruiti sempre più capienti, sempre più lussuosi per garantire comfort e praticità ai ricchi passeggeri, le ferrovie si espandevano e miglioravano sempre di più (basti pensare alla Pacific Railroad che univa le due sponde degli USA) e i governi coloniali si adoperavano per rendere la durata dei viaggi con opere anche colossali (come il canale di Suez inaugurato nel 1869 dall'imperatrice dei francesi Eugenia de Montijo).
Il XIX secolo fu l'epoca della mania delle lunghi peregrinazioni per il mondo e del boom delle storie di viaggio.
E proprio in quest'ultimo ambito che è doveroso inserire uno dei grandi bestsellers del 1800, che fece sognare e innamorare adulti e piccini, uomini e donne e che ancora oggi è ritenuto un intramontabile classico della letteratura d'avventura: “Le tour du monde en quatre-vingts jours” ( il giro del mondo in ottanta giorni) di Jules Verne (1828-1905), pubblicato per la prima volta nel 1873.
2 Ottobre 1872
In una grigia Londra, dalla sua dimora situata al numero sette di Saville Row, tuba nera in testa e bastone da passeggio in mano come ogni gentleman che si rispetti, alle 11 e 30 del mattino, Mr Fogg si dirige (come ogni giorno) al Reform Club (uno dei più prestigiosi ed esclusivi della capitale) per il lunch. Mr. Pheleas Fogg è un orologio umano: la sua giornata è studiata nei minimi dettagli che non devono variare mai. Uomo sempre impeccabile nelle maniere e nell'aspetto, è celibe, senza amici, senza parenti perciò ancor più misterioso per gli abitanti londinesi. È un tipo taciturno, imperturbabile, con un self-control incredibile: insomma un british gentleman con i fiocchi anche per le cospicue risorse danarose, di cui nessuno sa le origini. Però la mattinata per Mr. Fogg aveva subito un leggero mutamento che non aveva tuttavia intralciato la quotidiana tabella di marcia: aveva licenziato il suo domestico per la sua imperdonabile leggerezza (aveva osato servire al padrone l'acqua da barba con una temperatura di 84 °F invece che di °86F!) e lo aveva sostituito con il gioviale e bonario Passepartout. Costui aveva avuto una gioventù movimentata (era stato saltimbanco,acrobata, cameriere...) ma voleva trovare tranquillità nella cara fredda Inghilterra e quale padrone era meglio se non l'abitudinario Mr Fogg?
Ma non divaghiamo: Mr Fogg dopo aver pranzato passa tutta la sua giornata a leggere le ultime notizie sull'imperdonabile furto alla Banca di Inghilterra e poi,dopo la cena delle 17:30, inizia a giocare con altri soliti quattro membri del club a whist (un gioco di carte che esige il silenzio). Tra una mescolata e l'altra del mazzo la discussione cade su un articolo del Morning Chronicle che afferma la possibilità di un giro del mondo in soli ottanta giorni. Nessuno dei giocatori ci crede, eccetto Mr. Fogg che accetta una scommessa dei suoi amici: 20.000£ se riuscirà a compiere il tour globale in quel “brevissimo” lasso di tempo. Alle 20:35 con una valigia, 20.000£ per le spese correnti e Passepartout sconvolto da quel viaggio folle, Phileas Fogg sale in carrozza nella stazione centrale di Londra. Dovrà essere al Reform Club alle 20:35 del 21 Dicembre per vincere una scommessa rischiosissima: infatti questo viaggio richiede un gioco d' incastri di coincidenze che non permette il minimo ritardo. Ma Phileas Fogg rimane marmoreo come sempre di fronte a questa pericolosa avventura: gli attendono paesaggi incantevoli, la sterminata e variegata India, le risaie del Giappone, il selvaggio West, New York e i nostri personaggi scopriranno nuove culture, nuove tradizioni e nuovi individui tra cui la bellissima principessa indiana Mrs Auda. Ma Mr. Fogg si lancia in questo viaggio alla ricerca di un tesoro difficilissime da trovare: la felicità. Riusciranno i nostri eroi in questo perigliosissimo tour del mondo in soli ottanta giorni?
Verne riesce a ricreare le meraviglie ( paesaggistiche e non) che disseminano il globo con una capacità descrittiva incredibile. Con un certo humour che si sposerebbe al carattere di Mr Fogg, l'autore - servendosi anche di termini chiari, sintetici e tecnici ( anche se alcuni, specialmente nella descrizione delle manovra marittime, possono far scombussolare )- dipana il viaggio dei protagonisti della vicenda (tra i quali non può non inserirsi lo stesso lettore) con una strabiliante precisione geografica ma senza mai eliminare l'elemento dinamico, adrenalinico che contraddistingue il romanzo(specie nell'epilogo).
Lo scopo che si era prefissato Verne con quest'opera era di far apprendere e appassionare i giovani alla geografia. Con me ci è riuscito ( ed è un'impresa piuttosto difficile farmi comprendere tale materia che è un mio tallone d'Achille) e ho appreso più notizie (sull'ambiente, sui costumi, sulle popolazioni del globo) in questo libro che sul banco di scuola. Il risultato è stato apprendimento senza noia, perché è impossibile che la penna di Verne non incateni chi sia interessato a scoprire quel fantastico mondo che è la letteratura di avventura. Buona lettura!
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“La visione dell'irrimediabile nostra solitudine”
Nel via vai giornaliero che ci tartassa continuamente, nelle tante insignificanti incombenze per le quali corriamo e ci spossiamo, tra sbuffi e sospiri, ci sostiene la sicurezza che ciò che vediamo, compiamo, rincorriamo sia lo stesso che vedono, compiono, rincorrono gli altri; che la realtà che di continuo tocchiamo è la stessa che toccano gli altri. Ci sentiamo rincuorati dalla “consapevolezza” che vi siano dati di fatto, su cui non possiamo dubitare, come la conoscenza totale del nostro corpo. Ma se ci fermiamo un momento- un attimo, un attimo solo- e ci interroghiamo se ciò che pensiamo di essere sia lo stesso che gli altri pensano di noi, se la realtà che noi vediamo in un certo modo la vedano ugualmente gli altri. Allora cosa scopriamo? Che tutto ciò su cui abbiamo basato la nostra sicura esistenza è solo apparenza, illusione, disincanto perché in realtà l'individuo è come uno specchio frantumato, tanti frammenti che riflettono la stessa persona ma in sembianze sempre differenti. L'uno, diventa due, tre, centomila e proprio per questo nessuno, dal momento che all'interno dell'uno si intravede solo un amalgama irriconoscibile di tanti “sosia”, differenti l'uno dall'altro, quasi l'opposto l'uno dell'altro. Di che cosa allora ci rendiamo conto? Della “irrimediabile nostra solitudine”.
Ecco come ci fa aprire gli occhi l'ultimo romanzo e gemma pregiatissima di Pirandello: “Uno, nessuno, centomila”, pubblicato per la prima volta a puntate sulla “Fiera Letteraria” nel 1925 ma sul quale l'autore già lavorava dal 1909-1910.
Vitangelo Moscarda, è un benestante di provincia che vive tranquillamente nella “nobile città di Richieri” tra gli ozi e i piaceri, provenienti dalla banca fondata di sua padre. Questo ventottenne siciliano non è mai riuscito a concludere un progetto che si ere prefissato (come l'università) non per leggerezza ma perché “ci si affondava troppo e non si riesce a nulla affidandosi troppo in qualsiasi cosa. Si vengono a fare certe scoperte!”. Vitangelo è una persona ordinaria che trascorre la sua esistenza tra i suoi pensieri e le risatine della sua cara moglie Dina, che lo chiama affettuosamente “Gengè”.
Un giorno ,tuttavia, Dina fa notare al marito che ha il naso che pende a destra. Vitangelo rimane basito dalla scoperta di questo “problemino”, del quale non si era mai reso conto. Ma fosse solo il naso un po' storto! Dina mostra al caro Gengè che ha anche le gambe leggermente arcuate, le sopracciglia ad accento circonflesso e tanti altri piccoli difetti, mai visti fino ad ora da lui. Vitangelo allora scopre come non sia quello che pensava di essere ma agli altri appare in maniera sempre differente. Ma fossero solo due i “sosia” interni del povero signor Moscarda! Ben presto prolificano fino a divenire centomila, ognuno diverso a seconda della persona che lo incontra: dallo sciocco e infantile Gengè, creato da Dina, al caro Vitangelo del signor Quantorzo (amico di famiglia e direttore della banca paterna) e così via. L'uno si frantuma in centomila e diviene nessuno dal momento che se si prova a vedere il proprio corpo, scevro da ogni stato d'animo e impressione, si ottiene solo un neutro automa, il quale non sa nemmeno di avere un cuore che batte, dei polmoni che respirano e può essere spazzato via da un momento all'altro. Vitangelo, più che vivere, vuole vedersi vivere, vuole conoscersi ma scopre che “quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire” in quanto uno solo “si atteggia, e atteggiarsi è come diventare una statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa”. Però egli non vuole demordere e decide di stravolgere tutti i Moscarda che gli altri gli hanno affibbiato, alla ricerca del Moscarda che è per lui. Nel far ciò riscoprirà e rivedrà in una nuova luce la sua infanzia, i suoi affetti e smaschererà ogni sua rappresentazione sociale, mostrandone la finzione di base, e tale progetto lo porterà a degli esiti che hanno (apparentemente) dell'incredibile....
Dal primo romanzo, L'esclusa, Pirandello è cambiato tanto con un'opera, che si riduce per gran parte ad un monologo ininterrotto, che Sergio Campailla ha definito,giustamente, “lucidissimo delirio”. La pazzia, infatti, è un filo rosso del romanzo. Essa non è vista assolutamente in senso negativo, anzi appare come unico mezzo per poter apprendere il caos della vita e delle convenzioni sociali. Infatti per poter apprendere la realtà, bisogna estraniarsi da questa e per far ciò bisogna rompere con i condizionamenti e i legami della terrestrità. Bisogna volare e per spiccare il volo è necessaria la pazzia, la “forma più perfetta della vita vivente” come ha affermato il figlio di Pirandello, Stefano.
Questa lettura non è semplice, bisogna fermarci, tornare in dietro, riprendere per poter seguire i ragionamenti complessi e ingarbugliati di una mente disperata dalla perdita della propria identità, dalla frantumazione della propria persona, dalla perdita delle proprie certezze, dallo smarrimento della propria serenità in una angosciosa solitudine, “ dove l'estraneo siete voi”. Ma dietro alle elucubrazioni di Vitangelo Moscarda si cela una terribile verità: la fragilità e il disorientamento dell'uomo che colma il proprio vuoto interiore costruendo illusioni e chimere.
Proprio per la particolare ed eccezionale esposizione della realtà scoraggiante ma ineluttabile dell'essere umano, per la rianalisi di termini-chiave come nome, identità,coscienza e pazzia, consiglio appassionatamente “Uno, nessuno e centomila”, un scrigno da scrutare attentamente per le sue innumerevoli perle di saggezza. Buona lettura!
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Il dominio assurdo delle malelingue
“Innocente per essersi difesa con inesperienza da una tentazione, non ostante la prova della sua fedeltà: in compenso, l'infamia; in compenso, la condanna cieca del padre! E tutte le conseguenze di essa aggiudicate poi come colpe a lei: il dissesto, la rovina, la miseria, l'avvenire spezzato della sorella; e poi l'infamia ancora, il pubblico oltraggio d'una folla intera senza pietà, ad una donna, sola, malata, vestita di nero. Aveva voluto vendicarsi nobilmente, risorgere dall'onta ingiusta col proprio ingegno, con lo studio, col lavoro? Ebbene no! Da umile, oltraggiata; da altera, lapidata di calunnie. E questo, in premio della vittoria!”
Ecco il dramma, ecco l'assurdo di una società bigotta e ipocrita che investe la “peccatrice innocente”, l'energica protagonista dell'esordio letterario di Luigi Pirandello (1867-1936): L'esclusa, pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista “Tribuna” nel 1901.
Marta Ayala, è la brillante e bellissima figlia del benestante imprenditore Francesco Ayala, proprietario di un'importante conceria agrigentina, e di sua moglie Agata, una donna placida, dolce, umile, tranquilla, remissiva verso il violento consorte, al quale comunque vuole bene.
A 16 anni, nonostante la sua intelligenza e il suo alto rendimento scolastico, viene fatta uscire dal collegio, luogo di giochi e di passeggiate con le amiche, e in breve tempo sposa un ragazzo, proposto dai genitori di lei, il ricco Rocco Pentagora. Così la giovanissima Marta lascia scuola, amiche, i genitori, la sorella Maria per entrare nella famiglia di Rocco. Questa è composta dal cognato, Niccolino, ragazzo di nobili sentimenti che si affeziona subito a Marta, dalla bisbetica zia acquisita Sedora e sopratutto dal suocero Antonio Pentagora. Costui è un uomo cinico, assai freddo e scorbutico con la nuora, in quanto “tutti gli uomini, per lui, venivano al mondo con la parte assegnata;sciocchezza il credere di poterla cambiare” e per i Pentagora la parte assegnata è il tradimento da parte delle mogli ( infatti ben 2 generazioni hanno subito tale pena) e quindi,secondo lui, presto le corna sarebbero venute anche per Rocco. La noia, in cui Marta ( in breve tempo incinta) vive, poco dopo il matrimonio, viene rotta da delle lettere che vengono gettate quotidianamente all'interno della sua camera. Sono lettere d'amore, scritte dall'onoratissimo avvocato Gregorio Alvignani. Marta ride delle galanterie smielate del suo ammiratore ma è interessata alle questioni intellettuali e sociali che infarciscono le varie epistole. Così inizia un rapporto (meramente intellettuale) con l'Alvignani, discutendo accesamente dell'emancipazione femminile. Tuttavia un giorno Rocco trova una lettera dell'avvocato e, acceso d'ira, caccia via di casa la moglie, pensando che essa lo abbia tradito ( ecco realizzata la profezia di Antonio Pentagora!).
Da questo momento Marta diviene l'esclusa che per il suo tradimento va isolata e evitata da tutte le persone “per bene”, affinché non si corrompano anche loro. Anche nella propria famiglia viene esclusa. Mentre la madre e Maria (anche loro ormai cadute nel fango ed allontanate dalla società per le azioni di Marta) comprendono tutto e la accolgono, il padre, il “galantuomo” Francesco Ayala, non pensa assolutamente a difendere la figlia preferita dalla calunnia di Rocco, ma anzi si rinchiude nella propria camera perché ormai disonorato dalle “sporche azioni” della giovane. Oltre all'esclusione, anche la miseria, la malattia, lutti a non finire colpiscono la casa “maledetta” degli Ayala dove osa entrare solo Anna Veronica, una amica di Agata che ha subito il medesimo esilio di Marta. Ma la giovane donna è combattiva, energica, non vuole subire questo ingiusto martirio, non vuole sottostare all'onta in cui è stata gettata e tenterà in ogni modo di sollevarsi dalla miseria e vergogna che hanno colpito lei, suo madre e sua sorella. Quindi l'esclusa si mette contro tutta la società con le sue calunnie, ma quest'ultima le riserverà un esito paradossale....
Il primo romanzo di Pirandello rappresenta un'eccezionale esordio per il grande scrittore che si inserisce ancora nel filone naturalistico siciliano ( la composizione del romanzo fu molto incentivata da Luigi Capuana) ma con elementi peculiari. A differenza dei grandi romanzieri veristi (vedi Cavalleria Rusticana di Verga, dove l'onore scatta ad adulterio compiuto), qua il disonore travolge a partire solo dal sospetto che colpisce la protagonista ultra-colpevolizzata dalla maldicenza popolare. Tuttavia Marta, nonostante all'apparenza sia combattiva e determinata, è in realtà molto fragile, sempre balenante tra la rabbia per l'ingiustizia subita e il dolore della non-vita in cui è stata incarcerata, tra la volontà di emergere e andar contro ai tabù della società e il desiderio di auto-esclusione per permettere di far vivere serenamente sua madre e sua sorella, le uniche persone che occupano realmente il suo cuore che è sempre stato spinto da altri ad amare degli estranei, Rocco e Alvignani.
In conclusione consiglio molto questo stupendo romanzo pirandelliano per i suoi personaggi assolutamente ben descritti dal punto di vista psicologico, per l'ironia dell'autore che si scaglia verso la contraddittorietà e il bigottismo della collettività, per lo stile velato che lascia a volte al lettore solo degli indizi per animare la sua mente e la sua fantasia e per le ricche descrizioni, che rappresentano il punto di forza del libro. Buona lettura!
