Opinione scritta da annamariabalzano43

259 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2 3 4 5 6
 
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Dicembre, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

Nothing compares 2U

Pubblicato per la prima volta in Italia nel 2021 nella collana I Narratori e nel 2022 nell’Universale Economica di Feltrinelli, Apeirogon, il romanzo di Colum McCann, bellissimo nella sua complessità, affronta il dibattuto e problematico tema del rapporto Palestina-Israele.
Il titolo stesso, Apeirogon, che allude ad un poligono dal numero infinito di lati, ci introduce in un mondo dagli innumerevoli aspetti per lo più in contrasto tra loro. È il mondo di Bassam e Rami, l’uno palestinese, l’altro israeliano, che si trovano accomunati da un dolore immenso generato dalla perdita improvvisa e violenta delle figlie, Abir e Smadar, uccise in due attentati avvenuti in tempi e luoghi diversi. È il dolore per la più grave perdita che l’individuo possa soffrire, un dolore, unica vera espressione di democraticità in quanto può colpire chiunque senza distinzione di origine, di sesso, di ceto o di colore, che dà la forza di superare l’istante dell’odio e della ribellione, per unificare gli animi, invece di dividerli, per operare nell’interesse del resto della società perché casi simili non si ripetano. Ciò significa perseguire un ideale di pace così difficile da realizzare, soprattutto per l’ignavia e gli egoismi della politica. Risulta evidente, dalle pagine di questo romanzo, come vittime non siano solo coloro che cadono sotto i colpi delle armi, ma vittime altrettanto degne di pietà sono coloro che restano, lasciati soli nella loro sofferenza.
Emerge, in quest’opera, tutta la storia della nascita dello stato di Israele e dell’inevitabile contrasto con il popolo palestinese, senza, tuttavia, che l’autore faccia di essa un romanzo storico. È così, certamente, che la narrazione acquisisce maggiore spessore.
Un testo ricco di metafore, in cui traspare tutta la grande eredità della migliore letteratura irlandese, da Sterne, a Swift, a Joyce, con l’inserimento di innumerevoli digressioni e paragrafi bianchi. Non a caso la stessa struttura del libro è estremamente originale: diviso in due parti, ciascuna composta da capitoli, che a volte si riducono a brevi paragrafi, dalla numerazione crescente nella prima parte, decrescente nella seconda. Dal numero uno si inizia, col numero uno si conclude. Tutto ciò si spiega con quella affermazione apparentemente ermetica: “Se dividi la morte per la vita troverai un cerchio”. Il cerchio, la figura geometrica perfetta, dove l’inizio della circonferenza si conclude con la sua fine, in un congiungimento ideale di vita e morte, dove tutti gli innumerevoli lati dell’apeirogon si appiattiscono in quella linea che formerà infine la circonferenza del cerchio.
E ancora le digressioni, così care a Sterne e allo stesso Joyce, sono parte importante della narrazione, perché la vita non ha un solo tema. È questo il motivo per cui Le mille e una notte, un testo così importante sia per la cultura araba, come ormai anche per quella occidentale, torna tanto spesso nel racconto.
Non meno colpisce come il leitmotif del romanzo sia “Nothing compares 2U” scritta da Prince, ma resa immortale dalla voce e dall’interpretazione di Sinead O’Connor, anche lei irlandese, anche lei devastata dalla morte del figlio diciasettenne. Una interpretazione che è un vero urlo di dolore.
Un romanzo da leggere, sia per la sua struttura originale, ma soprattutto perché ogni parola fa riflettere su quanto sia difficile costruire la pace, quanto più coraggio ci voglia a mantenerla di quanto ce ne voglia ad imbracciare le armi

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    17 Marzo, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

La ricerca impossibile della giustizia

Come nelle sue opere precedenti, anche nel suo ultimo romanzo, “Di chi è la colpa” Alessandro Piperno pone all’inizio una citazione che si rivela essere quasi una guida alla lettura.
“Dove si giudica, non c’è giustizia” è una affermazione del grande Lev Tolstoj. Superfluo, forse, ma neppure così tanto, ribadire ancora una volta con quanto rispetto si debba guardare alla cultura e all’arte del popolo russo che vanno considerate come valori assoluti, a prescindere cioè dalle vicende politiche che offuscano la storia del paese.
La citazione impone necessariamente una profonda riflessione su cosa si intenda per giustizia e sulla illusoria possibilità di realizzarla nella sua completezza, per il fatto stesso che essa è affidata all’uomo e l’uomo non è infallibile. La giustizia dunque è legata essenzialmente all’onestà del giudicante, al suo equilibrio, alla sua imparzialità. Discorso, questo, oggi, molto attuale, anche se molto spinoso.
La storia che Piperno ci racconta nel suo ultimo romanzo, dunque, è proprio una storia di giustizia, anche se sta al lettore coglierne il senso nella complessa bellissima trama.
Una narrazione in prima persona del protagonista che racconta di sé, dalla sua infanzia fino alla sua maturità, soffermandosi sugli eventi che hanno contribuito all’evoluzione del suo carattere, alla formazione della sua personalità. Un’infanzia e una adolescenza condizionata dal disaccordo tra i genitori e dalle difficoltà economiche, un rapporto col padre e con la madre turbato da un alternarsi di ammirazione e disprezzo, lo conducono a successive fasi di crescita dolorosa, come necessarie iniziazioni alla vita fino al raggiungimento di un precario equilibrio. Un evento drammatico lo costringe ancora giovanissimo a cambiare vita ed ambiente, ad inserirsi nella famiglia della madre di origine ebraica: da qui la necessità di conciliare due mondi che si confrontano e si contestano più o meno palesemente. Il dramma esistenziale tuttavia è tutto interiore. È l’attitudine spontanea a dare la colpa di una situazione estremamente dolorosa ora al padre ora alla madre, senza trovare una via certa verso una sentenza tutta privata ma solidamente giusta. In questo contesto troviamo una palese critica alla famiglia in generale, al suo fallimento, “ecosistemi ermetici, ricettacoli di doppiezze irredimibili”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    10 Febbraio, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

Solo il primo passo costa

Ritorna Tomàs Nevinson, uno dei personaggi più tormentati di Marias, che avevamo già conosciuto come marito di Berta Isla e che ci era apparso drammaticamente prigioniero della sua solitudine, alla ricerca costante di quella identità che aveva smarrito nel momento in cui era entrato a fare parte dei servizi segreti.
Dopo un breve periodo di inattività, riallacciato un tenue rapporto con la moglie tanto a lungo trascurata, Tomàs riprende, riluttante la sua attività con il compito di individuare tra tre donne segnalategli, la responsabile di feroci attentati dell’Ira e dell’Eta. Tutto il romanzo, dunque, si articola sulle più appropriate e profonde riflessioni sulla funzione e l’utilità dell’azione degli agenti segreti, senza trascurare considerazioni di carattere etico. È inevitabile che chi si dedichi a questa attività viva in un perenne stato di guerra, in un tempo di pace apparente, nel timore di essere scoperto. Se le azioni da compiere appaiono inizialmente feroci e spietate, con l’andare del tempo l’assuefazione semplifica le cose. “Solo il primo passo costa”, è una frase ricorrente nel romanzo, frase che evoca l’immagine dei primi passi del neonato. L’agente, dunque, vive in uno stato di perenne insicurezza, proprio perché si trova a dover affrontare spietati assassini che non esitano spesso a compiere stragi di massa.
Non di rado è necessario mettere da parte ogni scrupolo morale, non farsi domande. Ed è questa la parte più interessante del romanzo di Marias, che ha creato un personaggio, Tomàs, appunto, che si pone il problema di quanto sia lecito oltrepassare se non addirittura ignorare i limiti della morale sia pure spinti dal convincimento di agire per il bene della comunità. È morale accettare l’idea del tradimento, è morale insinuarsi nella vita degli altri, violarne la privacy, uccidere freddamente laddove si ritenga che sia necessario? Se è vero che di fronte al terrorismo non si può rimanere impassibili, perché non si possono ignorare vittime innocenti, qual è il limite che si deve rispettare? Quesiti a cui lo stesso Marias non dà una risposta definitiva e Nevinson, l’uomo senza certezze, che si era già rassegnato a vivere senza speranze, è l’espressione più significativa del dilemma che affligge chi opera conservando vivi nella propria coscienza la differenza e il limite tra il bene e il male.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Gennaio, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

Scintilla

Scintilla. Uno sprazzo di luce improvviso e abbagliante. Un lampo che accende e che brucia per un istante per scomparire con altrettanta rapidità. Così Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, chiamava la sua Marietta, quella figlia prediletta, che gli aveva preso il cuore, i sensi e la ragione. Un amore rimasto faticosamente casto e dolorosamente vissuto fino alla morte.
Un monologo che è quasi una preghiera rivolta dal pittore al Signore, nel delirio che precede l’abbandono e la rinuncia alla vita, è l’incipit del bellissimo romanzo di Melania Mazzucco, “La lunga attesa dell’angelo”. Da qui lo scorrere fluido e sommesso dei ricordi di una vita dedicata all’arte, all’amore, agli affetti familiari. Da qui la narrazione di una Venezia del cinquecento con i suoi contrasti e le sue contraddizioni, bellissima nella sua architettura e nella sua arte, eppure ripugnante nella sporcizia dei luoghi più poveri, devastati dalla peste, illuminata dai colori vivaci dei dipinti di Tiziano e buia nelle notti peccaminose delle sue calli. Il personaggio del Tintoretto è descritto nei suoi momenti più difficili e in quelli più felici, con un approfondimento psicologico così accurato che ne svela i più intimi sentimenti, le ambizioni, i difetti, le colpe e gli egoismi, soprattutto in relazione a tutti i membri della sua numerosa famiglia. Ne deriva una personalità passionale e ambiziosa non priva tuttavia di sensi di colpa che gli impongono frequenti ripensamenti sui suoi più spregiudicati comportamenti.
La consapevolezza dell’avvicinarsi della morte non è il momento più tragico della sua vita. La perdita dell’amata Marietta, la cui immagine più toccante è quella rappresentata nel dipinto della presentazione della Vergine al Tempio, come “un inno alla bellezza, alla maternità, al destino delle donne”, lo aveva precipitato in una disperazione così profonda da attendere con ansia il momento in cui, l’angelo, o se vogliamo, la stessa Marietta venisse a prenderlo per condurlo con sé in una vita priva di affanni. Bellissimi i versi di Sylvia Plath che la Mazzucco cita proprio a conclusione del suo racconto:
“I miracoli avvengono,
se vogliamo chiamare miracoli quegli spasmodici
scherzi di radianza. Ricomincia l’attesa,
la lunga attesa dell’angelo,
di quella rara aleatoria discesa.” (Corvo nero in tempo piovoso)
Spasmodici scherzi di radianza, scintille, appunto, miracoli.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    10 Dicembre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Il difficile cammino verso l’emancipazione femmini

“Se le madri spiegassero ai figli maschi il rispetto della donna, la parità, se permettessero alle ragazze di vivere liberamente e senza chiusure, se le facessero studiare e prepararsi per un lavoro….
La mentalità, di chi è colpa? Solo dell’uomo o anche della donna? Io penso che deve partire proprio da noi!”
In queste poche righe il tema dell’ultimo romanzo di Viola Ardone, con tutta la problematica ad esso legata. La vicenda si svolge negli anni sessanta e se da un lato sembra siano passati secoli da allora, specialmente se si guarda al progresso della tecnologia che ha rivoluzionato il mondo, da un altro lato dobbiamo amaramente constatare che ci si è evoluti troppo poco e lentamente sul piano sociale. È vero che l’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto è stata una conquista indiscutibile, ma quanto è veramente e radicalmente cambiata la condizione della donna in tutti questi anni? Ci troviamo ancora oggi di fronte a casi di violenza ai danni di giovani donne, come quello rappresentato dalla Ardone con il personaggio di Oliva Denaro. Troppo spesso ancora oggi le vittime diventano loro stesse colpevoli. Né, purtroppo, ciò accade solo negli ambienti più socialmente e economicamente degradati, ma anche in quelli che dovrebbero essere più evoluti. Sempre più spesso, anzi, episodi del genere avvengono là dove c’è abbondanza di denaro. Il punto centrale è dunque proprio un problema culturale, un’attitudine all’educazione e al rispetto del prossimo, chiunque egli sia.
Le donne del romanzo della Ardone sono quasi tutte vittime di un’arretratezza sociale che le vuole subalterne all’uomo, dedite fino all’eccesso alla cura della casa e della famiglia, prigioniere di pregiudizi insuperabili, incapaci di atti di ribellione se non in casi estremi con il reale rischio di essere poste per questo ai margini della società in cui vivono. Ma ribellarsi si può e si deve, anche se costa in termini di isolamento, come fa Oliva che con coraggio affronta lo scherno e la discriminazione di chi a tutti i costi vorrebbe mantenere un tranquillo status quo.
Gli uomini di questo racconto rispondono a quello stereotipo del maschio prepotente e aggressivo, abituato a prendere ciò che vuole, ad eccezione del padre di Oliva, uomo sensibile, ricco di sentimenti affettuosi per ogni membro della sua famiglia di cui si prende cura: un personaggio commovente per certi versi, che induce a sperare che sulla natura umana si possa pur sempre agire per trarne il meglio. Un libro al femminile, nel suo complesso, che tuttavia parlando delle donne si rivolge agli uomini.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    01 Dicembre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

“L’inconveniente di essere nati” (Cioran)

Come può essere la vita di un individuo che pianifica di mettere fine alla sua esistenza nel giro di un anno? Perché questa scelta non dettata da situazioni estremamente dolorose e laceranti?
Il tema centrale dell’ultimo romanzo di Aramburu, “I rondoni”, è appunto il suicidio come atto di libertà assoluta. Non a caso l’autore fa riferimento, nel corso della narrazione, a una citazione di Max Frisch, drammaturgo svizzero, che afferma: “Il suicidio dovrebbe essere un gesto giudizioso”, gesto inteso come amore per la vita, come necessità di abbandonarla con eleganza, senza subire l’umiliazione e il degrado della vecchiaia. Questo convincimento spinge il protagonista del romanzo a scegliere di finire i suoi giorni proprio 12 mesi dopo aver maturato questa decisione. Egli sogna di trasformarsi in un rondone, di cui invidia la leggerezza e la libertà. Ciò lo induce a separarsi dalle cose più care che gli appartengono, tra cui i suoi libri, che semina ovunque, per la strada, in luoghi pubblici, nei cassonetti dell’immondizia: un progressivo distacco dagli uomini, dagli affetti e dalle cose. In più di settecento pagine Aramburu ci descrive la vita del suo protagonista, in forma autobiografica, nei dodici mesi che lo separano dal suo meditato suicidio, con tutti i salti temporali, necessari alla memoria per ripercorrere un’intera esistenza. Così ieri e oggi si sovrappongono con la stessa efficacia enunciata da Bergson nel suo concetto di durèe. Poiché la vita di ciascun individuo non è avulsa dal mondo che lo circonda, Aramburu riesce a inserire nel contesto lucide considerazioni sulla situazione politica della Spagna contemporanea, sullo stato dell’insegnamento nelle scuole, sull’evidente problema dei cambiamenti climatici, sulle problematiche interfamiliari, con particolare riferimento ai rapporti genitori figli. La difficile relazione tra esseri umani, il valore dell’amicizia, il piacere e la delusione che possono scaturire dall’amore e dal sesso sono parte importante della narrazione, come importante è il rilievo che Aramburu attribuisce al rapporto con l’animale domestico per eccellenza, il cane, al quale è concesso che si ponga fine alla sua vita senza dolore, con l’eutanasia, mentre all’uomo spetta spesso una morte dolorosa. Tutto ciò fa parte de “L’inconveniente di essere nati”. (Cioran).
Un romanzo che affronta temi filosofici con tale leggerezza e tale ironia, che ne compensano l’eccessiva lunghezza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    02 Novembre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

