Opinione scritta da Angelica Elisa Moranelli

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Narrativa per ragazzi
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Aprile, 2014
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Brutta copia di Hunger Games

//ATTENZIONE SPOILER//

Lo so, devo smetterla con l’approccio al genere letterario bimbominkia visto che ho superato l’età da tempo, ma se non lo facessi ogni tanto, come potrei scrivere le mie fantastiche, meravigliose, appassionate recensioni negative?

Divergent di Veronica Roth è classificato nel genere distopico per adolescenti, ma sarebbe più giusto spostarlo nel genere “romanzo d’amore per adolescenti”. La distopia, infatti, è solo una scusa per raccontarci i primi turbamenti sessuali della sedicenne protagonista Beatrice detta Tris: trentanove capitoli di sguardi, carezze fugaci, baci sfiorati, baci appassionati e infine pippe mentali (il tipico crescendo degli sh?jo manga), alla quale l’autrice appiccica pezzi di fantapolitica, qualche combattimento, un po’ di sangue.

Partiamo dal primo punto: Divergent è un Hunger Games all’acqua di rose (n.b. la trilogia della Collins mi è piaciuta, nonostante i moltissimi e macroscopici difetti, soprattutto presenti nel secondo volume). Non ci sono tributi che si ammazzano tra di loro in un reality, ma ci sono degli “iniziati” che devono conquistare i dieci posti disponibili per entrare a far parte di una delle fazioni in cui la società è divisa, se non vogliono finire a vivere sotto i ponti come barboni (gli Esclusi).

Passo alla trama, così riesco a spiegare meglio il tutto: L’Umanità non è più in guerra: la pace è stata finalmente conquistata dividendo la popolazione in fazioni, ognuna delle quali svolge un preciso ruolo nella società.

I Candidi dicono sempre la verità, non hanno filtri e fanno solo figure di merda (sono anche un po’ cafoni), ma vengono sopportati perché in fondo la loro poca diplomazia li rende abbastanza simpatici. Sono come dei bambinoni che non possono fare a meno di fare battute squallide, ecco. Si occupano, nella società, della Legislazione.
I Pacifici non vengono mai cagati manco di striscio (presumo che ciò accadrà nel secondo e nel terzo): due palle così solo se li nomini (e infatti vengono nominati molto poco). Si occupano di Assistenza Sociale.
Gli Abneganti sono altruisti. L’altruismo è una virtù abbastanza figa, specialmente se il tuo background culturale è infarcito di religione. Gli Abneganti hanno un pessimo gusto in fatto di stile, si vestono sempre di grigio e non hanno manco uno specchio a casa (una botta di vita, insomma). Però sono al Governo e quindi… fuck you.
Gli Intrepidi sono fighi, si vestono di nero, c’hanno i tatuaggi e i piercing. Si occupano di proteggere la popolazione.
Gli Eruditi sono dei secchioni di merda, vogliono avere sempre ragione e leggono libri, una passione blasfema, si sa. Sono i cattivi e sono ricercatori, insegnanti, scienziati. Insomma, tutta gente che adora Satana.

E poi ci sono quelli che, per disgrazia, hanno fallito il test e quindi non sono niente, non servono ad una mazza, si chiamano Esclusi e fanno i barboni sotto i ponti.

continua su http://adelantedelirante.wordpress.com/2014/03/24/divergent-veronica-roth-recensione/

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    09 Gennaio, 2014
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Il Labirinto d'Ambra: fantasy italiana di qualità!

In una torre lontana, così recita la quarta di copertina de “Il labirinto d’ambra”, Plesio Editore 2013 (seguito de “La radice del rubino”, sempre Plesio Editore, 2012), attende, prigioniero in una torre, un giovane principe dai capelli bianchi che Manfredi, cacciatore di taglie di poche parole ma dalla volontà ferrea, deve riportare a casa per incassarne la ricompensa: non potrà farlo da solo, e dovrà dunque affrontare il difficile viaggio attraverso montagne invalicabili, sentieri nascosti, città in rovina e mari misteriosi in compagnia di un gruppo eterogeneo.
La trama non smentisce la premessa: “Il Labirinto d’ambra” promette e mantiene, riuscendo a catturare l’attenzione del lettore grazie alla bravura che l’autrice ha avuto nel costruire un mondo complesso e vario in cui il presente s’intreccia abilmente alla tradizione, alla storia, alla filosofia e alla magia.
Il linguaggio ricorda quello di un’antica fiaba popolare, con un’atmosfera a metà strada fra il mito d’ispirazione greco-romana e gli antichi racconti medievali. Belle ed efficaci anche le caratterizzazione dei personaggi, descritti in pochi ma incisivi tratti. Molto accurate anche le descrizioni dei luoghi e degli ambienti: leggere è come chiudere gli occhi e vedere la scena comparire davanti ai tuoi occhi, complice una geografia studiata meticolosamente e toponimi originali, frutto di uno studio preciso.
Anche i tempi sono concepiti benissimo: molto spesso il racconto s’interrompe per delle digressioni e per introdurre storie di altri personaggi, ma le sottotrame non insabbiano mai la storia, semmai la arricchiscono, la fermano al momento giusto per poi farla ripartire proprio quando deve.
A Gloria Scaioli piace scrivere (e leggere) e si vede, a volte anche troppo: se proprio devo trovare un difetto (il pelo nell’uovo, insomma), è l’eccessivo crogiolarsi nella forma e nelle figure retoriche rischia di rendere in qualche punto poco fluido e un po’ troppo “solenne” il linguaggio. Questo accade più spesso nei discorsi diretti, che a volte risultano poco realistici e non immediati, assoggettati al tentativo dell’autrice di far dire ai personaggi sempre qualcosa di “storico”. E i personaggi, o meglio, il gran numero di personaggi, rappresenta secondo me un altro piccolo problema, non di struttura ma logistico: i personaggi sono tanti, come i cambio scena, e questo a volte disorienta (ma in realtà l’autrice ha pensato anche a questo, infatti ha inserito un riassunto del volume precedente e un un’appendice dei personaggi, pensando, giustamente non solo a se stessa ma ai suoi lettori che così riescono a districarsi nella marea di volti e storie).
Insomma, “Il labirinto d’ambra” è un romanzo scritto molto bene, che merita di essere acquistato e letto, curato nei dettagli e confezionato a dovere: a questo proposito un plauso va alla Plesio Editore, per la qualità dell’editing e in generale della collana, che ne garantisce la serietà come Casa Editrice! Infine una piccola nota sulla grafica: finalmente una copertina di buon gusto (personalmente la trovo bellissima e molto evocativa), nella marea di bruttissime copertine che si vedono in giro!

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Fantasy
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    24 Settembre, 2013
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Romanzo di formazione in un Universo fantasy

Zak Elliot e i Draghi di Mezzamorte è il secondo volume delle Cronache di Aldimondo, saga fantasy per ragazzi di Roberto Recchimurzo dal sapore classico, ma con quel pizzico di modernità che la rende perfetta per i nostri tempi.

La scrittura è fluida, semplice, immediata, adattissima ad un pubblico di lettori adolescenti e pre-adolescenti: nonostante l’ambientazione da fantasy classico, il linguaggio è attuale, scevro da inutili decorazioni, con un umorismo tranquillo e vivace che pervade ogni pagina.

La storia riprende il classico plot a metà strada fra l’avventura e il romanzo di formazione: è la storia di Zack Elliot orfano dalla nascita, che, grazie ad un libraio bislacco, si è ritrovato a vivere un’incredibile avventura in un mondo fantastico, Aldimondo, dove ha dovuto affrontare creature di tutti i tipi e prove di tutti i generi, ragni giganti compresi. Il secondo volume riprende la storia lì dov’era rimasta: Zak ha sconfitto il suo perfido gemello Lord Velvet, ha ritrovato la sua famiglia e si è fatto nuovi amici, ma la guerra non è stata ancora vinta. Così ritroviamo Zak, all’inizio del libro, in viaggio assieme all’amico Vince Von Bleer, nano guerriero di Bassobosco e in procinto di vivere una nuova avventura: una preziosissima reliquia è stata rubata e la terra ha cominciato a tremare, la ladra Lara Orkul, scampata alla morte, ha fatto ritorno dalle terre sconosciute con l’intento di seminare il Caos e, per farlo, è tornata con creature leggendarie: i draghi.

Roberto Recchimurzo mescola abilmente gli stilemi del romanzo di “formazione” con il romanzo fantasy e d’avventura, senza rendere pesante la velata morale dietro il racconto: un ragazzo normalissimo diventa un eroe e si ritrova a dover affrontare prove che lo porteranno, irrimediabilmente, a crescere e ad affrontare il mondo adulto.

Zak realizza il sogno di tutti gli adolescenti: scoprire di appartenere ad un mondo diverso (ci si sente spesso “fuori posto” da adolescenti) e diventare un eroe (ci si sente spesso anche “impacciati”), ma per essere un eroe Zak dovrà agire ogni giorno come tale. Dovrà guadagnarsi l’affetto e la stima degli amici, dovrà recuperare i legami con la sua famiglia e aiutarla e dovrà, soprattutto, affrontare i suoi nemici, non nemici qualsiasi, ma nemici con i quali Zak ha sempre qualche rapporto: nel primo romanzo ha affrontato il suo gemello malvagio (il suo doppio, una specie di lotta contro la parte cattiva di sé, altro elemento da romanzo di formazione), nella seconda parte dovrà affrontare la figlia della donna che suo padre ha rifiutato per sposare sua madre. Ancora un sottile legame che dal passato arriva fino al presente, all’inizio confuso, poi sempre più chiaro.

