Opinione scritta da Fabiana83
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Un esordio da leonessa, un epilogo da ronzino
Di Marie sappiamo poco. Ha trent’anni, i capelli ravvivati da mille riflessi cangianti, le mani grandi, belle e negli occhi scuri lo sguardo velato che sembra posarsi sulle cose con indifferenza.
Eppure è una donna colta, dalla mente fervida, dotata di uno spiccato senso critico ed etico che la porta a rifiutare ogni tentativo di banalizzazione, di svilimento, di volgare semplificazione dello scibile umano. Insomma preferirebbe curare una rubrica di ricette culinarie piuttosto che ridurre le opere dei grandi pensatori, come Spinoza, Kant, Platone, Bergson, in filosofia da bignami, in pillole di sapere da somministrare ad un pubblico svogliato.
Ha un marito, Jean, “un uomo che non vede niente. Guarda senza vedere”.
I due sono in vacanza su una spiaggia della Costa Azzurra. Questo l’incipit, un inizio che ha indubbiamente un taglio cinematografico e una scrittura che, come una sorta di macchina da presa, cattura un primo fermo immagine: lei poggia la testa sulla spalla di lui e pensa “Jean è qui, vicino a me. L’unico uomo che amo al mondo”.
Tornano alla memoria alcune conversazioni tra amiche, “Marie sei la sola tra noi a conoscere la felicità”, le dicevano, “tu ami profondamente tuo marito e sei riuscita a realizzarti appieno nell’amore”.
Ma cos’è la felicità? Questo ora si domanda la donna. E’ un oggetto che basterebbe scovare e appendere in casa come un rametto di vischio?
La narrazione procede senza discontinuità con un secondo fotogramma: Jean entra in acqua, Marie si volta e vede un giovane di bell’aspetto, disteso sulla sabbia. Osserva il suo corpo abbronzato, lo studia come un gatto sornione la sua preda. Di fronte ha il marito, “realtà addomesticata, aura soave fatta della dolcezza e del calore delle cose familiari” e di lato invece uno sconosciuto, “un’altra realtà, altra aurea. Una realtà da indovinare, da afferrare, da fare propria”. E’il fascino e la vertigine di un mondo nuovo, inesplorato.
Niente sarà più lo stesso. Quel bigliettino su cui è stato trascritto un numero telefonico segnerà il punto di non ritorno.
Il cambiamento è in atto e la scrittrice ce lo comunica con la forza analogica di una bellissima metafora: quel cielo ancora sereno sul mare iniziava ad offuscarsi sopra il paese. Nuvole minacciose fecero la loro prima comparsa, un brontolio sordo annunciava l’arrivo della tempesta.
Con una smorfia comica Jean, l’uomo che non sa vedere, si rivolge a sua moglie: “Povera Marie, preparati a soffrire, tu hai paura dei temporali”. La donna non risponde, si gira e osserva le montagne. Immagina di scendere da sola giù da quei ripidi pendii con il viso esposto all’acquazzone “freddo e violento”. Una pioggia battesimale che lava, purifica, rigenera e restituisce alla vita l’aria che le era stata tolta. Marie è una donna nuova, “vergine”, consapevole di avere qualcosa di irrisolto con quella ragazzina, dalle ossa fragili, che in tailleur grigio usciva da un’aula della Sorbona per scomparire e annullarsi tra le braccia dell’uomo che, qualche anno più tardi, sarebbe diventato suo marito. E a quella ragazzina ora chiede perdono.
Avverte tutti i limiti della sua apparente felicità coniugale, intuisce che essa ha escluso la reale comprensione del mondo e animata da un egoismo feroce, capisce che cercare un’esperienza della realtà, fatta in modo autonomo, è un imperativo morale a cui non può più sottrarsi. Quel bisogno interiore di solitudine, di autodeterminazione, che per una vita intera, era rimasto inascoltato, è riaffiorato in Marie con tutta la prepotenza e l’imprevedibilità di un nubifragio estivo. E in questo la forza della metafora.