La difficoltà di essere donne

Sono figure di donne ora aggressive, ora fragili, tenere e violente, disperate eppure fiduciose nel futuro, donne che riflettono il carattere aspro della terra che le ha generate, che ne conservano il fascino, che lottano per una sopravvivenza che non è solo fisica, quelle che popolano Borgo Sud, la zona marinara della città di Pescara. È qui che è ambientato il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio ed è in gran parte intorno ad Adriana, la sorella minore dell’arminuta, la cui storia la scrittrice ci ha così appassionatamente raccontato, che si concentra l’attenzione del lettore, che non può non rilevare le differenze caratteriali e culturali tra le due donne. Le esperienze dolorose dell’arminuta, il rapporto sofferto e mai risolto con la madre come con il resto della famiglia, sono filtrate dalla sua capacità di analisi, dalla attitudine allo studio che l’ha resa così diversa da Adriana e così pronta a soffrire in silenzio, a macerarsi in solitudine per le cocenti delusioni che sconvolgono la sua vita. Adriana è agli antipodi. Afferra e respinge l’amore con l’impeto e l’odio di chi fa le sue scelte col cuore e non con la ragione. È Adriana che scopre la tenerezza e la dolcezza del sentimento materno, nel momento in cui si trova tra le braccia il figlio Vincenzo, lei che era sempre stata in guerra con la madre, fino al punto di essere da lei maledetta e rinnegata.
La vita per queste donne è come una lunga linea nera interrotta solo da brevi e rari intervalli luminosi. L’amore per i loro uomini si trasforma nel tempo in un sentimento distorto e sofferto, incapace di recare pace e conforto. Esse sono prigioniere di se stesse e dei propri sogni, che si scontrano con una realtà difficile e ostile. Solo di fronte alla morte tutto si ridimensiona, come è naturale che sia.
Un romanzo profondo, che affronta tematiche difficili e dolorose, che ci descrive un mondo chiuso e limitato non ancora pronto ad accogliere gli aspetti positivi e negativi del progresso.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    11 Ottobre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Il blues, espressione dell’inquietudine americana

“I went to the crossroad, fell down on my knees
I went to the crossroad, fell down on my knees
Asked the Lord above, "Have mercy, now, save poor Bob if you please" ”

Così inizia il testo di Crossroad Blues di Robert Johnson, cantante afroamericano, uno dei più grandi interpreti del blues, genere che trae origine e ispirazione dai canti degli schiavi neri dell’America coloniale.
Non a caso “Crossroads” è il titolo dell’ultimo lungo romanzo di Jonathan Franzen. Con questa definizione si riunisce il gruppo giovanile della comunità di New Prospect, Chicago, sotto la guida del Pastore Rick Ambrose, con l’intento di superare e risolvere con fraterno aiuto reciproco le tensioni e le ansie di ciascun membro. E’ in questo crocevia di esperienze che si rivelano i conflitti interiori più drammatici di ognuno. E’ su questo sfondo che deflagrano i contrasti più aspri maturati all’interno della famiglia del Pastore Russ Hildebrandt. Ritorna, dunque, la magistrale abilità di Jonathan Franzen nell’ analizzare le crisi esistenziali e sociali della famiglia borghese americana, come già avvenuto nello splendido “Le correzioni” e successivamente in “Libertà” e “Purity”.
Il romanzo è diviso in due parti, la prima “Avvento” si concentra sulle aspettative di ogni singolo membro della famiglia Hildebrandt, aspettative spesso deluse e tradotte in ansie struggenti. Ogni personaggio rivela qui i suoi limiti, dal padre Russ, colpito in età matura da una passione irresistibile per una giovane parrocchiana, alla madre Marion, debole eppure forte nella sua consapevolezza di aver vissuto fin lì una vita trasgressiva e peccaminosa, ai quattro figli, Clem, Becky, Perry e Judson, ognuno dei quali esce da un’infanzia felice vissuta nell’ammirazione di genitori apparentemente impeccabili, per entrare in un’adolescenza e una giovinezza che non risparmiano loro la disillusione dovuta a una naturale presa di coscienza dei limiti e delle fragilità degli esseri umani. Crescere vuol dire anche cambiare prospettiva, iniziare un cammino verso l’accettazione delle debolezze altrui, in nome di un amore che non ha nulla di superficiale. I bambini vedono i genitori come una specie di eroi, attribuiscono loro forza fisica e morale, ignari della delusione che proveranno il giorno in cui, ormai adulti, li vedranno nella loro dimensione reale.
La seconda parte è intitolata “Pasqua”, con un esplicito riferimento ad una sospirata resurrezione spirituale dopo la dolorosa discesa agli inferi.
Tutto il romanzo è pervaso dal frustrante senso di colpa che ciascun personaggio alimenta nel proprio animo, consapevole dei propri peccati e delle proprie colpe. E’ l’eredità dell’educazione puritana di certi ambienti medio borghesi della società americana, che trovò già espressione ne La Lettera Scarlatta e The Birhmark di Hawthorne. E’ costante la presenza del sentimento religioso come necessità di purificazione attraverso il pentimento e l’espiazione. Ciò implica, di conseguenza, la difficoltà di ricomporre un nucleo familiare drammaticamente separato dagli eventi. La conclusione al lettore, secondo la sua sensibilità e la sua logica individuale.
Un romanzo molto bello, che non trascura l’aspetto sociale e politico degli anni settanta, la guerra in Vietnam, L’affare Watergate, la condizione degli indiani Navajo nella mesa, lo sfruttamento indiscriminato e criminale delle miniere di carbone, il problema della droga. Grande spazio è concesso all’amore, amore sincero, amore come inganno, amore fraterno e materno, amore come puro piacere. Un romanzo che coglie quasi tutti gli aspetti della vita il cui corso è lungo e doloroso.



Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    18 Giugno, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Può un’intelligenza artificiale colmare la solitud

È un romanzo ricco di interrogativi ai quali è difficile dare risposte certe, l’ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Klara e il sole. In un mondo che va perdendo, giorno dopo giorno, il senso della solidarietà e della umanità per assumere sempre più spesso atteggiamenti cinici ed egoistici, l’individuo sembra condannato a vivere in uno stato di solitudine incolmabile.
È per rendere più lievi le lunghe giornate solitarie di Josie, ragazzina vivace e intelligente, ma affetta da un male oscuro, che Klara, l’Amica Artificiale, le viene acquistata e affiancata. Pur essendo una macchina, Klara sembra possedere grande sensibilità e molta affinità con Josie. Assai ben predisposta all’apprendimento, essa coglie i limiti della società che la circonda, ne vede i pericoli che incombono sulla esistenza e sulla sopravvivenza degli esseri umani con i quali si relaziona e ai quali sembra addirittura affezionarsi. E questo è uno dei molti interrogativi che Ishiguro pone a se stesso e ai lettori. Quanto può un’intelligenza artificiale avere sentimenti propri, non programmati? Entro quali limiti può essa muoversi autonomamente? È certo che nel suo rapporto con gli altri personaggi, la Madre, il Padre, Rick, Domestica Melania o Direttrice, Klara mostra una sensibilità eccezionale, che non può, tuttavia basarsi sull’esperienza, dal momento che, al contrario degli umani essa non ha storia, non ha passato, non ha ricordi. Persino la sua visione del mondo che la circonda è generalmente frammentata e raggiunge solo di tanto in tanto una unitarietà. Eppure è lei che più degli altri ha coscienza del degrado ambientalistico, dell’inquinamento che viene causato dalle “Cootings Machines” con i loro fumaioli sbuffanti fumo nero che offuscano il cielo e coprono il sole. Nel sole, l’elemento essenziale alla sopravvivenza di Klara, che si nutre della sua energia, essa ripone ogni speranza, anche l’ultima speranza che Josie possa guarire e continuare la sua vita sia pure in un mondo ingiusto e socialmente discriminante, che distingue e seleziona i giovani tra i più “potenziati” e i “non potenziati”. A Klara non sfugge nulla di ciò che non va in questo mondo, cerca persino di migliorarlo, anche se invano e nel momento in cui prende coscienza dei suoi limiti, si rivolge al Sole, con una preghiera che nasce dal cuore, quel cuore che non ha fisicamente, ma che sente in sé battere d’amore per Josie come per Rick o per la Madre.
Le macchine durano un tempo limitato, come gli uomini. Gli uomini vengono pianti, sinceramente o ipocritamente. Le macchine vengono semplicemente dimenticate.

Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Mag, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Il noir come metafora della vita


“Il giallo, la detective story è la testimonianza commovente che il mondo sia un posto decente dove vivere. L’ordine del mondo viene rotto da un omicidio? Niente paura, arriva il detective e scopre il colpevole. Al contrario, il vero noir è l’esplorazione del mondo visto come un labirinto caotico al quale il protagonista, che è spesso un criminale, cerca di imporre un ordine parziale. Il noir assomiglia alla vita.” Con queste parole, che delineano un preciso quanto giusto distinguo tra i due generi letterari, il giallo e il noir, Raul Montanari ha introdotto su Il Fatto Quotidiano del 7 maggio 2021 una breve presentazione del suo ultimo romanzo “Il vizio della solitudine”.
Come sempre nelle sue opere Montanari affronta temi tanto attuali quanto problematici, attraverso storie che per la loro dinamicità risultano avvincenti e interessanti.
Qui il tema centrale è sicuramente la discrasia che si rivela fin troppo spesso tra la legge voluta dal legislatore e il concetto di giustizia. Approfondire l’argomento implicherebbe necessariamente valutazioni di tipo politico, poiché nella nostra società non esiste un’univoca opinione sulla materia. Non si può tuttavia negare che troppo spesso la legge si presta a interpretazioni contrastanti o viene applicata con minore o maggiore rigore. È dunque su questa base che si muovono i protagonisti de “Il vizio della solitudine”, i quali rifuggendo dall’idea di lasciare impuniti alcuni tra i più biechi criminali che in qualche modo hanno evitato una giusta pena per i crimini commessi, si ergono essi stessi a giudici arbitrari, con l’illusione di fare giustizia. Ma, ovviamente, è lo stesso concetto di giustizia arbitraria che è inaccettabile in un paese democratico, ed è in fondo questa stessa consapevolezza che rende difficile la vita all’ispettore Ennio Guarnieri, che si ritrova infine impigliato in una rete da cui gli riesce difficile districarsi. Il senso di colpa emerge inevitabilmente e induce l’ispettore a parlarne con un sacerdote, il quale confessa di non sapere cosa Dio pensi dei crimini degli uomini, egli sente che il suo compito è solo quello di riconciliare i peccatori con se stessi.
Siamo dunque di fronte a una storia di solitudine, la stessa solitudine che spesso affligge l’uomo contemporaneo, incapace di scelte coraggiose che aprano il suo animo al mondo esterno con disponibilità e tolleranza.
Temi forti e impegnativi in una trama scorrevole, un romanzo avvincente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    28 Aprile, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Un mondo sì e un mondo no.

Sembrerebbe proprio che il mondo sia diviso in due parti: un mondo sì, del benessere, dell’agiatezza, del progresso, del vivere civile; e un mondo no, popolato di oppressi, emarginati e reietti, governati da regimi spesso sanguinari, infelici feriti nell’anima come nel corpo, che vedono nella fuga il solo mezzo per sopravvivere. Eppure questi due mondi coesistono, ma troppo spesso l’uno rifugge dal farsi carico dei drammi e delle vere tragedie dell’altro, di cui peraltro non raramente è persino responsabile.
Quanta forza nel J’accuse di Papa Francesco in occasione dell’ennesima strage di migranti in mare, che non può non essere condiviso anche da chi non è mosso dagli stessi sentimenti di fede e di religione: “E’ il momento della vergogna! Preghiamo per questi fratelli e sorelle e per tanti che continuano a morire in questi drammatici viaggi. Anche preghiamo per coloro che possono aiutare, ma preferiscono guardare da un’altra parte!”. Ecco è qui tutta la contrapposizione tra il mondo si, egoista e indifferente e il mondo no popolato da chi è nato nel luogo sbagliato. Perché se è vero che “quisque faber fortunae suae”, è pur vero che il destino e la sorte di ciascuno sono segnati sin dalla nascita.
È questo il tema di fondo del bellissimo libro di Marco Balzano “Quando tornerò”: il dramma di una donna che abbandona la propria terra e i propri affetti per giungere in Italia in cerca di lavoro e di quel guadagno che possa offrire ai suoi figli un futuro migliore. Una fuga furtiva, di notte, senza preavviso, per evitare addii strazianti e il pericolo della rinuncia. Una fuga che provoca il rancore dei figli piuttosto che la loro gratitudine. Perché è spesso questo ciò che succede: il sacrificio di una madre che si adatta ai lavori più umili, e soggiace a situazioni umilianti non è compreso da chi rimane in patria e si sente orfano e defraudato di quella serenità alla quale sente di avere diritto. Quando una donna cessa di essere madre? Può la lontananza cancellare i diritti e i doveri di una madre? E sono sempre le donne le più penalizzate, molto più spesso sono loro che si allontanano per cercare di aiutare la famiglia, mentre gli uomini si rivelano l’anello debole della catena, inclini ad affogare nell’alcol delusioni e dispiaceri. Daniela, Angelica e Manuel sono le tre voci che danno vita a questa storia di dolore e di speranza. Ritrovarsi dopo la lontananza è sempre più difficile, specialmente quando si sono visti vanificati i propri sogni.
È ad un’immagine di grande efficacia che Marco Balzano affida il significato delle legittime aspirazioni di ogni individuo: l’immagine del boomerang. È il nonno ad insegnare a Manuel come lanciare il boomerang. Non è facile. Non è detto che si riesca a riprenderlo. “Il gioco è questo – aveva detto mettendomi in guardia. Prima di lanciarlo esprimi un desiderio, se quando torna indietro riesci a prenderlo, allora ci sono delle possibilità.” “E se non riesco?” “Cambia desiderio, oppure lavoraci ancora.” È qui tutto il significato del romanzo che definire molto molto bello è assolutamente riduttivo. Un rigore linguistico e una sobrietà di espressione rendono la lettura estremamente piacevole, al di là del contenuto che commuove e scuote le coscienze.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    28 Aprile, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Verso le colonne d’Ercole