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Il diritto, il bisogno, il dovere di ricordare
Su una delle più immani e macabre tragedie non del '900 ma della Storia intera, quale è stata la Shoah, abbiamo un materiale vastissimo. Memorie, documenti, fotografie, campi di sterminio ormai musei e numerose rappresentazioni cinematografiche. Tuttavia ancora oggi vi sono individui che negano questa cruda realtà, questo atto scaturito dalla malvagità insita nella natura umana, non vogliono ricordare per non soffrire bensì per continuare a vivere con gaiezza e giocosità le superficialità che buona parte del mondo d'oggi ci propina. Ma non bisogna gettare l'indicibile inumanità commessa dalla Germania del Terzo Reich nell'abisso dell'oblio, poiché- purtroppo- essa non necessariamente rappresenta un caso isolato ma, se trova un terreno reso fertile da una continua azione di menefreghismo e indifferenza, attecchisce immediatamente, dando origine a sciagure ancor più nefaste. Proprio per questo bisogna vincere la nostra reticenza verso il cruento, il crudo per porre mattone dopo mattone una muraglia che permetti che mai più un pregiudizio, una intolleranza assumano una veste ideologica, dei dogmi, una teoria perché il risultato di tutto ciò sarà una spirale di male e dolore e infine il Lager. Questa è la volontà di Primo Levi ( e di tantissimi altri superstiti, studiosi, intellettuali) e del suo capolavoro, “Se questo è un uomo”, del quale abbiamo il dovere di rendere intramontabile e di trasmettere di generazione in generazione.
1943
Il giovane torinese laureato in chimica ed ebreo amante della montagna, Primo Levi, dopo 4 anni di segregazione dovuti alle leggi razziali fasciste, il 13 dicembre viene catturato per aver partecipato ad un tentativo di intervento partigiano e viene deportato al campo di Carpi- Fossoli.
1944
Il campo in provincia di Modena viene preso in gestione dai nazisti,i quali avviano tutti gli ebrei presenti (anziani, donne, uomini, bambini inclusi) su un convoglio ferroviario con destinazione Auschwitz, Polonia. Qui inizia la parabola discendente degni internati i quali-sin dal viaggio in un treno-merci che è più per animali che per uomini- presto dovranno subire lo spietato assalto nazista alla dignità umana e all'annesso progetto di disintegrazione di ogni forma di umanità. L'obiettivo: la morte dell'anima, dello spirito, molto più tremenda di quella del corpo, che rappresenta anzi la liberazione dalla non vita imposta. Levi sarà costretto a conoscere il fango, la sporcizia, la fame, la fatica e la legislazione inversa che domina il grigio campo di lavoro di Monowitz ( a circa 7 chilometri dal “centro amministrativo” di Auschwitz). Questo è un mondo al di qua del bene e del male, dove domina come legge “mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicinato”, diviso in sommersi- i “Muselmann” i quali dedicano tutte le loro forze al lavoro e alla sottomissione non avendo ancora imparato “la nostra arte di fare economia di tutto, di fiato, di movimenti, perfino di pensiero- e i salvati- i “Prominent” che usano l'astuzia, il furto, il contrabbando, il tradimento dei propri compagni per poter vivere un poco di più. In questa Torre di Babele si è privati del proprio nome (sostituito da un numero) , del tempo, della giustizia (in quanto domina la violenza, l'arbitrarietà e la corruzione delle SS), ma comunque bisogna perseverare perché, come dice l'ex sergente austro-ungarico Steinlauf, “il Lager è una grande macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; anche in questo in luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà”. E tale immenso sforzo nell'inferno, nella casa dei due volte morti che è il Lager, per Levi non sarà sprecato, perché i Russi stanno per arrivare...
Con uno stile scarno, lineare, ma proprio nella sua semplicità incredibilmente evocativo, l'autore è riuscito a realizzare un resoconto oggettivo ed esplicativo di una orribile tragedia, arricchendolo con pagine toccanti ( come il canto di Ulisse, dove Levi tenta di insegnare l'italiano ad un suo compagno servendosi dei versi di Dante), dando vita ad un opera sublime, nonostante la crudezza delle pene narrate.
Proprio per questa maestria evocativa, questa capacità di giungere diritto al cuore, per questo raziocinio, rimasto comunque nell'anima dell'autore provata dalla “follia geometrica” del nazismo, consiglio ardentemente “Se questo è un uomo”, affinché tutto lo sforzo dei sopravvissuti non sia stato invano, affinché non si dimentichi mai cosa è stato commesso durante il Terzo Reich, affinché i testimoni di questa tragedia non siano più assaliti di notte dagli incubi in cui la loro storia non viene ascoltata o presa minimamente in questione, affinché non avvengano mai più bestializzazioni di siffatta maniera. Perciò “meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa andando via,/ coricandovi alzandovi;/ ripetetele ai vostri figli.”
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La sublimazione di uno spirito mediocre
La Storia è pregna di personaggi eroici e grandiosi: Alessandro Magno,il quale re di un piccolo e barbaro regno costruì un immenso impero che si estendeva dall'Egeo all'Indo; Giulio Cesare, nobile indebitato che riuscì a conquistare la Gallia, vincere Pompeo e il ceto senatorio e a porre le basi del futuro impero; Carlo Magno, cadetto della famiglia reale francese che riuscì a ricreare le vestigia della potenza romana; Napoleone, figlio di un avvocato corso che in breve tempo riuscì a conquistare il potere della Francia del Direttorio e ad estenderlo alla Spagna, all'Italia terrorizzando gli Asburgo , i Romanov, i Borbone.
Tuttavia, “come talvolta un artista, per dar prova delle proprie energie creative, cerca di proposito un soggetto esteriormente modesto invece di uno patetico e universale, così di tanto in tanto il destino cerca un eroe insignificante per dimostrare come anche da una materia scadente possa svilupparsi la più alta tensione, da un'anima debole e mal disposta una grandiosa tragedia. E una simile tragedia, una tra le più belle di questo eroismo involontario, ha nome Maria Antonietta”. Questo è lo scopo dell'intellettuale austriaco Stefan Zweig (1881-1942) il quale con rigore e metodo scientifico tenta e riesce meravigliosamente a emendare da tale storico personaggio gli insulti sia le cafonaggini della Rivoluzione che la presentò come la perversa e lasciva Madame Deficit sia le adulatorie iperboli della Restaurazione che la presentò come la santa ed eroica paladina della regalità, svelando invece la sua indole media con le sue virtù (la sincerità estrema, la bontà, la grazia) ma anche i suoi vizi (la superficialità ,la leggerezza, la pigrizia intellettuale).
Dopo tanti secoli di battaglie e rivalità che risalgono alla battaglia di Nancy del 1477, finalmente gli Asburgo e i Borbone si sono spossati e hanno aperto gli occhi. La loro insaziabile gelosia non ha fatto che aprire la strada ad altre dinastie: l'Inghilterra è divenuta una superpotenza commerciale ed economica, la marca del Brandeburgo si è trasformata nella solida monarchia prussiana, la Russia zarista sta sempre più premendo alle porte dell'Europa. È necessario che Francia e Austria si alleino per non rimanere schiacciate e cosa c'è di migliore di un'unione dinastica? La zelante imperatrice Maria Teresa (strenua sostenitrice del motto della casa asburgica “bella gerant alii, tu felix Austria, nube!) trova in breve tempo la soluzione: far sposare la sua più giovane figlia Maria Antonia con il nipote di Luigi XV, il delfino Luigi Augusto.
Dopo lo spossante tergiversare di Versailles, finalmente il 16 maggio 1770 viene celebrato il matrimonio. I due sposi, però, sono l'uno l'opposto dell'altro: il sedicenne delfino è un ragazzo schivo, apatico, indeciso, pigro che passa le sue giornate a cacciare e a forgiare chiavistelli mentre la sua quindicenne sposa è frizzante, attiva, loquace, aperta, desiderosa di divertimento, insofferente di ogni tipo di costrizione, che ama la mondanità. Tale divergenza di caratteri, insieme alla fimosi della quale è affetto Luigi Augusto, si riverbera nell'intimità della coppia: per 7 lunghi anni il talamo nuziale resterà candido, disperando l'imperatrice Maria Teresa che, insieme all'ambasciatore austriaco a Versailles Mercy, sommergono Madame la Dauphine di esortazioni alla consumazione del matrimonio e di rimproveri per i piaceri futili e costosi e gli scandali che la sommergono. Infatti la giovane Maria Antonietta snervata da questo imbarazzante rapporto con il marito cerca in tutti i modi di evitare l'augusto letto in una dispendiosa vita notturna contraddistinta da promiscui balli in maschera a Parigi, cene e soprattutto case da gioco. Inoltre sperpera cifre da capogiro in piramidali capigliature e immensi vestiti di broccato ed evita in ogni modo possibile discorsi seri e la lettura ( sconvolgendo l'austera e rigorosa madre). Infine, mediante l'intervento diretto del fratello Giuseppe II, questa “coppia di pasticcioni”( termini utilizzati da Giuseppe stesso) riesce a compiere il loro dovere e nel dicembre del 1778, nasce la principessa Maria Teresa Carlotta, seguita poi da Luigi Giuseppe ( l'agognato delfino), Luigi Carlo e Sofia Elena Beatrice( che morirà a 11 mesi di vita). Nonostante la consumazione del matrimonio Maria Antonietta continua a spendere molto denaro questa volta investito nella ristrutturazione del Petit Trianon ( una dependance immersa nei giardini della reggia) all'interno del quale essa si rinchiude insieme alla cricca dei suoi pseudo-amici,guidati dalla duchessa di Polignac, e di questa la regina diviene “schiava”. Cosicché essendo il re succube della regina e la regina succube del circolo dei Polignac sono quest'ultimi a reggere in maniera equivoca e superficiale un regno dilaniato da un deficit terrificante. È proprio questo isolarsi della regina nel suo bucolico Trianon, escludendo la grande aristocrazia francese, che causerà la perdita del favore del popolo e la rivoluzione che è partita proprio da quegli aristocratici esclusi dai favori della regina. Ma quando costei se ne accorgerà sarà troppo tardi...
Stefan Zweig con uno stile che affianca poesia a razionalità creando un meraviglioso equilibrio che richiama la prosa sallustiana ( nonostante quest'ultimo deformi alcuni avvenimenti per salvaguardare la reputazione di Cesare) riesce a analizzare il comportamento della sovrana che subisce un cambiamento sbalorditivo nel bel mezzo della rivoluzione quando la monarchia ormai è morta e i sovrani sono spettatori obbligati del suo funerale. Proprio nel momento in cui la famiglia reale sarà abbandonata da tutti e soggetta alla vendetta del popolo, in questa frivola e mediocre creatura si riaccendono tutte le forze, l'orgoglio, la capacità degli Asburgo rimasti sopiti per tanto tempo. Proprio di fronte ad una fine tragica e irremovibile Maria Antonietta diventa da leggera Regina del Rococò un'eroina infaticabile, ferma, coraggiosa e tenace agli infamanti attacchi dei sanculotti e alla morte stessa. Così questo incredibile personaggio(il quale per tenacia e orgoglio richiama in un certo senso Rossela O'Hara di Via col vento), che indubbiamente sarebbe stata sconosciuta ai posteri senza l'intervento del fato che le assegnato una drammatica ma memorabile fine, si erge al di sopra della propria mediocrità conquistando un posto nella storia come ultima e strenua difenditrice dell'ancien regime che non troverà eguali nella storia (basti pensare all'ultima zarina di Russia, Alexandra Feodorvna la quale subì una tragedia che le ha permesso di entrare negli annali della storia ma non di superare la sua natura modesta).
Tuttavia ancora i libri di storia presentano Maria Antonietta come l'intrigante spia austriaca che pronunciò la famosissima ( ma falsissima) sentenza: “S'ils n'ont plus de pain, qu'ils mangent de la brioche”( se non hanno più pane che mangino brioche).
Proprio per questo noi tutti abbiamo il compito di combattere queste esecrande deformazioni purtroppo ancora molte radicate ( come la malvagità di Lucrezia Borgia o come Nerone il quale suonava la lira di fronte a Roma che bruciava). E in questa doverosa missione ci aiutano molto i biografi e - nel caso di Maria Antonietta- in primis, Zweig il quale con la sua opera pubblicata nel 1932 iniziò il processo di “ritorno all'originale” che oggi è lo scopo che si prefigurano tutti gli storici.
Perciò per la sublimità delle immagini, per il metodo rigoroso e impeccabile, per la brevitas e la pregnanza dello stile, per l'ironia dissacrante dell'autore contro il pedante cerimoniale di corte francese( uno dei più acerrimi nemici dell'ultima regina di Francia), per il labor limae che sta dietro a questo capolavoro di biografia ( utilizzato come modello ancora oggi per chi si cimenta o opera in questo genere letterario) consiglio ardentemente questo gioiello di Zweig, unico e irripetibile, del quale sicuramente non rimarrete delusi. Buona lettura!
PS: Perdonate la lunghezza del mio commento ma era indispensabile.
Inoltre se siete interessati a quest'opera affrettatevi in quanto è stato ripubblicato proprio
questo anno mentre prima era introvabile.
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Il paradigma della mistificazione
Al periodo tra la fine dell' ottocento e l'inizio della Prima Guerra Mondiale, chiamato Belle époque, già dal termine pensiamo (nostalgicamente) ad un periodo sfavillante contraddistinto da un incredibile progresso e a un miglioramento sorprendente del tenore di vita: cinema, café-chantants, illuminazione, cancan, grandi magazzini illuminano la vita della vittoriosa borghesia che ottimisticamente immagina che nel Novecento si prolunghi questo splendido periodo di pace e progresso. Tuttavia (come per ogni epoca ) troviamo i suoi lati negativi e realistici: oltre allo sviluppo del pensiero anarchico che si esplica in numerosi attentati ( vedi l'assassinio di Umberto I d'Italia) i quali terrorizzano i benpensanti imprenditori e alle tensioni sociali dovuti al sempre più crescente divario tra industriali e operai che rivendicano i propri diritti, il male principale che lacera la società di fine ottocento è la falsificazione che occupa ogni campo del vivere quotidiano, dall'alimentazione (polvere di gesso presentata come farina!) al pensiero con il conseguente esacerbarsi dei cliché e dei pregiudizi i quali si esplicano nei reali prodotti della Belle èpoque: nazionalismo e antisemitismo, cemento essenziale dei grandi disastri e stermini del XX secolo. Ed è proprio questo il periodo scelto a scopo paradigmatico da Umberto Eco per il suo romanzo storico “Il cimitero di Praga” che ci trascina con uno stile piuttosto avvincente e con una perfetta resa dello sfondo storico nel gorgo irrazionale e pericoloso della modernità.
In una Parigi del 1897rinnovata dal progetto Haussmann, il capitano e falsario Simone Simonini- su consiglio di uno “studentello” austriaco, un certo Sigmund Freud (o come lo chiama, storpiandolo Simonini, Froide)- inizia a scrivere un diario-autobiografia con il tentativo di riprendersi dalla grave amnesia che lo ha colpito. Ma ben presto tale scritto si trasforma in un epistolario in cui interviene frequentemente l'abate Dalla Piccola, abitante di un miniappartamento collegato alla dimora di Simonini, e il quale è allacciato strettamente al nostro protagonista: infatti ciò che uno non ricorda lo ricorda bene l'altro.
Allora percorrendo un lungo lasso di tempo che va dal 1830 al 1897, veniamo a conoscere della personalità di quest'uomo camaleontico, viscido, egoista, terribilmente misogino, anticlericale, antigesuita e strenuamente antisemita, il quale tenta con ogni mezzo (più illecito che non) di racimolare un buon patrimonio per poter godere della vita e soprattutto del buon cibo per cui impazzisce ( infatti l'opera è infarcita ironicamente di numerose ricette che riaccendono più volte l'appetito del lettore). Nonostante la malignità e ipocrisia che Simonini emana da ogni poro, egli affascina anche per la sua intrinseca solitudine che lo contraddistingue sin dalla fanciullezza passata con il nonno, decisamente antisemita e pro ancien regime.
Ma ad intrigare ed avvincere in primis è la sua avventurosa vita passata lavorando nell'inventare e sventare complotti, a creare e a sciogliere matasse, nel vortice internazionale di spionaggio e controspionaggio in cui avidamente è entrato. In questo clima di falsità e cospirazioni, pur vivendo momenti epocali del XIX secolo quali i moti carbonari, la spedizione dei Mille, il 1848 ( annus horribilis per le monarchie europee), il Secondo Impero di Napoleone III e i fatidici giorni della Comune e nonostante l'intromissione di interventi massonici , messe nere e contrassalti gesuitici, Simonini continua a lavorare ad un' opera “letteraria” che contraddistingue l'apogeo della mistificazione storica donde erompe tutta la sua fiele verso il popolo ebraico e che avrà conseguenze tremende, quali i pogrom russi e la Shoah. Inoltre il protagonista ricostruendo queste tortuose vicende riuscirà a comprendere la verità della sua relazione con Dalla Piccola....
Umberto Eco con questo libro nel quale verosimile e realtà storica si amalgamano mirabilmente mediante un attenzione quasi maniacale ai dettagli, dà un'importante lezione su come una alterazione della realtà, seppure minima, può avere effetti devastanti per l'umanità e sulla banalità del falso, evidenziata da Simonini stesso che per i suoi documenti ricopia testi precedenti che a sua volta hanno ricopiato testi ancor più antichi in una catena che non pare avere fine.
Dal punto di vista letterario, invece, l'autore ha tentato di realizzare un'opera capace di emulare i grandi feuilleton ottocenteschi ( ad esempio I tre moschettieri di Dumas), contraddistinti da trame avvincenti e uno stile fluido che possa incantare il pubblico destinatario.