Il mutamento in effetti avviene improvviso ed è affidato ad un elemento visivo, una situazione comune e apparentemente poco importante che invece assume un chiaro significato simbolico: Marie, come la Nora Helmer di Ibsen, si cambia d’abito e indossa un piccolo baschetto che non riuscirà a contenere “le ciocche ribelli”. Entrambe si sbarazzano del costume di “sposa devota” per vestire quello più autentico di donna, si liberano di un travestimento per sottrarsi al vecchio ruolo che ora non vogliono più “rappresentare”.
Per utilizzare un’espressione cara al drammaturgo norvegese, tanto Nora quanto la nostra Marie vogliono “tuffarsi in pieno nella società”. La prima, rendendosi conto della sua dipendenza dalla figura “paterna” del marito, rompendo ogni ipocrisia, abbandona la sua “casa di bambola” e i suoi figli per “educare se stessa”, per riscattarsi dal ruolo di eterno giocattolo a disposizione del coniuge, o più semplicemente, dirà lei, per diventare finalmente una “creatura umana”.
La nostra protagonista invece si immerge in una Parigi autunnale, ne respira la poesia. Predilige i luoghi meno battuti, scopre il piacere di pranzare da sola, in un Caffè all’aperto, e la quiete di quella camera a ore dove si lascia spogliare, come una bambina, dal suo giovane amante.
“Dov’eri Marie? Hai perso la strada?” Le chiedono. Al contrario, finalmente l’ha ritrovata, ma non una strada qualunque, piuttosto come direbbe Virginia Woolf “a street of ones’s own”, una strada tutta per sé.
A mio avviso non bisogna però pensare che il dramma di Ibsen e il romanzo della Bourdouxhe possano essere assunti a simbolo dell’emancipazione della donna dalla sua inferiorità e dalla sua dipendenza dall’uomo. Infatti non tanto per un’aurorale coscienza femminista che Nora, al pari di Marie, decide di cambiare vita, ma per un esigenza di autonomia individuale che famiglia e ambiente le negano. L’attenzione è rivolta ai valori del singolo e solo marginalmente a quelle convenzioni, pubbliche e private, che ne ostacolano la piena realizzazione.
Marie lo afferma a chiare lettere: “La società? Confesso che me ne infischio..mi interessa soltanto l’individuo- dopodiché, ognuno si occupi della propria vita”.
Indubbiamente Nora Helmer è decisamente più eversiva della nostra eroina. Infatti stanca di vivere alla giornata “come un povero mendicante” decide di lasciarsi tutto alle spalle, anche se questo significa allontanarsi dai suoi stessi figli e il dramma si conclude con il tonfo del portone richiuso violentemente. Un finale forte che attirò le critiche dei benpensanti a tal punto che lo stesso Ibsen fu costretto ad aggiungere un quarto atto in cui la protagonista riappare felicemente innamorata del marito.
Ben diversa è la conclusione del nostro romanzo. La distanza tra Marie e Jean è ormai incolmabile, e c’è un momento preciso che segna una sfasatura irreparabile: Marie lascia il suo anello al banco dei pegni per acquistare il biglietto di quel treno che la porterà dal suo giovane amante. Vendere l’anello dovrebbe significare disfarsi di un “simbolo”, mollare le redini e iniziare una vita nuova, più autentica. Questo però non accade. In Marie non esiste traccia della cosiddetta “follia di Aschenbach”, non c’è nulla che la renda simile al protagonista del racconto lungo “La morte a Venezia” che colpito dalla “bellezza perfetta” di un giovane polacco, per il quale prova una crescente e irresistibile attrazione, si abbandona a comportamenti sempre più lontani dall’ideale di autocontrollo e di decoro a cui ha ispirato la sua vita.