Il tema del viaggio è significativamente presente sia nella letteratura angloamericana che in quella inglese, come metafora della vita e della conoscenza. Da Ishmael a Huck Finn a Dean Moriarty, da Gulliver a Robinson a Leopold Bloom, l’esperienza umana è infatti rappresentata come un’avventura ricca di sorprese, ma non priva di dolore.
Il viaggio di Morris Bird III, il piccolo protagonista del romanzo di Don Robertson, “Il più grande spettacolo del mondo”, attraverso la città di Cleveland nel 1944, è lo stesso simbolico cammino del Picaro che solo a contatto con la realtà del mondo che lo circonda può raggiungere quella maturità che lo aiuterà a diventare adulto. Anche il cognome di Morris, Bird, è volutamente simbolico, con un riferimento esplicito al volo dell’uccello che spazia nei cieli al di sopra delle miserie umane con le quali comunque viene inevitabilmente a contatto. Né è un caso, d’altronde, che Morris voglia raggiungere l’amico Stanley, proprio per giocare ancora con lui con i trenini elettrici, passatempo che più aiuta la fantasia a viaggiare senza confini.
Il romanzo di Don Robertson ha una struttura particolarmente originale, anch’essa non insolita nella letteratura anglosassone. Il racconto, infatti, procede più che per un immaginario percorso lineare, su un piano circolare, sul quale, differenziati, si sviluppano contemporaneamente altri mini racconti, piccole storie nella storia, che convergono tutti, come molteplici raggi, verso un unico centro che è il climax del romanzo, il punto di incontro ideale con le colonne d’Ercole. Ciò permette di rappresentare, attraverso personaggi diversi, diversi aspetti dell’animo umano, con le sue debolezze e i suoi piccoli atti di coraggio.
Un romanzo che procede con una certa lentezza, quanto basta, forse, per permettere al lettore di riflettere sugli eventi narrati, nessuno dei quali è superfluo, fino a comprendere, solo nelle ultime pagine il vero significato del titolo del libro.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Aprile, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Le relazioni pericolose

Il primo sottotitolo che mi è venuto in mente, leggendo questo romanzo di Michela Murgia, “Chirù”, è proprio “Les liaisons dangereuses” romanzo di Choderlos de Laclos, ambientato in un’epoca assai lontana dalla nostra, il settecento, il cui protagonista è un libertino privo di scrupoli. Tema ed ambiente molto diversi da quelli descritti dalla Murgia, dunque, che tuttavia ci impongono una riflessione su quante possono essere, sia pure nelle più diversificate forme, le relazioni pericolose tra uomo e donna, specialmente quando, come in questo caso, la differenza d’età diviene un problema etico e sociale.
Ricordiamo quanto scalpore suscitò il romanzo di Nabokov, Lolita, che venne pubblicato prima a Parigi e solo dopo dieci anni tradotto in russo, proprio per l’ostilità e la censura di molte case editrici.
Certamente il soggetto di questo romanzo della Murgia è per certi versi inquietante se ci si ferma alla trama che vede come protagonista un’attrice affermata che si propone come maestra d’arte e di vita di giovanissimi discepoli con i quali stabilisce un rapporto di affinità che sfiora la soglia dell’illecito, In realtà il romanzo non è altro che il mezzo attraverso il quale si indaga nei più reconditi luoghi della psiche e dell’animo umano, al fine di superare frustrazioni adolescenziali, dovute ad un’educazione puritana e repressiva, alla ricerca di una figura materna mancata che si ha paura di sostituire adeguatamente. In questo tipo di relazioni inevitabilmente il soggetto dominante esercita un potere e un’influenza sull’altro da renderlo dipendente al punto da generare in lui dolore e frustrazione nel momento del distacco inevitabile. “Nell’atto stesso di insegnare a qualcuno quel che sapevo, riconoscevo la superbia insita del ruolo della docenza, l’idea intimamente violenta che l’altro fosse una creta della cui forma potevo contribuire a determinare la qualità.”
La triade madre-amante-maestra si sostituisce a un deficit familiare incolmabile. È il prevalere della coscienza l’unica via verso la salvezza.
Anche se “Chirù” non è l’opera migliore della Murgia, offre tuttavia molti spunti di riflessione, poiché affronta temi anche imbarazzanti se li si guarda esclusivamente dal punto di vista di un perbenismo consolidato. Il vivere sociale crea giustamente regole entro le quali muoversi e vivere, per evitare un deprecabile caos, eppure la realtà è fatta di tanti aspetti diversi, dei quali è inutile e assurdo negare l’esistenza o evitare di parlarne. Anzi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
161
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Marzo, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Diritto e Pietas

Un romanzo molto molto bello “Accabadora” di Michela Murgia. Una prosa asciutta, spesso aspra, direi, come certi meravigliosi paesaggi selvaggi della terra di Sardegna. Personaggi che evocano nei particolari il carattere e le usanze degli abitanti di quei luoghi che sopravvivono nel non facile tentativo di preservare l’orgoglio della propria cultura.
Due donne sono al centro di questo racconto, Tzia Bonaria e Maria, la vecchia generazione e la nuova che vivono come madre e figlia. È Maria, l’ultima figlia giunta per caso in una famiglia povera, la fill’e anima di Bonaria e come ogni fillus de anima nasce una seconda volta a una nuova vita. Amata sia pure con la durezza di cui è capace una vecchia sarta abituata ad affrontare tutte le difficoltà della vita senza cedere alla debolezza, Maria è intelligente e studiosa. Sente tuttavia che qualcosa di misterioso circonda la persona di Tzia Bonaria, non sa spiegarsi certe sue uscite notturne che precedono sempre la morte di qualche conoscente o amico in fin di vita. Il mistero si dileguerà dinanzi agli occhi di Maria, quando dovrà affrontare il dolore per la morte dell’amico Nicola Bastiu mai ripresosi dopo l’amputazione di un arto dovuta a una cancrena seguita a un colpo di pistola che lo aveva raggiunto in una notte in cui cercava di incendiare il campo del vicino che aveva osato spostare il suo confine a danno della sua proprietà.
Maria non riesce ad accettare questo ruolo di “accabadora” di Tzia Bonaria. Mettere fine alla vita di un essere umano è terribile e inaccettabile per lei. E certo ci vorrà del tempo e ancora tanto dolore perché possa capirne tutto il significato.
Un tema assai complesso questo che la Murgia affronta nel suo romanzo, un tema che implica considerazioni etiche e che riguarda il dibattito attuale sull’ammissibilità giuridica dell’eutanasia.
È il personaggio stesso di Tzia Bonaria che testimonia quanto sofferta sia la sua decisione di agevolare il trapasso di chi soffre, di chi in effetti sopravvive solo per un accanimento terapeutico. Ma è proprio in contrapposizione a questi casi che si pone il destino di Nicola Bastiu, il quale desidera la morte solo perché non ha la forza e il coraggio di affrontare una vita da disabile, in pieno possesso delle sue facoltà intellettive e di abilità fisiche parzialmente ridotte. È qui il punto centrale del romanzo. Il dibattito sulla legittimità del fine vita dovrebbe sempre basarsi su una valutazione globale dello stato in cui si trova chi chiede l’eutanasia o un suicidio assistito. Difficile condannare o assolvere. Ogni caso è singolare. Una legge rigida e universale non può risolvere ogni problema. Maria capisce tutto ciò quando si trova al capezzale di Tzia Bonaria morente e ricorda le sue parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo.” Il destino si è compiuto. La giustizia non può mai ignorare il diritto a vivere e morire con dignità, ma può essere intransigente con chi potrebbe rendere dignitosa una vita dimezzata.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    11 Marzo, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Viaggio nei molteplici spazi dell’io.

Una raccolta di otto racconti che ci ripropongono alcuni dei temi più cari a Murakami. Un io, alter ego dell’autore, indaga nel suo essere presente, come in quello passato non senza immaginare il futuro. In questo viaggio a volte realistico, a volte fantastico, ma sempre ricco di interrogativi esistenziali ai quali l’autore evita di dare risposte certe, ritornano i temi dell’amore, della morte, dello sport, dell’arte ora come poesia, ora come musica, ora come semplice esperienza estetica.
La fisicità di una donna incontrata per caso non è affatto inconciliabile con la sua vena poetica, anzi questa sua sorprendente attitudine induce a riflettere, a porsi domande sulla vita e sulla morte.
“Poso l’orecchio sul cuscino di pietra, e ascolto il suono del sangue che scorre” – la pietra fredda e immobile come una lapide nasconde in sé il fluire di quella che fu vita, per poi divenire polvere – “Spezzare, essere spezzati, se poso la nuca sul cuscino di pietra, ecco, è diventato polvere.
Nel secondo racconto il lato incomprensibile della vita è rappresentato come un cerchio con tanti centri. Una figura difficile da immaginare, che può però aiutare a capire ciò che sembra incomprensibile. Murakami non rinuncia a creare stupore nel lettore neanche quando immagina un passato che possa rivivere nel presente con gli stessi protagonisti come nel caso del disco di Charlie Parker che suona la bossa nova. Sono piani diversi che si sovrappongono in un gioco stimolante che ci trasporta indefinitamente tra l’ieri e l’oggi.
La musica accompagna ogni racconto, come sempre nelle opere di Murakami, dal beat e pop rock dei Beatles, a quella classica di Strauss o Shumann come in Carnaval.
La più originale di queste otto storie è certamente “Confessione di una scimmia di Shinagawa” che propone l’incontro tra il protagonista e un macaco parlante. Qui il fantastico assume quasi un aspetto di normalità fintanto che i due personaggi si scambiano confidenze e riflessioni sulla vita. È nel momento in cui questo incontro entra a fare parte delle esperienze del passato che ci si interroga sulla veridicità degli eventi raccontati, soprattutto quando una sia pur minima traccia ne è rimasta nel presente.
L’ultimo racconto che ha il titolo della raccolta è emblematico dello stile e della narrativa di Murakami. Ritorna l’interrogativo su quale sia il limite tra il sogno e la realtà. È la vita dell’essere umano un viaggio onirico attraverso molteplici esperienze e relazioni?

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    08 Marzo, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Emancipazione e solitudine

“Donna per caso” fu il primo romanzo di Jonathan Coe e certamente non è tra i suoi migliori, anche se alcuni temi li ritroveremo successivamente nelle opere che lo hanno reso celebre.
La protagonista è Maria e la scelta di un personaggio femminile non è casuale per gli argomenti delicati che l’autore si accinge ad affrontare: l’emancipazione femminile, la libertà individuale e la solitudine.
Maria diviene un simbolo di ciò che nel tempo la donna ha sempre giustamente rivendicato per sé, il diritto di fare le proprie scelte senza soggiacere ad alcun condizionamento. Ed è così che Maria si allontana da casa per completare i suoi studi, conosce il piacere di una vita da single, lontano tuttavia dagli affetti familiari e, nel suo affanno di costruirsi una vita indipendente, trascura l’amore, allontana da sé le amicizie, penalizza e mortifica quasi il suo aspetto avvenente per privilegiare la tendenza all’indifferenza e al cinismo. Persino l’amore per un figlio, che sembra quasi un incidente nella sua vita, viene superato dall’esigenza di soffrire il meno possibile. È un cammino progressivo verso un isolamento totale. Maria si ritrova prigioniera di una anaffettività che non aveva previsto e della quale non aveva saputo valutare gli effetti negativi.
Il messaggio chiaro e forte che si può cogliere da questa storia di sostanziale infelicità e solitudine consiste nel non trascurare in nessun caso la sfera affettiva, perché non possono esistere né libertà né felicità se non si accetta di vivere in un contesto sociale umano che comporti alcune scelte e parziali rinunce che implichino un coinvolgimento consapevole dei propri sentimenti e una presa di coscienza delle proprie responsabilità. Un romanzo amaro, ma per certi versi, illuminante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    01 Marzo, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Moira e Ghenos

“Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini. Le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva fiorente le nutre al tempo di primavera. Così le stirpi degli uomini: una nasce, l’altra si dilegua.”
Queste le parole di Glauco nell’Iliade. (VI libro).
E ancora: “Uno paga subito, un altro dopo, e a quelli stessi che sfuggono affinché non li colga la Moira degli dei che poi in ogni caso, più tardi giunge? gli innocenti pagano le azioni, o i figli di costoro o la stirpe futura.” (Solone – Elegia alle Muse). C’è tanto della cultura classica in questo romanzo di Margherita Loy, “La dinastia dei dolori”, un racconto intenso, che vede al centro quattro generazioni di donne forti e fragili a un tempo, che si tramandano un pesante fardello di dolore e di rimpianto rassegnandosi a convivere con uno schiacciante senso di colpa, o a chiudersi nel buio di una condizione di assoluta angoscia. Un racconto radicato in una realtà quotidiana che attraversa il novecento dagli albori del fascismo fino ai giorni nostri, che vede la donna protagonista e subalterna al tempo stesso in una società che stenta a restituirle quella dignità e quella emancipazione che le spettano di diritto. Sono donne a cui si nega persino di vivere le gioie e le responsabilità della maternità, donne che non hanno la libertà di scegliere perché non hanno alcuna indipendenza economica. Così Emma, il personaggio più forte del romanzo, è costretta a barattare la sua maternità con il benessere futuro per sé e per le sue sorelle. Una scelta drammatica che la priverà dell’amore che aveva sognato. E come una forza misteriosa e imperscrutabile, come una volontà irresistibile che si identifica con la “moira” della mitologia greca, questo dolore si tramanda attraverso le generazioni per via femminile. Un destino segnato, si direbbe. E qui l’autrice si sofferma su alcune teorie scientifiche che studiano l’importanza della ereditarietà genetica anche nella sfera della psiche umana, come se i grandi dolori si imprimessero nella memoria genetica di ogni individuo e con essa si trasmettessero alle generazioni successive insieme a tutte le altre tessere che ne costituiscono il patrimonio complessivo.
Un libro che offre spunti molto interessanti di riflessione, non solo dal punto di vista sociale e filosofico, ma anche scientifico.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Febbraio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Le molteplici funzioni dell’arte del Cinema.

L’ultimo romanzo di Jonathan Coe, Io e Mr Wilder, offre davvero molti spunti di riflessione non solo sull’arte del Cinema, quanto anche e soprattutto sulla vita stessa.
Il racconto è affidato a un io narrante che si identifica con la protagonista Calista Frangopoulou, musicista dilettante e poi professionista che rievoca la sua giovinezza segnata in maniera indelebile dall’incontro con l’anziano regista Billy Wilder che determinò alcune delle scelte più importanti della sua vita. È una storia che ci conduce attraverso un mondo di personaggi reali e immaginari che ha lo scopo di sottolineare quale sia e possa essere la funzione del Cinema nella società contemporanea e quale sia stato il fascino da esso esercitato durante tutto il corso del Novecento.
Non a caso tra i tanti produttori, registi e scenografi di Hollywood, Coe ha scelto proprio Wilder, al quale si devono alcuni dei successi più clamorosi del Cinema americano, ma anche alcuni flop altrettanto clamorosi. E già qui ci si può domandare secondo quali canoni si può determinare il successo o il fallimento di un film? La prima risposta risiede nel gradimento del pubblico, a prescindere dal valore intrinseco dell’opera stessa. Tenere presenti le esigenze di una platea vasta ed eterogenea come quella cinematografica è certamente determinante. Il pubblico del Cinema può essere di “èlite”, se con questo termine si vuole fare riferimento a volte a sproposito, a quegli spettatori più o meno acculturati che preferiscono il genere impegnato a finale aperto che si offre a molteplici interpretazioni, o viceversa di “massa” se dallo spettacolo esso cerca svago, emozione, evasione dalle difficoltà della vita quotidiana.
Billy Wilder, infatti, firmò splendide commedie che riscossero il consenso di tutto il mondo del cinema come “L’appartamento”, “A qualcuno piace caldo”, “Sabrina”, Irma la dolce”, e opere che al contrario segnarono il suo declino come “Fedora” e “Buddy Buddy”. Ciò che in ogni caso risulta evidente è che anche in quelle commedie che eccellono per la vivacità della sceneggiatura, la raffinatezza della scenografia e dell’interpretazione di divi affermati, vi è di fondo sempre un tema serio, più impegnativo, su cui riflettere, che sostanzialmente si esplicita in una critica sui limiti e i difetti della società americana. La forma e la vena satirica e umoristica della maggior parte delle opere di Wilder definirono il loro grande successo. “Fedora” che aveva ripreso il soggetto dello spietato declino della star di successo già affrontato ne “Il viale del tramonto” non avrebbe avuto lo stesso destino delle commedie brillanti, poiché il soggetto era troppo amaro, poco gradevole per un pubblico in cerca di sollievo nelle sale cinematografiche. E a questo proposito, proprio il personaggio Wilder, nel romanzo di Coe, farà un’analisi spietata del successo de “Lo squalo” di Spielberg, dovuto a quell’esigenza di emozioni forti che il pubblico va maturando via via che nel Novecento si vanno esaurendo messaggi artistici di forte impatto. Ma la critica a “Lo squalo” non impedisce a Wilder di riconoscere il grande talento dello Spielberg di “Schindler’s list”, un soggetto che lo stesso Wilder avrebbe voluto affrontare se non fosse stato troppo coinvolto nella tragedia della Shoah, essendo egli stesso di origini austriache e avendo perso la madre in un campo di concentramento.
“Io e Mr Wilder” è dunque, nel suo complesso, un omaggio al Cinema, a chi ad esso ha dedicato la vita, a che ne ha esaltato la funzione etica, sia nella sua forma divulgativa che in quella più specificamente artistica. Jonathan Coe ancora una volta affronta temi di grande attualità con un occhio costantemente rivolto al nostro mondo contemporaneo di cui approfondisce anche i lati più oscuri, quei lati che spesso troppo opportunisticamente si è portati a ignorare e a dimenticare.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Viltà o consapevolezza – il dramma irrisolto dell’

