Opinione scritta da Sony
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La sceneggiatura mancata
La storia era nata per diventare un film e il testo ha tutto il sapore della sceneggiatura.
Il protagonista è Luca, un giovane militare rientrato in Italia dopo alcune missioni in Africa. Per reinserirsi nel tessuto sociale egli ottiene dall’amico Edoardo, ex commilitone, un posto di lavoro nell’azienda di famiglia e una casa dove vivere e da condividere con Alessia, l’amante di Edoardo.
Così Luca si trasferisce in una nuova città e comincia una nuova vita, in un palazzo dove vivono ragazzi che come lui cercano di “sbarcare il lunario” e portano tatuata nell’interno del braccio la testa di un lupo famelico.
Inizia a lavorare in fabbrica, dove viene assegnato ad un operaio anziano e prossimo alla pensione che gli dovrebbe insegnare il lavoro; e mentre vive al lavoro il suo tran tran quotidiano, a casa perde la testa per Alessia.
Piano piano emerge la frustrazione di Luca affiancata da quella dei suoi nuovi amici: frustrazione sociale unita a una voglia incendiaria di ribaltare l’ordine costituito. E’ un rancore amaro covato giorno per giorno che ha bisogno di esplodere. Luca, che è alla ricerca di uno spiraglio che gli permetta di rifarsi un’esistenza e possibilmente anche una verginità etica e morale, è invece circondato da personaggi che incarnano il tipico lavoratore frustrato in cerca di soddisfazione e consolazione in attività di svago discutibili (cocaina, alcool e violenza gratuita su sé e su terzi) e che per nulla aiutano questa sua esigenza di riscatto. Il quadro si completa quando tutti i personaggi si riuniscono e fomentano astratte e utopiche aspettative di conquista violenta del potere. A peggiorare la situazione ritorna alla mente di Luca anche il passato africano, durante il quale, con Edoardo, si è macchiato di pesanti torture alla popolazione.
Le continue frustrazioni innescano una voglia di rivalsa che porta Luca, scippato da una zingarella, a farsi giustizia da sé e ad essere, in seguito, accusato di tentata strage.
Il panorama umano descritto è grottesco e agghiacciante, ma esplicita chiaramente la carica esplosiva del disagio sociale, tipico di quelle fasce socialmente deboli e povere, abitanti realtà periferiche piene di precarietà.
Il libro pur essendo veloce da leggere, a volte, rallenta il desiderio di continuarne la lettura, perché si perde in personaggi che sono maschere o caricature tipiche della credenza popolare, come il carabiniere tracagnotto e siciliano, sgrammaticato e dall’accento pesante, un po’ tonto e che si perde in banali equivoci, o il cantante rock incazzato, ubriaco e strafatto; sono questi dei personaggi che danno una sensazione di “già letto”. Demotivante ai fini della lettura anche la sensazione di angoscia che si accumula nell’avanzare delle vicende: la scontentezza dei personaggi arriva al lettore forte e chiara. Mentre quest’ultimo punto può essere fonte di vanto per l’autore, non lo sarà invece una critica decisa da fare allo scritto, il quale presenta purtroppo diversi, fastidiosi, errori grammaticali e sintattici.
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Tratto da una storia vera
Diciassette ragazze di diversa estrazione sociale, frequentanti lo stesso liceo, rimangono incinta a pochissima distanza l’una dall’altra; si conoscono tra di loro, anzi alcune sono proprio amiche intime. Dopo l’iniziale scandalo, nel paese cominciano le illazioni sul caso: cosa si nasconde dietro quella che sembra essere solo una strana coincidenza? Il patto di una banda di adolescenti? La circuizione da parte di una ragazza più navigata delle altre? Semplice bisogno d’amore?
Una giornalista francese indaga e riesce ad incontrare alcune di queste ragazze.
Attraverso i racconti di costoro si riesce ad intravedere il retroscena di un melodramma, il dietro le quinte di un perbenismo apparente di famiglie che vogliono sembrare normali, ma che linciano psicologicamente i figli con la loro assenza o con la loro onnipresenza. Vi è un parterre genitoriale variegato e per niente idealizzato. Queste adolescenti si orientano nella vita tra genitori depressi, sognanti il successo o semplicemente bigotti. Tutte a loro modo vi sopravvivono e cercano una via di fuga, il modo di dimostrare la loro indipendenza. Trovano, forse, il modo meno negativo, anche se indiscutibilmente criticabile, in una società che offre scappatoie alcoliche e tossiche in numero incalcolabile.
Un figlio: simbolo di vita e di riscatto da un’esistenza che non piace; il grido disperato al mondo che loro sanno fare qualcosa di buono, nonostante la scuola, i genitori, la chiusura mentale degli adulti; è il tentativo di crearsi una famiglia alternativa: le ragazze e i loro bambini; una grande felice comunità.