Marie resterà una femme au foyer, e quei fieri impulsi verso la pienezza del vivere vengono mortificati da un atteggiamento estremamente remissivo. Infatti sceglie di non allontanarsi da un marito che non ama e di vivere in una pericolosa schizofrenia: da un lato il quotidiano, il grigiore del menage domestico e dall’altro l’avventura, gli incontri clandestini con l’amante.
Tutto questo produrrà conseguenze anche sul piano stilistico, difatti nel romanzo di Madeleine Bourdouxhe mancano i forti conflitti, i colpi di scena, a tratti la prosa appare incolore.
Solo sul finale ho intravisto un interessante cambio di impostazione narrativa che non è puramente tecnico o accidentale, la scrittrice infatti decide di eclissare il narratore e di far parlare la stessa protagonista per focalizzare l’attenzione non tanto sul mondo esteriore quanto su quello interiore, sull’anima di un personaggio cui si lasciano intravedere contraddizioni mai prima intuite.
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“Non farebbe mai male ad una mosca” (Psyco- Hitchc
Prevessin, ricco paesino in territorio francese, poco distante da Ginevra.
Qui vivevano i coniugi Romand, Jean Claude e Florence insieme ai loro due figli, Antonie e Caroline di cinque e sette anni.
Abitavano in una vecchia fattoria trasformata, come tante altre, in comoda villa, con una Bmw da 250 mila franchi parcheggiata in garage. All’interno della comunità i Romand venivano considerati figure note e stimate d’altronde Jean Claude era un medico, o meglio un luminare nel campo della ricerca, lavorava presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, viaggiava spesso, partecipava a convegni internazionali, frequentava ministri e personaggi illustri. Tutti però ammiravano la sua discrezione, la rara modestia con cui metteva in luce gli altri anziché se stesso e soprattutto la sua profonda gentilezza. Era un uomo limpido e corretto, degno di assoluta fiducia e rispetto.
Questo fino al 9 Gennaio del 1993 quando, durante la notte, uccide la moglie fracassandole il cranio con un mattarello.
Al mattino infila nel videoregistratore la cassetta dei “Tre Porcellini”, si siede sul divano accanto ai figli a bere latte e a sgranocchiare coco pops. Dopo averli coccolati, inventa un nuovo gioco: Caroline viene fatta stendere sul letto, a pancia in giù, le copre la testa con un cuscino e spara. La stessa sorte toccherà al piccolo Titou.
Parte poi alla volta di Clairvaux dove pranza con gli anziani genitori prima di assassinarli, dove accarezza l’amatissimo labrador prima di abbatterlo. Durante l’interrogatorio confesserà che lasciando la casa paterna gli è venuto spontaneo girarsi a guardare la porta perché temeva, come sempre, di non rivedere più quella madre e quel padre ormai vecchi e malati.
Tenta di uccidere anche l’amante, Corinne, ma incrociare il suo sguardo al momento dell’aggressione lo fa desistere. La donna viene risparmiata.
Rientra a Prevessin, nella sua abitazione, dove sul tavolo ci sono ancora i disegni fatti dai bambini e nel piano superiore i loro cadaveri. Appicca il fuoco cominciando dalla soffitta, il punto più alto della villa, in modo che le fiamme si vedano subito e anche in lontananza. Attende l’arrivo dei pompieri prima di ingerire una manciata di barbiturici scaduti e segnala la sua presenza aprendo la finestra per assicurarsi un tempestivo soccorso. Non fallisce, difatti Jean Claude viene portato in salvo.
Tentato suicidio o suicidio inscenato? Il dubbio ancora oggi resta. Tuttavia la domanda più comune che ci poniamo quando sentiamo o leggiamo di crimini così efferati e privi di senso è la seguente: perché lo ha fatto?