Gramsci diceva: “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.” Eppure quanto è difficile distinguere tra indifferenza e consapevolezza d’un male di vivere che induce a respingere ogni coinvolgimento in ciò che risulta brutale, violento, disumano.
È Corrado, il protagonista del bellissimo “La casa in collina” di Pavese, che meglio interpreta il disagio dell’intellettuale di fronte all’impegno che richiederebbe una partecipazione attiva alla lotta per la libertà in un paese devastato dalla guerra e dall’occupazione straniera.
La sua solitudine e il suo malessere lasciano trasparire il malessere dello stesso Pavese. C’è una sorta di identificazione tra personaggio e autore. Corrado è a disagio nel mondo in cui vive, il suo male di vivere lo pone ai margini di quella società di cui pure è parte integrante. È negli occhi di Cate, la ragazza che aveva amato anni prima, che legge la sua “nullità”. Il suo animo è profondamente turbato da ciò che egli pensa di se stesso: “Chi lascia fare e s’accontenta è già un fascista”. Eppure è proprio questa sua consapevolezza che lo riscatta, perché è più coraggioso chi sa ammettere i propri limiti di chi li nega o li giustifica. Corrado non giustifica mai se stesso. La sua indole è contemplativa, egli ha un rapporto speciale con la natura che lo circonda, di cui assorbe i colori, i profumi, i panorami spettacolari e ne rileva con sofferenza gli oltraggi subiti dalla guerra. Sa di non essere in grado di assumersi responsabilità che costituirebbero un peso insopportabile. Anche nei confronti di Dino, il bambino di cui sospetta di essere il padre, si sente colpevole, perché è incapace di andare fino in fondo a cercare la verità e le parole di Cate sono per lui come una dolorosa conferma di ciò che egli già pensa di se stesso: “Sei buono così, senza voglia. Lasci fare e non dai confidenza. Non hai nessuno, non ti arrabbi nemmeno.” Solo l’ansia di vedere il mondo di dopo, dopo lo sconvolgimento causato da quella che per lui è la vera guerra, quella combattuta sulla sua terra, che ha trasformato gli uomini in disperati, solo quest’ansia gli restituisce una certa vitalità. “Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia. Volevo essere buono per essere salvo.”
Corrado cerca di sopravvivere, non solo alla guerra intorno a lui, ma soprattutto alla sua guerra interiore, cercando un riscatto che non trova. È di fronte alla morte, agli uomini caduti combattendo, che Corrado si chiede il perché della vita e della morte e non sa darsi una risposta. La risposta forse la sanno solo i morti. “Soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    16 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Vita, amore e morte nelle Langhe

Chi ha conosciuto il paesaggio delle Langhe non può che esserne rimasto incantato. Luoghi che rasserenano gli animi: distese di vigneti, dolci colline, gusto per il buon cibo e per il buon vino. Eppure proprio in queste terre che sembrano poter alleviare gli affanni dello spirito hanno avuto luogo, negli anni quaranta, episodi dolorosissimi.
Qui Beppe Fenoglio ambienta il suo romanzo “Una questione privata”, il cui protagonista, il partigiano Milton, è in continuo movimento per rintracciare l’amico Giorgio che sa essere stato catturato dal nemico, per salvarlo, si, ma soprattutto per sapere da lui se è stato l’amante della sua ragazza Fulvia. È l’amore che lo spinge ad attraversare zone pericolose presidiate da militi fascisti, a percorrere lunghi tragitti sotto la pioggia, nel fango, col freddo pungente, indebolito dalla fame. Nel suo percorso si ferma solo qualche volta in case diroccate, abitate da povertà e miseria. Il suo cammino si trasforma talvolta in una lotta per la sopravvivenza.
La narrazione è essenziale, mai ridondante; ricorda nello stile l’Hemingway di “Addio alle armi” e di “Per chi suona la campana”. Come nei romanzi dello scrittore americano, anche Fenoglio dà agli agenti esterni un’importanza simbolica. Il fango, la pioggia, gli abiti laceri, la sporcizia sono metafora della condizione umana. L’autore non interviene mai nel racconto con giudizi moralistici. Sono i personaggi stessi, attraverso le loro azioni e i loro dialoghi a rappresentare la reazione umana di fronte alla violenza e alla morte, reazione che a volte coincide con una perdita di dignità, talora invece con l’accettazione della realtà. In questa prospettiva il romanzo è un’indagine sulla capacità dell’uomo di fare o di subire il male ed è altresì un tentativo di conciliare interesse pubblico, cioè la lotta per la libertà, e interesse privato, amore e verità.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    13 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Amore e morte, libertà e oppressione

Un romanzo sotto diversi punti divista agghiacciante “Uomini e no” di Elio Vittorini. Ambientato durante la resistenza nella città di Milano, ha come protagonisti una serie di personaggi di cui non conosciamo i nomi, ma solo generici soprannomi. Una volontà di celare dietro l’anonimato i combattenti partigiani che si impegnano contro un nemico che appare ferocemente spietato. Solo il personaggio femminile, Berta, ha un’identità ben definita. Ella rappresenta, da un lato l’amore incompiuto di Enne2, dall’altro il mondo borghese, meno coinvolto nell’assurda realtà della guerra.
La trama del romanzo si dipana attraverso capitoli di dialoghi brevissimi e veloci alternati a capitoli in corsivo dove il protagonista si confronta con se stesso con il suo passato, la sua infanzia, il suo amore per Berta. In questo scenario il nemico agisce secondo la logica ben conosciuta: atroci torture, rappresaglie, vendette. Milano offre un paesaggio spettrale, le sue strade sono popolate di morti reali e morti viventi. La libertà degli individui è soppressa. Ciò che resta della vita è solo incubo. Enne2, che è a capo dell’organizzazione partigiana viene scoperto e la sua vita è in pericolo. Egli, tuttavia rinuncia alla fuga, rimane al buio nella sua stanza nella vana speranza di ricongiungersi a Berta, confortato dall’affetto dei compagni. Questo è sostanzialmente il messaggio positivo del romanzo: i valori di fratellanza e solidarietà sono ancora saldamente radicati nell’animo di coloro che non hanno perso il senso della pietà: perché il mondo è tragicamente diviso in Uomini e No.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    09 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Un picaro partigiano


“Allo sguardo infantile e geloso di Pin armi e donne ritornavano lontane e incomprensibili.”
Con questo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino sceglie di raccontare la guerra partigiana attraverso gli occhi di un bambino, Pin. È una scelta meditata, per prendere meglio le distanze dai fatti e offrirci una narrazione quanto più oggettiva possibile.
Pin, piccolo monello, attratto dal mondo dei grandi, affascinato dalle armi di cui essi fanno uso, si inserisce in un gruppo di emarginati che combattono per la libertà. Nessun personaggio è chiamato col nome proprio, tutti hanno un soprannome. Tra i tanti c’è il Dritto, Lupo Rosso, Miscel il francese, il Giraffa, la Nera di Carrugio Lungo, sorella di Pin, che frequenta i tedeschi senza alcuna preoccupazione per la sua reputazione. E poi c’è Kim, lo studente, l’intellettuale del gruppo, è lui che “scompone ogni problema in elementi distinti, a bi ci, dice, tutto chiaro dev’essere negli altri come in lui.”
Questa moltitudine di “peggiori” è in cerca di riscatto e la lotta partigiana si presenta ai loro occhi come un’occasione per reintegrarsi in una società di rispettabili. “C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? Uguale al loro va perduto, tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra parte è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori…”
Non ci sono eroi in questo romanzo, solo antieroi. Pin affronta la sua ansia di crescere mostrandosi pronto a maneggiare le armi e a non soccombere di fronte alla violenza. Non vuole essere trattato come un moccioso. Se non lo vogliono tra loro farà la sua guerra da solo, con la sua pistola, che ha trafugato a un tedesco. La pistola per lui è il simbolo della sua emancipazione.
Il paesaggio fa da sfondo in questa narrazione, con i suoi luoghi che offrono nascondigli ma anche insidie. Il sentiero dei nidi di ragno è un posto magico, è il luogo dove può nascondere la sua arma, è il suo luogo segreto, dove potrà fare strane magie. Quando realizza che il suo nascondiglio è stato scoperto la disperazione lo assale. È il momento in cui prende coscienza della sua solitudine.
Il romanzo si chiude con l’immagine delle lucciole, così belle di notte con la loro luce intermittente, così ripugnanti di giorno, quando le si possono vedere nel loro aspetto reale. Perché la vita è questo, un alternarsi implacabile di apparenza e realtà.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    31 Dicembre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

L’importanza del linguaggio, interpretazione della

Lessico famigliare è forse il libro più famoso di Natalia Ginzburg, certamente quello che è stato più recensito e più criticato sia positivamente, sia negativamente.
Il titolo di un’opera è sempre molto importante: spesso ci svela non solo parte del suo contenuto, ma suggerisce anche considerazioni sulla sua impostazione stilistica e strutturale.
La prima osservazione che sorge spontanea è quella che riguarda l’uso del termine “famigliare” preferito a “familiare” che la Ginzburg usa tuttavia nel corso della narrazione. Si tratta, a mio giudizio, di una scelta studiata con sottile acutezza. Il primo, “famigliare”, è di origine popolare, è un etimo, cioè, che ha subito una trasformazione dall’originale latino “familiaris”, il secondo, invece, “familiare”, ricalca il modello latino, ed è quindi termine più “colto” se così si può dire. Ciò induce subito a pensare che lo stile e il contenuto del testo vogliano rispettare un principio di semplicità che rispecchi la spontaneità della vita quotidiana.
Ed è così. La Ginzburg fa, con quest’opera, un’operazione di verità: attraverso il lessico tratteggia i personaggi, in modo da farne emergere l’autentica personalità. Il padre Giuseppe Levi e la madre Lidia sono davvero indimenticabili, con i loro pregiudizi e il loro linguaggio costellato di parole del dialetto triestino del padre, come sbrodeghezzi, negrigura, sgarabazzi, o del milanese della madre come spussa e malignazza.
La storia della famiglia è affidata alla memoria di Natalia bambina, poi adolescente, quindi adulta. Questa scelta temporale porta inevitabilmente all’uso ora dell’imperfetto, ora del passato remoto, ora del trapassato. Ne deriva una rimarchevole dinamicità narrativa. L’io narrante rimane tuttavia quasi estraneo alla narrazione. La Ginzburg descrive il mondo a cui appartiene, senza indulgere in particolari che la riguardano personalmente. Parla volentieri degli amici, di Turati, Pavese, Felice Balbo, e altri intellettuali che frequentavano la casa editrice Einaudi, per la quale lei stessa lavorava. Racconta episodi della loro vita di cui lei stessa era stata testimone. Si dilunga sulla vita e sulle famiglie dei fratelli, ma di se stessa accenna solo l’indispensabile. Di sfuggita fa riferimento al marito Leone Ginzburg, alla sua morte nel terzo braccio del carcere di Regina Coeli. Nessun pathos, nessun accenno al suo dolore che pure fu certamente grande, a giudicare dai versi che avrebbe scritto in sua memoria. Una riservatezza che probabilmente vuole dare all’opera quella imparzialità di narrazione che possa renderla maggiormente veritiera. Un solo paragrafo tradisce una certa emozione ed è quello dedicato alla morte di Pavese. La storia dell’Italia degli anni del fascismo è presente come sfondo. Se ne sente il peso, ma non è protagonista. Protagonisti sono sempre e solo i personaggi con le loro caratteristiche umane.
Tra i critici di grande rilievo c’è stato chi ha considerato Lessico famigliare un’opera di grande pregio per il contributo memorialistico e per l’efficace descrizione della borghesia e dell’ambiente intellettuale di quel tempo interprete degli ideali socialisti. C’è stato tuttavia anche chi, come Asor Rosa, l’ha vista come un’operazione di snobismo intellettuale, sottolineando la volontà della Ginzburg di mostrare la sua familiarità con personaggi importanti.
Comunque la si voglia pensare, Lessico Famigliare resta un’importante testimonianza letteraria di uno stile, di un’epoca, di una parte della nostra società.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    08 Ottobre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La nostra vita

Se è vero che è l’uomo, con le sue azioni quotidiane, con le sue piccole o grandi decisioni, con la sua partecipazione attiva alla vita politica e sociale del proprio paese o il suo volontario o obbligato disimpegno, a scrivere pagine di Storia, è pur vero che proprio da quella Storia che ha contribuito a creare, egli è condizionato per tutto il corso della sua esistenza.
È quanto appare in tutta la sua evidenza nel bellissimo romanzo di Giorgio Fontana, che ripercorre un secolo di eventi dalla prima guerra mondiale fino ai giorni nostri, attraverso le vicende di una famiglia nel susseguirsi di più generazioni.
È un romanzo che colpisce per il realismo con cui descrive i sentimenti, gli stati d’animo di ogni personaggio, senza alcun intento di creare miti. Non a caso il capostipite della famiglia Sartori, Maurizio, si presenta come un fuggiasco, diciamo pure un disertore, nel momento della massima confusione della guerra del 15-18. Vile di fronte al pericolo reale della guerra, coraggioso nell’ammettere la propria viltà, si troverà di nuovo a dovere affrontare le proprie responsabilità nel momento in cui dovrà riconoscere una paternità frutto d’amore ma non programmata.
Povertà, disoccupazione, lavoro precario e mal pagato, abbandono della terra natia, sono le piaghe che si accompagnano alle due scellerate guerre che si sono succedute. C’è chi muore in Africa, chi sceglie una vita da intellettuale, chi sarà ribelle e disadattato per tutta la vita. Sullo sfondo fascismo e antifascismo, la ripresa del dopoguerra, la nascita dei movimenti operai, gli ideali anarchici e la loro deriva, il terrorismo, le lotte radicali per il rispetto dei diritti umani. Ogni personaggio è più o meno direttamente coinvolto in questi eventi che, almeno in parte ne condizionano la vita.
Ciò che domina le pagine del libro è sempre comunque l’amore, anche quando sembra essere finito e con esso il dolore, un dolore che muta con il cambiare dei tempi.
“I loro nonni, e in una certa misura i loro padri, avevano dovuto sopportare il dolore fisico, fame e freddo e povertà, o una qualche privazione; e ora questo dolore era terminato, a loro spettava un destino di ferite interiori. Oh, certo erano cose da poco. Nessuna guerra che meritasse di finire tra le pagine di un libro: solo una costante paura del futuro…..”
Una costante paura del futuro. È l’angoscia del nostro tempo. Eppure la saga dei Sartori che nasce apparentemente dal “buio della viltà” ci insegna che da qualche parte c’è sempre una luce, se si è capaci di provare pietà.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    17 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