Eco è riuscito a ricreare in maniera creativa e personale questi grandi romanzi ma non a superarli del tutto a causa di alcuni rallentamenti dovuti all'utilizzo di termini disusi e arcaici (anche se non eccessivamente numerosi) che sembrano quasi delle spie dell'esibizionismo erudito dell'autore e di alcune descrizioni piuttosto pedanti ma che riescono a stendere quelle sfumature indispensabili per una buona resa dello sfondo storico che in Eco è divina.
In conclusione, consiglio quest'opera a tutti gli appassionati del romanzo storico e dei feuilleton in quanto Il cimitero di Praga non è un'opera di nicchia altrimenti un personaggio del calibro intellettuale di Umberto Eco sarebbe affogato un bicchiere d'acqua!
Infatti il romanzo d'appendice ottocentesco era destinato ad un grande pubblico e allora se lo scopo dell'autore è quello di farlo rivivere deve servirsi di uno stile piuttosto fluido e così esso si comporta.
Il lettore dovrà avere soltanto un po' di pazienza ( anche perché la prima parte è piuttosto lenta) ma alla fine non rimarrà deluso. Buona lettura!
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“L'uomo non è in verità uno ma duplice”
Il regno della regina Vittoria Hannover (1837-1901) segna l'apogeo della potenza britannica. Con colonie in tutti i continenti conosciuti, con il monopolio dei commerci l'Impero inglese diventa il centro dell'economia globale e la sua ricchezza si riversa nelle scienze, nelle arti, nella musica e nella letteratura con personaggi del calibro di Charles Dickens e Oscar Wilde. Tuttavia la società vittoriana non è priva di problemi: in primis il divario economico tra alta borghesia con il suo positivismo e il proletariato che vive in condizioni infime e degradate e lo sfruttamento del lavoro giovanile (vedi Oliver Twist) e degli operai che operano in fabbriche-prigioni privi di ogni tutela. Tuttavia anche la morale inglese dell'epoca non è immune da critiche: l'eccessivo moralismo e perbenismo con rigidità puritana domina e cerca di nascondere l'ipocrisia di fondo della società. Ma tale meschina verecondia è divenuta intollerabile in quanto reprimendo le richieste della carne ne esaspera il bisogno portando a effetti contrari a quelli ricercati che si esplicano nei numerosi scandali del regno dell'austera Vittoria. Ed è proprio questo che vuole mostrare Robert Louis Balfour Stevenson (1850-1894) con il suo breve ma pregnante racconto: “The strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde”.
In una Londra ovattata e autunnale, il rispettabile e abitudinario avvocato Utterson sta passeggiando (come ogni domenica) con suo cugino, Mr. Enfield, quando quest'ultimo, di fronte ad uno spettrale fabbricato in degrado,inizia a raccontare al suo caro uno strano caso accadutigli in quel luogo una notte di poche settimane prima: un uomo basso con il passo leggero si scontra accidentalmente con una bambina la quale calpesta e lascia piangente e dolorante sulla strada ma egli viene ripreso da Mr Enfield che lo obbliga a risarcire la famiglia della fanciulla. Questo uomo, Mr Hyde, è un personaggio tenebroso, indescrivibile ma che provoca in ogni persona nelle vicinanze disgusto e ribrezzo nonostante non abbia (all'apparenza) alcuna deformità. Ma il fatto ancora più strano è che ripaga la propria colpa con un assegno firmato dal rispettabilissimo e onorato Dr. Henry Jekyll, migliore amico di Utterson.
Costui,allora, comincia a preoccuparsi in quanto teme che il suo amico sia succube di questo disgustoso Hyde che lo ricatta rievocando una qualche vergogna giovanile del dottore. Così il nostro avvocato comincia ad approfondire il caso e in un crescere morboso di omicidi e orrori strettamente connessi scoprirà l'agghiacciante verità sul rapporto Dr. Jekyll-Mr. Hyde...
Stevenson con uno stile fluido e scorrevole ci introduce, nel fosco sfondo da gothic novel che si rispetti, all'interno della psiche dell'apparente probo, retto, integro Dr. Jekyll mostrando il dramma che lo lacera: egli non è il “bene”, ma come ogni essere umano, è un “incongruo miscuglio di bene e male”, influenzabile, fragile, soggetto agli impulsi più disparati. Però a causa dei tabù della società in cui vive (ecco l'attacco al puritanesimo vittoriano) è costretto a celare i suoi riprovevoli impulsi rendendoli ancor più forti e finendo per esplodere. E qui entra in gioco Mr Hyde che dà invece sfogo con centuplicata violenza ai desideri insiti nello spirito di Jekyll. Tuttavia noi umani, che siamo tutti più meno dei Dr. Jekyll ,nonostante l'iniziale orrore, siamo - come afferma giustamente Vieri Razzini- attratti dalla libertà senza limiti, senza barriere, senza censure di Hyde che non ha alcun rimorso dei propri misfatti e che non prova l'opprimente desiderio del proibito contrastante ai sensi di colpa- i quali accompagnano ogni cattiva azione- dei Jekyll.
Perciò per la chiarezza e l'intensità dei contenuti, che non si incentrano sulla ormai banale lotta tra Bene e Male ma sulla fragilità della complessa natura umana, e per il ben congegnato ritratto psicologico, consiglio caldamente questa brevissima opera, nata nel 1886 in seguito all'incubo di un uomo insofferente - come Dr. Jekyll - dei stolti precetti della morale pudica e austera della società egoista e ipocrita a lui contemporanea per certi aspetti ( soprattutto per l' individualismo e l'affettazione) ancora affine alla nostra. Buona lettura!
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Sete di libertà, fratellanza, uguaglianza
“E' la consapevolezza che mi avevi dato: non libereremo mai i nostri spiriti, senza liberare i nostri corpi. E se non ci riusciremo, di questi corpi non sapremo che farcene: sono tempi in cui la miseria e la forca non sono poi tanto diverse. E allora vale la pena spezzare il giogo e accettare quanto il destino ci consegnerà alla fine. Combatteremo ancora. Di nuovo. O moriremo provandoci.”
Ecco ciò che ha ricercato per 30 anni il protagonista di quella poliedrico, pregnante, ammaliante opera che è Q.
31 ottobre 1517: alla porta della chiesa di una dimenticata cittadina sassone, Wittenberg, vengono affisse da un frate agostiniano 95 tesi contro la pratica dell' indulgenza scritte di suo pugno. Il suo nome è Martin Lutero.
25 Settembre 1555: ad Augusta viene siglata una pace tra principi luterani e l'imperatore cattolico Carlo V. Si afferma il principio del “Cuius regio eius religio” ( la religione del principe è quella dei suoi sudditi).
E in mezzo a queste 2 date? Le avventurose e drammatiche vicende di un eresiarca desideroso di sovvertire l'ordine di arretratezza, feudalesimo e vessazione dell'Europa cristiana. Il suo nome? Non me lo ricordo più. Ne ha avuti così tanti! Ludovico il Tedesco, Eloi, Tiziano... Io lo denominerò con quello che mi ha attratto di più: Gert dal Pozzo.
Studentello tedesco stanco delle inutili discussioni teologiche di Melantone, il giovane Gert diventa seguace e grande amico di un ardente profeta di nome Thomas Muntzer il quale ,d'accordo con le idee di Carlostadio, predica un comunismo evangelico e la legittimità della rivolta quando le leggi civili non seguono quelle delle sacre scritture. E con lui questo focoso studente guiderà i bracciati tedeschi in un vero e proprio terremoto sociale che passò alla storia come la guerra dei contadini, fino a Frankenhausen (1525) dove migliaia di rivoltosi furono massacrati dai rozzi mercenari dei principi filo-luterani. Il nostro Gert riesce a salvarsi, ma deve fuggire, cambiare nome e con sé porta i fantasmi dei suo compagni trucidati desiderosi di vendetta.
Tutto ciò segna solo l'inizio di un lungo viaggio per il continente europeo contraddistinto da numerosi tentativi di risorgere dalle ceneri contro lo strapotere di boriosi aristocratici, lascivi ecclesiastici e viscidi banchieri-usurai però molti di essi si concluderanno con massacri, stupri, razzie e sconfitte. Ma chi si cela dietro a tutte queste disfatte? Q...
I 5 autori sotto lo pseudonimo di Luther Blissett con un lavoro preciso, rigoroso e rispettoso degli avvenimenti storici, sono riusciti completamente a renderci il quadro politico,sociale,economico culturale della prima metà del XVI secolo- un'epoca di baraonda e tumulti e di imminente fine del mondo- con una vicenda avvincente e ben congegnata.
Tuttavia la lettura non è stata assolutamente leggera per l'impostazione che hanno dato i suoi autori. Infatti buona parte del libro è sotto forma di diario frammezzato però da numerosi inserti, quali l'Occhio del Carafa o il diario di Q che, aggiungendoci i numerosi personaggi e flashback, hanno creato più di una volta confusione e disorientamento. Inoltre si nota molto chiaramente come l'opera sia stata composta a “10 mani”: passiamo infatti da fluenti e carezzevoli descrizioni a frasi nominali, spesso composte di una sola parola e prive di connettivi. Ed è proprio tale stratificazione stilistica che ha costituto ( specialmente nella prima parte dell'opera) l'ostacolo fondamentale della lettura. Ma tutti gli sforzi compiuti sono stati proficui per la resa ricca e particolareggiata del periodo storico oggetto della narrazione la quale si trova raramente.
Q è un libro affascinante, illuminante e particolare che consiglio fortemente anche per comprendere appieno un periodo storico fitto di avvenimenti e innovazioni i quali hanno posto le basi del mondo moderno: il '500. Buona lettura.
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Rossella, Rossella, Rossella...
Ricordo ancora il momento. Era una giornata assolata dell'estate di 2 anni fa. All'ora di pranzo tornò mia madre con il mio mensile di storia preferito. Sfogliandolo, notai un articolo che ricostruiva la guerra di secessione americana (1861-1865) con alcune immagini prese dal famosissimo film Gone with the wind. A quel nome avevo associato l'idea di un interminabile film di guerra, invece non era così. Rimasi talmente colpito da quelle poche figure che cercai immediatamente il film. Fu in quel momento che la nostra storia iniziò. Guardai il film tante e tante volte, ogni giorno vi era l'ora dedicata a quella vicenda ricca e appassionata e a quel personaggio all'apparenza egoista, cinica, avida e viziata ma che dominò, domina e sempre dominerà il mio cuore: Rossella O'Hara.
All'inizio dell'anno scolastico la nostra relazione cominciò a incrinarsi gradualmente fino al punto che ci perdemmo di vista. Però nel Febbraio del 2013, non ricordo come ma mi cadde l'occhio su una certa Margaret Mitchell. Improvvisamente il mio cuore si accese. Fuoruscì tutta la passione che avevo provato per Rossella e immediatamente comprai il libro: ora nessuno separerà me e la giovane O'Hara. Nessun umano con il senno proverà a incrinare questo amore che mi terrà per tutta la mia vita, nonostante nell'agosto del 1949 la fautrice della nostra relazione morì investita da un tassista ubriaco. Le sue parole però continueranno a riecheggiare via col vento....
1861: nella Georgia schiavista la viziata Rossella O'Hara, donna dal focoso sangue irlandese del padre e dai delicati tratti francesi della madre, vive tra gli ozi e i lussi, una esistenza spensierata nell'onirica piantagione di Tara. Essa vivace, furba e affascinante è la ragazza più corteggiata, più lodata, più graziosa della contea. Avendo avuto sempre tutto ciò che desiderava, si invaghisce dell'unica persona che non l'abbia mai corteggiata: Ashley Wilkes. Uomo riflessivo e sognatore ha un'anima totalmente diversa da quella esuberante e pragmatica di Rossella che nelle sue meditazione non comprende altro se non che lui è sicuramente innamorato di lei. Ciononostante viene a sapere che presto sposerà una cugina di Atlanta, Melania Hamilton, donna “che non conosceva se non bontà e semplicità, verità e amore; una bimba che non sapeva cosa fosse il male e che vedendolo non lo avrebbe neppure riconosciuto”. Il fidanzamento viene annunciato durante una splendida merenda data dai Wilkes nella loro piantagione, le Dodici Querce, dove sono presenti tutti i personaggi che avranno molto a che fare con Rossella: oltre all'amato Ashley e a Melania la quale, nonostante Rossella la detesti, sempre sarà accanto a lei difendendola e incoraggiandola vi è Rhett Butler, rinnegato di Charleston, che, malgrado l'ipocrisia della signorina O'Hara, è viscido, avido, egoista e narcisista come lei. E poi la Guerra Civile, quel mostro che in brevissimo tempo devasterà la tranquillità di Tara, priverà Rossella di tutto ma lei, a differenza dell' abbattuto Ashley, si tirerà sempre in piedi con l'obiettivo di divenire talmente ricca da poter essere felice. Ma possono veramente il denaro, la ricchezza, lo sfarzo dare la felicità?
Margaret Mitchell con il suo stile appagabile, meraviglioso, sublime dalle particolarissime descrizioni ha favorito il mio legame con la protagonista la quale, benché abbia una corazza apparentemente impenetrabile formatasi nei duri anni della guerra e della ricostruzione del Sud, rimane sempre una bambina delusa di non essere diventata come sua madre Miss Elena, emblema della compassione, della sicurezza, della bontà e delle virtù cristiane.
Via col Vento mi ha mostrato quale sia veramente la passione che si può provare per un libro il quale- narrando la storia di un'anima ribelle e focosa che si è sempre ritirata su, che ha cercato di sopportare la povertà, i lutti, le disgrazie sempre a testa alta- ha conquistato il mio cuore e il quale rimarrà per me il Libro per eccellenza.
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Viaggio nella perversione umana
“L'uomo gode della felicità che prova, e la donna di quella che procura. Questa differenza così essenziale, eppure così poco considerata, ha tuttavia una sensibile influenza sulle tonalità della loro condotta reciproca. Il piacere dell'uomo è soddisfare dei desideri, quello dell'altra è soprattutto farli nascere. Piacere è per l'uomo solo uno strumento del successo, mentre per lei è il successo stesso. E la civetteria, così spesso rimproverata alle donne, non è altro che l'abuso di questo modo di sentire, e la dimostrazione della sua realtà.”
Ecco una delle tante considerazioni (in questo caso della saggia Madame de Rosemonde), constatazioni e “perle di saggezza” che sono disseminate nella stupenda e magnifica opera di Pierre Choderlos de Laclos ( 1741-1803).
Romanzo epistolare, il quale va dall'agosto al gennaio successivo di un imprecisato anno del 1700, - ambientato a Parigi e nella campagna circostante- narra di complessi intrighi amorosi con un fine perverso e immorale.
La marchesa di Meteuil, vedova nata con la volontà di dominare gli uomini in una società maschilista, passa le sue giornate tra pettegolezzi, opere teatrali e sfrenatezze con i suoi amanti-pupazzi “usa e getta”, assecondando i suoi lunatici capricci, senza intaccare- grazie a perfidia e astuzia- la sua reputazione in società. Essa architetta una vendetta ad un suo ex amante, che l'aveva tradita con la sua intendessa: il trentaseienne conte di Gercourt. Infatti costui ha deciso di sposare una ingenua e casta quindicenne appena uscita dal convento, Cécile di Volanges, ma prima di chiedere la mano alla giovane è dovuto recarsi in Corsica insieme al suo reggimento. Così l'acida e maligna marchesa pianifica di far innamorare la giovane con il dolce e romantico cavaliere Danceny affinché essa arrivi al talamo nuziale non più vergine e tradisca il consorte col cavaliere rovinandone la reputazione. Per fare ciò ha bisogno di una persona esperta di questi affari e la marchesa allora chiede aiuto ad un altro suo ex amante e amico: il visconte di Valmont, infido e incallito libertino, il quale “ falso e pericoloso più di quanto non sia amabile e affascinante, mai, sin dalla prima giovinezza ha fatto un passo o detto una parola senza avere uno scopo; e non ha mai avuto uno scopo che non fosse disonesto o criminale”. Il visconte, però, non è Parigi, ma in campagna da una sua vecchia zia, Madame de Rosemonde, indaffarato a sedurre la giovane e bella presidentessa Tourvel, moglie fedele e virtuosa di un giudice lontano per lavoro. Infatti egli vuole fiaccare le resistenze della virtuosa, aggiungere al suo catalogo di seduttore una preda ambita proprio perché in apparenza irraggiungibile. Tuttavia l'impresa si presenta più difficile del previsto, in quanto la virtuosa presidentessa lo evita, spinta dai consigli dell'austera Madame de Volanges, madre della nostra Cécile. Così il visconte per vendicarsi di tale donna, decide di aiutare la marchesa de Meteuil nella sua vendetta. Ma degli avvenimenti particolari porteranno a inaspettati colpi di scena.....
De Laclos grazie alla scelta dell'epistolario, come ha sottolineato Jean Rousset, “stabilisce tra i personaggi e il lettore un rapporto molto particolare che lo distingue da altri modi narrativi, in quanto il lettore si trova proiettato nel cuore di ogni personaggio.” Infatti, inebriati da questo sorta di onnipotenza, possiamo ritornare indietro di 3 secoli e addentrarci nei raffinati e intimi boudoir dalle delicate tinte colore pastello e di avere le chiavi di tutti i secretaire, miracoli dell'ebanisteria dalla miriade di trabocchetti e cassetti segreti, dei personaggi ( io per esempio ho pensato a quello realizzato splendidamente da Riesener e conservato oggi nel gabinetto interno del re a Versailles). Una sensazione veramente gratificante!