Alla luce delle prove raccolte, gli inquirenti hanno scoperto che il signor Romand non è affatto un medico, non ha mai lavorato per la OMS e che per diciotto anni ha mentito a tutti, anche alle persone a lui più vicine. Più che essere un ricercatore di successo, come la moglie e il resto della famiglia erano stati portati a credere, Jean Claude altro non è che un abile millantatore.
Quella raccontata è dunque la storia di un uomo che ogni mattina baciava la moglie e i figli, usciva di casa fingendo di recarsi a lavoro, ma in realtà andava a perdersi nelle foreste del Giura. Questa è la storia di un uomo brillante che doveva essere a Tokyo per un convegno medico e si ritrova invece nella camera di un motel, poco distante dall’aeroporto, a guardare il soffitto e a sfogliare guide turistiche da cui reperire informazioni utili a rendere verosimiglianti i racconti dei suoi fantomatici viaggi. Questa è la storia di un uomo che per anni ha vissuto in maniera consona alla sua finta posizione sociale di ricco borghese, non solo utilizzando i risparmi che amici e parenti gli avevano affidato perché li investisse, contando naturalmente sulla sua indiscussa onestà, ma addirittura vendendo “pillole miracolose” (probabilmente comuni analgesici) che promettevano di curare pazienti oncologici in stadio terminale.
Insomma la sua vera identità, ammesso che ne avesse una o una sola, non combacia con quella facciata di perfezione che ha costruito per la famiglia e per gli amici più cari.
Com’è facilmente intuibile il fatto di cronaca scosse l’intero Paese e anche lo stesso Carrere che scrive sul caso Romand, “non per curiosità malsana” e non semplicemente per portare alla luce “i fatti” e i dettagli di questa torbida vicenda, ma per rispondere sostanzialmente a due domande: Che cosa passava nella testa nella testa di quell’uomo durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio? E che cosa accade nel suo cuore durante le ore notturne di veglia e preghiera che ora trascorre nel carcere di Fresnes?
Lo scrittore non si accontenta di assistere personalmente al processo, ma inizia una breve, e a mio avviso nemmeno proficua corrispondenza con l’imputato, visita addirittura i luoghi in cui Jean Claude “aveva vissuto la sua vita di fantasma".
Entrare nella mente (e nel cuore) di uno psicopatico è certamente un progetto ambizioso, ma anche irto di insidie, infatti Carrere ci riesce, solo parzialmente. Per questa ragione il libro risente di un taglio fortemente giornalistico e a tratti diventa uno scarno resoconto del dibattimento procedimentale.
In ogni caso non gliene faccio una colpa, consapevole della difficoltà di spiegare razionalmente qualcosa che non ha nulla di razionale: la follia. Quella follia che sfugge a qualsivoglia paradigma scientifico e che rende vano ogni tentativo di restituire un volto umano al male.
Tuttavia lo scrittore francese commette due passi falsi, il primo quando si rapporta a Jean Claude facendolo sentire “alla pari”. Non esiste un rapporto paritario tra i due, la loro è una comunicazione fortemente sbilanciata perché a dettare le regole è un pluriomicida che si ostina a parlare di “tragedia” o “incidente” anziché di “crimine” e che non ricorda mai le sue vittime preferendo invece dilungarsi sulla propria sofferenza. E’ lui a decidere cosa dire, omettere o mistificare, questo è il suo show. Carrere invece appare diviso tra l’ossessione di raccontare una storia scomoda, che smuove le coscienze e la paura di pubblicare un libro che potrebbe fomentare la mitomania del suo protagonista o peggio ancora riabilitarlo.
Considerare alla pari un soggetto fortemente disturbato obbliga inoltre a ricondurre la crudeltà del crimine a motivi straordinari. Preferiamo dire che si tratta di pazzi in preda ad un raptus, ad una crisi di nervi perché è difficile riconoscere che tra noi si nascondono cittadini esemplari – apparentemente normali- che un bel giorno decidono di impugnare una pistola e sterminare un’intera famiglia.