Queste giovani sono delle figlie dei fiori moderne e scandalose, soprattutto in alcuni loro modi di porsi e di pensare, ma genuine e vere nel loro bisogno d’amore.
Ogni capitolo del libro ha come titolo in modo alterno il nome di una delle ragazze intervistate, e la lettura dello stesso diviene un’incursione nella loro vita. Leggendo si formano sotto i nostri occhi le immagini e i caratteri totalmente diversi tra loro di queste adolescenti, e lo snodarsi del racconto fa intravedere le diverse motivazioni che hanno spinto ognuna di loro ad accettare la proposta di Dana, la capobanda, e come ha preso forma il piano: dalla selezione delle ragazze giuste da ammettere nella loro élite, alla pianificazione dell’inseminazione, fino al provvedere al fabbisogno economico di ognuna attraverso attività discutibili.
Il libro narra in modo semplice una storia dai complicati risvolti morali, affettivi e psicologici, e alla fine anche chi non condivide e critica le loro scelte non può evitare di provare almeno una compassionevole simpatia per almeno una di loro…o forse per tutte.
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Il novello Dante
Leo, il protagonista narratore, frequenta la prima classe del liceo classico. Ha due amici: Niko e Silvia, su cui sa di poter contare, con cui parla di calcio e di scuola. Il colore che domina la sua vita è il bianco, simbolo di assenza, di noia. La sua è assenza di interessi, di motivazioni, di capacità di riflessione; non c'è materia o argomento che lo interessi, l'unica cosa che sappia suscitare in lui un barlume di vitalità è il gioco del calcio e il suo motorino senza freni.
Ma c’è un nuovo colore che da qualche tempo si sta infiltrando in tutto quel bianco, è il rosso dei capelli di Beatrice, è il piacere di guardarla, anche senza parlarle, senza che lei sappia neppure il suo nome.
Un giorno entra in classe e nella vita di Leo un supplente speciale, parla di sogni, sa incrinare passo dopo passo le barriere che Leo frappone fra sé e tutto ciò che lo spinge a riflettere, a cercare di scoprire il vero se stesso.
Anche il pensiero di Beatrice si fa sempre più importante, diventa il suo sogno. Leo si sente un novello Dante, l’unico in grado di capire cosa sia l’amore, e lo crede ancora più fortemente quando scopre che la bella Beatrice è malata di leucemia. Il rosso diventa il colore del sangue, il bianco l’assenza di vita. La vita di Leo cambia, inizia a conoscere cosa significa avere un tumore, donare il sangue, non avere la testa libera per studiare, giocare, chiacchierare. Stare accanto a Beatrice, sostenerla, distrarla, aiutarla a tenere un diario diventa il suo compito quasi quotidiano. Beatrice gli detterà:“Caro Dio, oggi è Leo che ti scrive, perché io non ci riesco. Ma anche se mi sento debole voglio dirti che non ho paura, perché so che mi prenderai tra le tue braccia e mi cullerai come una bambina appena nata. Le medicine non mi hanno guarita, ma io sono felice. Sono felice perché ho un segreto con te: il segreto per guardarti, il segreto per toccarti. Caro dio, se mi tieni abbracciata la morte non mi fa più paura.”. E vivendo accanto a lei la visione della vita e il senso dell’esistenza di Leo cambiano drasticamente significato.
Attraverso questi personaggi D’Avenia costruisce un romanzo di formazione commovente e dolce, senza retorica, in cui gli eventi drammatici portano alla scoperta della propria essenza e in cui l'iniziazione alla vita avviene attraverso la morte di una coetanea.
Accanto a Leo spiccano alcuni adulti, per le loro doti di “aiutanti dell’eroe”: la figura del padre che esce dagli schemi genitoriali e comprende le difficoltà del figlio facendosi suo complice e confidente; il prof. soprannominato Sognatore, che sa ascoltare e spingere il giovane a guardarsi dentro e a farsi uomo. Sono adulti che, però, non tradiscono mai il loro ruolo di guida: l'amicizia con il professore non impedisce a questi di interrogarlo con severità, la fuga da scuola verrà punita dai genitori; ma i grandi sapranno anche mediare, ascoltando le sue buone ragioni e trattandolo insomma da persona consapevole di sé.
Infine, una menzione speciale va all’amica Silvia, che come sempre capita in queste occasioni è segretamente innamorata dell’amico Leo e lo nasconde bene, tirandosi in disparte, ma senza evitare di imbrogliare un po’ le carte come farebbe ogni donna innamorata che si rispetti, pur pentendosene subito dopo.
L’autore dosa con sapienza le sue conoscenze letterarie in una narrazione studiata per essere semplice, per risultare realmente frutto della penna di un adolescente.