I miserabili del ventesimo secolo

“Lo specchio delle nostre miserie” è l’ultimo volume della trilogia di Pierre Lemaitre, iniziata con “Ci rivediamo lassù” e continuata con “I colori dell’incendio”. Lo scopo reale di questi romanzi è di ripercorrere la storia della Francia e di conseguenza dell’Europa dai primi del novecento fino alla occupazione nazista di Parigi. Eventi drammatici e luttuosi coinvolgono famiglie e personaggi di cui si seguono le sorti. Quest’ultimo romanzo affronta con realismo la condizione di disagio e di desolazione in cui versa la popolazione francese che si affretta ad abbandonare i luoghi familiari per sottrarsi alla prepotenza dell’invasore.
La vicenda della protagonista Louise, che si avventura in un viaggio pieno di incognite alla ricerca di un fratello mai conosciuto con il quale stabilire un rapporto affettivo in ricordo di una madre ormai scomparsa, è il pretesto per seguire altre storie parallele, brevi romanzi nel romanzo. Folle di disperati e di miserabili, ben descritte, come nella migliore tradizione letteraria francese, invadono le strade che dal nord portano al sud della Francia. Lo stesso Lemaitre , a conclusione del romanzo, cita fra le sue fonti di ispirazione, alcuni tra i più grandi scrittori di tutti i tempi, tra cui Hugo, Gary, Diderot, Dickens, Proust, solo per ricordarne alcuni.
Molti degli episodi raccontati sono stati rielaborati da eventi realmente accaduti, cosa che ha contribuito a dare maggiore veridicità al racconto.
Il personaggio di Desiré, irriducibile trasformista , sempre pronto a cambiare personalità e a sfuggire alle accuse di impostore e truffatore, è colui che allevia le sofferenze altrui, offrendo della realtà una interpretazione sempre ottimistica e benevola, unico modo per riuscire a sopravvivere in un mondo spietato e privo di scrupoli.
Un romanzo che si legge volentieri, come il secondo della trilogia, ma non c’è dubbio che il migliore rimane “Ci rivediamo lassù”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    28 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La vendetta è un piatto che si serve freddo

“I colori dell’incendio” è il secondo romanzo di una trilogia di Pierre Lemaitre, che segue le vicende di una famiglia della grande borghesia francese dai primi del novecento. Mentre “Ci rivediamo lassù” è una lettura più impegnativa, che affronta il tema della guerra e delle sue conseguenze nel pubblico come nel privato, qui la vicenda si dipana nell’ambito familiare, pur esprimendo tacitamente considerazioni sulla politica, sulla società, sui mezzi di informazione.
Al centro della storia è Madeleine che assiste al tentato suicidio del figlio di otto anni proprio nel giorno dei funerali del nonno. La tragedia colpisce Madeleine quando è assolutamente impreparata a gestire l’ingente patrimonio lasciatole dal padre. Per necessità dunque si affida a chi le sta più vicino e di cui si fida. L’avidità, tuttavia, trasforma le persone che ha intorno che non esitano a tradirla. Ridotta quasi alla miseria, Madeleine è costretta a ridimensionare il suo stile di vita mentre vede prosperare chi l’ha tradita. Escogita così una serie di espedienti per mettere in atto una vendetta feroce.
È un mezzo efficace per portare avanti una critica sul sistema politico troppo spesso incline a compromessi disonesti, efficace per mettere in risalto la frequente mancanza di scrupoli di certa informazione sempre a caccia di scoop a fini personalistici e scandalistici, efficace inoltre per sottolineare quanto sia sempre stata diffusa in ogni epoca la pratica dell’evasione fiscale da parte di chi possiede ingenti patrimoni. Il tutto sullo sfondo dell’ascesa del nazismo in Germania e dello stabilizzarsi del fascismo in Italia.
Un romanzo assai scorrevole, di piacevole lettura, pur non essendo forse all’altezza del primo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    19 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un pamphlet più che un romanzo.

Chi ha letto e conosce “A modest proposal for preventing the children of poor people from being a burthen to their parents or country” (Una modesta proposta per impedire che i bambini della gente povera siano un peso per i loro genitori o per il loro paese) che Jonathan Swift scrisse provocatoriamente nel 1729, come soluzione ai gravi problemi sociali ed economici dell’Irlanda sotto il dominio inglese, non stenterà a riconoscere la stessa vena satirica sferzante e impietosa in questa ultima breve opera di Ian McEwan, che può essere definita per le sue caratteristiche più un pamphlet che un romanzo. È d’altra parte lo stesso autore che nella sua postfazione confessa che le sue fonti di ispirazione sono state proprio le opere di Swift e “La metamorfosi” di Kafka.
Se infatti Swift proponeva come soluzione allo stato di drammatica povertà in cui versava il popolo irlandese di allevare i neonati della gente più misera fino al compimento di un anno di età , nutrendoli bene in modo da ingrassarli al punto giusto, e poi venderli come cibo prelibato per le tavole dei più ricchi, utilizzando al contempo la pelle per creare borse, scarpe, cinture ed altri articoli di una certa necessità, McEwan prende spunto da questa grottesca quanto macabra provocazione per creare il personaggio di Jim Sams, un Primo Ministro che altro non è che un ripugnante scarafaggio improvvisamente risvegliatosi in forma umana. Una trasformazione che bene si accorda con quella teoria dell’Inversionismo che Sams si impegna a far approvare dal Parlamento britannico per ovviare alla crisi socioeconomica in cui versa il paese. Un paradosso evidente se si considera che ogni cittadino dovrebbe pagare per le sue ore di lavoro piuttosto che essere retribuito, e nel contempo essere lui stesso ricompensato in denaro per le merci e i viveri acquistati. Un sistema propagandato con tutti i mezzi più populistici a disposizione dei politici politicanti, un sistema che avrebbe come scopo far girare il denaro e l’economia. Ed in questo è impegnato il partito conservatore di Sams che riesce a fare approvare l’Inversionismo, sia pure con una risicata maggioranza. È facile distinguere tra le righe un attacco alla Brexit, alla presa di distanza di McEwan da una decisione dovuta a una minoranza del Paese che costa assai cara alla Gran Bretagna. Approvato l’Inversionismo, Sams e il suo staff ritorneranno ad assumere le orrende spoglie originarie, destinati a strisciare come ogni blatta tra le immondizie e trovare rifugio negli angoli più remoti e putridi, rischiando ad ogni istante d’essere schiacciati e travolti.
Come sempre nella tradizione letteraria inglese non mancano momenti di comicità che rendono la satira più leggera. È certo che ancora una volta McEwan si afferma tra gli scrittori più quotati del Regno Unito, che raccoglie l’eredità del passato per adattarla al nostro tempo con intelligenza, originalità ed eleganza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    15 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un capolavoro di sintesi tra verità documentaria e

Meravigliose pagine di atmosfera decadente che fanno pensare al Visconti de La morte a Venezia, film tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Mann, quelle del romanzo-documento di Melania Mazzucco “Lei così amata”. Ed è inevitabile pensare a Mann, poiché la sua arte e la sua figura sono sempre presenti in tutta la narrazione che si svolge intorno al personaggio di Anne Marie Schwarzenbach, scrittrice di nazionalità svizzera nata ai primi del novecento e morta nel 1942. Una vita breve trascorsa nell’ansiosa ricerca di dare un senso alla sua tormentata esistenza, sempre in viaggio tra l’Europa e il resto del mondo, con l’aspirazione di descrivere le realtà con le quali veniva a contatto in qualità di giornalista e scrittrice.
Un fisico gracile e delicato, palesemente androgino, attraente nella sua fragilità, Anne Marie non è molto diversa nell’aspetto dal Tadzio di Mann. “Si vede androgina, esigente, severa. Un angelo del Botticelli e un’aggressiva Giovanna d’Arco”. La sua insicurezza le condiziona la vita nella tormentata ricerca di un legame duraturo che tuttavia non riesce a stabilire né con le donne che ha amato né con gli uomini a cui si è legata. Il tempo e il destino la condannano all’emarginazione, inevitabile in quell’ambiente dell’alta borghesia a cui appartiene e che si trova ad appoggiare l’ascesa del nazismo da lei deprecato e osteggiato.
Conosce il tradimento e l’abbandono degli amici più cari, dei gemelli Mann, in particolare, Erika e Klaus, che lei ama entrambi, ma che la lasciano sola nelle sue inquietudini ricorrenti. Neanche Klaus che con lei ha condiviso l’esperienza devastante della droga, ha il coraggio di seguirla e entrambi conosceranno separatamente la solitudine e la disperazione. Il viaggio di Anne Marie procederà attraverso l’inferno delle carceri e dei manicomi americani. A un passo dalla follia, riesce a riemergere, ma per breve tempo rifiutando di aggrapparsi a colui che, unico, le aveva offerto un porto sicuro, il marito Claude.
Il suo interminabile peregrinare è una continua fuga dalla vita e dalla morte. “Mi hanno spinta a partire la paura di vivere e il desiderio di morire. Ma anche il desiderio di vivere e la paura di morire” Anne Marie è in fondo alla ricerca di quella libertà che le è sempre stata negata, che le è stata concessa solo in apparenza, in un mondo imbarbarito. La ricerca della libertà è anche ricerca d’amore e dunque la sua vita s’è sempre dibattuta tra Eros e Thanatos perché Anne Marie è consapevole che solo la morte può restituirle la libertà. I suoi libri non sono apprezzati, sono considerati il frutto di una gioventù degenerata, senza valori, e scrivere è un segno di debolezza, come lo è l’arte in genere. Ed è qui che la vicenda di Anne Marie si lega più significativamente all’opera di Thomas Mann che pone sempre al centro il conflitto tra arte e società.
Una prosa bellissima, una capacità di entrare nell’animo dei personaggi e di esprimerne i sentimenti, Melania Mazzucco è una delle migliori scrittrici del nostro tempo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    19 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un titolo perfetto.

Con una tecnica che la Mazzucco ha sperimentato altre volte nelle sue opere e che riconduce alla circolarità del romanzo, anche in “Un giorno perfetto” la scrittrice inserisce all’inizio del primo capitolo e all’inizio dell’ultimo la stessa citazione, che in questo caso è il testo di “Perfect day” di Lou Reed: ciò per sottolineare che anche la struttura del romanzo deve essere perfetta, come il cerchio che si chiude lasciando ricongiungere la fine con l’inizio. Ed è nel titolo, una volta di più che si cela il vero significato del romanzo. Sì, perché al di là di ciò che effettivamente può accadere nell’arco di una giornata di bello o di atroce, ogni giorno è perfetto, nel suo compiersi, nelle sue ventiquattro ore che trascorrono inarrestabili. Ed è per questo che il titolo di ogni capitolo altro non è che l’ora in cui la vicenda si svolge.
Ventiquattro ore, dunque, quasi un’unità di tempo aristotelica, scandite da personaggi assai diversi tra loro, la cui esistenza, tuttavia, si intreccia e si lega in un inesorabile destino.
Un romanzo dal contenuto tristemente attuale e realistico che indaga nei rapporti di coppia, nelle frustrazioni che nascono dalla gelosia o dalla insoddisfazione, che sa penetrare nell’animo dei giovani ribelli, come nel caso di Aris, affascinati dagli ideali anarchici, eppure opportunisticamente propensi ad accettare qualche facilitazione derivata dal deprecabile e corrotto mondo borghese. Un romanzo che si sofferma sulle ingenuità e le illusioni dei più piccoli che non capiscono le incoerenze del mondo degli adulti, ai quali guardano con occhio critico e intransigente.
Così la drammatica storia di Emma e Antonio si svolge parallelamente a quella di Maja e Elio, mettendo sotto accusa potere e politica, mentre la diversità di Sacha e lo spirito ribelle di Aris relegano entrambi all’emarginazione e le vere vittime di un mondo disumanizzato sono i più giovani, che vedono distrutte le speranze di un futuro sereno.
Tanti sono i riferimenti letterari che si trovano nel testo, da Tolstoj a Rimbaud, da Flaubert a Mann, come tanti sono i riferimenti musicali e cinematografici. Né mancano accenni ad alcune opere d’arte tra le tante che si ammirano nelle chiese romane, come quello alla Madonna dei Pellegrini del Caravaggio nella basilica di Sant’Agostino. È sempre Roma, nella sua opulenza artistica, come una donna formosa e generosa, che fa da sfondo a una storia torbida e tragica a un tempo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per chi volesse approfondire il testo, consiglio la lettura del saggio di Antonella Ippolito : “L’orma nello schermo opaco” – intermedialità del costrutto narrativo e rappresentazione di “una realtà depotenziata” in “Un giorno perfetto” di Melania Mazzucco.

Molto bello anche il film di Ferzan Ozpetek “Un Giorno perfetto”, con Valerio Mastandrea, Isabella Ferrari, Stefania Sandrelli e Monica Guerritore.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    29 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un romanzo epico


“La storia di una famiglia senza storia è la sua leggenda.” Così Melania Mazzucco in uno dei capitoli conclusivi del suo romanzo “Vita”. Si, perché ciascun individuo ha la sua storia personale e le sue origini hanno diritto alla stessa dignità celebrativa che si riconosce alle grandi famiglie.
Si possono trascorrere anni accanto alle persone più familiari, accanto ai padri, alle madri, agli stessi figli e con essi spesso si parla poco, li si conosce superficialmente, ne si coglie l’essenziale, quanto basta. È dopo la perdita di uno di loro che si sente l’esigenza di squarciare quella barriera che ci separava per entrare nel loro vero mondo e cercare di capire quanto di quel mondo noi stessi facessimo parte. Se poi la perdita è di un padre o di una madre si sente più urgente il bisogno di chiarire a se stessi chi veramente siamo, da dove proveniamo, cosa ci ha reso quello che siamo.
In questa prospettiva la Mazzucco ricostruisce la vita di Diamante e Vita, svelandoci a poco a poco quanto la sua esistenza stessa sia intrecciata alla loro.
Il romanzo si apre e si chiude con due capitoli, entrambi intitolati “I miei luoghi deserti”. Non è un caso che i luoghi qui descritti nel loro aspro e arido aspetto in terra campana, vengano definiti deserti: deserti non solo per il suolo dall’apparenza sterile, ma deserti perché abbandonati da chi ha nutrito una speranza di vita migliore. Eppure questi luoghi deserti sono anche quelli che richiamano l’emigrante con una forza straordinaria e lacerante. Tufo è dunque il luogo di partenza per Vita e Diamante bambini, ma è anche il luogo dove avrebbero desiderato tornare. Nasce così su quella scialuppa della nave che li avrebbe condotti in America, nascosti e abbracciati per farsi coraggio e ripararsi dal freddo, quel legame profondo che sarebbe durato tutta una vita, nonostante le separazioni, le delusioni, i tradimenti, alimentato dalla speranza e dalla illusione di poter realizzare un sogno. Ma la vita dell’emigrante è dura e difficile, anche nel paese che ti promette benessere e libertà. “La prima immagine che offre l’America è incoraggiante – la Statua della Libertà. Ma proprio sotto quella statua gli emigranti vengono recintati come animali e avviati alle scoraggianti procedure per lo sbarco”.
Qui inizia la vita americana di Diamante e Vita, una esistenza difficile fatta di umiliazioni e sopraffazioni, ma anche di sentimenti teneri, di promesse e di progetti, una esistenza di cui porteranno per sempre le tracce sul corpo e nell’anima.
Scrivere una biografia significa intraprendere un viaggio nella memoria, nelle cose del passato, significa avere il coraggio di rivivere eventi che hanno segnato la nostra vita, a volte addirittura di viverli questi eventi in prima persona, se di essi non siamo stati i protagonisti. Si dice che è crudele alimentare la memoria di ciò che ha causato dolore, che dimenticare allevierebbe le pene, ma è proprio la memoria, per quanto dolorosa che ci aiuta a mantenere la nostra umanità, che ci aiuta a tenere vivo in noi il senso di humanitas e pietas che fanno parte della nostra cultura.
Imperdibile, dunque, questo romanzo della Mazzucco, epico, coinvolgente, emozionante