Inoltre l'autore è riuscito magnificamente a rendere con i vari stili delle epistole i diversi caratteri dei personaggi, mettendo in contrasto il linguaggio dolce e infantile di Cécile e Danceny con quello utilitaristico e falso di Valmont e della marchesa, giungendo anche a momenti di poesia pura. Un effetto,complesso di per sé, reso divinamente!
Inoltre de Laclos ci mostra la dissolutezza dell'aristocrazia francese di fine '700 che vive di calunnie, spese folli e tradimenti, per terrore della noia. Quindi oltre a offrirci un quadro realistico e ironico dell'alta società parigina, ci consegna il necrologio di una classe sociale immorale e decaduta che si trascinerà per tutto l'Ottocento nella sua gabbia dorata di frivolezze e balli, ignara che il mondo al di fuori delle raffinate tappezzerie e del prezioso vasellame sta irrimediabilmente cambiando. Infine l'autore espone i mezzi dei seduttori e la mentalità dei libertini, nel secolo di Casanova e dei cicisbei, ma soprattutto evidenzia quanto l'uomo possa essere perfido, perverso e traditore.
L'opera fu marchiata di infamia e messa all'indice come romanzo criminale, immorale e blasfemo ingiustamente dalle tante marchese de Meteuil e Madames de Volanges del mondo, ovvero dai depravati che infrangono le opere che li vogliono danneggiare e dai moralisti, che non vogliono constatare come è la realtà che li circonda.
Dunque consiglio caldamente a tutti di leggere questo caposaldo della letteratura francese il quale ha conquistato il mio cuore e mi ha molto commosso. Anche se all'inizio potrà confondere per l'intreccio delle date, di sicuro conquisterà anche voi. Buona lettura!
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L'imperatrice filosofa alla ricerca di amore
“Caterina indugiò nell'enorme atrio ad ascoltare e la sua commozione fu certamente grande nell'udire il coro di voci che si univano in quel crescente trionfalistico. Forse si fermò a riflettere su tutto ciò che aveva realizzato nei suoi sessantadue anni, sulla sua volontà, sul suo spirito indomito che l'aveva sostenuta nelle traversie, sul suo corpo robusto che risorgeva ogni volta degli assalti delle malattie, sulla mente sagace che aveva condotto il suo impero alla grandezza. Quella notte Caterina, almeno per un momento, mise certamente da parte la sua naturale modestia per sentirsi, finalmente, orgogliosa di sé.”
Ecco un miniatura, sapientemente realizzata da Carolly Erickson, del più vasto affresco, su quella che fu Caterina II, la Grande Caterina (1729-1796).
Sofia di Anhalt-Zerbst, nacque nel 1729 nella spenta Stettino, figlia del nobile e severo soldato prussiano Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst e della spumeggiante e vitale Giovanna di Holstein-Gottorp, la quale dovette sposare il cugino del piccolo principe di Anhalt-Zerbst più grande di lei di 22 anni, pur essendo la nipote del re di Danimarca. Per delle questioni dinastiche i figli di Cristiano e Giovanna, sarebbero diventati i futuri principi di Anhalt- Zerbst. Così l'obbiettivo di Giovanna fu quello di dare un figlio maschio e sano al marito. Ma invece per prima nacque una bambina, Sofia, che per il suo sesso, sarà sempre disprezzata dalla madre. Tuttavia la giovane principessina divenne la più perspicace e attiva della famiglia, soprattutto rispetto al malaticcio fratello, Guglielmo. Dunque Sofia dovette passare una infanzia molto difficile, anche perché le fu assegnato dal padre come precettore un sacerdote protestante che mortificava la naturale curiosità di Sofia e la obbligava a studiare a memoria la Bibbia. La svolta avvenne a 16 anni, quando Sofia, nonostante il suo basso rango, venne data in sposa a Carlo Pietro Ulrico di Holstein Gottorp, nominato da poco erede di Russia dalla zia, la zarina Elisabetta. Così Sofia, che oltre a esser curiosa è molto ambiziosa, è diventata l'erede di uno dei più grandi imperi al mondo, ma la Russia circa fino alla morte di Elisabetta le riserverà una vita molto deprimente. Infatti dietro gli argenti, broccati e porcellana dei magnifici palazzi russi, si annida una corte violenta, barbara, governata da una zarina irascibile e stravagante che poteva decidere della vita di una persona con un si e con un no. Sofia, che convertita alla fede ortodossa, ha preso il nome di Caterina, vive sempre nel timore di essere condannata a morte da Elisabetta per la mancanza di una prole ( anche se l'eccentrica zarina risolverà il problema in modo piuttosto bizzarro) e teme molto il marito, che la detesta e che passa il tempo a ubriacarsi, a giocare con i suoi soldatini e a seviziare la servitù. L'unica amica di Caterina è la lettura che l'ha resa molto colta in un paese prevalentemente analfabeta e illuminista, in quanto ha un rapporto epistolare con Voltaire e accoglie gli ideali sulla Ragione tipici dell'epoca. Ma come può Caterina, oppressa in una corte malefica e in un matrimonio terribile, poter assurgere al potere e realizzare il suo più grande desiderio: rendere la Russia un paese civilizzato che possa gareggiare con le più moderne nazioni europee? E come riuscirà ad ottenere l'epiteto per cui la conosciamo oggi: Caterina la Grande?
Carolly Erickson, con uno stile scorrevole e brillante anche se il linguaggio specialistico tendenzialmente eccede nell'aulico, delinea il ritratto di una straordinaria donna, dalla forte personalità per la quale veniva prima di tutto il lavoro ma che tentò sempre di trovare l'amore - mai ricevuto dalla famiglia e dallo pseudo marito Carlo Pietro Ulrico ( che prese il nome di Pietro)- il quale tuttavia non intralciasse mai il suo mestiere di monarca illuminato.
L'autrice, grazie ad accurate ricerche soprattutto sulle memorie redatte da Caterina stessa, i suoi diari e i rapporti dei vari ambasciatori alla corte di San Pietroburgo, ci dona un quadro esaustivo e ben fatto della Russia nella seconda metà del '700, pur commettendo qualche imprecisione. Inoltre ella incuriosisce il lettore specialmente nel mostrarci i vari rapporti amorosi di Caterina, con dovizia di particolari.
Un'opera la quale, nonostante il mio sospetto iniziale, mi ha appassionato e che consiglio vivamente a tutti. Buona lettura!
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Maria Antonietta: avanzando verso il baratro...
“ Sin dal giorno in cui ci eravamo scambiati i voti, io ero stata accusata di qualsiasi vizio immaginabile: dalla frivolezza alla stravaganza, all'adulterio e al lesbismo. E quella del re era sempre stata la prima voce a difendermi e la più alta.
Ora, oltre diciannove anni dopo, più grassi, ingrigiti, e forse un pochino più saggi, stavamo fronteggiando sfide che da sposi novelli, appena più grandi dei nostri figli, le nostre menti e i nostri cuori non avrebbero mai potuto immaginare.
Tre notti prima avevo pensato che il mondo che avevamo conosciuto stesse finendo. Ora mi sembrava che stesse semplicemente annunciando una nuova alba.
Il giorno poteva essere soltanto più luminoso. Era la legge della natura.”
Spera, spera mia adorata Toinette ma purtroppo questo è solo l'inizio di una tragica fine...
In un ampio lasso di tempo che va dal 1774, anno dell'incoronazione di Luigi XVI, alla presa della Bastiglia del 1789, Juliet Grey, con questo favoloso volume dell'accattivante trilogia sulla Reine de France più conosciuta della storia, ci mostra i cambiamenti radicali da una diciottenne regina col cuore di bambina che pensa solo a divertirsi ad una regina trentenne, matura ma ancora ottimista e ingenua verso una tragedia annunciata.
Reims è in tripudio per l'arrivo del nuovo re, Louis le Desiré, e della sua affascinante e amata moglie, Maria Antonietta. Il popolo rimette in loro la speranza di un futuro migliore, senza più gli sperperi delle amanti di Luigi XV, ma tale loro fiducia e amore mentre per il re rimarranno a lungo tempo per la regina svaniranno quasi immediatamente.
Maria Antonietta si lascia andare agli sperperi più vacui in gioielli, in vestiti, nella follia dei poufs ( piramidali, costose ed elaboratissime acconciature) e soprattutto nel gioco d'azzardo, perdendo cifre stratosferiche, mentre il re tenta di fare economia per riempire ( inutilmente) le casse dello Stato, vuote per gli eccessi della corte e per la drammatica Guerra dei 7 anni, voluta dal nonno Lugi XV.
Ma per Antoinette queste apparenti follie hanno un senso: servono a riempire la solitudine, che in realtà la circonda, e il vuoto di una prole. Riguardo a ciò questa volta troveremo i veri motivi della ritrosia di Luigi che ama invero la moglie ma la cui timidezza e cattiva educazione lo portano a stare lontano da lei. Tuttavia nel cuore di Toinette, come ama chiamarsi la regina, si inseriranno nuove amicizie -come quella con madame de Polignac, madonna di Raffaello dall'anima un po' profittatrice - e soprattutto l'amore verso l'aitante conte svedese Hans Axel von Fersen.
Inoltre la regina, oppressa dal detestato cerimoniale di corte, si ritira nell'ameno Petit Trianon, che lei definirà “il suo luogo di delizie”, dove tenterà di riprodurvi la sua infanzia viennese.
Questi gesti però hanno causato la gelosia degli aristocratici privati del favore della regina i quali la infangarono di fronte al popolo con gli oltraggiosi libels. Ma situazioni molto di più gravi stanno incombendo sulla monarchia francese e sulla apparentemente perfetta vita di Maria Antonietta....
Juliet Grey con il suo stile accattivante, elegante e frizzante riesce perfettamente a immedesimarci con la Reine, creando una forte empatia. Nonostante le descrizioni molto accurate - soprattutto nei rapporti intimi tra i 2 reali ( chissà forse l'autrice avrà letto la trilogia della James anche se non eccede mai nel volgare) - non ho ritrovato del tutto quel connubio perfetto tra realtà e fantasia del primo volume poiché sono imbattuto in qualche erroruccio anche se minuscolo, come l'aver affermato che il conte d'Artois, fratello di Luigi, aveva 3 figli maschi mentre nella realtà ne aveva 2.
Comunque vi consiglio vivamente di leggere questo secondo volume della trilogia su Maria Antonietta il quale si divora e il quale, con i suoi particolari e introspezioni psicologiche, ci ha aperto le porte dei saloni dorati di Versailles e delle raffinate e intime stanze del Petit Trianon.
É un libro assolutamente da non perdere.
Buona lettura!
P.S: vorrei fare una piccola critica alla Newton Compton: perché utilizzate sempre questi titoli stereotipati che ammucchiandosi tra di loro creano più,che curiosità, confusione nel lettore? E perché questa copertina che ho ritenuto un poco squallida? Ma de gustibus...
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Pirgopolinice: apologia della comicità latina
Quando sentiamo il nome Plauto tornano alla mente ricordi di scuola fatti di frammenti, brani selezionati e inevitabili sbadigli. Ma quando estrapoliamo una delle commedie di questo genio latino dal contesto scolastico che cosa otteniamo? Di sicuro un apprezzamento maggiore e anche, come è avvenuto con me, molto divertimento.
Dunque proviamo: prendiamo una sua opera, che ne dite del suo successo, il Miles Gloriosus? Apriamolo in una giornata uggiosa o quando siamo di malumore. Il risultato? Risate, risate e risate.
Un giovane cittadino Ateniese, Pleusicle vive un intenso amore ( ricambiato) con una cortigiana, nata libera, di nome Filocomasia. Tuttavia il giovane Ateniese è costretto a partire per Naupatto a fini diplomatici, lasciando la sua amante sola o quasi...Infatti nella grande città dell'Attica giunge un soldato vanesio e millantatore di Efeso ( cittadina sulle coste dell'Asia minore), Pirgopolinice che inizia a sedurre la madre di Filocomasia per poi ingannarla portando via con sé sua figlia.
Il servo di Pleusicle, il versatile Palestrione, parte alla volta di Naupatto per informare il suo padrone circa la partenza di Filocomasia. Però durante la traversata in nave egli viene assalito e fatto prigioniero dai ladri il quale lo danno in dono ad un soldato di Efeso...indovinate un po' ? Il nostro Pirgopolinice!! Così Palestrione ritrova Filocomasia, tenuta quasi come una prigioniera dal miles gloriosus, e avverte di ciò Pleusicle, il quale si reca immediatamente a Efeso e viene ospitato da un anziano amico di suo padre, Periplectomeno, il quale ( che strana coincidenza!) è il vicino di casa di Pirgopolinice.
Dunque per permettere ai due amanti di incontrarsi, Palestrione elabora questo stratagemma: fa forare la stanza, che è collegata direttamente alla dimora di Periplectomeno, dove può entrare solo Filocomasia. Tuttavia poco tempo dopo, un servo di Pirgopolinice e “carceriere” di Filocomasia, Sceledro, mentre rincorre una scimmietta fuggita verso la casa di Periplectomeno, scova Pleusicle e la sua prigioniera a baciarsi e di fretta va a cercare Pirgopolinice per riferirgli il fatto ma viene bloccato da Palestrione, il quale ha elaborato un altro raggiro: fa credere a Sceledro che in città siano giunte la madre e la sorella gemella di Filocomasia, Giustina ( impersonata dalla stessa Filocomasia) e così il povero guardiano, confuso, viene fatto azzittire.
Ma bisogna far liberare Filocomasia e allora Palestrione mette a punto il più ingegnoso (ed esilarante) inganno che abbia mai fatto...
L'opera, una commedia palliata ( ovvero di argomento greco) in cinque atti, basa la sua comicità sul linguaggio e sullo pseudo-protagonista Pirgopolinice.
Leggendo la commedia, non ci troviamo di fronte un registro letterario e retorico, piuttosto arcaico e solenne, ma il parlato, il latino della quotidianità, con le sue formule fisse ( “per Ercole!”, “per Polluce!” ) e i suoi “colpi alla latina” ( “che gli dei ti schiantino”).
Il ritmo inoltre è molto veloce per il predominare di dialoghi e per l'assenza di riflessioni.
L'altro cavallo di battaglia è la spassosa figura del soldato fanfarone, Pirgopolinice.
Socrate diceva che il pubblico ride quando vede sulla scena un personaggio che, a causa della non conoscenza di sé, millanta una superiorità che viene smentita dall'evidenza dei fatti. Tale ignoranza si esplica in 3 ambiti- i beni della fortuna, le qualità del corpo e le qualità dell'anima- che Pirgopolinice riesce a incarnare alla perfezione. Ecco perché è così comico.
Inoltre il nostro miles gloriosus,” non vive di luce propria, ma esiste solo grazie alle adulazioni degli altri. Lui, in prima persona, parla molto poco. Nessun monologo, nessun intervento lungo. Soltanto brevi risposte alle sollecitazioni dei suoi interlocutori”. Quindi Pirgopolinice è la parodia del protagonista, il quale invero è rappresentato dal servo Palestrione poiché “architectus” di tutte le vicende narrate dalle cui labbra pendono tutti gli altri personaggi. Inoltre il poliedrico servitore è l'unico a cui Plauto concede un monologo che occupa un'intera scena ( la centralità del servitore è un tema carico al grande commediografo latino).
In conclusione, consiglio vivamente quest'opera poiché oltre ad essere spiritosa ed incalzante ci dà delle pennellate della società romana del III secolo a.C. la quale, specialmente nei difetti, non differisce molto dalla nostra.
Dunque, se siete giù di morale e volete qualcosa di alternativo dalle solite barzellette, un buon Miles Gloriosus vi farà di sicuro tornare il sorriso. Buona lettura!!!
PS: quest'opera non è un saggio ma un classico latino, quindi il voto sull'approfondimento è molto orientativo...
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Psiche: Cenerentola dell'antichità
“Insieme all'incanto narrativo, essa [la Favola di Eros e Psiche] comunica infatti un sentore di mistero, difficile da risolvere in modo univoco. Così nei molti secoli della sua fortuna essa ha dato materia alle interpretazioni più varie, alle riscritture più innovative, alla scoperta di sensi e suggestioni molteplici.
Tutt'uno con il lussureggiare della materia narrativa della novella, è infatti il suo significato nascosto e inafferrabile ad attrarci verso di essa e insieme quasi a sospingerci oltre la sua sostanza originaria. Il suo segreto è anche la sua molteplice possibilità di rinascere.”
Ha proprio ragione Daniele Piccini, autore della prefazione della mia edizione, a mostrarci quale è la vera bellezza della favola all'apparenza banale dell'autore latino Apuleio, “ La favola di Eros e Psiche”.