Ci si affeziona immediatamente a Zak, così come agli altri personaggi, tutti descritti con pochi tratti ma così bene da risultare chiarissimi: il vecchio libraio e mago Vladimir Zellus, la bella e misteriosa Alexandra Zoe, il piumato Granbecco.

Roberto Recchimurzo ha saputo creare, grazie anche ad uno stile sempre coerente con il toni del racconto, un universo fantastico pieno di soprese, il che rende questo romanzo godibilissimo per i ragazzi ma anche per quegli adulti che non hanno rinunciato alla fantasia e all’avventura.

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La letteratura per ragazzi in generale
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Letteratura rosa
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    20 Mag, 2013
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Chick Lit tutta italiana!

ATTENZIONE SPOILER

3 cuori e un bebè di Silvia Mango, della collana Chick Cult della ARPANet è il primo romanzo di genere chick lit che leggo. Silvia Mango utilizza un linguaggio fresco, moderno che rende le circa 400 pagine scorrevoli e ci racconta una vicenda che, com'è tipico della letteratura per "chick", mescola amore, romanticismo, ironia, amicizia, paranoie, cucina, moda, arte.

La prima persona narrante permette di calarsi immediatamente nei panni di Giada, quasi trent’anni, fidanzata con Sandro, ma incinta di Paolo: una situazione assurda, un po’ da “telefilm”, come ammette più volte la stessa Giada.

Giada fa un lavoro fichissimo (che non la soddisfa), lavora in una galleria d’arte, ma purtroppo il suo datore di lavoro è un vero bastardo (e la figlia non è da meno, ovvio): devo dire che mi sono riconosciuta in questa situazione, poiché ho lavorato anch’io in una galleria d’arte e la gallerista era una vecchia stronzissima. Vabbè, autoreferenzialità a parte: i siparietti comici, il linguaggio semplice, veloce, rendono il romanzo gradevole. Questo tipo di letteratura non ha grandi pretese e infatti l’autrice scrive divertendosi (si vede, a volte anche troppo! Alcune scene sono quasi da cartone animato giapponese) e per divertire (ci riesce).

Qualche nota stonata nella caratterizzazione dei personaggi, caricaturali e stereotipati, ma suppongo sia comune in questo tipo di letteratura.

Giada è la versione sfigata di Bridget Jones, non ho mai amato Bridget Jones ma posso dire con certezza di aver odiato Giada dalla prima pagina. Rompiscatole, lagnosa e uterina (è incinta, va bene!, ma a tutto c’è un limite), con le sue paranoie e i suoi attacchi isterici è la Sindrome Premestruale Personificata. Sinceramente non ci si spiega perché sia l’oggetto del contendere di due uomini belli, ricchi e intelligenti.

Gli scompensi ormonali di Giada possono in parte essere giustificati dalla massa di gente assurda che la circonda, fra cui la più normale è proprio l’amica del cuore “new age” che appare e scompare come un’entità soprannaturale.

Giada non ha mai conosciuto suo padre ed è cresciuta con una madre ficcanaso che, a tratti, assume sembianze luciferine, tanto è crudele nei suoi giudizi, ma che si rivelerà saggia e affettuosa.
Sandro è il classico fidanzato perfetto: innamoratissimo, comprensivo, gentile e... pallosissimo. Paolo è l’”altro”, strafigo, in carriera, “stropicciato” e radical chic, somiglia pure a Ewan McGregor... insomma non c’è partita. Peccato che ad un certo punto diventi smielato quanto Sandro (magari avrò il cuore arido, ma ogni volta che uno dei due si è rivolto a Giada chiamandola “piccolina” a me si sono cariati tre denti per l’eccesso di zucchero).

Profondo Rosso e Suspiria (padrone della galleria e figlia) sono, in pratica, due emanazioni del maligno, peccato che alla fine del romanzo diventino una specie di Frate Sole/Sorella Luna, con Profondo Rosso penitente e gentile e Suspiria pentita e in miseria (non vi svelo altro).

Tra supermodelle bionde e secche, dall’aria snob ma dal cuore d’oro che soffrono come tutte noi (e ingrassano come tutte noi!), chef internazionali anticipaticissimi che di colpo diventano mecenati e amiconi, nonché datori di lavoro (il lavoro della vita, ovviamente!), fra ex che tornano come se niente fosse accaduto e amanti/padri che si rivelano per ciò che sono realmente (cioè Mefistofele in persona, senza mezze misure, insomma), fra madri che trovano l’amore e si guadagnano il titolo di madre dell’anno, si giunge al classico lieto fine con una nemesi che neanche nelle tragedie greche: tutti i cattivi vengono licenziati e faranno, si capisce, una fine pessima, tutti i buoni trovano il lavoro della vita, l’amore, il successo.

Insomma, se vi piace il genere, leggete Silvia Mango, perché non ha nulla da invidiare alle colleghe straniere!

Piccola nota sull'edizione della ARPANet: il formato tascabile è carinissimo, il progetto grafico è semplice e si addice benissimo alla freschezza del contenuto, unica nota stonata la formattazione interna, a capo sbagliati, refusi e testi non giustificati (può capitare, lo so, ma visivamente, in un'edizione che sembra così curata, stona!).

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Il diario di Bridget Jones e in genere la chick lit
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    30 Aprile, 2013
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Via The End

Con Via The End, primo volume di una trilogia, Antonietta Mirra dichiara un’intenzione ambiziosa: far aprire gli occhi all’Umanità “su ciò che davvero si cela dietro i concetti di colpa e libero arbitrio”. In sostanza, si parla dell’eterna lotta fra Bene e Male, nella quale, una giovane e brillante psichiatra dovrà vedersela con gli strani medici e pazienti di un istituto d’igiene mentale e con alcune sinistre visioni.

La lettura, però, presenta una serie di intoppi.

Il primo è che mi sono resa ben presto conto che la sintesi che mi aveva attirato, riportata sull’aletta, era, in realtà, l’intera trama del romanzo, comprensiva di spoiler e di finale.
La presentazione (non il riassunto!) ha la funzione di attrarre il lettore, non di raccontargli tutto quello che accade nel libro, togliendogli l’effetto sorpresa e il piacere di fare “congetture”, specialmente se il testo è caratterizzato da una focalizzazione interna (e quindi votato alla suspense).
Ma questo è solo un dettaglio: purtroppo (e dico purtroppo perché odio fare recensioni negative di scrittori esordienti), “Via The End” presenta parecchi problemi, sia nella forma che nel contenuto.

L’impressione è che il romanzo sia stato scritto di getto e mai sottoposto ad editing, in alcuni punti sembra sia il risultato della collazione di scritti di varia natura (pensieri sparsi, poesie, pezzi di racconti) forzatamente messi insieme, con un risultato finale frammentario e poco scorrevole.

Ci sono una serie di ingenuità di stile e veri e propri errori (anche gravi), sia di punteggiatura (la virgola tra soggetto e predicato, punti interrogativi mancanti), di ortografia (“né” scritto senza l’accento, ad esempio), di impaginazione (a capo improbabili).

Gli errori più frequenti sono quelli di stile e di contenuto.

Parto dall’incipit: “il telefono squillò e sembrava che non l’avesse mai fatto prima”.
Esattamente che tipo di sensazione ci trasmette questa frase? Nessuna. Il lettore recepisce soltanto che il telefono squilla, non ricava alcuna informazione aggiuntiva dal fatto che “squilla come se non l’avesse mai fatto prima” perché questa aggiunta, in realtà, non significa niente riferita ad un oggetto.

Ancora: “Samantha alzò lo sguardo dal libro di psichiatria che stava leggendo e guardò l’apparecchio incerta se lasciarlo urlare fino all’inserimento della segreteria o decidersi ad interrompere quella violenza simulata su un oggetto inanime e rispondere senza voglia”.
Troppe parole e l’insieme diventa prolisso e pesante.

Un altro problema riguarda i tempi della narrazione, a volte completamente sballati, con passaggi bruttissimi dal trapassato prossimo al passato remoto: “Samantha lo aveva constatato un anno prima, lavorando in un gruppo di medici della sua città, a cui capo c’era uno degli psichiatri più famosi della regione. Decise di abbandonare quel posto dopo aver assistito a una scena raccapricciante a danno di un paziente che lei non potette in alcun modo evitare”. E questo problema si ripropone costantemente nel testo, dove a volte il passato remoto viene usato nei dialoghi (“andai” / “vidi” sono forme dialettali).

Altro problema, i dialoghi.
1) Chilometrici: è francamente impossibile pretendere di tenere viva l’attenzione di un lettore, quando gli si propone un dialogo in cui ogni intervento dura due pagine.

2) Inutili: spesso comunicano informazioni inutili (tipo: “ciao”/ “ciao” / “come stai?” / “tutto bene, grazie”).

3) Poco realistici: molto spesso utilizzano un linguaggio ridondante, formale, da lettera istituzionale. Esempio: il padre si Samantha, preoccupato perché la figlia non risponde più al telefono, le dice: “Mi ha chiamato ieri [un amico di lei, ndr] dicendomi che tu non rispondi a nessuna delle sue chiamate, rendendoti irreperibile”. L’ultima è un’osservazione ridondante, nessun essere umano preciserebbe una cosa del genere, essendo già chiaro il concetto nella frase precedente. “Mi ha chiamato ieri, mi ha detto che non rispondi alle sue mail” è un po’ più vicino alla realtà, ad esempio. Altro esempio di linguaggio inappropriato in un dialogo: il vice direttore dell’ospedale che dice “[...] altrimenti la faccio subito accompagnare nel suo appartamento, con la promessa di rivederci domani”. Benché la situazione sia formale, gli esseri umani tendono a non parlare come in un testo scritto, nessuno al termine di una discussione concluderebbe dicendo “cordiali saluti”.