Molti di questi moventi “eccezionali” sono stati snocciolati nel corso dell’interrogatorio: l’isterectomia di sua madre, l’essere figlio unico e dunque troppo coccolato e viziato, la morte del cane, suo unico confidente nel periodo dell’infanzia, il presunto suicidio di una ragazza che frequentava ai tempi dell’università, i suoi problemi sessuali (“non doveva essere un drago a letto”) o lo stress economico. Tuttavia nessuna delle motivazioni risulta abbastanza convincente per poter spiegare l’orrore di quell’assassinio. Secondo la mia personale opinione, tutte queste ragioni, per quanto plausibili, possono aver funzionato semplicemente da “catalizzatore”, ma è la presenza latente e nascosta di un disturbo psichiatrico che spinge l’uomo a compiere una strage. Jean Claude uccide per un motivo banale, e non straordinario, ovvero per non essere smascherato per quello che era già prima di impugnare la rivoltella.
Spogliarsi della maschera di menzogne che si è cucito addosso, di quel travestimento che ha portato così a lungo da diventare la sua prima (e non seconda) pelle non significa solo ritrovarsi nudo, ma completamente scorticato. E’ un meccanismo che si inceppa, la finta immagine di decoro va in frantumi, e lo stesso accade alla sua vita. Dunque non potendo più apparire come una persona integerrima soccombe alle proprie devianze (che devono considerarsi INNATE e non conseguenziali) e uccide, elimina il problema.
Il secondo passo falso, l’essersi avvicinato a Jean Claude nel tentativo di parlare non all’uomo che ha commesso qualcosa di agghiacciante, ma all’uomo a cui è accaduto qualcosa di agghiacciante, “vittima sventurata di forze demoniache”. Eppure un omicidio non accade, viene fatto accadere. Jean Claude si è trovato di fronte ad un bivio: scegliere di confessare tutto assumendosene la piena responsabilità o continuare la farsa, anche se questo significava sopprimere i suoi stessi figli. Ha deciso. Contrariamente ad altri soggetti patologici, gli psicopatici sono provvisti di capacità di analisi, sanno perfettamente cosa stanno facendo. Sopperiscono al loro spaventoso deficit emotivo, mantenendo una spiccata ipertrofia del mondo razionale, devono capire tutto. Sono lucidi, scaltri e spesso possiedono un QI solitamente molto alto. Agiscono e scelgono con calcolo e consapevolezza. Jean Claude decide di mentire e di assassinare.
D’altronde anche nelle testimonianze fornite avrebbe potuto finalmente riscattarsi e dimostrarsi sincero, eppure continua ad alterare la verità, ad aggiungere dettagli e particolari per manipolare la corte, i giornalisti, gli psichiatri e in generale l’opinione pubblica. Sbugiardato inventa nuove storie, cambia il racconto, rimaneggia i fatti con la stessa calma e tranquillità di chi sta affermando il vero. Carrere intravede una possibile giustificazione, lascia intendere che quelle menzogne patologiche fossero incontrollabili, che uscissero dalla bocca di Jean Claude quasi in modo spontaneo, naturale e che lo spingessero ad autoingannarsi, a non distinguere più il vero dal falso. Il problema è che il soggetto in questione non si limitava a mentire, ma distorceva la realtà tacendo su informazioni che certamente avrebbero potuto deludere o far soffrire l’altro, ma anche influenzare la sua capacità di scelta. Un esempio per tutti, dopo un insistente corteggiamento riesce ad ottenere la mano di Florence confessandole di avere un (inesistente) tumore e facendo leva sulla sua empatia, sul lato compassionevole di una donna semplice, priva di malizia. Lo stesso copione si ripeterà, a distanza di anni, quando l’amante ormai insoddisfatta tenterà di scaricarlo. Queste non sono semplici bugie, ma vere e proprie truffe emotive.