É proprio la multiformità di questo piccola portagioie a renderlo un classico intramontabile da non perdersi assolutamente. D'altronde Calvino diceva:”Il classico è un classico perché rileggendolo sarà come iniziare un altro libro”. Così qualcuno ha visto la favola come la metafora dell'iniziazione ai riti misterici dell'antichità, un altro l'ha vista come l'unione dell'anima con Dio e io, nella mia semplicità e anche infantilità, ho visto tale favola come un'antenata di quella di Cenerentola.
“I sogni son desideri
Di felicità.
Nel sonno non hai pensieri
Ti esprimi con sincerità .
Se hai fede chissà che un giorno
La sorte non ti arriderà .
Tu sogna e spera fermamente
Dimentica il presente
E il sogno realtà diverrà...”
Chissà anche Psiche la notte sognava di trovare l'amore della sua vita invece di quello profetizzato dall'oracolo e credo che non ci avrebbe mai creduto visto di trovarsi amata da Amore in persona...
La favola presenta qualche diversità ma le sensazioni provate sono le stesse di quelle provate con il cartone della Disney che ha fatto sognare moltissime persone : invece di un principe azzurro si trova il dio Eros, invece di una matrigna cattiva si trova una dea Venere dagli attributi diabolici e invece dei famosi topolini troviamo della formiche parlanti ma l'amore e la passione rimangono immutati.
Psiche è la minore di tre figlie di un re e una regina in una città imprecisata ed è di una bellezza così divina che viene venerata come la dea Venere. Quest'ultima, adirata di cotanta insolenza, e rosa dalla gelosia chiede a suo figlio Eros, ragazzino lascivo e capriccioso che si diverte con i cuori degli stessi abitanti dell'Olimpo, di far innamorare la giovane mortale dell'uomo più ripugnate mai assistito e torna nei flutti del mare.
Intanto Psiche piange giorno e notte perché nessuno vuole sposarla a differenza delle sue sorelle che, pur essendo meno belle di lei, sono divenute mogli e regine. Allora suo padre si reca dall'oracolo che in un macabro vaticinio ordina di lasciare la figlia vestita a nozze su un'alta rocca dove una creatura mostruosa la porterà via. Così, in un corteo che sembra più di un funerale che nuziale, la fanciulla viene lasciata sola sulla roccia finché, tra le lacrime, Zefiro la porta in un palazzo ricoperto d'oro massiccio e pietre preziose dove la giovane viene servita e riverita da delle creature invisibili, di cui si sentono solo le voci. Le notti invece vengono allietate dalla passione e dall'amore di suo marito che le impone,tuttavia, di non guardargli mai il volto. Tuttavia Psiche si sente sola e chiede al marito un po' riluttante di portare a casa sua le sorelle maggiori che credono che lei sia morta. Mai peggiore sbaglio commesso!!! Le due donne, gelose della ricchezza di cui è circondata Psiche, escogitano un malefico piano per rovinarla e, pur i mille avvertimenti del marito della fanciulla che la avverte ogni notte di non ascoltare le intriganti sorelle, riescono a convincerla che la persona che sta accanto a lei nel talamo ogni notte è un serpente gigante che vuole divorarla. Perciò ,una notte, Psiche,armata di spada e lampada, si decide a scoprire il vero aspetto del marito trovandosi invece di un serpente.....
La breve favola occupa tre libri di un'opera più lunga: le “Metamorfosi” ( o “Asino d'oro”), capolavoro dello scrittore latino di età imperiale Apuleio.
Con uno stile che con equilibrio riesce a darci ogni particolare dell'ambiente, dei personaggi e dei loro pensieri, sembra di rivivere una vicenda moderna che, grazie alla sottile ironia dell'autore, mi ha fatto più di una volta sorridere, soprattutto quando viene riportata l'ira di Venere, dopo aver scoperto l'amore del figlio con la sua acerrima nemica Psiche.
Quest'opera è un brevissimo classico che consiglio vivamente perché oltre a darci un quadro generale delle divinità greco-romane, unendo passione e poesia, ci dona una storia assolutamente anacronistica e ricca di insegnamenti. Ottimo come primo approccio con i temuti classici antichi.
Di sicuro rimarrà uno dei più bei libri che abbia mai letto!!!! Buona lettura!!!
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Roma: un grande impero dai grandi vizi
“ A guardare le cose dall'alto e a voler dare loro una ragione, si può dire che Roma nacque con una missione, l'assolse, e con essa finì. Questa missione fu di raccogliere le civiltà che l'avevano preceduta, la greca, l'orientale, l'egiziana, la cartaginese, di fonderle e di diffonderle in tutta l'Europa e il bacino del Mediterraneo. Essa non inventò granché né nella filosofia, né nell'arte, né nella scienza. Ma fornì le strade della loro circolazione, gli eserciti per difenderle, un formidabile complesso di leggi per garantirne lo sviluppo nell'ordine, e una lingua per renderle universali. Non inventò nemmeno delle forme politiche: monarchia e repubblica, aristocrazia e democrazia, liberalismo e dispotismo erano già stati sperimentati. Ma Roma ne fece dei modelli, e in ognuno di essi brillò per il suo genio pratico e organizzativo.”
Un paragrafo incisivo ma esaustivo dei secoli in cui nacque, crebbe e crollò la più grande organizzazione statale che il mondo abbia mai visto e al centro dell'opera ben cesellata del grande scrittore e giornalista Indro Montanelli (1909-2001): Roma.
Nessuno mai fino ad ora è riuscito ad emulare ciò che fu l'Impero Romano nella sua massima espansione durante il principato di Traiano e nella sua accurata organizzazione e amministrazione le quali, nonostante qualche eccezione, riuscirono a mantenere unito per molto l' immane crogiolo di popoli che lo costiruiva. Ci provarono Carlo Magno, Carlo V d'Asburgo, Napoleone ma i loro tentativi si vanificarono in pochissimo tempo.
Ancora oggi, leggendo “Storia di Roma” si rimane sbalorditi di fronte all'espansione romana, che da un insieme di capanne abitate da contadini che dovettero rapire le donne del popolo vicino per avere una discendenza divenne uno stato immenso che oltre all'Italia controllava la Grecia, la Turchia, l'Egitto, il Nord Africa, la Penisola Iberica, la Britannia e la Francia. Ma si nota anche come Roma ci assomigli purtroppo nei lati peggiori quali il degrado morale e religioso, la crisi dilagante, l'usura, i debiti, la corruzione e le mille difficoltà del “proletariato” e della piccola borghesia. Ed è questo l'obbiettivo dell'autore: mostrarci quali sarà il nostro futuro se continueremo a seguire la strada sbagliata dritta dritta alla devastazione e alla perdizione utilizzando uno dei più importante esempi donatoci dalla Storia. In fondo, conoscere il passato non aiuta a conoscere il presente ed a non commettere più gli errori dei nostri avi?
Montanelli ci conduce per mano, con la sua opera, in un lungo viaggio nel tempo che parte approssimativamente 2000 anni prima di Cristo,con l'arrivo in Italia di popolazioni nordiche da cui deriveranno gli umbri, i sabini e i latini,e con la fondazione di un villaggio sulle malariche sponde del Tevere il 21 aprile 753 al quale viene dato il nome di Roma. In breve tempo questo villaggio accresce soprattutto con l'alleanza dei Sabini e con le riforme dei leggendari 7 Re di Roma fino al 509, quando l'odiato re etrusco Tarquinio il Superbo viene definitivamente cacciato dalla città e si instaura una repubblica, la quale in breve tempo diventa un'oligarchia controllata dai senatori. Dopo questo cambio di regime politico, quel piccolo villaggio di contadini e montanari inizia ad espandersi e grazie all'audacia dei suoi abitanti il dominio romano si estende su tutta la penisola italica arrivando a contrastare gli interessi di Cartagine, che all'epoca possedeva il monopolio dei commerci sul Mediterraneo, con cui combatterà tre lunghe guerre le quali costituiranno l'inizio della fine dello Stato Romano. Infatti con la conquista di Cartagine e soprattutto con la conquista della Grecia Roma cambierà letteralmente il suo modo di vivere. Il mos maiorum basato su austerità, onestà, frugalità e devozione della religione, della famiglia e della patria verrà letteralmente travolto dai costumi più “molli” del mondo ellenico costituendo il bacillo del cancro che lentamente ucciderà lo Stato il quale nel 476 ( anno ufficiale della caduta dell'Impero Romano d'Occidente) avrà di romano solo il nome. Così passando per Cicerone, Cesare, gli imperatori d'adozione, i Severi, Diocleziano, Costantino vedremo come quei orblemi, prima di natura morale e sociale, si tramuteranno in una tremenda crisi la quale, scoppiata in tutto il suo furore nel III secolo d.C, condurrà il grande Impero romano,creduto eterno, al disfacimento totale da parte di popoli germanici, barbari, privi della competenza e dell'ingegno greco-latino i quali porranno fine all'epoca antica per iniziarne un'altra, il Medioevo.
Ora passiamo alle note dolenti:
1- lo stile utilizzato è leggero e frizzante rendendo così la narrazione dei fatti mai noiosa. Tuttavia in certi punti diventa frivola e infantile, come se l'autore cercasse di spiegare storia a mo' di favola davanti a dei bambini dell'asilo e ciò a volte mi ha infastidito.
2- Nella premessa Montanelli afferma che “ fra le tante qualità che occorrono allo storico, c'è anche un pizzico di ignoranza. Quella che impedendogli l'analisi di tanti particolari, gli consente di cogliere la sintesi dei grandi avvenimenti”. Questo lo trovo giustissimo ma a volte l'autore tralascia avvenimenti importanti come in non far accenno all'Editto di Tessalonica che sancisce il trionfo del Cristianesimo e la fine del paganesimo divenuto ormai una superstitio. Inoltre l'autore si sofferma, specialmente con gli imperatori, su la loro vita privata e soprattutto sugli intrighi di corte rendendo, soprattutto verso la fine, la narrazione delle vicende contorta e complessa con tutti quei nomi di imperatori-fantocci e generali che causano più confusione che altro.
Nonostante ciò, l'opera mi è piaciuta assai perché non parla solo di fatti ma anche di politica, cultura e società con interessanti approfondimenti sulla vita a Roma nel periodo delle guerre puniche e durante l'Impero per evidenziare il degrado e i vizi della cittadinanza. Forse aveva in parte ragione Catone il Cendore ad evitare di conquistare la Grecia che “capta, ferum vixctorem cepit”( conquistata, conquistò il barbaro vincitore, cioè Roma).
Questa è un'opera che consiglio vivamente soprattutto per chi vuole fare, come ho fatto io, un ripasso prima dell'inizio della scuola o per chi vuole dare una spolverata a quella storia Romana studiata sui banchi di scuola o di università. Buona lettura!!!!
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Due Marguerite. Due amori. Due destini.
Due Marguerite: la più famosa mantenuta di Parigi ed una principessa di Valois. Due amori tragici: il romantico borghese Armand Duval e il baldanzoso ed appassionato conte Giuseppe Giacinto Bonifacio di Lerac de La Mole, dal famosissimo mantello rosso ciliegia che causerà nel romanzo non pochi problemi. Due destini: una a vivere sola e piena di debiti e l'altra a diventare regina di Francia e Navarra. Due autori: Alexandre Dumas figlio ed Alexandre Dumas padre. Due epoche: il XIX secolo e il XVI secolo....
Sono molte le possibili differenze e gli intrecci che,involontariamente, legano due grandi opere dell'800: “La signora delle camelie” di Dumas figlio e “La regina Margot” di Dumas padre.
Parigi, 18 Agosto 1572
Al palazzo reale del Louvre, di solito sinistro e tetro, si sta svolgendo un solenne ballo in onore delle nozze dell'ugonotto ( calvinista francese) Enrico, re (senza regno) di Navarra, e la principessa Marguerite di Valois, figlia della diabolica e intrigante Caterina de' Medici e sorella del re di Francia, Carlo IX, uomo solitario e permaloso, che la chiama affettuosamente Margot. É una serata importante perché si dovrebbe porre fine con questo matrimonio politico alle lunghe lotte tra cattolici e ugonotti. Tuttavia i due sposi non si amano. Enrico di Navarra vede la moglie come una semplice alleata per salire al trono di Francia e adempiere alle sue ambizioni e lo stesso vale per Margot ma per raggiungere il loro obbiettivo devono affrontare tre temibili personaggi: François di Valois, duca d'Alençon, viscido e pavido fratello di Margherita che ambisce a diventare re di Francia a qualunque mezzo, Enrico di Valois, duca d'Angiò, beniamino della Regina Madre e costretto dal fratello Carlo IX per gelosia ad essere eletto Re di Polonia e allontanarsi così ( in teoria) per sempre fuori dalla terra natia, e lei, Caterina de' Medici, madre di Margot, di Carlo IX e dei duchi di Alençon e d'Angiò. Malvagia assassina, crudele vendicatrice, molto superstiziosa e amante degli intrighi e delle congiure, sapendo dal fiorentino Renè (de iure “profumiere ufficiale”ma de facto “avvelenatore ufficiale” di S.M la regina Madre e “grande stregone” di Francia) che la sua famiglia, i Valois, si estinguerà e che al trono francese salirà Enrico di Navarra, cercherà in ogni momento e a qualunque mezzo di cambiare il destino, istigando anche una delle peggiore stragi che la Storia ricordi: il massacro di San Bartolomeo, la notte del 24 Agosto 1572 (pochi giorni dopo il matrimonio tra Enrico e Margherita) durante il quale quasi tutti gli ugonotti parigini furono uccisi e quelli sopravvissuti ( tra cui il marito di Margot) furono costretti a convertirsi al Cattolicesimo.
L'opera racconta anche le vicende di due giovani nobili- l'ugonotto( poi costretto ad abiurare) e affascinate conte di Lerac de la Mole e il cattolico, piemontese e vigoroso conte Marco Annibale di Coconnas- le quali si intrecceranno con quelle di Margot e dei suoi cari. Infatti la notte di San Bartolomeo, il conte de la Mole si salva dall'eccidio rifugiandosi nella camera da letto di Margherita e ne diventerà l'amante per la sua intelligenza, la sua nobiltà d'animo e la sua bellezza e il conte di Coconnas diverrà l'amante della Duchessa di Nevers, migliore amica e confidente di Margot.
Così tra intrighi, rutilanti feste, accoltellate, cacce al falcone e al cinghiale, nella più depravata e lussuriosa corte europea, Dumas, per mezzo delle coincidenze e del caso, muoverà le fila delle vicende di Margherita e delle persone che ama fino ad una serie di colpi di scena finali che, devo ammettere, mi hanno commosso, soprattutto quello.....
Concordo pienamente con Victor Hugo nell'affermare“nessuno è più popolare di Dumas; i suoi successi sono più che successi, sono trionfi, sono il clamore della fanfara. Il nome di Alexandre Dumas è più che francese, è europeo, è più che europeo, è universale”.
Per ora, infatti, Dumas è lo scrittore che mi ha conquistato di più perché, con la sua enorme creatività e conoscenza storica, porta indietro nel tempo in epoche più oniriche che realistiche, nel mondo del feuilleton, dove tra grandi feste, picaresche avventure e memorabili combattimenti, travolge il lettore con i suoi impensabili colpi di scene e con i suoi personaggi, creati divinamente.
In alcuni punti del romanzo, sembra di riprendere per mano “I tre moschettieri”, per i suoi intrighi e per alcuni personaggi, come Caterina de' Medici, che assomiglia a Richelieu ma volta solo al male, e Margot, che ricorda Milady volta solo al bene, però ciò che manca nell'opera e che lo rende di un livello inferiore ai Moschettieri sono i viaggi: infatti mentre Athos, Porhos, Aramis e d'Artagnan viaggiano in Inghilterra e in varie parti della Francia, come La Rochelle, nella Regina Margot tutte le vicende si sviluppano a Parigi.
Inoltre lo stile, sempre travolgente ed elegante, a tratti l'ho trovato un po' contorto e leggermente prolisso, anche se ricco di suspence, colpi di scene e pathos.
Inoltre il finale mi è sembrato vago e affrettato, anche se quest'opera appartiene ad un ciclo di tre romanzi, dedicato agli ultimi Valois.
In conclusione consiglio vivamente questo classico imperdibile e intramontabile, pieno di avventure incredibili e personaggi indimenticabili ma anche di valori morali, come la forza dell'amicizia, dell'amore e l'invincibilità del fato. Mille grazie Dumas, per avermi fatto sognare ancora una volta con un altro ben riuscito romanzo che ho divorato in pochi giorni!!! Buona lettura!
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Una esistenza di bellezza, libertà e morte
Sissi, oggi, è un personaggio famosissimo, oggetto di numerose biografie e numerosi film, la quale affascina e sempre affascinerà il pubblico per l'aurea fiabesca che avvolge la sua figura. Ma da cosa deriva tutta questa fama e gloria che ha ottenuto con i posteri?
La “Sissimania” scoppia soprattutto con la magnifica trilogia cinematografica della fine degli anni '50 girata da Ernst Marishka con una bellissima Romy Shneider nelle vesti della giovane Elisabetta di Baviera la quale ha fatto innamorare il pubblico( me compreso). Tuttavia quei grandiosi film, riprodotti ancora oggi, non sono del tutto realistici perché:
1- le vicende riprodotte, soprattutto negli ultimi 2 film, non seguono rigorosamente il vero ordine cronologico con cui i fatti avvennero;
2- il vero soprannome dell'imperatrice d'Austria dato dalla sua famiglia era Sisi e non Sissi, come viene utilizzato nei film di Marishka;
3- la trilogia lascia, infine, il quadro di una giovane imperatrice bella e felice, con i bambini ancora piccoli e che vive appassionatamente il suo grande amore con l'imperatore Franz Joseph, senza far riferimento all'anoressia, ai lutti e alla depressione che la colpiranno in futuro.