Frequentemente nel testo s’incontrano pagine che sembrano uscite da un manuale di psichiatria messe in bocca a persone che stanno parlando in maniera informale e non a un convegno scientifico.

Ancora, il voler a tutti i costi spiegare le sensazioni della protagonista, porta l’autrice a commettere errori di stile come questo: “Il cuore le batteva talmente forte da impedirle di pensare. Nella sua mente il suono dell’organo vitale le rimbombava come se stesse uscendo fuori dal corpo e stesse per schizzare via chissà dove”. L’uso di ”organo vitale” invece di cuore, per evitare la ripetizione, è brutto, in realtà tutta la seconda parte si poteva evitare, perché ripete un concetto già espresso!

Non manca il classico infodump: “in fondo al corridoio c’è l’ascensore, il bagno e l’ufficio del direttore dal quale siamo appena usciti”, nella realtà nessuno avrebbe riportato una notizia evidente ad entrambi i protagonisti della scena.

Altre cose che proprio mi hanno fatto storcere il naso: occhi che “si fissano nel soffitto candidamente bianco”, capelli “buttati indietro con la gelatina”, gente che rimane a fissarsi per dieci minuti senza che nel frattempo accada nulla (provate a fissare qualcuno per soli 30 secondi e vedrete che sono già un’eternità.)

Troppo spesso l’autrice esagera con le metafore e il linguaggio “elegiaco”, dando vita a frasi totalmente nonsense: “le pareti che dovevano essere imbrattate di inchiostro nero, espressione ululante di un intenso delirio dell’animo, sgorgante come fosse sangue dal corpo di un essere impaurito del proprio riflesso perché convinto di esistere solo in quello, erano immacolate come le vesti di una vergine esangue, in cerca di spiritualità che sa di consapevole abbandono”.

Elencare tutti i problemi di stile sarebbe lungo perché, ripeto, sono davvero tanti.

A dire il vero il testo, nella seconda parte, migliora leggermente, anche perché aumenta l’azione.
Il contenuto del romanzo non è originale, ma poteva essere trattato in modo da renderlo attraente per il lettore, il problema reale è come il romanzo è scritto, pesante e pieno di errori. Andrebbero tagliate intere pagine che rallentano la narrazione, senza essere utili alla trama. Insomma, tra la scrittura e la pubblicazione ci sono una serie di tappe intermedie che, in questo caso, sono state saltate a piè pari.

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Romanzi storici
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    11 Aprile, 2013
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Roma non val bene una messa

La conoscenza approfondita della storia e dei costumi di un'epoca, non sono sufficienti per ottenere un buon romanzo, e questo è chiaro.

In “Il tiranno di roma” Andrea Frediani vuole a tutti i costi dimostrare di aver studiato: lo ha fatto, sicuramente. Ma non basta!

Lo spunto non è male, la trama poteva essere interessante, peccato che Frediani si perda nei milioni di dettagli su strategie militari e politiche che affondano i personaggi e non sono uitili all’intreccio. Se poi consideriamo che i POV sono quelli di due schiavi la struttura rivela tutta la sua debolezza. Protagonisti (ma il termine protagonista è esagerato) sono una schiava domestica il cui scopo nella vita è sempre stato quello di servire la sua domina e uno schiavo abituato a stare nei campi: entrambi devono aver avuto poco tempo, realisticamente, per informarsi su cosa accadeva nel Senato di Roma ai tempi di Mario e Silla. Eppure comprendono perfettamente le strategie politiche dietro ogni azione militare.

Alla storia d’amore fra i due personaggi principali (che dovrebbe costituire l’asse portante della trama, lo spunto per l'incontro di due mondi, quello della guerra e quello della pace, quello dei poveracci e quello dei ricchi... tutti elementi che in embrione ci sono, ma che non sono stati sviluppati) sono dedicate una decina di righe. I due si avvicinano, si guardano, è amore, diventano amanti. Il tutto senza un minimo di enfasi e il rapporto tra lo schiavo e Mario è affrontato con la stessa mancanza di passione: cioè stiamo parlando di un vecchio comandante in declino (Mario) ma ancora carismatico, che "salva" uno schiavo al quale ha precedentemente ucciso la famiglia, promettendogli di dargli la libertà. Lo schiavo si dimentica del particolare del massacro familiare, di fronte al grande carisma di Mario e alla prospettiva della libertà, il che può anche succedere, ma dopo un po' di tempo, umanamente. O almeno se l'autore avesse tentato di farci capire di più che tipo è questo schiavo. Questa è soltanto una delle grandi (a mio avviso) debolezze del romanzo.

Una storia asettica, senza passione per i suoi personaggi, con uno stile senza infamia e senza lode, una trama semplice e senza picchi d'interesse, che si risolleva per un brevissimo momento solo alla fine, con una chiusura a sorpresa.

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Romanzi
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    05 Aprile, 2013
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Una storia da tramandare

//ATTENZIONE SPOILER SULLA TRAMA//

"Non era una storia da tramandare.?Così la dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante un sonno penoso."

Così dice Toni Morrison, scrittrice afroamericana Nobel per la Letteratura nel 1993, a chiusura del suo Amatissima, romanzo con il quale vinse il Pulitzer.Una storia da dimenticare, troppo crudele, troppo violenta, troppo umana ma che non si lascia dimenticare.

?Amatissima è una storia di schiavitù, orrore e vendetta. A dispetto del titolo, l'amore è fustigato, fatto a pezzi, ridotto in cenere, proprio come i corpi dei negri schiavizzati. Giganteggia l'amore di Sethe, la schiava nera protagonista del romanzo, per i suoi figli, figli che perde uno per volta, che le sfuggono dalle mani come granelli di sabbia.

L'amore è l'inizio, la morte la conclusione, sempre. Il rancore, invece, veleggia tra le pagine del romanzo dall'inizio alla fine, come lo spirito avvelentato di Amata (Beloved in originale). E con il rancore di una bambina, una bambina che non c'è più, che si apre il romanzo:

"Il 124 era carico di rancore. Carico del veleno d'una bambina. Le donne lo sapevano, e così anche i bambini. Per anni ognuno aveva cercato a modo suo di sopportare il rancore di quella casa ma, nel 1873, le uniche vittime rimaste erano Sethe e sua figlia Denver."

ATTENZIONE SEGUONO SPOILER SULLA TRAMA

Nel 1873 Sethe e sua figlia Denver, sfuggite alla schiavitù, vivono al numero 124 di Bluestone Road, in una casa infestata. Sethe e Denver formano un circolo chiuso, dall'equilibrio perfetto, non intaccato neanche dalla presenza della bambina-fantasma (la prima figlia di Sethe morta). Poi arriva Paul D, un ex schiavo con il quale Sethe condivide il terribile passato alla Dolce Casa, la proprietà dove entrambi hanno servito come schiavi e che di dolce non ha nulla: lì i negri hanno subito violenze inaudite da parte dei padroni bianchi. Da lì Sethe è fuggita, perdendo suo marito Halle, rimasto indietro per consentirle di andare via e salvare i loro figli. Paul D sconvolge l'equilibrio (precario) del numero 124, il fantasma se ne va, ma viene sostituito da una ragazzina ancora più inquietante, che finisce per dominare sul 124 e sui suoi abitanti fino alle estreme conseguenze.

Più Amata diventava grande e più Sethe diventava piccola, più gli occhi di Amata diventavano luminosi e più quegli occhi che non si abbassavano mai diventavano due fessure assonnate.
Amata diventa un'ossessione, corporea e incorporea, capace di spingere alla fuga Paul D (l'unico che era riuscito a dare una sorta di pace mentale a Sethe). Amata è il passato di Sethe che torna con un corpo, un corpo che diventa sempre più grande, che occupa sempre più spazio, crescendo contemporaneamente con il suo spirito. La presenza di Amata si fa così ingombrante che Sethe scompare, preda del rimorso e la verità, che emerge poco per volta, diventa allora orribile: Sethe, in fuga dalla Dolce Casa assieme ai suoi figli, viene raggiunta dal padrone. Per evitare che anche i suoi figli vengano catturati e torturati come schiavi, Sethe decide di ucciderli. Ci riesce solo con la prima, Amata, appunto. E il rimorso per ciò che ha fatto la perseguiterà fino alla fine dei suoi giorni. Il crimine più orribile di cui un essere umano possa macchiarsi, l'infanticidio, è reso ancora più orribile dal fatto che l'assassina è la madre, una madre che ama talmente tanto i suoi figli, da non sopportare l'idea che siano altri ad ucciderli. Vuole farlo lei, giustificando l'azione come un "estremo atto d'amore". A causa di questo, Sethe viene allontanata da tutti.

Il tema dell'infanticidio è il nucleo più cupo e reale del romanzo: un'idea nata da una notizia di cronaca in cui Toni Morrison si era imbattuta durante le sue ricerche. Tutto ciò che si sviluppa attorno, dipinge in maniera indimenticabile l'orrore dello schiavismo, il distacco profondo fra mondo dei neri e mondo dei bianchi (che pure s'incrociano costantemente, benché nel romanzo siano ben separati) e l'oscillare perpetuo dei sentimenti umani fra picchi di odio e baratri d'amore.

"I bianchi credevano che, qualunque fosse la loro educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla"

Ma il colore della pelle, per tutto il romanzo, scompare. I fantasmi non hanno colore. Il passato non ha pelle. Il colore, la pelle, il sangue sono cose da uomini, non da negri e non da bianchi, da uomini e basta. Ci sono negri buoni e negri cattivi, come ci sono bianchi buoni e bianchi cattivi. Bontà e cattiveria non sono nascoste sotto la pelle, ma sono determinate dalle azioni. Ci sono azioni buone e azioni cattive.?E ogni cosa può essere giudicata buona o cattiva a seconda del tempo e degli uomini.?Sethe uccide la sua bambina, che già "gattonava", per sottrarla agli orrori della schiavitù (orrori che lei aveva provato e di cui porta le cicatrici indelebili). L'infanticidio è un orrore, ma Sethe è convinta di averlo fatto per amore. Non per "troppo" amore, come prova a dirle Paul D, perché il "troppo", in amore, non esiste.