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    04 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

“La vita te ciancica e poi te sputa”


“La vita te ciancica e poi te sputa” è la frase che il grattacheccaro rivolge a lui, al protagonista di “Gli estivi”, il secondo romanzo della quadrilogia di Luca Ricci, al protagonista – scrittore di mezza età, in crisi creativa e esistenziale, che vede avanzare minacciosa una vecchiaia alla quale non sa rassegnarsi. E l’amore, come nostalgia della giovinezza e difficoltà di rinnovarsi con il passare del tempo, diviene ossessione. Quindici estati si susseguono nel gioco estenuante e frustrante di riuscire a possedere quell’oggetto del desiderio di nome Teresa, giovanissima e bella, provocante e provocatrice. La frustrazione d’amore si accompagna a una spietata analisi del mondo dell’editoria, della funzione della scrittura, delle illusioni e delle delusioni che ne scaturiscono.
Come la classicità si era occupata dell’amore esaltandolo nelle figure di Ulisse e Penelope, di Paolo e Francesca o Renzo e Lucia e il mondo moderno ha cantato il disamore con Charles e Emma Bovary o Leopold e Molly Bloom, così i nostri tempi hanno visto deteriorarsi l’ambiente artistico, frammentando la figura dello scrittore, come quello del critico per crearne generi diversi e renderli più facilmente appetibili al mercato editoriale.
“La dissoluzione dell’amore in letteratura è un fatto vistoso quanto poco indagato”, è questo un concetto che tradisce una visione pessimistica dei rapporti umani, che stenta a spostare l’attenzione dalla passione e dal sesso alla sfera affettiva, ben più solida e duratura.
Un romanzo ben ambientato nella spietata luce e nel caldo rovente e ustionante del mese di agosto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    26 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il coraggio di resistere

Il tempo della vita scorre con un andamento lineare. Il tempo della memoria scorre con andamento irregolare, con bruschi ritorni a un passato ora recente ora remoto. È questo il ritmo della narrazione nell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, “Il colibrì” - ritmo che assomiglia al volo del più piccolo tra i volatili. E non è un caso che il protagonista del racconto sia soprannominato “colibrì” non solo per la sua minuta costituzione nel periodo dell’infanzia, ma anche per la capacità di rimanere fermo nella sua condizione esistenziale, pur con sofferenza e fatica, proprio come fa il colibrì, grazie al battito velocissimo e frequentissimo delle sue ali.
Dolore, sofferenza, qualche gioia scandiscono la vita di Marco Carrera, questo il nome del colibrì di Veronesi. Si, perché la vita di ciascun individuo è fatta di esperienze amare, di perdite, di improvvise assenze e di qualche momento di felicità. La forza di ognuno è data dalla capacità di resistere, di vivere e superare le avversità, le malattie, le delusioni e di concentrarsi sul dono dell’amore, di quello dato più che di quello ricevuto, di rielaborare il tempo passato, grazie a quella memoria che ha scolpito nella nostra mente i momenti più importanti della vita.
Questa resistenza, questo instancabile battito d’ali può fare di ciascun individuo un colibrì, che riuscirà a mettere ordine nel suo caos interiore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

L’alfa contiene il suo omega e la fine è l’inizio.

Un grande libro d’amore. D’amore per la vita, amore per l’arte, amore per Roma. Amore che è sacrificio, rinuncia, separazione, ma anche speranza che ciò che crea il genio dell’uomo possa vivere nei secoli. È in questa prospettiva che la Mazzucco ci racconta la vita di Plautilla, figlia del plebeo Giovanni Briccio, materassaio dotato di ingegno - amante della poesia e della musica - legandola indissolubilmente alla storia della sua più geniale creazione da architettrice, la villa conosciuta come Il Vascello. Fu questo il luogo che più di ogni altro, raccolse e rappresentò le aspirazioni e i desideri di Plautilla, così come il suo amore mai pienamente realizzato per l’abate Elpidio Benedetti. Una figura di donna moderna, prigioniera del suo tempo e tuttavia determinata a lottare per ciò in cui più credeva, per l’arte tramandatale dal padre attraverso quel simbolico dente di balena spiaggiata: “Non ci sono balene nel mare nostro, Plautilla, disse mio padre, meditativo. Ma non vuol dire che non esistano. Per questo mi è caro il dente e lo terrò sempre con me. È una promessa, capisci? Le cose che non conosciamo esistono da qualche parte. E noi dobbiamo cercarle, o crearle.” Qui dunque ha inizio il destino di Plautilla. Qui è la sua alfa. E la sua alfa contiene già il suo omega, come ogni nascita contiene già la sua fine. La passione di Plautilla per l’arte la porta a dipingere opere ancora esistenti e seguire il percorso della sua vita significa conoscere la storia della Roma barocca, incontrare Bernini, Pietro da Cortona, conoscere l’opera di Giulio Romano o del Guercino, significa entrare nelle più belle ville romane, godere dell’armoniosa struttura delle loro mura, dell’armonia dei giardini con i loro profumi, rimanere incantati dai decori, gli stucchi i soffitti istoriati. Il Vascello, la villa voluta da Elpidio e Plautilla, fu la più grande creazione di questa donna che sfidò i tempi, rinunciando a ciò che per la consuetudine dell’epoca le era destinato, un marito e dei figli. Plautilla trasgredisce ad ogni schema, ad ogni regola. È una donna moderna, più moderna di tante donne dei nostri giorni. E ciò soprattutto per amore dell’arte e poi per amore di Elpidio che non avrebbe mai potuto sposare. L’entusiasmo e il sacrificio che aveva dedicato alla creazione del Vascello conteneva in sé certamente la speranza che l’opera d’arte potesse sopravvivere ai secoli. La stoltezza umana, la violenza, il desiderio di potere, troppo spesso travolgono e distruggono anche ciò che di unico ha creato l’uomo. Questo fu il destino del Vascello, della cui fine la Mazzucco ci racconta nei capitoli di “intermezzo” ambientati nei giorni degli scontri con i francesi, nel 1848, risoluti a restituire al Papa quel potere che la Repubblica romana gli aveva sottratto. È il primo intermezzo che ci mostra le rovine del Vascello come le aveva riprese il fotografo Lecchi, negli altri la battaglia viene seguita attraverso il personaggio di Leone. Vi sono dunque due piani di narrazione nel romanzo, strettamente legati. Uno ci racconta la nascita dell’opera d’arte, l’altro la sua fine, uno il genio dell’essere umano, l’altro la sua stoltezza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    21 Dicembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Nel fumo dell'oppio

Quel Christopher Banks, protagonista di “Quando eravamo orfani” di Kazuo Ishiguro, che aveva trascorso parte della sua infanzia nella Shanghai dei primi anni del novecento, sognando di diventare da grande un famoso detective, si ritrova a Londra negli anni trenta, dopo aver ricevuto la migliore educazione nei migliori college inglesi, sottratto ai genitori di cui non aveva più saputo nulla. Qui, ha modo di entrare a far parte della élite della società britannica e di acquisire quella fama a cui aveva sempre aspirato.
La prima parte di questo romanzo si dipana sulla scia stilistica di “Quel che resta del giorno”, descrive personaggi e ambienti che rispecchiano l’impeccabile rigore di un mondo sempre più lontano dalla modesta realtà quotidiana della gente comune. Il tema fin qui si concentra sull’esigenza evidente del protagonista di dare delle risposte ai tanti enigmi rimasti insoluti nella sua vita, di restituire un’identità a se stesso e al suo amico di infanzia Akira. Difficile per coloro che appartengono per nascita ad un paese e ad una cultura rimanerne legati se poi l’educazione e gli anni della formazione si trascorrono in un altro paese dalle tradizioni completamente diverse. Questo è il dramma di Akira, di origine giapponese, ma educato in quella Shanghai che aveva risentito dell’occupazione britannica della fine dell’800. Parte importante nel romanzo assume il tema del commercio dell’oppio, che vede impegnati su fronti opposti proprio i genitori di Christopher e che sarà al centro del mistero che li avvolge.
L’ultima parte dell’opera subisce un brusco cambiamento: alla narrazione scorrevole, chiara nei contenuti e nella forma, si sostituisce un racconto non più lineare, ai limiti tra sogno e realtá, che confonde e lascia increduli. È pur vero che Ishiguro avrebbe successivamente scritto “Non lasciarmi” e “Il gigante sepolto”, romanzi nei quali la sua tendenza verso il fantastico si sarebbe esplicitata in tutta la sua chiarezza, ma qui siamo ancora lontani da quel traguardo.
Nel suo complesso “Quando eravamo orfani” affronta temi interessanti ma stupisce e delude per l’inversione di rotta delle ultime cento o centocinquanta pagine. Siamo lontani dalla limpidezza narrativa e contenutistica di “Quel che resta del giorno”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

il tempo, la luce, la vita

Un romanzo che lascia trasparire la vena poetica dell’autore, “Luce d’estate ed è subito notte” di Jón Kalman Stefànsson, è una profonda riflessione sul significato della vita, sulle dinamiche che segnano l’esistenza umana. Il tempo appare dilatato in questo luogo remoto in terra d’Islanda, dove il clima, la luce e il buio condizionano il carattere e l’umore degli individui.
Un mondo apparentemente minimalista, in cui si muovono piccoli antieroi, che si dibattono tra realtà e immaginazione, i cui sogni naufragano spesso in un mare di delusioni e inganni. Amore, morte, sesso sono i temi ricorrenti di questo romanzo, come è giusto che sia in un’opera che ci parla della vita attraverso personaggi diversi tra loro, che condividono tuttavia l’appartenenza ad una terra che sembra più vicina al cielo proprio per la sua lontananza dalla turbolenza e dalle inquietudini del mondo globalizzato. Eppure anche qui la disperazione dell’anima si manifesta in episodi tragici, a volte violenti, a voler sottolineare che non esiste luogo ideale, non esiste microcosmo perfetto in cui trascorrere una vita serena. Una sia pure accennata aura di mistero sembra voler significare come in fondo l’uomo non cessi mai di affrontare l’eterno enigma della conoscenza, pur sapendo di non potere raggiungerla, proprio come chi, pur credendo all’importanza del calcolo sul quale si dovrebbe reggere il mondo, scopre poi che non si possono contare i pesci, come non si possono contare le lacrime. Un romanzo toccante che raggiunge momenti di grande poesia, pur nella crudezza di certi passaggi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La porta come metafora della vita

Con il suo ultimo romanzo “La seconda porta”, Raul Montanari si conferma, ancora una volta, scrittore di talento, acuto osservatore della realtà che ci circonda, di cui fa un’analisi minuziosa ed equilibrata.
Attraverso l’uso originale della metafora della porta, egli pone a confronto due mondi diversi e contrastanti, quello di Milo, il protagonista, e quello di Adam, rifugiato e fuggiasco. La porta, infatti in sé ha una duplice funzione: da una parte stabilisce un contatto con il mondo esterno, dall’altra può escluderlo. Essa, dunque, può essere mezzo di crescita se aperta a esperienze diverse e molteplici, ma al contempo garanzia di sicurezza se chiusa a ciò che è estraneo e che costituisce motivo d’inquietudine.
Da qui il tema centrale del romanzo, una riflessione ben articolata sul problema dell’immigrazione, dell’accoglienza, dei rapporti con chi si considera “diverso” per religione, per etnia, per orientamento sessuale. È un discorso che comprende valutazioni basate su un concetto di pietas diverso in ogni individuo e valutazioni più generiche che attengono più specificamente alla politica.
Non a caso Montanari afferma: “Quelli che sono favorevoli all’accoglienza devono fare discorsi complessi, spiegare che l’ondata migratoria non si può arrestare, ma solo gestire, magari risalire alle responsabilità dell’Occidente [……] dire che il mescolarsi di razze è cosa positiva […..]. I populisti di destra fanno un discorso semplicissimo: questa è casa nostra, stiamo bene senza di loro, cacciamoli fuori. Stop. [….]”
Il rapporto Milo – Adam offre all’autore l’opportunità di valutare tutte le difficoltà reali che il tema dell’immigrazione solleva, al di là di ogni retorica o di paternalismo, che rischierebbe di degenerare in un buonismo ipocrita. Adam, infatti viene visto nei suoi lati positivi, senza però trascurare né i suoi difetti né le sue colpe. Così la generosità di Milo si alterna a momenti di diffidenza e sfiducia, specialmente nel momento in cui si trova a dover gestire situazioni di potenziale violenza.
Nonostante la serietà del tema centrale del romanzo, il racconto è alleggerito dal susseguirsi di eventi che creano suspense e rendono la lettura scorrevole e piacevole.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
230
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    28 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Il Picaro dei nostri giorni



Eccolo il Picaro dei nostri tempi, cambiato, si, dal Lazarillo de Tormes o dal Tom Jones furbi e furfantelli dei quali abbiamo letto con passione le avventure, cambiato per l’atteggiamento nei confronti della realtà che lo circonda, a causa della precoce consapevolezza che lo fa sentire da subito un outsider, eppure sempre lo stesso picaro nella sua spasmodica ricerca di riscatto e di integrazione in una società che istintivamente gli è ostile.
È lui, è Amerigo, il protagonista de “Il treno dei bambini” di Viola Ardone, uno di quei bambini napoletani, scelti, grazie a un esperimento messo in opera dal Partito Comunista nel 1946, perché trascorressero un certo tempo con famiglie del nord Italia, al fine di alleviarne almeno temporaneamente i disagi dovuti a una condizione di vita di estrema indigenza.
Attraverso i suoi occhi veniamo a conoscenza di personaggi molto ben caratterizzati e veniamo a contatto con un ambiente degradato ma carico di umanità e proteso verso quella solidarietà che è elemento essenziale del principio di accoglienza. La crescita di Amerigo avviene tra dolorose separazioni e ricongiungimenti, in un alternarsi di affetti persi e ritrovati. L’amore per la madre che ama profondamente ma di cui percepisce i limiti, lo seguirà sempre e sarà al centro del loro rapporto sofferto fatto di silenzi e sentimenti inespressi.
Al di là della trama, ben costruita, ciò che colpisce è l’operazione che Viola Ardone fa sul linguaggio. Nella prima parte del romanzo la narrazione è affidata ad Amerigo bambino:egli dunque si esprime come un qualsiasi bambino di umile estrazione sociale, che non ha dimestichezza con le regole dettate da una discreta istruzione. La sua mamma è analfabeta, firma con una croce, non sapendo scrivere neanche il suo nome. Amerigo sa scrivere, ma il suo linguaggio è povero e scorretto. La Ardone riporta efficacemente per esempio l’uso dei verbi intransitivi in modalità transitiva, come spessissimo accade nel linguaggio corrente di tanta popolazione del sud. Un’operazione di tipo sociologico che contribuisce a dare maggiore veridicità al racconto. Nella seconda parte, Amerigo, ormai colto signore di mezz’età, si esprime in modo del tutto diverso: grammatica e sintassi testimoniano anni di studio e di riscatto sociale.
Originale anche l’uso di nomi simbolici attribuiti ai personaggi: il cognome di Amerigo è Speranza, e infatti la speranza di una vita migliore sarà il motivo che lo spingerà lontano dalla famiglia di origine, mentre Benvenuti è il cognome della famiglia che lo accoglierà e che diventerà poi suo dopo l’adozione. È quindi proprio il tema dell’accoglienza ad essere centrale in questo bel romanzo. Un tema di grande attualità, che porta alla luce il dramma dell’abbandono della terra d’origine e degli affetti, un dramma di fronte al quale troppo spesso ci mostriamo insensibili. Un romanzo profondamente radicato nella realtà in cui abbiamo vissuto e viviamo tuttora. Commovente senza eccessi. In una parola: bello.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    21 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Come raccontare la storia oggi