Il romanzo fa sorridere e commuove, risultando piacevole e adatto a degli adolescenti, ma anche a degli adulti. Diverte, inoltre, che il lettore sia spinto a intravedere l’autore, insegnante di lettere nella vita, fare l’occhiolino ora dietro il prof. ora dietro il protagonista.
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La dolcezza di un sospiro
Lorenzo è un adolescente di quattordici anni, solo e introverso. Frequenta il liceo classico e per lui andare a scuola è quasi un incubo: viene preso spesso in giro e per sopravvivere decide di essere come gli altri. Imita la loro andatura, cerca di vestirsi come loro e a volte funziona. Ma è consapevole che sta solo indossando una maschera. Un giorno, a scuola, sente una compagna di classe invitare degli amici in settimana bianca e tornato a casa dice a sua madre di essere stato invitato anche lui a sciare a Cortina. La madre è felicissima, perché ha sempre temuto la diversità e la solitudine del figlio. Lorenzo non riesce più a dire a sua madre la verità e così si nasconde nella cantina del suo palazzo per un’intera settimana, con cibo, cellulare e autoabbronzante. Sembra filare tutto liscio finché viene scoperto dalla sorella Olivia.
Lei non vive con loro, ha ventitré anni ed è figlia del primo matrimonio del padre; non sa dove andare per quella notte e Lorenzo la ospita. Invece si fermerà più giorni, perché sta male e non può muoversi a causa di una crisi d’astinenza.
In quella cantina due fratelli, che appena sapevano della loro esistenza, si ritrovano a condividere un’esperienza intima e segreta e le sue conseguenze. L’affetto nasce, o semplicemente riaffiora e, grazie a questo sentimento ritrovato, la vita sembra all’improvviso più semplice. Finché un mattino Lorenzo si sveglia e Olivia non c’è più, se n’è andata lasciando un biglietto, lo stesso che dieci anni dopo, Lorenzo leggerà nuovamente prima di rivederla.
E’ questa la trama di un libro veloce e dolcissimo che si legge in un sospiro e nel quale la paura di ciò che non si conosce viene affrontata e superata e, alla fine, aiuta a crescere.
Il romanzo è breve e facile, adatto anche a dei lettori adolescenti, verso i quali non sono mai abbastanza ripetute le avvertenze su quanto sia deleterio drogarsi. E’ un libro formativamente realista che narra la difficoltà di vivere l’adolescenza fatta di bugie e di solitudine, di bisogno di conformarsi e di essere al contempo se stessi e diversi, di essere indipendenti e di sentirsi legati familiarmente a qualcuno. La dicotomia che caratterizza l’adolescenza, il bianco e il nero dei ragazzi, è svelata da Ammaniti in un bel libro attraverso una storia che scorre delicata fino ad un finale un po’ amaro.
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L'amaro in bocca
Il romanzo è stato ispirato dall’Haggadah di Sarajevo, un manoscritto illustrato, creato 600 anni fa a Barcellona, il cui valore è stimato intorno ai 700 milioni di dollari. In realtà è un bene inestimabile. L’Haggadah è un libro ebraico di cerimonie, una collezione di storie bibliche, di preghiere e di salmi che riguardano la Pesach, la festa che celebra la liberazione degli ebrei dall’Egitto. Al mondo esistono tantissime haggadah, più o meno preziose e conosciute, ma l’Haggadah di Sarajevo è considerata un gioiello della Corona. Si distingue per la bellezza delle sue immagini, per i colori arricchiti con oro e rame, per il fantastico mondo degli animali presentati, per gli ornamenti floreali e geometrici, inoltre, ha la particolarità di presentare immagini di persone, nonostante la religione ebraica lo vieti.
La straordinaria bellezza del manoscritto è resa ancora più intrigante dalla sua storia, talmente insolita e avventurosa da sembrare esclusivo prodotto dell’immaginazione di Geraldine Brooks, invece è storicamente provata la sua creazione nella Spagna del 1300 e la sua permanenza lì fino al 1492, epoca dell’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica; ricompare poi nella Venezia del 1600 e in seguito a Sarajevo a fine ‘800, rimanendovi e sopravvivendo alle guerre mondiali e alla guerra dei Balcani. L’autrice narra nel suo romanzo le varie traversie vissute dall’haggadah e, inventando i diversi personaggi che s’ipotizza potrebbero essere venuti a contatto con il libro sacro, nel contempo svela la salvezza, la debolezza e la forza umane.
La Brooks nel suo libro dosa a dovere due tecniche narrative sicuramente non nuove: racconta la storia di un oggetto e con l’occasione anche le storie delle persone che con essa vengono in contatto; inoltre, crea una sorta di caccia al tesoro attraverso l’analisi di alcuni indizi rinvenuti all’interno del libro (una macchia di vino, un pelo di gatto) con un premio finale che dovrebbe consistere nel possedere la vera storia del libro.