"«Il tuo amore è troppo grande», disse. [...]?«Troppo grande?» disse lei. [...] «L'amore o c'è o non c'è. L'amore piccolo non è amore per niente.»"

Questa è una storia da tramandare. E da leggere, sicuramente.

www.miconoscodivista.wordpress.com

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    24 Marzo, 2013
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Ossessioni generazionali

Di Irène Némirovsky avevo già letto “Jezabel”, un romanzo straordinario, in cui il vero capolavoro è la maniera in cui l’autrice sa trattare i suoi personaggi. In Jezabel l’ossessione della madre per la giovinezza porta alla rovina la figlia e anche se stessa. Ne “Il ballo” il tema è più o meno lo stesso: la rivalità fra madre e figlia, la prima ossessionata dalla nuova posizione sociale ottenuta con l’imprevista ricchezza del marito (il tema del parvenu, che resterà sempre un “povero”, per quanti sforzi possa fare per dimostrare il contrario), la seconda ossessionata dalla voglia di “liberarsi” dal giogo familiare, di essere “adulta”, padrona delle proprie scelte. La madre ragiona in termini di spettacolarizzazione: il ballo che si appresta ad organizzare è il vero ingresso nella buona società, è la testimonianza (o il tentativo) di uscire dall’indeterminatezza per affermarsi pubblicamente. Attorno all’organizzazione meticolosa del ricevimento, con l’orchestra, il buffet, gli inviti, si sviluppa l’ossessione della donna per la propria giovinezza, trascorsa in massima parte a desiderare ciò che possiede soltanto ora che non è più giovane. Un amante, essere ammirata, cominciare a vivere: la signora Kampf desidera quello che non ha avuto quando era giovane, lo desidera così tremendamente che non ha alcuno scrupolo a perseguire il suo fine.


Antoinette segue la madre nella preparazione del ricevimento ma, con orrore, si rende conto, quando gli inviti stanno già per partire, che la sua presenza non è prevista al ballo. L’occasione che aspetta da una vita per “cominciare a vivere”, essere ammirata, innamorarsi (più o meno gli stessi desideri della madre, solo che in Antoinette sono perfettamente naturali in quanto Antoinette è giovane!) è già sfumata. Così, sola e piena di rancore, la quattordicenne si prenderà la sua subdola vendetta.

In una manciata di pagine Irène Némirovsky traccia il profilo psicologico di due generazioni a confronto, entrambe in bilico: quella della madre, fra un’insoddisfatta giovinezza e una temuta maturità e quello della figlia, fra una soffocante infanzia e una luminosa giovinezza. I giovani vincono, perché hanno più tempo. Eppure, anche i giovani sono destinati a giungere davanti al confine spaventoso della decadenza.

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Romanzi erotici
 
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    01 Marzo, 2013
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Cinquanta sfumature di nulla

// ATTENZIONE SPOILER// (e c'è pure qualche parolaccia)


Dopo la lettura di Twilight ho coniato un termine che va benissimo anche per 50 Sfumature di Grigio: librominkia. I librominkia sono oggetti per aspetto simili ai libri normali (con i quali tendono a confondersi) ma caratterizzati da poca grammatica, stile piatto, personaggi amorfi e trama ridicola. 50 sfumature di grigio ha scalzato subito la saga di Twilight dal podio e si è spaparanzato sui tre gradini vincendo primo, secondo e terzo posto assieme.

Partiamo dalla (emh) trama, giusto per capire in che universo fantascientifico ci troviamo (copincollo e rielaboro da WIKIPEDIA)

Anastasia Steele (per gli amici ANA, noi la chiameremo ANAL) è una tipica e modernissima ragazza di 21 anni con una vita sociale piena e soddisfacente: non ha un telefono, non ha un computer (la tesi la sta scrivendo su comodi fazzolettini di carta), non fuma, non beve e, soprattutto, non scopa. Ma manco per sbaglio. E non c’ha mai neanche pensato, roba che i panda hanno sicuramente una vita sessuale più attiva.
Questo trionfo di inettitudine sta per laurearsi alla Washington State University di Vancouver in letteratura inglese, si capisce dal fatto che, di ogni tanto, butta lì alla rinfusa, quando non c’entra niente, il nome di un autore inglese, sperando di fare colpo sul prossimo.

Tutto comincia perché la sua amica e convivente Kate, direttrice del giornale universitario, le chiede di sostituirla in un'intervista al famoso, potente e ricchissimo ventisettenne Christian Grey, amministratore delegato Gran Mascalzon., Lup. Man., Pezz. di Merd., della Grey Enterprises Holdings Inc,.
Il primo incontro fra i due si tiene sul luogo di lavoro di Christian: Anal, entrando, inciampa e si stampa come un francobollo sul pavimento (nella mente dell’autrice scribacchina questa scena dovrebbe essere divertente o intrigante?).
Christian è bellissimo, ricchissimo e vuole la sua mamma. Anal è mediamente chiavabile e presenta alcuni evidenti deficit mentali.
E’ amore.

I due cominciano a incontrarsi, Anal interpreta il ruolo della candida rincoglionita che fa tanto arrapare i maschi, Christian, invece, del cattivone dal cuore d’oro che fa tanto arrapare le femmine.
La genialità di E. L. James nello strutturare questa sottospecie di storia raggiunge il suo culmine quando Christian presenta il contratto ad Anal (al quale sono dedicate pagine e pagine e pagine).
No. Non è la batteria di pentole Mondial Casa e neanche l’enciclopedia degli animali. Magari.
E’ il contratto che stabilisce le regole del loro rapporto: Christian vuole fare il Dominatore, perché è stanco di giocare sempre con le automobiline, e Anal, naturalmente, può essere solo la Sottomessa.
Anal accetta e s’innamora di Christian. Christian, nel frattempo, s’innamora di Anal, perché, a differenza delle sue ex, che un barlume di attività cerebrale la dimostravano, Anal ne è totalmente priva.

Così si abbandonano a giochi erotici in cui idiozia e pateticità si uniscono in un connubio inscindibile.
Dopo aver superato le sculacciate, Anal si crede onnipotente, così chiede a Christian di osare ancora di più: Christian, giustamente, la prende a cinghiate e Anal, così, decide di lasciarlo.

Analizziamolo più da vicino. Questa è la prima immagine che abbiamo di Christian Grey:

"Giovanissimo… e bello, bello da morire."

Se vi sembra lo stile di una quindicenne autrice di una fanfiction ispirata a Twilight sappiate che non sbagliate, a parte per l’età dell’autrice. L’opera (emh) di E.L. James nasce infatti dal proposito di “rivisitare in chiave adulta” la saga di Twilight.
Insomma ci sono tutti gli estremi per essere colpiti da un fulmine da Giove Pluvio in persona.

«Un artista locale. Trouton» dice Grey, intercettando il mio sguardo.
«Sono belli. Elevano l’ordinario a straordinario» mormoro, distratta sia da lui sia dai quadri. Lui piega
la testa di lato e mi guarda con interesse.

Traduciamo:
“Un artista locale. Trouton” = “Un imbecille qualsiasi, tale Trouton, che non sarebbe nessuno se il mio genio mecenate non lo avesse elevato ad artista, spingendomi ad affiggere una delle sue opere, che non so cosa diamine vogliano dire, nel mio studio. Questo ti arrapa, vero?”.
“Sono belli. Elevano l’ordinario a straordinario” = “Ora uso quella frase letta sul libro di storia dell’arte delle medie così lo abbatto subito con il mio sapere”.

Christian Grey è, insomma, un odioso pallone gonfiato “maniaco del controllo” che chiama la sua femmina “piccola” con la stessa intonazione con cui chiamerebbe il suo cane e il cui unico merito è essere bello “come un dio greco” e ricco sfondato. Un tipo di maschio eccitante per l’autrice e per Ana, in generale benvenuto come l’amputazione di un braccio. Costui ha la fortuna di incontrare una donna-zerbino come poche che, convinta di essere una femminista, viene comprata pian piano dal cellulare, dal macbook pro ultimissimo modello (che le è stato regalato per poter fare ricerche su google su bondage e palline), dall’automobile, dall’aereo privato e dalle bustine di tè.

La “stanza rossa delle torture” o “stanza dei giochi” o, meglio, ludoteca per maschi che sono stati maltrattati da bambini e ora vogliono prendersi la rivincita con una che assomiglia alla mamma ma che non è la mamma, è descritta come una grande stanza che odora di legno, cera e nella quale troviamo ruote (?), ganci (?) e altri marchingegni non meglio definiti. In questa famigerata “stanza” ci vanno sì e no mezza volta, tra l’altro a fare cose che la maggior parte dei viventi fa normalmente (chi più, chi meno, ora non voglio sindacare sulle vostre abitudini sessuali).

Ana preferisce fare “sesso alla vaniglia”, che sembra una marca di deodorante e invece vuol dire “fare l’amore” con implicazioni affettive, ma MAI, MAI osare dire una cosa del genere a Christian, perché risponderà che “lui non fa l’amore, LUI FOTTE”. Questa frase, che potrebbe essere pronunciata da Marcellus Wallace in Pulp Fiction, e che invece è pronunciata da uno che indossa costantemente pantaloni di lino bianchi, ritorna a cadenza regolare per tutto il romanzo, tanto che alla fine ti chiedi: sì, ma questi due, quand’è che smettono di fare “sesso-deodorante” e iniziano a FOTTERE davvero? Risposta: mai.