Quindi chi fu realmente Sissi, anzi, per essere precisi, Sisi?
La risposta ce la dà Annabella Cabiati con la sua biografia “Sissi, l'ultima imperatrice”.
Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, nacque la vigilia di Natale del 1837, quarta dei dieci figli del duca Massimiliano di Baviera ( 1808-1888), facente parte di un ramo cadetto della famiglia reale Bavarese, e della principessa Ludovica di Baviera ( 1808-1892), figlia del re di Baviera Massimiliano I. A differenza del film, che ci mostre i genitori di Sissi uniti e innamorati, il duca Massimiliano, chiamato in famiglia Max, non amava la moglie e la tradiva continuamente avendo anche vari figli illegittimi che portava alla consorte, che dovette continuamente ingoiare bocconi amari. Inoltre il duca Max, spinta dalla sua folle brama di libertà che Sissi ereditò, quasi sempre non era a casa ma quando tornava era sempre una festa per i bambini.
Elisabetta passò un'infanzia spensierata, anormale per le famiglie aristocratiche dell'epoca molto rigide e formali, immersa nel fiabesco paesaggio dell'amato castello di Possenhofen, chiamato in famiglia “Possi”, e trascorrendo il tempo in divertimenti con i fratelli e in lunghe cavalcate, che saranno sempre una sua passione.
Tuttavia l'idillio familiare è stravolto da 2 avvenimenti: la morte di uno scudiero di cui Elisabetta si era innamorata (platonicamente) e il fidanzamento con il cugino di primo grado Franz Joseph (1830-1916) che era imperatore d'Austria. Il fidanzamento avviene in modo fiabesco: con sfondo l'ameno paesaggio salisburghese di Bad Ischl, Franz doveva sposare la sorella di Sissi, Elena, chiamata in famiglia Nenè, ma appena vede la sua giovane sorella si innamora follemente e la chiede subito in sposa. Così, Elisabetta, un po' stordita dalla richiesta, si sposa nel 1854 e alla tenera età di 16 anni diventa imperatrice d'Austria.
Sissi, subito, si sente imprigionata da una corte malevola e viscida e soprattutto dalla suocera, l'arciduchessa Sofia, donna rigida, severa e che vuole comandare tutto e tutti tanto da prenderle i figli , ad eccezione di Maria Valeria, l'unica ad aver avuto la “fortuna”di essere amata e viziata dall'imperatrice mentre gli altri 2, Gisella e Rodolfo, risentiranno questa carenza affettiva, soprattutto il figlio maschio.
In breve tempo, prima a causa della sua salute e poi per piacere, l'imperatrice si lancia in numerosissimi viaggi, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, tra cui l'Inghilterra, la natia Baviera e soprattutto l'adorata Ungheria, che,per suo volere, verrà innalzata a pari livello dell'Austria dando vita all'impero Austro-Ungarico, fino ad arrivare alle limpide acque di Ginevra, suo ultimo e tragico viaggio, dopo esser stata circondata da delusioni, fallimenti, l'anoressia per mantenere la sua divina bellezza e lutti, soprattutto quello...
Adesso vi chiederete: perché ha messo voti così bassi per una storia che sembra interessante e accattivante?
Bene iniziamo, allora:
1- lo stile dell'autrice, che tenta di imitare l'eleganza e la poesia di Sissi ( sì, fu anche poetessa), appare assolutamente come una scimmiottatura pesante e tediosa, che affianca termini roboanti e disusati con un un linguaggio molto informale e anche errori grammaticali ( per fortuna che ha fatto l'insegnate per 20 anni!!! Forse, però, possono essere stati errori della casa editrice);
2- Annabella Cabiati ha commesso anche vari errori sui personaggi, prima omettendo che il vero soprannome di Sissi era Sisi ( bastava che andasse su Wikipedia o guardasse il documentario di Piero e Alberto Angela) poi sbagliando l'albero genealogico di Franz Joseph e altri personaggi e date;
3- non sono state sviluppate curiosità come il perché Sissi teneva in foto e quadri la bocca sempre serrata, le maldicenze che si dicevano sul vero padre dell'arciduca Massimiliano, fratello di Franz Joseph, le varie ipotesi e i misteri che riguardano la tragedia avvenuta a Mayerling....
Inoltre contro la casa editrice ( ma ciò non ha contribuito ad abbassare i voti dati all'opera) devo dire:
1- l'opera è disseminata di fotografie e quadri. Ottima idea, ma alcune immagini sono state inserite casualmente. Per esempio nel capitolo sulle varie battaglie e sconfitte dell'esercito austriaco vi è un'immagine di Sissi adolescente;
2- vi sono numerosi spazi bianchi che hanno la funzione di sprecare solo carta, andando contro anche al rispetto che aveva Elisabetta verso la natura e gli animali.
Tuttavia non vi sono solo lati negativi, infatti il testo è ricco testimonianze come le poesie di Sissi, parti del diario dell'arciduchessa Sofia e della contessa Festetics, dama di compagnia dell'imperatrice e inoltre l'autrice ha aggiunto a fine libro delle tavole numerologiche su Elisabetta e sui vari personaggi legati a lei, anche se sono molto contorte e seconde me poco veritiere.
In conclusione sono indeciso se consigliare quest'opera. Infatti credo che tra le tante biografie su Elisabetta ve ne siano di migliori ma se volete avere un primo approccio con questa importantissima figura che la Storia ci ha donato, allora questo libro fa per voi ma se volete, come volevo io, tante curiosità e particolari poco conosciuti, allora non ve lo consiglio.
Posso solo dire a Sissi “éljen, Erzsébeth!!” ( “lunga vita ad Elisabetta” in Ungherese) poiché rimarrai ,con il tuo desiderio di libertà e la tua straordinaria bellezza, eterna mentre all'autrice chiedo di aspettare ancora un po' e di leggere e informarsi di più se vuole scrivere una “vera” biografia. Buona lettura!
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Una Venere Vincitrice alla ricerca di libertà
Paolina Bonaparte. Oggi, appena sentiamo questo nome, pensiamo subito ad una donna dissoluta, fedifraga, capricciosa e viziata. Ma questo è solo una faccia della medaglia. Paolina perfetta sorella di Napoleone, sincera e disinteressata. Paolina, spia napoleonica che utilizza le coltri del talamo come suo cavallo di battaglia. Ma soprattutto, Paolina, Venere Vincitrice alla ricerca della Libertà con la L maiuscola: “libertà di amare chiunque, di disporre comunque del proprio corpo contro l'esclusivismo dei maschi e le strettoie della morale. Libertà di non fermarsi mai troppo a lungo in nessun luogo, in nessuna città, si chiami Parigi o Roma.”
Ecco la Paolina che ci vuole mostrare Antonio Spinosa (1923-2009) con la sua meravigliosa opera biografica: “Paolina Bonaparte, l'amante imperiale”.
Maria Paola di Buonaparte nacque nel 1780 ad Ajaccio, in Corsica, ottava figlia del politico Carlo Maria di Buonaparte (1746-1785) e di Maria Letizia Ramolino (1750-1836). La famiglia Buonaparte era appartenete alla piccola nobiltà corsa ed era di modesta ricchezza ma il padre, grande oratore, riuscì a mandare il fratello maggiore di Paoletta, come fu all'inizio soprannominata Maria Paola, Napolione, nato nel 1769, in Francia, in una una prestigiosa scuola militare a Brienne e la sorella maggiore, Maria Anna Elisa, in un collegio aristocratico francese.
Paoletta dovette passare un'infanzia difficile anche se la visse sempre gaia e felice: nel 1785 muore il padre e la famiglia passa un periodo di ristrettezze economiche, nel 1786 torna Napolione per mettere ordine alle finanze della casa e incontra per la prima volta Paoletta, rimanendone incantato per i suoi modi gioviali e spontanei, nel 1793, a causa di una rivolta autonomista in Corsica, sono costretti a fuggire e riparano in Francia a Marsiglia dove la famiglia Buonaparte ( ora francesizzata in Bonaparte) passò il periodo più brutto della sua vita e dove si formarono i giudizi più negativi sulla famiglia, tra i quali quello il quale affermava che Paoletta ed Elisa si prostituivano.
Ma la situazione sta per cambiare perché Napoleone ( come ora si fa chiamare il giovane generale), grazie alla sua bravura, riconquista Tolone per poi cimentarsi nella grande e gloriosa impresa della conquista dell'Italia per ordine del Direttorio, il quale all'epoca dominava la Francia dopo la tirannia di Robespierre.
In questo periodo la quindicenne Paoletta si innamora del quarantunenne Stanislas Fréron(1754-1802), prima giacobino sanguinario ora dandy decaduto che cerca di riprendere potere con il nuovo governo del Direttorio. Fréron trova un modo per ritornare in auge: sposare Paoletta, sorella del famoso generale Napoleone. Dunque utilizza le sue doti di incallito libertino tra cui i versi di Petrarca che conquistano immediatamente la giovane Bonaparte. Tuttavia Napoleone si oppone al matrimonio e Fréron è costretto ad allontanarsi, spezzando il cuore di Paoletta che vine spinta dal fratello a sposare il generale Victor-Emanuel Leclerc (1772-1802) a cui darà un figlio, Dermid. Ma siamo solo all'inizio perché arriverà la tragedia di Santo Domingo, il secondo matrimonio, la malattia, gli innumerevoli viaggi , gli sfarzi dei salotti parigini e della Corte napoleonica per poi giungere alle disfatte e al tramonto di una delle più affascinanti donne che al Storia ci abbia mai regalato....
L'autore riesce a motivare i vizi e la lussuria di Paoletta (che poi cambierà il nome in Paolina poiché secondo Napoleone più “regale”) in maniera scientifica ( infatti soffriva di isteria sessuale, in soldoni era una ninfomane) ma anche le virtù, quali il coraggio, il dono di rendere ogni sua azione suprema, come il passare da una prodigalità esagerata ad una immensa avarizia, e l'amore incommensurabile verso il fratello perché in fondo sono l'uno l'immagine dell'altra: entrambi frenetici, infaticabili, affetti da un delirio psicomotorio e desiderosi di conquistare, lui con la guerra e lei con la seduzione.
Questa è la seconda opera che leggo di Spinosa e ne sono rimasto totalmente appagato anche se ho preferito “Luigi XVI”,secondo me più approfondito, con un linguaggio meno specialistico e con meno termini francesi, ma tutto ciò è perdonabile perché ogni biografia su Paolina è contrastante come sono contrastanti le fonti, a causa del progetto della monarchie europee ottocentesche di diffamare la famiglia Bonaparte, utilizzando soprattutto la figura della bella Paolina, per i suoi scandali amorosi e per le sue stravaganze.
Quindi ci troviamo davanti ad un altro caso di diffamazione della storia, come quello di Maria Antonietta e di Lucrezia Borgia, ma- grazie al lavoro difficile e faticoso di alcuni storici,tra cui Spinosa- oggi si è riusciti a diradare le fitte nebbie di menzogna e calunnia che hanno avvolto per secoli queste figure e a riscattarle. Per esempio io, durante la lettura di questa opera, in certi punti avevo voglia di schiaffeggiare Paolina per i suoi bruschi cambi di umore e per i suoi frivoli e momentanei capricci ma in certi momenti provavo una grande invidia perché lei è riuscita a dichiarare guerra alla società e ai limiti della moralità per raggiungere la suprema libertà, in questo caso delle donne in campo sessuale e sociale.
In conclusione, ho trovato il libro molto interessante e ricco di curiosità, per esempio sapevate che Camillo Benso, conte di Cavour, sì proprio quel Cavour che porrà le basi per l'unificazione dell'Italia, è strettamente legato con Paolina e con il marito? Infatti essi furono suoi padrini al battesimo, fu chiamato Camillo in onore del principe Borghese e Paolina gli destinerà nel suo testamento 1000 scudi romani.
Questo è stato un libro che consiglio a tutti non come una lettura leggera da sotto l'ombrellone ma come una lettura piuttosto impegnativa che se affrontata con attenzione e cura darà moltissime soddisfazioni. Buona lettura!
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Amore VS Denaro: una battaglia persa o quasi...
“ Sono stanca, stanca di vedere uomini che vengono a chiedermi sempre la stessa cosa, che mi pagano, e credono di potersi permettere tutto. Se quelle che cominciano il nostro vergognoso mestiere sapessero di che si tratta, piuttosto farebbero le cameriere. Ma no, ci attrae la vanità: aver abiti, carrozze, gioielli, si crede a tutto quello che si sente dire, perché anche la prostituzione ha una fede, e piano piano ci si logora il cuore, il corpo e la bellezza. Siamo temute come paria, circondate da persone che prendono sempre più di quello che danno, e un bel giorno crepiamo come cani, dopo aver perduto gli altri, e noi stesse.”
( Marguerite Gautier)
Con queste amare parole, si nota la diversità di carattere e la volontà di redenzione dalla sua dissoluta vita della coprotagonista della magnifica opera di Alexandre Dumas fils: “La signora delle camelie”.
In una Parigi agli inizi del 1840, in pieno regno di Luigi Filippo (1830-1848), giunge un giovane ragazzo di provincia appartenente ad una famiglia di ceto medio, Armand Duval il quale, dopo essersi laureato in legge, si lascia andare alla splendida vita parigina fatta di feste, balli e opere teatrali, ma sempre con moderazione.
Un giorno passando davanti un negozio vede scendere da un calesse una bellissima giovane, alta, magra più del normale, con i capelli neri, occhi chiari e molto espressivi e con un bellissimo viso minuto e casto. É amore a prima vista. Dopo altri 2 incontri a teatro a distanza di diversi anni, scopre che quella angelica fanciulla è Marguerite Gautier, la più bella mantenuta di Parigi, la quale ha fatto perdere la testa ( e anche il patrimonio) a molti uomini ed è chiamata “la signora delle camelie” perché sul suo palco a teatro mostra per 25 giorni al mese una camelia bianca e per altri 5 giorni una camelia rossa.Pur essendo un po' ritroso verso la sua professione e i suoi modi, Armand non può fare a meno di lei, anche perché nota in quella donna esternamente sempre gaia e felice della sua capricciosa vita, una malinconia e anche una novità di sentimenti, assente in tutte le altre cortigiane. E non si sbaglia. La dissoluta Marguerite, odia il suo mestiere, la sua vita, vuole amare chi vuole senza pensare ai debiti che ha contratto, alle sue spese folli e vivere serenamente in campagna per ristabilire anche la sua malmessa salute. Così quando il fato permette l'incontro “decisivo”, Cupido scocca il suo dardo anche su Marguerite che si innamora pazzamente di Armand perché “ho capito che mi amate per me e non per voi, mentre gli altri mi hanno sempre amata per loro stessi”. Dopo primi incontri nascosti e prime gelosie da parte di Armand, i due giovani follemente innamorati si rifugiano nella amena campagna parigina dove passano una vita spensierata e pastorale. Tuttavia minaccia la loro felicità il padre di Armand, il quale rappresenta (in parte) il denaro, i pregiudizi e il pensiero malato della borghesia del Demi-Monde ( la società equivoca) ottocentesco e il quale .....
Alexandre Dumas fils, attraverso un inizio in medias res e poi un lungo e meraviglioso flashback narrato dallo stesso Armand, ci narra la vicenda di un amore impossibile che diventa lo specchio della società francese del XIX secolo la quale dietro magnifici lampadari di cristallo, tappezzerie ricercate e raffinate argenterie nasconde i vizi, la grettezza, l'ignoranza e i pregiudizi indirizzati verso il “diverso”, per il Demi-Monde quindi lo “sbagliato”, rappresentato nella vicenda da Marguerite, cortigiana piena di debiti che cerca la redenzione per le sue scelte sbagliate, dichiarando così guerra (quasi) persa alla società e alle sue incongruenze.
L'autore , per mezzo di uno stile scorrevole, fresco e soprattutto travolgente, che quando pubblicò la storia aveva circa 24 anni, prendendo come base vera la sua breve vicenda amorosa con Marie Duplessis, crea alla perfezione il personaggio di Marguerite Gautier che è diventata un mito a sé stante, con il quale si sono confrontate dive come Eleonora Duse( l'Ermione della “Pioggia nel Pineto ” di D'Annunzio), Greta Garbo, Sarah Bernhardet e, io avrei voluto, Vivien Leigh, la stupenda Rossella O'Hara di “Via col Vento”, che, con i suoi occhi chiari, il suo stupendo e puerile viso e i suoi setosi capelli neri, secondo me, è l'immagine perfetta di Marguerite.
In conclusione consiglio vivamente questo breve classico, dalla storia ben organizzata, ricca di valori morali e di personaggi presentati in modo sublime, dove ho riscontrato solamente un pecca: in certi punti vi sono numerose parentesi quadre anche piuttosto lunghe, le quali a volte sono azzeccate, perché descrivono particolari pensieri e impressioni dei personaggi, mentre a volte non c'entrano per niente. Sarà un problema della mia edizione?