Bugia e verità vengono magistralmente utilizzate, nella vita e nel corso del processo, per manipolare gli altri e per costruire quel personaggio perfetto che forse avrebbe voluto essere e che, di fatto, si limita ad interpretare.
Sono certa che l’urgenza di trovare una risposta ai tanti interrogativi che un fatto così inspiegabile suscita, abbia incoraggiato molti di noi (o potrà incoraggiare) ad avvicinarsi ad un libro così doloroso, difficile da capire e da digerire. Sono diverse le domande che io stessa mi sono posta: cosa avrà pensato Jean Claude quando ha visto le foto dei suoi bambini, dei loro piccoli corpi carbonizzati distesi sul tavolo di un obitorio? Orrore? Inconsolabile disperazione? Si sarà portato le mani davanti agli occhi per non guardare? Avrà scosso la testa per cancellare quella terribile realtà, l’unica realtà possibile, quella vera, quella autentica che stavolta non è riuscito a contraffare? E inoltre, tra qualche anno, per il signor Romand si apriranno le porte del carcere, tornerà ad essere un uomo libero, ma un uomo “nuovo” o lo stesso “individuo perverso e macchiavellico capace di prendere una falsa identità come altri prendono i voti? E’ sbagliato considerare “L’Avversario”(e forse qualsiasi libro) un piccolo oracolo tascabile, ma sfogliando quelle pagine potrete sicuramente cogliere spunti utili e chiarificatori.
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Gli amori malati non finiscono mai...
Eszter, ormai quarantacinquenne, vive o meglio sopravvive, con la cara Nunu, nella vecchia casa, ereditata dal padre, su cui peraltro gravava una piccola ipoteca.
Le due donne, sia pur a fatica, provano a tirare avanti con i proventi della vendita dei frutti che il giardino riesce loro a garantire, circondate dall’affetto e soprattutto dall’aiuto, anche economico, di pochi amici fidati: il buon Tibor e il notaio Endre.
E’ fine settembre quando un telegramma di Lajos arriva, dopo ben vent’anni, a rianimare quelle esistenze piatte, prive di slanci; vite che giorno dopo giorno, si erano srotolate senza propinare sorprese in un divenire tristemente ciclico e ordinario.
Per utilizzare una metafora tanto cara a Marai, bastano poche parole fissate sulla carta “Arriveremo domani mattina. Saremo in cinque” a ridare la carica a quel vecchio meccanismo ormai inceppato.
La casa e l’intero paese magicamente riprendono a vivere perché Lajos, l’unico uomo che Eszter abbia mai amato, sta tornando sul “luogo del delitto” dove deve a tutti qualcosa: quattrini, giuramenti e promesse mai mantenute.
Il carillon comincia a muoversi e ognuno, come una pedina perfettamente inserita sulla giostra e saldamente legata all’ingranaggio, si agita, si prepara alla visita. Lo spettacolo è appena iniziato.
Esterz riordina i vecchi ricordi, indossa l’abito più bello e indugia davanti allo specchio. Il tempo, per lei, era stato clemente, nonostante i pochi fili bianchi che si nascondevano tra il biondo chiaro della sua capigliatura e le sottili rughe che le contornavano gli occhi, aveva mantenuto la stessa corporatura. Era alta, dritta e ben proporzionata.
La veranda accoglie anche Tibor e Laci, fratello di Estzer, che scelgono di presenziare all’evento, d’altronde tutti sono indissolubilmente legati da una sorta di alleanza che avevano stretto contro quell’uomo. Bisognava unire le forze per sconfiggere un nemico comune a cui di fatto non erano riusciti a sottrarsi e che dopo anni si riaffacciava nelle loro vite per portare a termine qualcosa che aveva solo iniziato. (“Com’è strana questa lotta! Ho fatto di tutto per mettermi in salvo ma il nemico continuava a seguirmi. Ora so che non poteva agire diversamente: siamo legati ai nostri nemici, che a loro volta non sono in grado di sfuggirci”).