Neanche quando glielo dice esplicitamente dopo una sessione di sculacciate («Basta così» grugnisce. «Complimenti, Anastasia. Ora ti fotto.») succede. Anzi, dopo averla sculacciata e “presa” («ora ti prendo, hai il permesso di venire») succede che...

Christian rientra nella stanza. Non riesco a guardarlo negli occhi, quindi abbasso lo sguardo.
«Ho trovato un po’ di olio per bambini. Lascia che telo spalmi sul sedere.»

Una frase così sarebbe in grado di prosciugare l’Oceano Pacifico e far ammosciare la torre Eiffel.

Da come parlano, da come scrivono e da come si comportano, Christian e Ana sono due sottosviluppati che non sanno neanche chi li ha creati e la loro storia può risultare interessante per casalinghe disperate che sognano di tradire il marito grasso, calvo e sudaticcio con l’idraulico.

Questo romanzo, in altre parole, è erotico come una scena di sesso fra Homer Simpson e Sally Spectra, brillante come un tweet di Flavia Vento, seducente come una domanda di Gigi Marzullo.

E naturalmente ne faranno un film.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Febbraio, 2013
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E i vampiri persero la dignità

Non avrei potuto scrivere nulla di cattivo su Twilight e sull'intera saga, senza averla prima letta. L’ho letta quasi tutta, perché arrivata a metà di Breaking Dawn ho alzato bandiera bianca, ma non credo che l'ultima parte del "capolavoro" possa aver contenuto l'essenza del romanzo e la sua ragione d'esistere.

Il punto è, forse, proprio questo: perché certi libri esistono? Non c'è un "dio dei libri" che regola queste cose? Esiste una punizione per chi scrive libri simili, nell’Aldilà dei Libri?

Di Twilight nessuno sentiva la mancanza. Non c'era alcuna necessità che esistesse.
Senza la saga della Meyer (e senza quella di Lisa J. Smith) i vampiri avrebbero ancora una dignità, i denti affilati e la bocca sporca di sangue, non brillerebbero al sole, non sarebbero degli imbecilli completi e, soprattutto, non avrebbero la faccia di Cedric Diggory.

La Meyer scrive come se avesse 15 anni e molti brufoli.
Il ragazzo che le piace non se la fila neanche di striscio, per sfogarsi inizia a scrivere nel suo diario che un tipo bello, ricco, intelligente, “colto” come una pagina di wikiquote e, soprattutto, pericoloso, si innamora della persona più banale del mondo. No, non uno hobbit, ma Bella Swan. Bella Swan è il simbolo della sfiga, della lagna e della femmina che tutti sperano di non incontrare mai.
In perenne sindrome premestruale, non ha una vita propria, succhia energie dal fidanzato, gli sta appiccicata come una cozza allo scoglio e, senza di lui, ha lo stesso valore, nel mondo, di un fazzoletto di carta usato. Non ha un talento, vive solo per il suo uomo, per applaudire qualsiasi puttanata lui dica. Bella prima di incontrare il vampiro Edward “Finish Brillantante” Cullen era una sfigata, dopo aver incontrato Edward è una povera sfigata.
A memoria la peggiore eroina femminile della storia, perfino dopo Puffetta, che una sua funzione comunque ce l’aveva.
Edward dovrebbe interpretare la parte del figo, ma tutto quello che riesce a suscitare in chi legge è irritazione e pietà, complice il fatto che vive con una famiglia di idioti. La sua specialità è sbrilluccicare per stupire le ragazze al primo appuntamento. Questo con una ragazza normale funzionerebbe solo la prima volta, ma visto che parliamo di Bella “ritardata” Swan, la cosa diventa una sbalorditiva sorpresa ogni volta che accade.
Come può essere la storia d’amore tra due esseri simili? Ma, naturalmente, avvincente come la telecronaca della partita di calcetto scapoli/ammogliati del quartiere.
Baciarsi è vietato, perché se no lui rischia di mangiarle la faccia per troppa passione.
Fare sesso comporta la distruzione di buona parte del globo.
Che diavolo possono fare insieme?
Sbrilluccicare e correre come daini su e giù per il bosco.
Questo magari all’inizio può essere carino, ma dopo diventa pesante.
Ma se vi meravigliate che Bella “Palla” Swan, talmente ordinaria, sia riuscita ad attrarre qualcuno, fosse anche un vampiro di terz’ordine, preparatevi a stupirvi ancora. Infatti in una vera storia d’amore di serie ZETA è impensabile non ficcarci il solito triangolo.
L’altro è un lupo mannaro e si chiama Jacob. In quanto ad inutilità viene subito dopo gli stessi Bella ed Edward. Come lupo mannaro si può definire, senza timore di sbagliare, il peggiore della sua razza. Ezechiele Lupo si rifiuterebbe di stringergli la mano e in un ipotetico scontro con i porcellini ne uscirebbe perdente. Non aiuta che l’attore scelto per interpretare il suo ruolo somigli ad un lama.
Il plot dell’intero romanzo si basa su una questione semplice: Bella senza Edward non vale neanche un paio di calzini sporchi.
Il fatto che ci siano dei vampiri cattivi che vogliano far fuori un po’ tutti è secondario e non gliene frega niente a nessuno, neanche alla Meyer, che infatti costruisce un’intera saga (fantasy???) sulla storia d’amore non tra due adolescenti, ma tra due imbecilli che ogni tanto incontrano e si scontrano con qualche altro inutile individuo.

La vera domanda è: come ha fatto una roba simile a diventare un bestseller?

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Febbraio, 2013
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Coltivare nuvole per crescere sani

// ATTENZIONE SPOILER//


L’Albero di Nuvola di Enzo Braschi è un racconto lungo (o romanzo breve) che in 90 pagine circa racconta la vicenda di Stefano, quattro anni, un bambino solitario e riflessivo, che si affaccia alla vita e inizia a contemplarla. La prima “finestra” sul mondo è proprio quella della sua casa, quando un pomeriggio in cui è particolarmente annoiato, affacciandosi per guardare fuori in giardino, Stefano vede una palla di pelo bianca che sembra un gattino smarrito e si rivelerà, invece, una nuvola.
Stefano decide di seppellire la nuvola che, germogliando, diventa un albero grande e grosso, che in sé racchiude i sogni di tanti bambini, sogni che saranno raccontati a Stefano, per insegnargli che la vita è una vicenda complessa e che ogni cosa, anche la più piccola, fa parte di un Grande Tutto.

L’albero di nuvola è un libro per bambini e, come si legge sulla copertina, “il libro che ogni bambino dovrebbe leggere ai suoi genitori”. Qua e là è disseminato di insegnamenti e massime sulla vita: “anche quello che non ci pare di alcuna utilità ha il suo valore” oppure “basta che uno voglia veramente una cosa perché la ottenga. E’ che i grandi non vogliono mai veramente quello che dicono di desiderare”.
La storia è ben scritta, indubbiamente. E se vi piace il genere, può essere piacevole nella sua semplicità e schiettezza (qui e là c’è qualche pecca, come la maniera in cui a volte parla Stefano, un po’ troppo da adulto, per essere un bambino di quattro anni). Volendo approfondire un po’ contenuto, la dicotomia tra sogno e realtà, tra età adulta e infanzia è stata sfruttata un po’ troppo e in qualsiasi modo dagli scrittori per l’infanzia. Se devo far leggere a mio figlio qualcosa che parli di sogni e realtà, di adulti e bambini gli consegno Alice nel paese delle meraviglie, che tutt’ora rappresenta al meglio il genere o "Il Giardino Segreto" o ancora "Peter Pan". Il romanzo, insomma, non aggiunge nulla di nuovo al filone ispirato al “Il piccolo principe”, eccedendo in una visione contemplativa e un po’ troppo zen della vita, procedendo per cliché, a volte anche un po’ irritanti (il bambino incompreso, gli adulti che credono di poter risolvere tutto con la “scienza”, le nuvole, il cielo, i sogni, la vita) e culminando in un finale che non è affatto per “bambini” ma per adulti, con Stefano ormai anziano, che ritorna dal suo albero, dopo una vita di solitudine, per tornare a far parte del Tutto.
La debolezza della storia è, insomma, che nasce come favola per bambini, ma in realtà è il racconto di un adulto per altri adulti, che vedono i bambini come piccole copie di loro stessi, solo con più opportunità.

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Il Piccolo Principe e, soprattutto, lo ha apprezzato.
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    05 Dicembre, 2012
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C'è vita sulla Terra?

ATTENZIONE: SPOILER

Non lo inserirei fra i migliori libri del secolo, ma è comunque un bel libro. Lo stile è impeccabile, così come la psicologia dei personaggi, lo si capisce dal riuscitissimo gioco di identificazioni, una mappa di sentimenti contrastanti che l'autore riesce a farci seguire assieme alla protagonista: ci si identifica con Isserley, l'"umana" (in un universo parallelo dove la razza dominante è un'umanità dotata di coda, pelliccia e quattro zampe) che per poter andare a caccia di vodsel (gli abitanti del pianeta Terra che da Isserley sono visti come esseri inferiori votati alla soddisfazione degli appetiti della sua razza) ha dovuto subire decine di orribili mutilazioni per potersi trasformare da una bellissima umana a quattro zampe, ad una femmina di vodsel, che si regge su una schiena più o meno dritta ed è costretta ad indossare spesse lenti per nascondere il vero colore dei suoi occhi. Isserley va a caccia di autostoppisti, una specie particolarmente adatta a finire sulle tavole degli "umani" più ricchi.Ci si identifica in Isserley, come falsa femmina di vodsel, nella sua triste e grottesca caricatura di essere umano. Poi ci si identifica in Isserley, come umana, razza superiore, dotata di un fisico atletico un tempo, di una folta pelliccia, di speranze e sogni. Ci si identifica nei tanti vodsel incontrati lungo il cammino, stupidi o rozzi, timidi o spavaldi (perché sappiamo la fine che faranno tutti, ce la aspettiamo, tifiamo per loro, perché ci sentiamo in trappola anche noi, perché il pensiero di essere catturati, messi all'ingrasso, mutilati e infine cucinati ci fa orrore). Ci si identifica nella disperazione di Isserley e in quella dei poveri vodsel "lavorati". Il gioco di scambio di personalità è talmente complesso che non conta molto se si tratta di un uomo o un animale: sotto la pelle, siamo tutti uguali.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    30 Agosto, 2012
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Quando l'Armageddon diventa necessario

// ATTENZIONE CONTIENE SPOILER SULLA TRAMA //



Apocalisse 6,1-8
[...] Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora.?
[...] Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada
[...] Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano.
[...] Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l'Inferno.

Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.

------

Questo era quello che sapevo io, le poche informazioni dell’ora di religione sopravvissute alla svolta anticlericale.
Mi sbagliavo.

Il Cavaliere Eterno di Larissa Ione, edito da Fanucci Editore parla di Reseph, Ares, Thanatos e Limos, quattro fratelli (l’ultima è una femmina) belli, ricchi e talmente letali che forse perfino Chuck Norris si farebbe qualche problema a stuzzicare.
Apprezzano i festini, lo sport e non disdegnano alcol e sesso. Soprattutto il sesso. Hanno una vaga tendenza alla coprolalia e all’assassinio, ma questo è secondario, perché sono le caratteristiche in dotazione di qualunque figo spaziale con mega pettorali o mega tette.
Il vero problema è che i quattro fratelli sono pronti a trasformarsi rispettivamente in Pestilenza, Guerra, Morte e Carestia, il che accadrà alla rottura dei sigilli. Questo rappresenta un discreto problema, visto che rottura dei sigilli significa, come dice la profezia, Armageddon.
La Fine del Mondo, in altre parole, con i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse che infiammano la Terra e pongono fine alle miserabili vite umane.
Cazzo, è fottutamente eccitante, commenterebbe uno dei personaggi del romanzo.

Tutto inizia con il sigillo di Reseph che si spezza. Da innocuo playboy, anima di leggendarie feste-orgia in piscina, Reseph si trasforma in un demone zannuto fissato con l’Apocalisse, che vuole trascinare nel “lato oscuro” i fratelli. Per farlo deve trovare i sigilli e spezzarli e il primo in cima alla lista è il secondogenito, Ares.

Ares un tempo viveva fra gli uomini, poi gli hanno ammazzato moglie, figli e fratello ed è diventato un po’ scontroso, così si è trasferito in Grecia, in una principesca villa sulla spiaggia: non si fatica a comprendere perché le femmine (di qualsiasi specie) lo trovino irresistibile, nonostante la stazza e il carattere non propriamente rassicuranti.
Ares entra in contatto con Cara, bella, forte, bionda, testarda, generosa, con il potere di entrare in empatia con gli animali o di far esplodere essere umani (a seconda di quanto è agitata) e una latente ninfomania.
L’ideale di ogni uomo, insomma, anche di un Cavaliere dell’Apocalisse.

I due sono costretti a vivere in stretto contatto quando Cara accoglie l’agimortus (il sigillo) di Ares (che per tutta la durata del romanzo - 369 pagine – lei continuerà a chiamare agi-qualcosa, la prova che non tutto ciò che si dice delle bionde naturali è luogo-comune); Ares dovrà proteggerla da Reseph-Pestilenza, che vuole farla fuori per spezzare il sigillo.

La trama si può riassumere così, perché il resto della storia è solo il pretesto, per l’autrice, per abbandonarsi a una sequenza di elucubrazioni boccaccesche troppo ridicole per essere considerate erotiche. Larissa Ione ci guida malamente in una vicenda schizofrenica, in cui si passa senza logica da caotiche scene di battaglia (concluse sempre da ripetitive e vaghe esplosioni di carne, sangue, ossa) ad ancora più caotiche scene di sesso della durata di minimo tre pagine, in cui Cara e Ares si accoppiano in posizioni inaccessibili alla maggior parte degli esseri viventi e incomprensibili a livello anatomico.

Il pericolo dell’Armageddon, insomma, resta sullo sfondo mentre masturbazioni, falli, liquidi seminali, patte gonfie e culi sodi, spuntano fuori totalmente senza controllo, come le erezioni di Ares (una in ogni pagina, praticamente) per ricordare al lettore, se mai lo avesse dimenticato, che non si tratta di un vero libro, ma di letteratura usa e getta.

Leggiamo uno stralcio, per farci un'idea:

"Un pensiero lo assillava mentre tornava in Grecia con il Varco: lei indossava le culotte di Victoria’s Secret.
Riusciva a visualizzare le sue curve appetitose avvolte in quelle mutandine sexy. [...] Voleva stringerla mentre le mani gli scivolavano dietro per afferrare quel suo culetto sodo... Dannazione, era ossessionato da quelle fantastiche mutandine."

Da questo si capisce che razza di integerrimo soldato sia Ares.
Uno spietato guerriero eccitato dalla violenza, un uomo duro abituato a dormire (udite, udite!) senza cuscino! Perché “le comodità rendono deboli”, spiega a un’affranta Cara, avvolta in un soffice pigiama rosa con pecore disegnate.
Poi esce dalla stanza da letto e va a prepararsi un cocktail di sotto, fa una passeggiata sulla spiaggia privata e per finire un bel bagno nell’idromassaggio, dotato di panche riscaldate.
Una vita da accampamento militare, certo.
Larissa Ione fa finta di nulla e, come Cara, si concentra sulla “tartaruga” (non sia mai chiamarli addominali!) del Secondo Cavaliere dell’Apocalisse.

“Hai il sapore dell’oceano. Cazzo...”. Gemendo le sollevò una gamba per appoggiarla sopra la sua spalla..."

“Aspetta - Cara gli sbattè il palmo della mano sul petto. La protezione?”
“Le mie guardie sono qua vicino...Ah, intendi per il sesso”.

Tra un eloquio da Sergente Maggiore Hartman ("Dannazione, Thanatos. Questa è la mia decisione. Ha fottuto la mia donna, e io farò quello che devo fare" - “Apri il Varco, apri il fottuto Varco!”) e un’erezione improvvisa, si arriva fino alla battaglia finale di cui non importa niente a nessuno, neanche alla stessa autrice che sembra aver fretta di concludere per dedicarsi alla descrizione dettagliata del rocambolesco accoppiamento finale dei due protagonisti, con Cara appesa a testa in giù dal ramo di un albero, cui segue l’immancabile proposta di matrimonio (in ginocchio) con tanto di anello con brillante, che sancisce ufficialmente il passaggio di Ares da spietato cavaliere dell’Apocalisse a stallone da monta con il carisma di un’ameba.

L’Armageddon è un rimpianto lontano, la saga, infatti, continua, come si apprende tristemente alla fine del romanzo (nel prossimo capitolo Limos dovrà vedersela addirittura con Satana, il geloso fidanzato).

Del resto, la scelta grafica della copertina, su cui campeggia una specie di "tronista" tatuato (coerente con l'eleganza delle immagini del sito ufficiale dell’autrice, www.larissaione.com) ci avverte che dentro non potrà esserci nulla di serio.

Perfetto se volete sprecare del tempo, tra una rivista da parrucchiere e l'altra.

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il retro di una confezione di bagnoschiuma.
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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    08 Agosto, 2012
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Ritenta, sarai più fortunato!

CONTIENE SPOILER


/////

La prima cosa che ho pensato leggendo l'ultima frase del romanzo è stata: "Ok, dov'è il capitolo finale, quello in cui tutte le tessere del mosaico vanno a posto e diventa chiaro il programma intero dell'autore?".
Risposta: il capitolo finale non c'è.

Partiamo dal presupposto che la versione italiana di qualcosa (qualsiasi cosa) è sempre fuorviante.
La Biblioteca dei Libri Proibiti, ad esempio, è un titolo fuorviante (l'originale è Florence and Giles, i nomi dei due protagonisti, sorella e fratello): la biblioteca è un posto proibito, è vero. Ma da metà libro in poi sarà solo un ambiente di contorno, non c'è NULLA in biblioteca che possa dare la chiave del mistero. Tutto invece ruota attorno al rapporto morboso tra Florence e Giles.

Poi in realtà, le maggiori debolezze sono proprie dell'impianto narrativo originale.

Un romanzo scritto bene, intriso di humor inglese, un romanzo gotico, inquietante, che riprende pari pari "Il giro di vite" di Herny James ma con un'impronta decisamente più concreta: alla fine non si hanno dubbi su chi sia l'assassina.

I dubbi nascono semplicemente dal fatto che John Harding non risponde ai molti quesiti posti durante la storia. O meglio, risponde, ma in maniera frettolosa, lasciando che il lettore ci arrivi per deduzione.
Il fatto è che il lettore alla fine, pur essendo arrivato alla conclusione, resta INSODDISFATTO.

La prima istitutrice muore in circostanze misteriose. Ha una somiglianza inquietante con la seconda, ma non ci viene detto nient'altro.

La seconda istitutrice è probabilmente la mamma di Giles, ma questo lo deduciamo noi, alla fine.

Lo zio che non vediamo mai cosa c'entra in tutto questo? Che ruolo ha avuto? Che ruolo avrà?