La letteratura, si sa, è espressione di un’epoca, ne interpreta le tensioni, le contraddizioni, le aspirazioni sociali e politiche. Il romanzo, con la sua prosa, ora semplice, ora complessa, è stata ed è la forma più idonea a raggiungere un vasto pubblico. Tra tutte le forme di romanzo, quella che oggi torna ad essere al centro dell’interesse dei lettori è il romanzo storico. Certamente cambia la narrazione se si considerano le origini del genere, dai tempi di Walter Scott o di Stendhal o anche di Alessandro Manzoni. In quei casi ci troviamo di fronte a periodi storici ben documentati sullo sfondo dei quali si muovono personaggi del tutto fittizi. Il mutare dei tempi, una realtà complessa e inquietante, fatta spesso di violenza e disincanto hanno prodotto un nuovo genere di romanzo storico che può senz’altro definirsi romanzo-documento. Certamente non si può negare l’insegnamento del passato, ma oggi si sente l’esigenza di far muovere sulla scena personaggi realmente esistiti, sia pure a volte celati dietro maschere, unicamente per motivi di rispettosa opportunità. Nascono così opere come “M, il figlio del secolo” di Scurati, documentatissimo romanzo sull’ascesa di Mussolini, o anche “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci, la storia vera della famiglia Florio. È con questa esigenza di realismo che si muove anche Antonio Iovane, che ricostruisce, dando spazio alla fantasia solo quel tanto necessario a soddisfare il legittimo istinto creativo dell’artista, uno dei periodi più bui della storia italiana, dalla strage di piazza Fontana al rapimento Dozier.
Ciò che è interessante, in questo libro, è che il lettore ha la possibilità di muoversi insieme ai personaggi, ponendosi dal loro punto di vista di fronte agli eventi narrati. Con equilibrio e mai con faziosità Iovane rappresenta le illusioni e le disillusioni di un gruppo di giovani fanatici di un’ideologia degenerata in azioni disumane e aberranti, così come rappresenta le contraddizioni esistenti nel mondo dell’informazione, della politica, delle forze dell’ordine. Un mondo dove tutti sono buoni e cattivi, dove l’uomo riesce forse solo nel suo incoffessabile intimo ad ammettere la verità su se stesso.
Un accenno doveroso si deve alla copertina, che rispecchia il contenuto del libro: un’immagine, che con una certa audacia si potrebbe definire “cubista”, rappresenta un volto umano scomposto. È questa la condizione dell’uomo contemporaneo, dell’uomo in assoluto, alla ricerca di una ricomposta unitarietà del proprio essere. Un’immagine che non si riferisce solo al protagonista, dunque, ma a ogni personaggio del libro, espressione della nostra tormentata epoca.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    13 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

“La musica non è un suono ma un concetto” (Schonbe

L’arte, ogni arte, coinvolge sensi e anima di ciascun fruitore. Ciò, ovviamente, a livelli diversi, secondo le conoscenze e le esperienze specifiche di ognuno. Solo alcuni riescono a cogliere e penetrare il vero significato, le sottili sfumature, la specificità di un’opera d’arte. Per giungere a questo occorre uno studio costante e approfondito. Dunque l’arte è accessibile solo a una élite che abbia ad essa dedicato tempo ed energie? No assolutamente no. L’arte è patrimonio di tutti e ogni interpretazione, ogni esperienza da essa derivata aiuta a crescere e ad ampliare la conoscenza del mondo che ci circonda.
In questo libro dal titolo significativo “Assolutamente musica”, significativo perché solo di musica si parla, sciolta, libera da divagazioni in altri campi, Murakami Haruki ha raccolto le conversazioni avute con il grande direttore d’orchestra Ozawa Seiji, sul tema del rapporto tra spartito ed esecuzione, della necessaria sintonia tra direttore e solista, tra direttore e altri elementi dell’orchestra.
I dialoghi svelano l’importanza di certi aspetti dell’esecuzione e dell’interpretazione musicale che sfuggono all’orecchio inesperto dell’ascoltatore, il significato delle pause, la difficoltà di tenere a lungo una singola nota, l’abilità di orchestra e solista ad intendersi. Ogni orchestra suona a modo suo, ha una sua interpretazione d’uno spartito e il suo suono cambia con il direttore, ma mantiene il suo carattere originale, tuttavia il direttore troppo rispettoso del parere dei musicisti va incontro a difficoltà nel dirigere. Dunque è importante la cura del dettaglio, la tempestività con la quale i musicisti colgono la segnalazione del maestro a entrare. Ozawa e Murakami si trovano d’accordo nel sottolineare che lo stile dell’orchestra assomiglia allo stile dello scrittore. Anche per chi scrive la parola e l’insieme delle parole sono musica. Se un componimento letterario non ha musicalità, non ha ritmo difficilmente avrà successo. Non a caso le opere di Murakami sono tutte scandite dal suono di celebri brani.
Il rapporto direttore-musicisti è importantissimo. Il direttore comunica la sua interpretazione dello spartito attraverso una gestualità a lui propria, in un gioco che coinvolge corpo e intelletto, con un risultato unico. Interpretare un compositore vuol dire averne approfondito l’epoca, averne compreso la sua visione del mondo. Qui il dialogo si sofferma sia pure brevemente sulla analogia tra l’interpretazione di un’opera pittorica e un’opera musicale. Non a caso si accenna a Mahler, a Klimt e a Schiele nelle cui opere ben si capisce la rottura col mondo tedesco, la fine di un’epoca.
Murakami e Ozawa si soffermano poi anche su jazz e lirica, concordi sull’importanza e l’interesse di ogni genere musicale, per concludere con un’importante affermazione: “Per creare la buona musica, innanzitutto è necessaria una scintilla, poi la magia. In mancanza di una delle due, niente buona musica.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Sicilia generosa e tiranna

Ci sono tutte le grandiose potenzialità della Sicilia, insieme ai suoi indiscutibili limiti, in questo bellissimo romanzo di Stefania Auci, che ci racconta, sullo sfondo di quasi un secolo di storia, dalla fine del settecento al 1868, dell’ascesa dei Florio, poverissima famiglia di origine calabrese, giunta nell’isola determinata a crearvi una sorta di impero industriale. Storia di immigrazione dal sud verso un sud che offre maggiori attrattive e possibilità di guadagno. Difficoltà di integrazione, solitudine e isolamento iniziali, nostalgia dei luoghi abbandonati, orgogliosa e pervicace tenacia nel non mollare di fronte agli ostacoli: questo ciò che attende Paolo e Ignazio Florio, questo è ciò che fa soffrire Giuseppina, moglie di Paolo, che ha seguito il marito assai malvolentieri.
La narrazione della Auci è scorrevole e assai ben inserita nello sfondo storico, ben documentato. Non è arbitrario dire, a mio giudizio, che proprio attraverso la lettura degli avvenimenti succedutisi nei quasi ottant’anni in cui i Florio hanno potuto radicarsi e superare le numerose barriere costituite principalmente da pregiudizi sociali, è più facile comprendere la complessità d’una terra piena di contraddizioni, ma altresì affascinante e coinvolgente. Le dominazioni subite, da quelle francesi a quelle inglesi, al dominio dei Borboni, che privilegiavano Napoli rispetto a Palermo, i moti rivoluzionari, tutto ciò ha posto le basi per creare scontento e ribellione in ogni ceto, dai più poveri, sempre ignorati, agli aristocratici, frustrati e delusi.
In questa atmosfera i Florio si trovano ad agire il più delle volte con arroganza e prepotenza, facendone spesso pagare il prezzo alle persone a loro più care. E sono sempre le donne, specialmente in un’epoca in cui non si poteva certo parlare di emancipazione, a subirne le conseguenze più amare. Vittime, sia pure in modo diverso, Giuseppina e Giulia: nessuna scelta è a loro concessa, né del luogo in cui vivere, né dell’amore da manifestare alla luce del sole. Figure molto diverse, ma legate in fondo da un destino comune. In questo mondo maschilista prevale la prepotenza, unico mezzo per affermarsi e farsi notare, soprattutto tra gli aristocratici attenti al lignaggio e ai beni posseduti. Un mondo in cui se non si è leoni si soccombe, dove è l’erede maschio che segna il destino delle famiglie, come nel caso di Ignazio, figlio di Vincenzo, la cui nascita restituisce alla madre quella dignità che le era stata negata.
“Il futuro ha smesso di essere un banco di nebbia al largo” – questo ciò che sente Vincenzo alla nascita del figlio.
Un libro questo, che ci riporta a tratti ad altri grandi siciliani, da Verga a Pirandello, a Tomasi di Lampedusa e che fa persino pensare alla Filumena Marturano di Eduardo per la figura di Giulia. Un libro in cui la storia reale si mescola con equilibrio alla fantasia, indispensabile per raccontare sentimenti, passioni, emozioni, rancori. Ed è proprio questa caratteristica che ne fa un romanzo-documento importante non solo per conoscere la storia della famiglia Florio che ha saputo creare da una semplice piccola aromateria un impero commerciale che ha esteso i suoi interessi nei campi più vari, dal vino, alle tonnare, alle navi da trasporto, ma è importante anche perché meglio ci introduce nel cuore di questa terra generosa e diffidente al tempo stesso, che molto concede e tanto si attende, una terra che è più facile comprendere se le si è vicino per origine e cultura, che non si può fare a meno di amare, nel bene e nel male.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    27 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Bisbetica e mai domata

Una figura imponente quella della rebetsin Perele, protagonista de “La moglie del rabbino” di Chaim Grade: ambiziosa, intollerante, a volte perfino spietata, sacrifica ogni affetto pur di riuscire infine a rivestire nella societá quel ruolo al quale aveva sempre aspirato. Una storia in cui la sfera privata è strettamente legata a quella pubblica, largamente condizionata dalla componente religiosa più integralista. Sullo sfondo la problematica della diaspora, la contrapposizione tra sionismo e antisionismo. In una società dominata da figure maschili, Perele rivendica per sé un ruolo di primo piano che la ripaghi dell’umiliazione subita da giovane,quando si vide respinta da un promettente giovane intellettuale, futuro brillante rabbino che aveva visto in lei una donna malvagia e ambiziosa. E tale si rivela Perele, una donna di potere, in un mondo maschilista, pronto a criticarla per gli intrighi che riesce a tramare. Un personaggio sgradevole e spregiudicato per molti aspetti, moderno e certamente plausibile se lo si mette in relazione con il mondo e la società contemporanei.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Giugno, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

“La speranza è l’illusione che ci mantiene in vita

Consideriamo il cristallo, come lo si trova in natura, osserviamo la sua poliedricità. Nessuna faccia è identica all’altra. Così è la psiche umana. Essa assume aspetti e caratteristiche diverse in ogni singolo individuo. È questa la prima riflessione che sorge spontanea leggendo l’impegnativo romanzo di Daniele Sannipoli “A tua immagine e dissomiglianza”. Il rapporto uomo/realtà circostante varia con il variare delle condizioni materiali e spirituali del singolo. Nessuna realtà è uguale a un’altra, nessun individuo reagisce allo stesso modo. Qui il racconto, che rivela una buona conoscenza delle dottrine filosofiche, si concentra sul confronto Dio/uomo, Padre/figlio, sulla frustrante ricerca di una perfezione che avvicini il soggetto al modello o di una dissomiglianza che da esso lo allontani. Ed è alla parola che Sannipoli affida il suo pensiero, che si materializza in una potente capacità espressiva.
Il dolore è una costante nella narrazione, il dolore da affrontare, da gestire, da annullare, come costante è la consapevolezza che la cessazione di ogni dolore può coincidere solo con la morte. Eppure in questa cosciente analisi del mondo problematico in cui si dibatte l’individuo, c’è ancora posto per l’amore e per la speranza e per una vita che rinasce. Non a caso il primo capitolo è affidato alla voce di una cellula, la struttura più piccola di un organismo vivente che pronuncia queste parole: “Non ho più paura della morte, perché in questo istante, eternamente presente, ogni volta risorgo.”
Splendido il paragrafo che chiude il romanzo:
“E’ del colore dell’alba il mare stasera. Il morso del sale sulla pelle, la sabbia incrostata sulla pianta dei piedi, il bagno d’indaco e rosa tra le dita del cielo. Non c’è separazione tra l’orizzonte dell’acqua e l’altezza della luna, lo spazio collassato nel ceruleo eterno della fine. Il lucore tenue del tempo è durato lo spazio di un amen. Già non sono più corpo, risalgo i fondali del mare, schiuma sulle onde in un equoreo orizzonte. Plancton primordiale, galleggio, come un corpo morto, nel diaframma espanso di un respiro e mi libro, leggero, nell’aria. Sono la salsedine che riveste i capelli, desquama la pelle, sono una molecola d’acqua che nutre una pianta, inane germoglio di arbusti secolari, millenari, inabissati nel verdazzurro quieto di abissi profondissimi. Nudo e cristallino, vegetale e minerale, consumato dalla fiamma della vita, fossilizzo, bianco e calcareo, nella tiepida aria che soffia su un campo di grano. Sacro e primordiale, soffio via silenzioso. Non ho rimpianti, non ho rimorsi, non spero nella vita eterna, sono una preghiera della terra, che torna alla terra.
Muoio e sono in pace.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    24 Mag, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La scomparsa delle ideologie

PERICLE, DISCORSO AGLI ATENIESI, 431 A.C.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
(Tucidide)

Ecco, per commentare l’ultimo romanzo di Claudia Pineiro, “Le maledizioni”, partirei proprio da qui: dal discorso di Pericle agli ateniesi, come ci giunge attraverso Tucidide. È un discorso sull’essenza e sull’importanza della democrazia, un discorso che detta le linee guida di una buona politica. E tutto ciò potrebbe essere portato ad esempio come modello di governo ideale nella polis ateniese, se non fosse poi stato tutto smentito nel dialogo con i Meli, dal quale traspare la forte tendenza imperialista e brutale di Atene. Da ciò si evince il divario tra la politica espressa nelle idee e quella realizzata nel vivere quotidiano. Oggi questo divario non esiste neanche più nella misura in cui non esistono più né idee né ideologie. È questo il tema centrale del romanzo della Pineiro, che si snoda intorno a figure mediocri impegnate nella cosa pubblica, con fini utilitaristici ad personam. La politica oggi soffre del male inevitabile causato dal progresso della tecnologia. Tutto è velocizzato, la comunicazione deve essere rapida, breve ed esauriente. Il tweet a cui si affida il moderno persuasore delle folle non deve superare i 280 caratteri, il suo contenuto dunque deve riguardare le cose essenziali e fondamentali che vuole trasmettere senza indulgere in considerazioni di tipo ideologico o filosofico. Insieme alla rapidità nella comunicazione, altro elemento fondamentale è l’immagine di sé che il politico vuole trasmettere, un’immagine del tutto fittizia, basata su una famiglia perfetta, che alleva figli secondo i più tradizionali canoni borghesi. Ma l’inganno non può protrarsi a lungo. La carriera politica di Rovira, uomo senza scrupoli, che ha scelto di circondarsi di fedelissimi pronti a tutto, si scontra con la coscienza mai del tutto sopita del giovane Romàn, collaboratore scelto tra tanti grazie alle sue mediocri qualità intellettuali e alle scarse ambizioni che tuttavia non reprimono in lui quei valori e quei principi che costituiranno il punto di partenza per il suo riscatto.
Un’analisi lucida e spietata della realtà politica attuale, che non lascia grande spazio alle illusioni. Compromesso, corruzione, criminalità si intuiscono e divengono quasi palpabili in un mondo che fa dell’ambizione un naturale modus vivendi.



Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Mag, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Repetitio est mater studiorum

“Qualcuno di noi la Storia se la porta nelle ossa, e nelle nostre ossa la Storia trivella dolorosamente e non c’è medicina che possa placare il dolore. Noi la Storia ce la portiamo nel sangue e nel nostro sangue la Storia circola in modo silenzioso e distruttivo …”
Ciascun individuo, dunque, deve, prima o poi, fare i conti con la Storia. Anche chi sembra non essere parte attiva o protagonista degli eventi che ci riguardano tutti, prima o poi ne è inevitabilmente coinvolto. È quanto emerge in questo “romanzo documentario” di Dasa Drndic che ci consegna un numero nutrito di testimonianze e atti attestanti le aberrazioni e le atrocità perpetrate dal nazismo, riportate a margine di una storia d’amore rivelatasi inganno e fonte di sofferenza. Al centro una bellissima Trieste, tristemente nota per la risiera di San Sabba, in cui il destino di ognuno si intreccia con quello dell’altro. Il dolore prevale su tutto. E all’orrore dei lager si aggiunge la denuncia dell’abominevole piano di Himmler, noto come progetto Lebensborn, che oltre all’assurda quanto orrida intenzione di dare origine ad una pura “razza” ariana, selezionando i soggetti idonei alla procreazione, genera immenso dolore in quelle madri che vengono private dei loro figli.
Un libro corposo che non rifugge dal pubblicare lunghissime liste di nomi di individui che hanno trovato la morte nei lager nazisti. Dietro ogni nome si nasconde una vita, un bagaglio di affetti e sofferenze.
“Dal ripetersi della Storia dovremmo pur imparare qualcosa, Repetitio est mater studiorum, ma nonostante la Storia si ripeta caparbiamente, noi siamo dei pessimi studenti” Se dunque l’uomo è restio ad accogliere gli insegnamenti del passato, a lui non resta che avviarsi inesorabilmente verso quella terra desolata che egli stesso, con la sua follia, ha contribuito a creare, chiedendosi con Eliot: “Shall I at least set my lands in order?”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Aprile, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Volare è il sogno segreto dell’uomo.

In questa raccolta di sedici testi, Jonathan Franzen tratta con lucidità ed obiettività del pericolo concreto che l’umanità tutta sta correndo di estinguersi nella sua irrazionale e mal programmata corsa verso un progresso irresponsabile. Non si tratta di una posizione retriva nei confronti del giusto progredire della scienza, che sarebbe follia fermare ad un pregiudizievole stallo, quanto piuttosto di una disamina di quanto possa essere dannoso non considerare i reali rischi di una programmazione superficiale ed egoistica. Non c’è dubbio, sostiene Franzen, che molti, troppi danni sono già stati inflitti alla natura e in generale al mondo che ci circonda. Le stime statistiche sono persino indulgenti rispetto a quella che è la realtà. “Lo scienziato che prevede con sicurezza un riscaldamento di cinque gradi entro la fine del secolo, potrà magari dirvi, in privato, davanti a una birra, che in realtà se ne aspetta nove.”
Il discorso di Franzen parte da una considerazione puramente letteraria per poi affrontare l’argomento da una posizione più specificamente naturalista.
Consideriamo, egli dice, quanto si sia diffuso l’uso del tweet, conciso, rapido ed efficace nel comunicare opinioni, idee, considerazioni. La velocità del tweet entra certamente in competizione con la lunghezza dell’articolo o del saggio, tuttavia non permette l’approfondimento del tema, lascia ogni argomento ad un livello di superficialità che non è di aiuto né alla cultura né tanto meno alla politica. Che alcuni capi di stato affidino le considerazioni e le decisioni del proprio agire ai 280 caratteri ammessi dalla piattaforma twitter sembra essere persino poco rispettoso nei confronti di coloro che li hanno delegati a operare per gli interessi delle nazioni che rappresentano.
Dal punto di vista più specificamente naturalistico, Franzen affronta l’argomento da birdwatcher, da appassionato ambientalista che ha potuto constatare nei suoi frequenti e ricorrenti viaggi la scomparsa di numerose varietà di uccelli, vuoi per le conseguenze del riscaldamento del globo terrestre, assai più serio di quanto si dica, vuoi per quella indiscriminata e folle passione per la caccia. Basta prendere atto di quella realtà che ha portato all’estinzione di molte specie di uccelli nell’Europa dell’est, meta di turismo venatorio. “Oltre ai considerevoli danni immediati che provocano, i turisti della caccia italiani hanno introdotto il principio del massacro indiscriminato e nuovi metodi per conseguirlo, in particolare l’uso dei richiami registrati, catastroficamente efficaci nell’attirare gli uccelli. […..] Questa nuova sofisticatezza [..…] ha trasformato l’Albania in un gigantesco buco nero per le correnti migratorie dell’Europa Orientale: milioni di uccelli vi entrano e pochissimi ne escono vivi.”
Nella sua ansia di girare il mondo per constatare di persona le condizioni in cui versa il nostro pianeta, Franzen si spinge fino alla fine della fine della terra, col desiderio di vedere il pinguino imperatore. Si, gli uccelli per Franzen sono importanti e dovrebbero esserlo per ciascun essere umano perché a loro è concesso ciò che l’uomo ha sempre desiderato fare ma che riesce a realizzare solo in sogno: volare.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    07 Aprile, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Quando si fermano le lancette.

Una storia di vuoti e di assenze, “Addio fantasmi” di Nadia Terranova è un bellissimo romanzo che segue l’evolversi del dramma interiore della protagonista mai in pace con il mondo dall’abbandono improvviso del padre, scomparso nel nulla. Sono proprio tali abbandoni che provocano nei bambini e negli adolescenti sensi di colpa ingiustificati, che creano in essi un senso di inadeguatezza rispetto a chiunque li circondi. Così Ida ritorna a Messina, la sua città, ormai lasciata da tempo per stabilirsi a Roma con il marito, chiamata dalla madre, per decidere della vendita della casa ormai quasi fatiscente, dopo anni di trascuratezza, dopo anni in cui l’amore non vi ha più abitato. Qui Ida ritrova il suo passato di bambina e adolescente, rivede i momenti in cui era parte di una famiglia felice e i momenti in cui la felicità stava svanendo mentre la depressione devastava la mente e il cuore del padre. Difficile sopravvivere nell’inconsapevolezza delle motivazioni che spingono un uomo a una scelta così drammatica, ad un allontanamento senza una parola di saluto o spiegazione, e chiedersi se sia morto o sopravvissuto altrove lacera il cuore di Ida che vede nella madre la maggiore responsabile della fine di una vita felice. La serenità di Ida bambina si è fermata alle sei e sedici, con le lancette dell’orologio che hanno segnato il momento più doloroso della sua vita, quando cioè suo padre ha chiuso dietro di sé la porta di casa, tagliando bruscamente con il passato, con gli affetti, con i doveri e le responsabilità. Ora dopo anni di sofferenza interiore, Ida deve far ripartire quelle lancette, deve ricostruire la sua vita, e guardare alla madre con occhi diversi, più compassionevoli e comprensivi. Un cammino difficile e doloroso, che può avvenire solo a contatto con il luogo che l’ha vista crescere, con quella casa che in sé accoglie non solo il vuoto dell’abbandono, ma anche la ricchezza dei ricordi, i profumi delle cose, le voci di chi c’era e di chi c’è ancora.
Un libro profondo, una prosa bellissima, meritatamente segnalato per il premio Strega.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    22 Marzo, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

“Non è ragionevole nutrire speranze nel mondo in c

“Sopra eroi e tombe” è un’opera complessa dai molteplici contrapposti temi: amore e morte, realtà e apparenza, tutto permeato di una tragica ambiguità.
Né si può dire che vi sia un solo protagonista intorno al quale si dipana la storia. Siamo di fronte a personaggi di grande rilievo e spessore, ciascuno dei quali rappresenta una metafora della vita e della realtà. Il più semplice è certamente Martin che si trova ad affrontare tuttavia personalità enigmatiche, talvolta incomprensibili quali Alejandra o Fernando. Proprio questi ultimi due personaggi sono in effetti la chiave del romanzo, nella misura in cui essi rappresentano il lato oscuro della vita, la tragica irrisolta speranza di sedare le inquietudini e la disperazione.
Alejandra è luce e ombra allo stesso tempo, proprio come la vita, ella è infatti la metafora stessa della vita. La sua ambiguità la rende irraggiungibile agli occhi di Martin che soffre terribilmente, consapevole di non potere avere la sua anima e risolvere le sue angosce.
Fernando è personaggio ancora più complesso, egli rappresenta la disperata ricerca dell’uomo di un mondo migliore, senza tuttavia riuscire a interagire con un mondo mercificato e globalizzato. La sua è una vera discesa agli inferi, con lo scopo di trovare una sintesi tra bene e male, e ricreare un sentimento di speranza. È buio il mondo dominante in cui agisce Fernando, come è buio il mondo stesso di Sabato, è lo stesso buio in cui sono immersi i ciechi. Ogni valore si è dissolto, la ragione si è smarrita. Fernando cerca di cambiare la realtà, ma sprofonda nell’abiezione e nella trasgressione estrema. Il suo mondo è popolato delle paure che egli coltiva dentro di sé.
“Il mondo è atroce, ma l’uomo non è un essere ragionevole, perciò la speranza rinasce di continuo.”
La complessità del romanzo non si limita tuttavia ai suoi contenuti, esso è infatti un insieme di diversi generi, dal romanzo sentimentale al gotico, alla satira sociale, al resoconto storico-politico. Una lettura impegnativa anche per la sua discreta lunghezza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienze umane
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Marzo, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

“Ogni parola ha una sua indipendenza e una sua vit

Soffermarsi sul significato di una parola, studiarne le sue origini, approfondirne l’uso che se ne è fatto nel tempo significa effettuare una ricerca storica che ne evidenzi la capacità di cambiare in un vitale processo dinamico.
È attraverso l’esame dell’etimo di dieci parole, tra le più significative nell’uso quotidiano, che, con il suo saggio “Le parole sono importanti”, Marco Balzano riesce a dimostrare come ognuna di esse abbia una storia che muta con il passare del tempo, come si adegui alle esigenze della vita contemporanea, pur mantenendo spesso intatta l’origine e il significato primario. Come ogni individuo conserva in sé l’imprinting della sua origine, pur mutando nel corso della vita con l’accumularsi delle esperienze, divenendo talvolta una persona assai diversa da quella che era in principio, così la parola si evolve e assume vari significati secondo l’uso che se ne fa, o secondo l’ambiente a cui si riferisce. La parola non è solo dunque una convenzione, è un contenitore che accoglie sfumature diverse: la parola dell’agorà non può essere la stessa della piattaforma del web. Essa dunque ci dice molto sui tempi vissuti come su quelli presenti, ha una voce e racconta storie che fanno la Storia.
“Le parole sono importanti” è un bellissimo studio che si addentra nel campo letterario, filosofico e sociologico con grande competenza e che si sofferma su considerazioni di tipo politico, come quando affronta il tema della democrazia e del dialogo o il significato del termine resistenza.
Un’opera breve consigliatissima non solo agli studiosi di filologia, ma anche al lettore che ami conoscere meglio il mondo che lo circonda e trovare risposte a molteplici interrogativi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
230
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    16 Febbraio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La difficoltà di capire il mondo


Romanzo del 1990, “Questa notte mi ha aperto gli occhi” di Jonathan Coe, non mostra ancora la maturità narrativa de “La famiglia Winshaw” e di altre opere successive. Qui il racconto risulta quasi costantemente disorganico. Si potrebbe dire che la forma espressiva rifletta la mediocrità del protagonista, William, musicista in cerca di un’affannosa e disperata affermazione, continuamente frustrato nel lavoro come nell’amore. Proprio l’incapacità di dominare le situazioni in cui si trova è causa di un suo coinvolgimento in uno strano delitto di cui riuscirà a scoprire autore e movente solo alla fine del suo racconto. Lo schema narrativo del romanzo segue la struttura di una composizione musicale e ogni nuova sezione, come ogni nuovo tema è preceduto da una citazione tratta da un brano degli Smiths. Concluso il romanzo, Coe inserisce una sorta di appendice dal titolo V.O. (versione originale), in cui è sempre William al centro del racconto in terza persona. Qui troviamo un William che ha avuto un qualche successo ed è oggetto di un’intervista. Quasi a voler affermare uno dei presupposti iniziali del romanzo, che cioè sono l’impegno e la volontà elementi essenziali per raggiungere l’affermazione e talora anche il successo nel mondo dell’arte.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    11 Gennaio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La vita oltre il dolore

Se coltivare la memoria è indispensabile per salvare la Storia, se coltivare la memoria può servire a evitare di perseverare negli errori e nell’orrore, dimenticare può a volte significare sopravvivere.
È quanto viene spontaneo pensare leggendo il racconto autobiografico di Colombe Schneck pubblicato da Einaudi con il titolo Le madri salvate.
Una vicenda dolorosa che offre qua e là spiragli di luce ma che lascia una profonda amarezza nel lettore indeciso tra comprensione e condanna. Quello che accade a Raya e a Masa nella seconda guerra mondiale, durante i rastrellamenti dei nazisti che portarono alla decimazione della comunità ebraica in Lituania, è qualcosa di indicibilmente crudele. Le loro vite risparmiate a prezzo della separazione dai figli bambini e dalla madre più anziana, è qualcosa di quasi incomprensibile, di inaccettabile. Eppure come ergersi a giudice? Con quale diritto e quale arroganza? In fondo la scelta di Raya e Masa ha garantito la prosecuzione della famiglia, il loro diviene un sacrificio necessario per garantire un futuro ai figli che verranno e una sorta di ferma rivendicazione del diritto alla felicità. Così la famiglia dei sopravvissuti si divide tra chi nasconde un passato terribile facendo prevalere un profondo desiderio di vivere e chi si chiude in una solitudine silenziosa che non ammette oblio.
Una storia che fa riflettere su quanto sia difficile dare giudizi definitivi, condannare o assolvere. Comprendere e perdonare possono essere talvolta la soluzione. Solo talvolta.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
259 risultati - visualizzati 1 - 50 1 2 3 4 5 6

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

Il successore
Le verità spezzate
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
L'anniversario
La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele
La compagnia degli enigmisti
Il mio assassino
L'età sperimentale