Da assidua lettrice mi è capitato, con una certa frequenza, di imbattermi in personaggi detestabili e Lajos è uno di questi, sale di diritto in cima alla mia personalissima top ten, forse secondo solo al Capitano Justiniano di “Teresa Batista Stanca di Guerra”, per intenderci, l’orco che si divertiva a deflorare e seviziare bambine povere, spesso vendute dalle loro stesse famiglie per una manciata di cruzeiros e che ad ogni stupro aggiungeva un’ anello, alla sua collana d’oro, per celebrare l’ennesima preda che piegava alle sue insaziabili voglie.
A molti, questo paragone potrebbe risultare azzardato, ma in realtà ci troviamo di fronte a due veri e propri predatori sociali.
Il commerciante di Jorge Amado è un sadico che si serve dell’abuso fisico (pugni, percosse, frustate, bruciature ai piedi con il ferro da stiro) e di atroci prevaricazioni per sottomettere e schiavizzare le sue giovani vittime; Lajos invece è un burattinaio più subdolo, e non per questo meno spietato, che ricorre a pericolose manipolazioni mentali o a veri e propri lavaggi del cervello, per ridurre il malcapitato di turno in uno stato di annichilimento psicologico ed Eszter, più di altri, ne è la prova.
Eszter ovvero la donna che non solo accetta supinamente la propria distruzione, ma collabora con il suo carnefice firmando quell’atto di donazione che la spoglierà dell’ultimo bene di cui è ancora in possesso: la casa e con essa la garanzia di una vecchiaia serena.
Sigla la resa, senza protestare, e aspetta la morte che è “pace” e “assoluzione”.
A nulla serviranno le raccomandazioni del notaio e amico Endre, i suoi tentativi di impedire quell’accordo scellerato che l’avrebbe strappata dalla “modesta isoletta su cui si era rifugiata dopo il naufragio”. Eszter ormai ha deciso, inconsapevolmente (“Sì, risposi involontariamente; avevo l’impressione di parlare in sogno”), ma ha deciso.
Non so se Marai abbia avuto modo di leggere gli studi di Hervey Cleckley, se ne abbia subito l’influenza, ma certamente ha affidato alla narrazione un protagonista maschile che riassume in sè, quasi didascalicamente, tutte le caratteristiche del perfetto narcisista maligno, consegnando a noi lettori un piccolo romanzo, per alcuni versi estremamente attuale, che coglie e sviluppa le insidie del processo di seduzione psicopatica, lo stato d’animo di chi subisce una violenza che non lascia lividi, quella psicologica.
Lajos fece ingresso nella famiglia di Eszter perché amico del fratello Laci. I due erano identici “nel corpo e nell’animo”. Erano inseparabili. Ai tempi dell’università condividevano non solo lo stesso appartamento, ma anche i sogni, il dolce far nulla e il loro passatempo preferito: raccontare frottole.
Venivano considerati grandi promesse, pur non avendo uno spiccato talento se non quello di fantasticare inventando storie strampalate, ma di fatto non realizzarono nessuno degli obiettivi che si erano prefissati, e finirono con il partorire un topolino. Abbandonarono gli studi a metà percorso, Laci per aprire una bottega in cui vendeva manuali scolastici e oggetti di cancelleria, Lajos invece, da instancabile megalomane, continuò a sognare in grande, e si lasciò sedurre dalla politica, anche se non aveva una sua convinzione. Infatti dopo aver militato tra le varie file di vari partiti, anche di segno opposto, fu messo alla porta unanimemente da tutti.