Insomma, troppe domande, poche risposte.
Quello che poteva essere un bel libro rovinato da un finale sciatto e affrettato e da un impianto narrativo che fa acqua da tutte le parti.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    09 Mag, 2012
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Alla ricerca della Bellezza Perduta

Apparso per la prima volta a puntate tra 1854 e 1855 sulla rivista Household Words e pubblicato qualche anno più tardi con l’aggiunta di nuovi capitoli e una prefazione a cura dell’autrice, Nord e Sud di Elizabeth Gaskell ha dovuto attendere più di un secolo e mezzo prima di imporsi all’attenzione del pubblico nostrano. Il romanzo è, dal 16 novembre di quest’anno, disponibile finalmente anche in italiano per la Jo March (http://www.jomarch.eu/) in un’edizione curata da Valeria Mastroianni e Lorenza Ricci. La traduzione è di Laura Pecoraro, affiancata da Marisa Sestito che, dopo aver lavorato su altri testi della scrittrice inglese, si è occupata di rendere nella nostra lingua i versi delle poesie contenute nel volume, oltre a firmare anche l’introduzione. Le motivazioni della tardiva fortuna di Elizabeth Gaskell in Italia sono forse da attribuire alla presenza concomitante di personalità del calibro di Charlotte Brontë, Charles Dickens, George Eliot, solo per citarne alcune, che hanno dominato la scena letteraria della loro epoca nell’immaginario collettivo; per coloro che hanno potuto apprezzare in versione originale le opere della Gaskell (conosciuta soprattutto per la raccolta di storie intitolata Cranford) non vi sono dubbi sul suo diritto a presenziare fra i maggiori scrittori dell’800: la pubblicazione italiana di Nord e Sud, in un’edizione di notevole valore che, oltre all’ottimo contenuto, offre un packaging curato in ogni minimo dettaglio, non fa che confermare quest’idea. Affine per l’atmosfera ai drammi dickensiani, il libro non può essere semplicemente considerato una storia di corteggiamento e matrimonio, il cui fulcro risiede nella crescita morale dei suoi personaggi, o almeno non è solo questo. Come suggerisce il titolo, è la storia dell’incontro/scontro fra realtà apparentemente opposte incarnate dai due protagonisti: l’austera e orgogliosa Margaret Hale e il rigido industriale John Thornton, rispettivamente il Sud e il Nord. Il romanzo è ambientato nell’immaginaria città di Milton, nel Nord dell’Inghilterra, all’epoca della seconda rivoluzione industriale, in una fase storica in cui la potenza delle nuove scoperte in campo tecnologico sovvertì completamente lo stile di vita europeo.
L’eroina, Margaret Hale, è appena giunta in città con sua madre e suo padre, il quale nutrendo dubbi sulla Chiesa ha lasciato l’incarico di pastore per trasferirsi nel Nord e lavorare come insegnante. Il Sud, da cui Margaret proviene, è lo spaccato di un ambiente rurale ormai in declino che nella mente della protagonista si eleva a romantica Arcadia, in netto (e inconsciamente desiderato) contrasto con la sporcizia, la miseria, la fame e l’asprezza incontrati nel Nord. All’inizio della storia Margaret è dominata dal pregiudizio, come l’Elizabeth Bennet di austeniana memoria, un pregiudizio che si traduce principalmente nello sguardo di condanna rivolto a John Thornton, giovane industriale di Milton, la cui immagine rigida e informale non combacia con quella di gentiluomo cui Margaret è abituata, e proprio come Elizabeth Bennet, anche Margaret è costretta a rivoluzionare le perentorie posizioni prese all’inizio contro l’industrializzazione e i suoi fautori per giungere ad una visione della realtà diametralmente opposta, complici i rapporti che man mano stringe con la classe operaia, rappresentata dagli Higgins e con quella imprenditoriale di John Thornton, di cui finirà per innamorarsi. Vi si scorge la riflessione stessa dell’autrice rispetto ai tempi che cambiano: uno sguardo commosso al passato che si sgretola a favore di un futuro all’apparenza spietato, poiché reca in sé la morte di una realtà conosciuta, un passaggio necessario o, quanto meno, ineluttabile. Nel contrasto tra Margaret e John c’è quindi il contrasto tra due mondi diversi che sono destinati ad influenzarsi a vicenda, essendo l’uno la naturale conseguenza dell’altro. La rivoluzione industriale comportò un mutamento territoriale, con lo spopolamento delle campagne e la crescita demografica delle città, uno stravolgimento di usi e costumi, la nascita di nuove classi sociali e, soprattutto, un modo completamente diverso di vedere le cose. La trasformazione che avviene sia in Margaret che in John è lo specchio di quanto accadde in un intero paese. La pubblicazione nel nostro paese di Nord e Sud, trainata forse dal successo ottenuto nel 2004 dall’adattamento per la televisione della BBC con Daniela Denby-Ashe e Richard Armitage nel ruolo rispettivamente di Margaret e John, rinvigorisce le speranze di una maggiore divulgazione delle opere della scrittrice e rappresenta l’indice dell’ascendente che, nel bene e nel male, la televisione ha sulla cultura; se, come sosteneva John Keats, “una cosa bella è una gioia per sempre” l’edizione italiana di Nord e Sud ci restituisce un frammento di eternità.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    09 Mag, 2012
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Il volto crudele dell'Amore

In La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj (Einaudi – traduzione di Leone Ginzburg) i rapporti umani sono strani, eterei, variabili: fanno paura, annoiano, diventano l’unico motivo per cui vivere o l’unico motivo per uccidere. Tolstoj ci parla di un amore che si nutre di illusioni, di miraggi immacolati, di un’idea irraggiungibile di perfezione che conduce ineluttabilmente all’assassinio e alla morte, quando ogni illusione viene distrutta. Se l’amore non fosse così perfetto, così puro nella mente degli uomini, non si proverebbe il dolore della scomparsa, con La sonata a Kreutzer visitiamo le tappe più crudeli del declino di una storia d’amore: l’inconsapevolezza, la pura sofferenza causata dalla discrepanza tra desiderio e realtà, quando il dolore è ancora camuffato e si stenta a comprenderlo; il silenzio, l’ombra che separa insofferenza e realtà, l’attimo in cui si manifesta la fine di una storia che vive solo della reciproca indecisione. E alla fine, la fredda consapevolezza e quindi la morte dell’amore che porta all’omicidio, nel caso del protagonista. Breve, profondo, tagliente come una lama, come solo i grandi libri sanno essere, di una bellezza dolorosa e affascinante, rassegnata e brutale com’è l’amore, com’è a volte la vita.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    09 Mag, 2012
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La disperazione dell'Amore

Lo scintillio degli occhi di una ninfetta, una leggera lanugine sul braccio: chi può cogliere dettagli infinitesimali, laddove il resto degli uomini non vedrebbe che perversione, entra nel regno del martirio più profondo, dell’ossessione più recondita; scorgerà il volto stesso dell’Amore Tragico. In Lolita di Vladimir Nabokov (edito da Adelphi – traduzione di Giulia Arborio Mella) il protagonista, Humbert Humbert, ha un’ossessione incompleta per le bambine, derivante dalla tragica fine del suo primo amore, ma il bel quarantenne insegnante di francese che piace alle donne non ama tutte le bambine. Ama solo le ninfette, quelle dotate di uno speciale scintillio che le rende diaboliche. La ninfetta non è innocente e Amore e Morte sono emanazioni simmetriche e tragicamente reali della stessa natura, un circolo vizioso, dove il Vizio è tragico godimento sfiorato, mai assaporato del tutto, anche quando la luce obliqua del tramonto illumina un letto sfatto e il corpo nudo, senza più pudore, di una dodicenne. Lolita è la Ninfetta. E dal momento in cui la incontra, H.H. amerà solo lei. Lo stile di Nabokov è poesia pura e ci porta in luoghi di una bellezza accecante che si snodano rapidamente davanti a noi, come se percorressimo coi protagonisti le stesse strade assolate e deserte di un’America sonnacchiosa e indifferente. Ed entriamo con parole, colori, suoni e vigorosa ironia, nell’abitacolo impolverato e triste di un’auto in corsa verso il nulla, in cui una bambina ferita infierisce su un uomo innamorato, in cui un uomo innamorato infierisce su una bambina ferita. Non c’è salvezza in “Lolita”, H.H. è l’emblema della rassegnazione che pervade l’intero romanzo, una sconfitta che macera nel profondo di un paese contraddittorio ed inerme. Ma non ci sono banali moralismi, il moralismo, anzi, è deprecato e assediato da una scrittura vivace, poetica, agghiacciante per cinismo e crudezza, ma mai volgare, sempre intrisa di una poesia tragicamente violenta e realista che illumina i suoi protagonisti di un’aura di odio, pena e amore. E non può che finire in tragedia, come finisce ogni vita, come forse finisce ogni grande amore, e la tragedia non è solo morte, non è solo assassinio. La vera tragedia è la solitudine: la sensazione di aver sempre amato da solo. Sempre e inutilmente.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Mag, 2012
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Sensazioni dal Sol Levante

In Norwegian Wood, Murakami Haruki ripercorre a suon di musica l’adolescenza del protagonista, innamorato di Naoko, la ragazza del suo migliore amico morto suicida, e poi ricoverata in un ospedale psichiatrico, e di Midori, una ragazza con gravi problemi familiari. Non è la storia la cosa più importante, il quadro apparentemente semplice è allo stesso tempo complicato, ma la trama, come capita spesso nelle storie “giapponesi” è solo lo spunto.

E’ un romanzo di formazione, formazione intellettuale e sentimentale. Un faccia a faccia con la vita e con la morte, che non sono mai divise: non c’è separazione, benché sia un libro di grandi separazioni. Naoko e il protagonista, Watasabe Toru, hanno una relazione quasi esclusivamente epistolare, e, in alcuni punti, sembra che anche il rapporto di Watasabe con la vita, filtrato da musica inglese e letteratura americana, abbia le stesse caratteristiche.