Comunque, vi auguro una buona lettura!!!!!!!
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Elogio alle contraddizioni
Roma. La città dalle eterne contraddizioni dove il passato glorioso si scontra con il presente. La capitale della cristianità e delle virtù contro la capitale dei vizi e degli scandali. La città volgare e grezza del Belli e la città dei piaceri e della sensualità di D’Annunzio.
Questo il fascino di ,non una città, ma di un mondo a sé che incanterà sempre per la sua onnipresente storia l’umanità ma che proprio a causa del suo invidiabile passato dovrà sempre lavorare il doppio rispetto alle altre capitali europee per seguire le modernità del presente e le innovazioni che ci regalerà il futuro. Questa è l’idea che ci vuole dare Corrado Augias ( Roma,1935) con il suo piccolo portagioie: “I segreti di Roma”.
Con il suo stile frizzante e amichevole, anche se alle volte un po’ antiquato e aulico, l’autore ci accompagna in un meraviglioso viaggio nel tempo, tra passato e presente, per scoprire l’Urbe , i suoi capolavori, i suoi segreti, le sue storie e i suoi personaggi.
Partendo,come dicono i Romani,” ab ovo”, ossia dalle origini, Augias ci narra la nascita macchiata di sangue di un minuscolo villaggio di pastori e montanari in una zona collinare insalubre vicino al Tevere che diverrà la capitale di una delle più grandi entità statali che la storia abbia mai avuto: l’Impero Romano.
Ma l’obbiettivo dell’autore non è quello di scrivere un manuale di storia ma di farci comprendere quale è la vita e il cuore pulsante della Città Eterna dove tutti i più grandi personaggi dell’umanità sono passati: Cesare, Augusto, Carlo Magno, Napoleone …
Così ci ritroveremo con Cesare nel momento in cui fu assassinato sotto la statua di Pompeo, oppure tra le torri alto medievali quando la “papesa” Giovanna partorì per strada, o ancora ad accompagnare la bellissima Lucrezia Borgia al suo ennesimo matrimonio voluto dallo spregiudicato e lussurioso Alessandro VI, ma anche tra i caffè charmant di fine ‘800 con il fior fiore della borghesia italiana, desiderosa di trasgressioni e lusso, e a rivivere le tragedie del bombardamento di Roma, della strage delle Fosse Ardeatine e del rastrellamento di Ebrei del Ghetto di Roma da parte dei nazisti.
Augias, attraverso una ricco repertorio di testi, approfondimenti e testimonianze, ci narra anche scandali dal sapore sinistro - in primis il caso Casati-Stampa ove il marchese Camillo Casati, malato di voyeurismo cioè di vedere la moglie in rapporti sessuali con altri uomini, uccise la consorte Anna, dalla personalità ancora non decifrata, il suo amante Massimo Minorenti per poi suicidarsi- e misteri della storia ancora non svelati- come il perché la Chiesa aiutò i nazifascisti a fuggire in Sudamerica tanto che uno dei carnefici della strage delle Fosse Ardeatine quando fu catturato ringraziò la Chiesa Cattolica per il suo aiuto o perché non fece alcunché per evitare il rastrellamento dei 2091 ebrei romani da parte dei tedeschi pur avendolo saputo in anticipo- ma anche nostalgici ricordi di quando da bambino giocava tra le rovine delle Terme di Caracalla oppure quando visse il bombardamento nel 1943 degli Americani e la loro entrata nella capitale.
In conclusione, consiglio vivamente a tutti quest’opera strabiliante la quale tuttavia presenta una pecca che può essere assolutamente perdonata all’autore: la mancanza di un rapporto cronologico tra i fatti narrati ( per esempio si passa dalle Fosse Ardeatine a Lucrezia Borgia).
Nonostante ciò, questo resterà uno dei libri che mi hanno ammaliato di più perché ci aiuta a riscoprire monumenti e storie non presenti nelle guide turistiche in una città capolavoro della Storia che bisogna assolutamente preservare dal degrado e dalle spoliazione che ha subito per gran parte della sua vita da parte del suo popolo e delle sue classi dirigenti. Buona lettura!!!!
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Troy 2: la verità ( logicamente secondo Manfredi)
Mi immagino già il cast: Leonardo di Caprio nei panni di Diomede, Jessica Alba nei panni della dolce e affascinante Ros, Nicole Kidman nei panni di Elena di Troia....
Di sicuro il film potrebbe vincere qualche Oscar e riuscirebbe a far innamorare il pubblico ma in questo caso sto parlando di un libro con un meraviglioso futuro cinematografico, opera di un grande e famoso scrittore-archeologo “made in Italy”: Valerio Massimo Manfredi.
La bugia. La fantasia. L'immaginazione. La creatività. Questi sono i principi di questo libricino che ha poco di storico - varie descrizioni di natura storica/archeologica sulle antiche città micenee e riferimenti all'avvento dei Dor, popolo bellicoso e potente che farà piombare la penisola ellenica in uno dei periodi più bui della sua storia, il Medioevo Ellenico ( circa dal XII al VIII secolo a.C.) - mentre molto di avventura picaresca e anche un po' di fantasy.
La vicenda è narrata da un aedo che mente sin dall'inizio affermando che tutto ciò che sta per raccontare è vero. Spinto dalla musa ( uno dei molti richiami ai poemi epici dell'antichità, soprattutto Odissea ed Eneide), l'aedo/narratore onnisciente ci narra due vicende che corrono su strade parallele:
- la principale ripercorre il pellegrinaggio del fortissimo acheo Diomede, figlio di Tideo, eversore di città e acerrimo nemico del divino Enea dalla sua patria Argo, la quale scopre essere in mano della infedele e traditrice moglie Egialea, verso le Terre del Nord, giungendo nella nostra Penisola, nel libro chiamata Hesperia, alla ricerca disperata di una terra adatta per fondare una nuova città e un nuovo regno. Là trova una terra inospitale, paludosa ricoperta da strane nuvole e piena di villaggi fantasma e scheletri di uomini e animali ( eh sì, proprio la prospera e ricca Pianura Padana), altissime e aspre montagne ( le Alpi), e numerosi popoli, che costituiranno una grande spina nel fianco allo sparuto “esercito” del potente acheo, ma anche l'amore e il passato che ha per tutto il viaggio estenuato il protagonista, spingendolo spesso alla follia e a volte anche al suicidio.
- Quella “secondaria” invece riguarda il ritorno degli Atridi ( Menelao e Agamennone), la congiura delle varie regine ( eccettuate Penelope, moglie di Ulisse, per devozione ed Elena, moglie di Menelao, per costrizione) che, per mezzo dei loro amanti, si impossessano del trono del marito con l'obbiettivo di riportare la Grecia ad un periodo di prosperità tutto al femminile e le varie lotte dei principi achei per fermare i piani delle loro mogli.
Io ho trovato più bello il secondo filone narrativo perché più affascinante, curioso, travolgente e soprattutto perché si spiega quale fu il vero casus belli della guerra di Troia, che si discosta dal mito e dalla storia.
Il principale filone è interessante dal punto di vista del ritratto psicologico del protagonista, logorato lentamente dalla paura per il futuro e l'invidia per il passato, e della suspense e del colpo di scena nella parte finale.
La conclusione non mi ha soddisfatto per niente poiché è stata troppo affrettata e poiché mi ha lasciato in bocca un sapore molto amaro.
Manfredi proprio non conosce le parole “lieto fine” mentre si diverte molto nel controllare a suo piacimento il lettore lasciandolo infine abbastanza dispiaciuto e deluso.
Questo è stato il secondo libro di Manfredi che ho letto, ma mi è piaciuto di più lo Scudo di Talos, essendomi sembrato più travolgente e soprattutto un vero romanzo storico.
Lo stile invece mi è sembrato migliore dello Scudo di Talos perché meno frammentato, con meno ellissi, e con più sequenze descrittive( ho adorato soprattutto quelle riguardanti i paesaggi e l'ambiente) e psicologiche.
Questo libricino tuttavia lo consiglio poiché è davvero curioso e interessante, ma non dovete aspettarvi un romanzo storico al 100% altrimenti avete sbagliato assolutamente strada.
Tuttavia le numerose scene di battaglia descritte minuziosamente e le varie tragedie presenti nelle sue opere mi hanno un po' stancato e credo proprio che rimanderò l'altro libro che ho di Manfredi ché devo cambiare un po' l'aria. Buona lettura!
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La rocambolesca vita di Due-nomi
“ Nel pieno della bufera si dimentica che esiste il sole e si teme che le tenebre domineranno il mondo, ma il sole continua a splendere sopra le nubi nere e prima o poi i suoi raggi si aprono un varco per riportare la luce e la vita.”
In queste poche ma intense parole possiamo condensare il pensiero e la tragica vita di Talos/ Kleidemos, protagonista di una delle più conosciute opere di Valerio Massimo Manfredi: “ Lo scudo di Talos”.
Le vicende, che occupano una ampio spazio temporale ( dalla prima guerra persiana del 492-490 a.C e la rivolta degli Iloti spartani del 464 a.C), di questo personaggio complesso, malinconico e travagliato tra due nomi, due vite, tra il Lupo di Messenia e il Dragone di Sparta vengono suddivise in due parti.
Nella prima parte la trama è piatta, priva di colpi di scena e priva anche di originalità. Manfredi utilizza la arcinota storiella del bambino nobile abbandonato che .dopo esser stato spesso in competizione con i membri della sua originaria famiglia senza saperlo, scopre al posto sbagliato e al momento sbagliato le sue origini....
Kleidemos, figlio del nobile spartiata Aristarchos, poiché nato con un piede rattrappito e quindi, secondo le dure e crudeli leggi di Sparta, destinato alla morte, una sera tempestosa viene abbandonato sul monte Taigeto in balia dei lupi. Tuttavia un pastore ilota ( che si rivelerà essere molto di più), Kritolaos, lo trova e decide di prenderlo con sé affidandolo alle cure di sua figlia sterile e dandogli il nome di Talos, potente e leggendario gigante che aveva il suo punto debole nel piede.
Crescendo, Talos viene a scoprire l'amore per mezzo della bellissima contadina Antinea e un mondo nuovo e magico: quello degli spartiati che sotto le loro armature di bronzo onorano la loro patria guerreggiando duramente. Allora Kritolaos mostra al giovane delle armi segrete e gli insegna ad usarle per liberare in futuro gli Iloti dalla schiavitù.
Intanto è scoppiata una terribile guerra contro il Re della Persia, Serse, e allora alcuni Spartiati, compresi il padre e il fratello di Talos Brithos ( con cui aveva avuto da giovane delle risse e degli scontri) lo sceglie come assistente per le Termopili, dove i 300 spartiati inviati verranno tutti massacrati, ad eccezione di Talos, di suo fratello e di un altro guerriero perché incaricati di recapitare a Sparta un messaggio del Re Leonidas....
Riuscirà Talos a scoprire le sue vere origini, a ritrovare il suo amore Antinea ( costretta a partire lontano con il padre) e a ritornare sano e salvo nel suo villaggio immerso nei boschi del monte Taigeto?
La seconda parte è stata più bella, più emozionante e più ricca di avvenura e pathos....
Talos/ Kleidemos inizia a fare rocamboleschi viaggi in Asia e in terre fantastiche per assecondare al piano (mal riuscito) di alleanza con la Persia del re Pausania ( che Manfredi riscatta dal giudizio generale di traditore di Sparta) ma Talos si salva e riesce a ritornare nella sua città natia, divenuta sempre più dispotica e corrotta, dove capeggia, dopo aver risolto i misteri che riguardavano la sua vera famiglia, una rivolta degli Iloti ma al giovane figlio di Sparta e allos tesso tempo condottiero e guida degli Iloti aspetta una fine che mi ha lasciato un sapore dolce-amaro.
Manfredi, con il suo stile rapido, incalzante e soprattutto travolgente, riesce ad accompagnare il lettore in un meraviglioso viaggio nel tempo conducendoci in luoghi fantastici come sulla dorata isola di Cipro, dove regna il profumo di ginestra, o tra le dune e le tempeste del deserto asiatico o ancora nello sfarzo ostentato delle reggie persiane, senza mai essere prolisso o scontato.
Egli è riuscito nell'ardua impresa di amalgamare l'immaginario ma verosimile con la realtà storica creando personaggi ben delineati come Talos, Antinea e Kritolaos affiancati a personaggi storici sempre ben caratterizzati come Pausanias, Leonidas e Themistokles.
Le uniche pecche di questa piacevole opera sono state le numerose ellissi che hanno frammentato eccessivamente le vicende, il finale dal sapore agrodolce che mi ha un po' deluso e gli eccessivi lutti che a tratti ti spingevano a lanciare qualche anatema all'autore per la sua crudeltà...
Tutto sommato, la lettura è stata gradevole e anche interessante perché Manfredi si è interessato a donarci un ritratto psicologico degli spartiati che, pur essendo irrigiditi dalle innaturali e crudeli leggi di Sparta, sono lo stesso umani con le loro debolezze e con i loro dolori e perché ha composto un mix equilibrato di avventura, storia, amore e mistero.
Lo consiglio a tutti coloro che vogliono rapportarsi con un libro leggero e da ombrellone per riprendersi ( come è stato come me) da opere impegnative e un po' pesanti. Tuttavia non abbiate grandi aspettative perché “Lo scudo di Talos” rimane sempre una lettura da spiaggia e niente di più. Buona lettura!
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Le aspre montagne dell'imperatore nomade
Stati Uniti, Dicembre 1948
Arriva un baule dalla Svizzera. Marguerite de Crayencour, conosciuta meglio con il suo acronimo Yourcenar, lo apre. Trova una miriade di scartoffie: lettere, appunti e note varie. Decide di passare le notti a rileggerle e a bruciare nel caminetto gli scritti inutili. Tra questo disordine, trova una pagina ingiallita che inizia con “ Mio caro Marco...”. Marguerite la legge tutta e le viene bruscamente in mente il suo sogno, il suo progetto più ambizioso a cui non lavora da quasi 10 anni. Una voglia di riprendere la sua opera le incanta la mano, la mente e il cuore. In meno di 3 anni, conclude e pubblica ciò che diverrà uno dei suoi più grandi successi: “Memorie di Adriano”.
Un anziano malato di idropisia al cuore a cui mancano pochi giorni di vita, scrivendo a suo nipote, si sfoga e decide di narrare le sue vicende, per avere un giudizio generale sulle sue azioni.
Fin qui, questo potrebbe apparire come l'incipit di un normalissimo libro, ma l'uomo che sta scrivendo è l'imperatore Publio Elio Adriano ( 76-138 d.C) e il destinatario delle lettere è suo nipote adottivo e ultimo “princeps per adozione” Marco Aurelio, l'imperatore filosofo.
Nato ad Italica, in Spagna, da Elio Adriano Afro, cugino del comandante delle truppe sul Reno e governatore della Germania Traiano ( 53-117 d.C), Adriano rimase orfano in giovane età e, sotto la tutela del cugino del padre, partì per Roma, dove ricevette la sua educazione. Divenuto adolescente, Adriano conduce una vita militare, ottenendo la simpatia di Traiano ( che intanto, dopo essere stato adottato da Nerva e dopo la sua morte era divenuto imperatore), e dopo la vittoria/ rovina con i Parti e la morte dell' “optimus princeps”, che pochi giorni prima lo aveva adottato, diventa sovrano di un territorio sconfinato che andava dalla fredda e nebbiosa Britannia all'Egitto passando per Spagna, Italia, Grecia e Asia Minore. Per il neonato princeps comincia un lungo regno ( 21 anni), durante il quale viaggiò per tutte le province, fondò città, eresse valli, restaurò monumenti, promulgò numerose riforme con l'obbiettivo di pacificare il suo impero e renderlo moderno ed efficiente. Tuttavia l'imperatore dovrà superare numerose difficoltà, in primis la sanguinosa rivolta della Giudea, finchè il destino gli riserberà dolorose sorprese...
Ma arriviamo al momento clou dell'opera: l'amore. Nella sua vita Adriano ebbe due grandi amori, l'uno legato all'altro anche se totalmente differenti: la Grecia e Antinoo.
Il primo è un amore più platonico che conquistò l'imperatore sin da quando era un adulescens. Per la Grecia, egli farà di tutto ( ricostruirà i monumenti e le città, riordinerà l'assetto giuridico e amministrativo, riporterà Atene al suo grado di capitale della cultura...) fino a raggiungere gli onori divini e soprattutto i titoli a cui ha sempre aspirato: Jonico e Filelleno.
Il secondo,invece, è un'amore terreno, tragico, di per sé “contro natura” e insano ( anche se all'epoca normalissimo) tra un quarantacinquenne, alla ricerca della assoluta libertà e della apoteosi, e un quindicenne della Bitinia, probabilmente proveniente dall'Arcadia, dai riccioli biondi e dallo sguardo malinconico e tenero, così fedele che arriverà ad idolatrarsi per donare l'eternità ad Adriano.
La Yourcenar, in questo caso, in modo molto poetico, ha eliminato il volgare e reso la relazione di questi 2 personaggi puro, travolgente e forte come quello tra Achille e Patroclo.