Purtroppo, in entrambi i casi, si rimane con un po’ di amaro in bocca: a) perché le storie dei personaggi narrati si rivelano a volte molto interessanti e incuriosiscono ma, limitandosi alla narrazione del solo evento legato all’haggadah, non viene data soddisfazione a queste curiosità; b) perché alla fine si è consapevoli che non si può conoscere la vera storia del libro, essendo in possesso solo di una narrazione frutto di ipotesi, costruita sì su dati reali, ma che danno alla fine un risultato narrativo che non può definirsi storico al 100%.
Bisogna riconoscere comunque la bravura dell’autrice, nel gestire un racconto ispirato da un oggetto realmente esistente e che ha veramente viaggiato fisicamente e temporalmente nel nostro mondo, nonché la sua astuzia nel calibrare e dosare indizi e rivelazioni, conducendo il lettore tra continui salti temporali tra passato e presente.
Il testo è frutto di un duro e lungo lavoro di ricerca, per cui le parti scientifiche e storiche sono decisamente ben scritte. Purtroppo non in tutti i capitoli del libro la suspense è tale da spingere a voltare pagina per non smettere la lettura: ad alcune parti coinvolgenti e ad un paio di colpi di scena, si contrappongono dei passi meno coinvolgenti e delle scene di passione erotica che sembrano inserite ad hoc per fini commerciali. Nel complesso si tratta comunque di un buon libro, facilmente leggibile e che sicuramente si porta fino alla fine.
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La vita accanto
Mariapia Veladiano è brava nel trattare un argomento inedito: la bruttezza assoluta, quella che non permette nemmeno di pretendere pietà e che spinge ad accontentarsi solamente di un po’ di affetto, considerato addirittura quasi miracoloso se concesso.
L’autrice usa la leggerezza di un pennello, mentre tratteggia il venticello che alza lieve le tende delle grandi finestre della casa di Rebecca, mentre fa scorrere il fiume Retrone e ci accompagna nella città di Vicenza, nei quartieri del centro, tra i suoi palazzi e poi su, sotto i portici, verso Monte Berico. Chi ci vive, riconosce ogni via e ogni caratteristica. Non solo, poeticamente il lettore riesce a sentire i profumi e gli odori e, soprattutto, tutte le note musicali dei pianoforti toccati dalla protagonista durante la sua vita. E infine lei, Rebecca, che tocca il cuore del lettore appena entra in scena: bambina, sola, indifesa…brutta.
Tutti abbiamo provato nella vita la paura di essere brutti, di essere guardati e criticati per il nostro aspetto fisico e di non essere per questo accettati, ma pochi hanno provato cosa vuol dire essere brutti davvero.
Rebecca è proprio brutta, è nata così, talmente brutta da essere apparentemente rifiutata dalla stessa madre.
Ma è possibile che una madre non voglia neppure guardare una bambina, sfuggita alla balia, che gattona istintivamente verso la propria genitrice? Come si può non accogliere tra le proprie braccia chi hai accolto e protetto in grembo per nove mesi?
Eppure sembra che la nascita di Rebecca e la sua bruttezza abbiano spezzato, oltre alla ragione della madre, anche l’invisibile filo che lega ogni donna alla propria prole.
Invece, è solo la superficie apparente di una storia che viene svelata piano durante la lettura di questo bel libro.
Il racconto ci accompagna nella vita di questa bambina gettata in una società che è ancora agli albori dell’effimero apparire, ma che già sottolinea come l’essenza sia secondaria all’apparenza. Rebecca cresce accanto ad una madre apatica e assente, accanto ad un padre pieno di sensi di colpa e incapace di prendersi in carico le proprie responsabilità; accanto ad una zia dalla contorta affettività e piena di “troppe buone intenzioni”; accanto ad una balia buona, emotiva e sinceramente affezionata; accanto a persone buone e cattive che in modi diversi l’aiuteranno a maturare e a scoprire se stessa e le verità nascoste sulla propria famiglia.
E siccome la nostra società perdona tutto e tutti, anche i delinquenti, ma non ha pietà per chi non ha neanche un briciolo di prestanza fisica, per Rebecca tutto diviene comunque complicato, e ovviamente non potendo essere forma, ella non potrà che essere sostanza, ma nonostante le tante tribolazioni, come in ogni bella storia alla fine vinceranno i buoni, e nel nostro caso i brutti. Ed ecco che anche per lei si prospetta un futuro positivo, magari non quello che avrebbe e avremmo voluto, ma pazienza…almeno così, contro ogni regola sociale, anche il brutto ha, se ci si accontenta, un suo lieto fine.
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