Il migliore amico di Watasabe si suicida a diciassette anni. Uno dei compagni di stanza all’Università sparisce senza lasciare tracce: le Grandi Separazioni, i momenti di vuoto, le interruzioni e i ricongiungimenti, i Beatles e il Grande Gatsby e l’idea che tutto scorre, tutto continua, a nostro dispetto, che la morte e l’amore sono parte di un unico grande cerchio che continuerà a girare e girare: quello della vita.

Perciò questo romanzo, più che altri, è tipicamente “giapponese” nello stile pur non essendolo affatto nei concetti: la vita, una sorta di equilibrio instabile tra futuro e passato, è una catena di sensazioni con un presente che si riforma ogni secondo, mentre le parole cadono, dolcemente, come neve accompagnate da una colonna sonora immortale.
E i protagonisti sono sulla terra e in nessun posto, contemporaneamente. O forse sono dovunque, uniti gli uni agli altri da meravigliosi e nostalgici legami provvisori.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Mag, 2012
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L'inferno sono gli altri

Leggere “Il Maestro e Margherita” è probabilmente difficile quasi quanto è stato per Bulgakov scriverlo. La stesura inizia nel 1928 e, tra alterne vicende, termina soltanto nel 1940, anno di morte dell’autore. Quasi un testamento, dunque. Un testamento difficile da decifrare. O meglio. Un testamento che può essere decifrato solo da alcuni. Un messaggio nella bottiglia.

Trovare la chiave vuol dire sostituire a tutti i lucchetti che l’autore ha sparso in giro per la sua opera, la giusta combinazione. Aprire porte e allo stesso tempo essere in grado di guardare dentro, senza paura, con spirito critico e lucidità, come Margherita ha fatto sulla soglia dell’Inferno, la notte di Venerdì Santo, dolorante e impaurita.

Come ogni grande libro anche il Maestro e Margherita non contiene la storia nuda e cruda che pensiamo di leggere: vi sono diverse ambientazioni, diversi linguaggi, diversi livelli, infine.
La prima ambientazione è quella nella Russia degli anni ’30. Più precisamente la Mosca degli anni ’30 in cui irrompe con eco tragica e grottesca la figura di Woland, un esperto di cabala (più prosaicamente, Satana).

Woland giunge col suo seguito chiassoso ed efficiente (Behemot il gatto, il sicario Azazello, la strega Hella ed altri) come una bomba che scortica il buonsenso e mette a nudo l’essenza vera della società russa, soprattutto di quel microcosmo che è la prestigiosa società di scrittori presso la Casa Griboedov. A questo proposito molte e divertentissime sono le scene madri da ricordare, soprattutto lo spettacolo di magia nera al teatro, che svela l’orrore e le perversioni del quotidiano perbenismo alto-borghese.

La seconda ambientazione è un paesaggio marginale, a cavallo tra mondo reale e sogno, è il regno di Woland, tra inferno (ma chi può stabilire cosa sia davvero l’inferno?) e realtà, quella realtà che assiste attonita ed impotente all’ingresso in scena del sogno/incubo e che è da questo trasfigurato e viceversa, in un turbinio di vicende grottesche e surreali come è, a volte, la vita. La soglia dell’Inferno, sita in un qualsiasi appartamento di Mosca, è una voragine che si apre solo davanti a chi ha abbastanza coraggio per guardarla, e chi ha questo coraggio avrà amore e libertà.

La terza ambientazione è quella del romanzo del Maestro, la vicenda di Ponzio Pilato ed il suo rapporto con Cristo. Una vicenda che, a sua volta, si muove su più livelli che si intersecano con maestria: quello puro del romanzo storico, arricchito col difficile rapporto tra il procuratore della Giudea (il carnefice/amico) e Jeshua (la vittima/amico) e quella geniale del personaggio-Ponzio Pilato, prigioniero del suo autore (metapersonaggio).

Così come un’idea, un sogno, una passione sono i prigionieri e le vittime dei nostri pensieri fintanto che giacciono dimenticati in un angolo della memoria. E che vivano dunque: basta lasciarli liberi di andare.

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Angelica Elisa Moranelli Opinione inserita da Angelica Elisa Moranelli    03 Mag, 2012
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Vita e morte dell’Amore

Nabokov lo definì il capolavoro assoluto della letteratura del XIX secolo, Dostoevskij un esempio di perfezione totale: è Anna Karenina, romanzo circolare (si apre con la morte violenta di un operaio e si chiude allo stesso modo, con il suicidio di Anna) che affronta tematiche d’interesse attuale attraverso l’analisi di tre relazioni amorose: quella fra Dolly e Oblonsky, quella tra Kitty e Levin e, infine, quella tra Anna e Vronsky.

A testimonianza di cosa Tolstoj pensasse del matrimonio (tema affrontato anche nel romanzo breve “Sonata a Kreutzer”) la storia prende piede proprio da un matrimonio in crisi, quello fra Dolly e Oblonsky, fratello di Anna. Da San Pietroburgo Anna è chiamata dal fratello a intercedere per lui presso la moglie, che ha scoperto la sua infedeltà. Nella stazione di Mosca, Anna assiste alla morte di un operaio, travolto da un treno: un incidente-presagio che segna l’inizio del declino; alla fine del romanzo, in una sorta di espiazione della colpa che la opprime per tutta la storia, Anna si reca nel luogo dove ha compiuto i primi passi verso la distruzione e si suicida, gettandosi sotto un treno (intrinseca critica di Tolstoj al progresso proveniente da Ovest, causa della corruzione dei tradizionali costumi russi).

Le tre relazioni descritte da Tolstoj sono il simbolo delle relazioni amorose e dei diversi e possibili esiti: Dolly e Oblovsky si riconciliano non per amore, ma per comodità. Nonostante la mancanza di sentimento, il loro matrimonio, fondato sull’accettazione formale delle ipocrite leggi che governano la Società Russa, riesce. Levin e Kitty, l’altra coppia che funge da allegoria del matrimonio, sono i soli a raggiungere uno status di reale serenità, merito della ritrovata fede di Levin in Dio. Infine Anna e Vronsky sono il simbolo stesso di un amore nato e cresciuto al di là delle convenzioni sociali, da queste distrutto e la cui fine riecheggia cupa sulla vita dei suoi protagonisti.

Col pretesto di affrontare la storia fallimentare dell’amore tra Anna e Vronsky, colpevole di essere fondato sulla passione (la passione femminile, cosa ancora più grave) e di infrangere con la propria esistenza le leggi sociali, Tolstoj affronta i temi a lui più cari: primo fra tutti quello dell’ipocrisia della Società Russa, dove uomini e donne mantengono quotidianamente relazioni extraconiugali nella falsità e nell’approvazione di tutti, ma si riservano il diritto di allontanare dalla propria cerchia la donna (non l’uomo! Infatti Vronsky continua ad essere accolto nei circoli aristocratici) che si è abbandonata alla passione non per diletto, non per passatempo, ma per amore.

Anna lascia suo marito e suo figlio, tradendo il ruolo primario di una donna: quello di moglie e di madre. Infrange un’istituzione sacra com’è il vincolo matrimoniale, per fuggire e andare a vivere come concubina con l’uomo del quale si è innamorata. Anna rappresenta la critica più feroce e allo stesso tempo la dimostrazione palese di tutti i sotterfugi e le menzogne su cui si fonda la buona società russa. Per questo la Società Russa ha bisogno di nascondere Anna, occultando così i suoi stessi peccati.

La rovina di Anna inizia con l’abbandonarsi non già al desiderio carnale, che se temporaneo e circoscritto è perfino legittimato, ma all’Amore, a un amore che non conosce né Dio né Ragione. Per Anna l’unica cosa importante è essere amata da Vronsky e quando Vrosnky si rivela un uomo imperfetto come qualsiasi altro, la gelosia la consuma, distrugge l’amore e distrugge Anna stessa, fino a portarla, in una spirale di disperazione e follia, alla morte.

Anna rappresentando l’istinto, è sopraffatta e uccisa dalla passione. Dolly, che invece segue le regole fissate, riesce a dominare la gelosia, vivendo una vita mediocre e un matrimonio senza amore ma, secondo la morale comune, riuscito. Kitty, invece, ha fede, la religione, la fiducia in Dio le dona un matrimonio non passionale, non bruciante, ma sereno e leale.

La fede in Dio è un altro dei temi cari a Tolstoj, trattato prevalentemente nella figura di Levin (una specie di alter ego di Tolstoj stesso) vittima delle sue passioni e infelice all’inizio del romanzo; Levin comincia poi a comprendere l’amore per Dio, sostituendo alle passioni carnali, la passione spirituale: un passaggio che salva la sua esistenza e gli consegna la chiave della pace interiore, poiché per Tolstoj l’unico essere nel quale si può confidare è Dio stesso; gli uomini, essendo imperfetti, sono causa di sofferenza per il prossimo: la lezione è che fare di un altro essere umano il proprio dio procura una felicità ingannevole, causa della propria rovina.

L’unica salvezza possibile, all’interno della gabbia sociale, è quella spirituale: l’errore dell’uomo è l’aspirazione congenita alla Felicità, un impulso che, secondo Tolstoj, solo la mente perfetta di Dio può concepire, all’Uomo (imperfetto) non resta che coglierne l’eco nella Fede, poiché il tentativo di afferrarla lo porta, immancabilmente, all’annichilimento.
L’uomo, in sintesi, non è nato per essere felice.

recensione originale su http://flavoria.wordpress.com/2012/03/16/anna-karenina-vita-e-morte-dellamore/

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