Marguerite ci regala in modo originale un quadro a tutto tondo non di un imperatore ma di un uomo dalle mille sfaccettature, con i suoi vizi e con le sue virtù, con le sue sicurezze e con i suoi dubbi. In tutto troviamo 5 Adriano totalmente differenti tra loro:
- il giovane soldato dedito ai piaceri, pieno di titubanze e ambizioni;
- l'imperatore che sentendosi “responsabile di questo mondo” cerca di far tutto per migliorare l'Impero che sa già che è in procinto di scomparire e finire in mano ai barbari;
- l'uomo saggio e viaggiatore dall'infinita sicurezza e caparbietà nell'accanita ricerca di un accordo tra felicità e logica, tra intelligenza e fato;
- l'uomo, devastato dal dolore, che vede solo morte e pessimismo;
- l'anziano malato che attende “cum Patientia” la sua fine.
Quindi una parabola discendente che parte dal Giove calmo e radioso e termina col Plutone, dio delle ombre che attende di ritornare nell'Ade incolore e spoglio.
La Yourcenar, con uno stile accademico e forbito, ci offre un'opera dai valori assolutamente anacronistici e pieno di riflessioni da Nobel per la letteratura. Ella, inoltre, è riuscita in modo elegante ed equilibrato a caratterizzare tutti i personaggi presenti: io sono rimasto legato soprattutto a Traiano che non viene descritto come imperatore-soldato forte e maestoso ma come un vecchio che non vuole credere che sta invecchiando e che la morte si avvicina e a sua moglie Plotina, unica grande amica di Adriano, che rappresenta l' ”optima domina”, intelligente, saggia di cui ricorderò sempre l'appellativo dato alla sua biblioteca fondata sul Foro Traiano: “ospedale dell'anima”. Parole giustissime e meravigliose!!!!!
Tuttavia vi sono state delle difficoltà nel leggere il romanzo. Infatti mi sono trovato davanti a delle “Alpi letterarie” difficili da percorrere e irte di parole pesanti e barocche. L'autrice mette alla prova il suo lettore con una serie infinita di tranelli e trabocchetti che confondono per vedere se si è pronti e degni di leggere il suo capolavoro e di comprenderlo al meglio.
Con attenzione e caparbietà sono riuscito a superare queste montagne di parole complesse e roboanti che verso la fine si sono addolcite sempre di più fino a creare una pianura, gradevole da percorrere.
In conclusione consiglio vivamente questa opera che non deve essere presa alla leggera e letta con superficialità perché altrimenti non si riuscirà assolutamente a valicare queste aspri monti e a superare le numerose prove che Marguerite dissemina lungo la narrazione. Buona lettura!
“L'impero, l'ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto.”
(Publio Elio Adriano)
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L'inizio e la fine di tutto
“ Io muoio innocente di tutti i crimini di cui mi si accusa. Perdono gli artefici della mia morte e prego Dio che il sangue che state per versare non ricada mai sulla Francia! ” (Luigi XVI)
Con queste parole da dramma shakespeariano termina la rocambolesca e tragica vita di Luigi XVI di Borbone ( 1754-1793), simbolo della fine di un epoca fondata sull'assolutismo, ormai nominato Ancien Régime, e l'inizio di un'altra che prenderà tutto un secolo, l'800, ricco di novità e stravolgimenti, in primis i due imperi francesi di Napoleone I (1804-1815) e di Napoleone III (1852-1870).
Nato il 23 Agosto 1754 nella reggia di Versailles da Luigi Ferdinando di Borbone ( 1729-1765), figlio primogenito di Luigi XV e Delfino (erede) di Francia, e dalla sua seconda moglie Maria Giuseppina di Sassonia (1731-1767), Luigi Augusto di Borbone, duca di Berry, passò un' infanzia davvero difficile: prima di tutto non era destinato a divenire re poiché vi era il padre, che, come disse più volte Luigi, sarebbe riuscito a salvare il regno dal sangue della rivoluzione, e il fratello maggiore, Luigi, duca di Borgogna, a cui erano dirette tutte le attenzioni e, soprattutto, la preferenza della madre. Ma accadono delle sciagure: nel 1761 muore il fratello, nel 1765 il padre e nel 1767 la madre. Luigi diventa a 11 anni Delfino di Francia e viene costretto a una dura e confusa educazione che lo renderà goffo, timido e chiuso. In balia delle 3 Madames Tantes ( le 3 figlie nubili del re Luigi XV) e del suo bigotto istitutore, il duca de la Vauguyon, il giovane Luigi viene costretto a divenire adulto e allora si rifugia nelle sue passioni: la geografia, la caccia e il costruire i chiavistelli. Sposato alla più esuberante e bella Maria Antonietta (1755-1793) con cui avrà prima numerosi problemi legati al suo essere introverso e poi un rapporto di armonia e amore ( non sempre ricambiato), nel 1774 diventa re e, dopo esser stato soprannominato Louis le Désiré, nei suoi 18 anni di regno, tenta di salvare la Francia che era all'epoca una Grecia d'oggi ma priva degli aiuti della UE. Sommersa dai debiti, la nazione non ce la fa più e ciò porterà alla sanguinaria Rivoluzione, dove, al grido di liberté, égalité e fraternité, il fleur de lis borbonico sarà soppiantato dal tricolore. La furia popolare, intanto, sta cercando il capro espiatorio di tutte le gravezze inghiottite amaramente e lo troverà nella famiglia reale e nel suo re che...
Antonio Spinosa, con la sua ampia conoscenza e con il suo stile molto specialistico e ricco di testimonianze (tra le quali spiccano il malinconico testamento del re, il resoconto delle sue ultime ore scritto dal suo confessore, l'abate de Firmont, e il “Quare lacrymae” di Pio VI), è riuscito nel suo intento di riscattare questa vittima della Rivoluzione Francese da un errato giudizio ( purtroppo ancora presente) di molti storici il quale afferma che Luigi XVI fu un uomo apatico, goffo, grasso e debole che non ha fatto nulla per salvare la sua nazione. Invece egli modernizzò l'amministrazione, ridusse la pena di morte solo ai casi di alto tradimento, abolì nei suoi demani la servitù della gleba e avvicinò notevolmente il suo regno all'Austria degli Asburgo, alla Russia dei Romanov e all'Italia dei Savoia e dei papi. Tuttavia Luigi commise anche degli errori che avrebbero potuto mantenere saldo il trono della più nobile e florida dinastia regnate in Europa, i Borboni, tra i quali spicca la fuga a Varennes del 1791.
L'autore vuole mostrare che non fu solo il re a causare il collasso francese ma anche il fato e riguardo a ciò voglio citare la profezia sulla fuga della famiglia reale di uno dei personaggi più misteriosi di sempre, Nostradamus ( 1503-1566):
“ Di notte verrà per la foresta di Reines / le due parti al bivio. Herne, la pietra bianca, / il monaco in grigio dentro Varennes/ eletto capo [Capeto, nome concesso a Luigi prima di morire]. Causerà tempesta,fuoco, sangue, mannaia."
Questo è stato il libro che mi ha fatto sognare, piangere, amare e odiare. É stata l'opera che ho letto e riletto senza mai provar noia ma solo ebrezza per la Poesia del suo autore, a cui sarò grato per tutta la vita. Grazie Antonio!!! Grazie infinite per avermi fatto conoscere e adorare uno dei personaggi storici che mi è rimasto, rimane e rimarrà sempre nel mio cuore. Consiglio vivamente questo gioiello, a cui tuttavia bisognerà porre attenzione per comprenderlo in fondo. Buona lettura!
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Zannoner, per carità!!
Recensione di DanySanny e Ale96
Diciamolo subito: questo libro è terribilmente squallido.
È un calderone di banalità: 225 ml di isolamento, un pizzico di romanticismo e una manciata di aspirazioni personali, il tutto condito dall' hip-hop e cotto al fuoco vivace della passione giovanile.
Si passa da una ragazza di nome Robin che durante una gita scolastica balla di fronte ad una scultura di Ermes ( ?) al naturale saggio conclusivo (che neanche a specificarlo regala " pace e amore" a tutti quanti) passando per una sfiancante storia d'amore, rapimenti in Afghanistan ( ma cosa c'entra?) e pestaggi in discoteca.
Un ritratto dell'adolescenza eccessivamente stereotipato che propone una sbobba trita e ritrita, sospesa tra il classico divorzio dei genitori, riviste sodomita sotto il letto e l'anticonformismo di un protagonista " maschiaccio".
Con uno stile tedioso e con la sua mortale banalità, Dance ha rischiato di farci morire dalle risate. Mannaggia il torneo di lettura della nostra biblioteca che ci ha obbligato a leggerlo!!!
Cara Zannoner, risparmiaci queste tediose scimmiottature!!!
A mai più.
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Una tragedia realistica della virtù
“Sono stato sepolto in mezzo ai morti, ma oggi sono sepolto in mezzo ai vivi, sepolto da atti, circostanze, dall'intera società che vuole rispedirmi sottoterra!”
( Colonnello Chabert)
Con queste amare parole del protagonista, possiamo condensare l'intera tragedia, oggetto del romanzo composto nel febbraio-marzo del 1832 da Honoré de Balzac (1799-1850): Le colonel Chabert.
Piccola tessera del titanico, magnifico, immenso mosaico, purtroppo rimasto incompleto, della Commedia Umana nata per dare un quadro totale e per la prima volta realistico della società francese dalla Restaurazione al regno di Luigi Filippo (1830-1848), Il colonnello Chabert rappresenta una degli esempi più riusciti e meno conosciuti della bravura del suo ambizioso autore.
Ambientata in una Parigi lungi dai grandi boulevard alla Haussmann e dove sono ammessi solo gli estremi, ovvero il lusso più sfrenato e la più terribile miseria, l'opera ripercorre in un ampio asso di tempo (primi decenni del XIX secolo-1840) la tragedia di Hyacinthe, conosciuto meglio come colonnello Chabert, conte dell'Impero, grand'ufficiale della Legione d'onore, intimo amico di Napoleone e uno dei più ricchi e famosi uomini della Francia imperiale.
Rimasto colpito durante la battaglia a Eylau, in Russia, del 1807, egli viene considerato morto e buttato in una fossa comune, ma per una curiosa intercessione del fato, rimane in vita e, dopo aver ricordato chi fosse, dopo molte peripezie e problemi, riesce ad arrivare accattone e misero in una Parigi totalmente mutata. Infatti l'aquila imperiale, dopo un ultimo estremo attacco, è caduta ed è stata sostituita dal fleur de lis borbonico e la Francia, grazie ad un congresso che “danza ma non cammina” e all'infido ministro Talleyrand definito dallo stesso Napoleone “merde dans un bas de soie”( m**** in una calza di seta), da grande impero è divenuta una nazione ridimensionata e messa “agli arresti domiciliari”. Ma non è cambiata solo la forma di governo, ma anche la società che sconvolge immensamente il nostro povero colonnello. Infatti l'élite sociale, oltre a essere costituito in parte dalla nobiltà del vecchio regime ormai spaventata e in decomposizione, è dominato da una nuova aristocrazia formata da persone anche di umilissimi origini che per mezzo dell'ambizione, dell'inganno e dell'avidità di denaro sono riuscite a ottenere un titolo e potere. In questa categoria è presente anche la intrigante e subdola contessa Ferraud, donna di bordello che sposò il colonnello per poi prendere alla sua “morte”, anche con l'inganno, i suoi beni e risposarsi con il conte Farraud, intimo del re allora governante Luigi XVIII e uomo influentissimo nella società post napoleonica. Il nostro Chabert cerca dalla contessa di riprendere i suoi beni ma....
Balzac, che ho letto per la prima volta, è riuscito a rendere egregiamente il realismo e la verosimiglianza che circonda il colonnello, infelice e sventurato “honnête homme”ritenuto inutile in un mondo dove comandano solamente il potere e il dio denaro, con un stile scorrevole, chiaro e travolgente sebbene a volte, soprattutto all'inizio, diventa troppo specialistico.
Il colonnello Chabert è un romanzo brevissimo ( forse anche troppo per i miei gusti) che consiglio vivamente a tutti, in particolare a coloro i quali per la prima volta si rapportano con un classico perché lo ritengo perfetto per un primo approccio. Buona lettura!
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Apologia del peccato
" Vendit Alexander claves, altaria, Cristum.
Emerat ille prius, vendere jure potest." ( Alessandro ha venduto le chiavi, gli altari e il Cristo. Aveva il diritto di venderli, perché prima li aveva comprati)
Con questa epigrafe possiamo sintetizzare la vita di uno dei più dissoluti e scandalosi Papi della storia della Chiesa.
Simonia. Nepotismo. Lussuria. Sete di potere e di ricchezza. Ecco i cardini della famiglia di origine spagnola che sconvolse il mondo cristiano e terrorizzò l'Europa: i Borgia.
Dumas (1802-1870) con il suo stile chiaro, semplice e avvincente, ci narra le vicende di questa stirpe per mezzo del membro più conosciuto e scandaloso: Rodrigo Lenzuolo Borgia divenuto Papa con il nome di Alessandro VI (1430 o 1431-1503).
Nel 1492, alla morte del dissoluto Innocenzo VIII, dopo aver comprato i voti del Sacro Collegio senza preoccuparsi del dogma dello Spirito Santo che guida le elezioni, siede sul trono di Pietro lo spagnolo Rodrigo Borgia, salito ai vertici della Chiesa grazie alla simonia e nepotismo di suo zio, Papa Callisto III (1378-1458).
In una Roma, infamata da delitti e ingiustizia, il nuovo pontefice passa un anno tra apparente "santità" di giorno ed esasperante lussuria di notte. Dopo aver ristabilito l'ordine nella Città Eterna, il Santo Padre inizia ad attuare il suo ampio progetto espansionistico con l'obiettivo di rendere la sua famiglia padrona d'Italia.
Tuttavia Alessandro VI deve affrontare ancora due problemi:
il denaro e la famiglia.
Con il primo riesce a trovare una soluzione rapida con la simonia e il veleno, mentre con il secondo vi sono più ostacoli, soprattutto per il figlio spregiudicato e latin lover ante litteram Cesare, il duca Valentino che viene definito così dal generale veneziano Giovanni Caracciolo:
"È un sacrilego di nascita, un fratricida, un usurpatore di beni altrui, un oppressore di innocenti, un rapinatore e un assassino, un uomo che viola tutte le leggi, anche quelle che sono rispettate perfino dai popoli più barbari, come l'ospitalità."
Ma tutti gli orribili delitti del Papa e del figlio stanno per finire...
In questa opera vediamo Dumas in una veste nuova, quella dello storico che , sebbene commettendo qualche pecca come il nome errato di Giovanni Borgia (figlio prediletto del Papa) chiamato Francesco, utilizza le fonti e la sua immensa cultura come prove dei fatti e soprattutto delle numerose guerre narrati in modo né pesante né tedioso né complesso.
L'autore, con senso critico e una leggera ironia verso il popolo romano, per lui svogliato, e verso gli Italiani che vedono la guerra come una giostra cavalleresca, ci lascia una tela dalle più svariate tonalità( per esempio la cultura, la società, la topografia dei luoghi...) di una Italia Felix che, dopo aver sconvolto il mondo 3 volte con l'impero Romano,
con i Comuni e con l'Umanesimo, è in procinto di finire nel turbine della guerra e della devastazione da parte degli stati nazionali, in primis la Francia, che manterranno la nostra penisola divisa fino all'unificazione sotto la croce bianca savoiarda.
I Borgia ci lasciano una visione particolareggiata e curiosa di una parte di storia del nostro paese, spesso trascurata o non approfondita dalla scuola, per mezzo di una stirpe "la cui sciagura proveniva dalla stessa stirpe" e di Roma, che da capitale della Cristianità divenne, sotto la trinità di Alessandro, Cesare e Lucrezia( bellissima e amatissima figlia di Alessandro che, con i matrimoni, divenne la principale pedina politica del Pontefice), " la città più infuocata di intemperanze, più abbandonata alla lussuria, più crudele nei massacri come una cortigiana abbandonata alla sfrenatezza e a baldorie" . Ma il principale obbiettivo di Dumas è un altro: nell'epilogo( la parte che mi è piaciuta di più), mediante una novella di Boccaccio, lo scrittore francese afferma che, seppure la Chiesa è corrotta, il Cristianesimo, sotto la guida dello Spirito Santo, aumenta giorno per giorno e che " del resto, non dimentichiamo che, se il Papato ha avuto i suoi Innocenzo VIII e Alessandro VI, i quali ne sono la vergogna, esso ha anche avuto i suoi Pio VII e Gregorio XVI ( io aggiungo anche Giovanni Paolo II), i quali ne sono la gloria". Magnifica frase. La più bella che abbia mai letto.
In conclusione, da buon Dumas fan quale sono io, faccio tutti i miei complimenti e tutte le mie lodi all'autore di questa breve e stupenda opera e invito tutti, specialmente coloro che amano la storia, a leggerlo ma vi avverto che non ci troverete personaggi creati alla perfezione come Milady o l'adrenalina di Venti Anni Dopo ma solo Poesia( notate la P maiuscola). Buona lettura!
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