Già da qui si intravedono almeno due aspetti che sono propri dei narcisisti perversi, innanzitutto l’incapacità di portare a termine qualsiasi progetto. Sono corridori a breve distanza che collezionano una serie di fiaschi perché si annoiano facilmente. Con estrema rapidità riescono ad abituarsi a qualsiasi persona o attività, consumano- fagocitano- svuotano e poi passano ad altro. Vivono di “novità”, di quel senso del “pericolo” di cui parla lo stesso Lajos, citando a sproposito Nietzche, che li spinge a ribellarsi, non contro qualcosa o qualcuno, ma contro la vita stessa perché in essa non ritrovano nulla di stimolante se non un’appagamento transitorio.
Eva, la figlia di Lajos si dice spaventata, ma anche affascinata dalla “leggerezza” del padre, dalla sua assenza di vincoli interiori, inclusi i suoi doveri di genitore, da come tutto lo lasci indifferente ad eccezione del pericolo di cui egli stesso va a caccia esplorando nuovi orizzonti, vivendo in mezzo agli uomini (“il passatempo più pericoloso”), a costo di uscirne sconfitto, frastornato e depredato.
L’altro aspetto riguarda invece l’uso sistematico della menzogna. Sono bugiardi patologici, impostori patentati e la loro stessa esistenza è un bluff. Ingannare e manipolare la percezione che gli altri hanno della realtà li fa sentire più intelligenti, più astuti, più potenti (“Sembrava che si stesse stropicciando le mani per la gioia, come uno che giocando a carte si accorge stupefatto di aver vinto una partita che credeva di aver perso”).
Lajos mente “come urla il vento”, “come cade la pioggia” con allegria indomabile e soprattutto con un’insolita naturalezza. Piange mentre racconta l’ennesima bugia e se scoperto “passa a dire la verità con la stessa disinvoltura con cui poco prima aveva mentito”. E’ un bugiardo che riesce a guardare, il proprio interlocutore, dritto negli occhi, senza mostrare alcun segno di cedimento.
Per molti, e per la stessa Eszter, queste menzogne potrebbero apparire come il residuo di un ingenuità infantile inconsapevole e priva di malvagità, in realtà spesso sono finalizzate ad attività fraudolente, a vere truffe e imbrogli.
Non a caso Lajos si è dimostrato così bravo a mentire e plagiare gli altri che ,senza troppa fatica, ha ingannato e derubato tutti coloro che in lui riponevano la massima fiducia e che a lui si erano letteralmente consegnati.
Difatti non solo era riuscito a farsi accogliere e benvolere dalla famiglia dell’amico Laci, ma sfruttando il proprio fascino, l’agile oratoria, la capacità di sedurre indistintamente tutti, si era imposto come un piccolo tiranno. In quella casa avvertivano la sua superiorità e ne erano intimoriti. Lajos invece fingeva gentilezza, ma osservava quelle persone con disprezzo, detestava il loro fare provinciale, e silenziosamente li avviava al cambiamento. Iniziarono allora a vestire e a comportarsi in maniera diversa, a leggere i libri consigliati da quello strambo giovanotto (opere peraltro di cui lui conosceva solo il titolo), a vivere al di sopra delle proprie possibilità. In breve tempo creò un vero e proprio rapporto di dipendenza trasformando i membri di quella famiglia in pupazzi da istruire e usare a proprio piacimento.
Si dichiarò follemente innamorato di Eszter, ma poi sposò la sorella maggiore, Vilma. Glielo consentirono.
Attraverso un “sistema invisibile di vasi capillari” fu abile a risucchiare tutto il loro patrimonio, e quando finirono i soldi cominciò a portare via, da quella casa, gli oggetti “come ricordo” - sosteneva (mentendo). Glielo consentirono.
Nessuno si mostrò sufficientemente forte da annullare le “stregonerie” del fachiro indiano che, con il sorriso sulla bocca, “si inchinava con in mano il piattino per riscuotere le offerte”. Lajos potè agire indisturbato diventando un esperto domatore di belve addormentate.
A distanza di vent’anni nuovamente bussa a quella porta “con un piano bell’e pronto” (vi è sempre intenzionalità e calcolo nell’agire di un narcisista maligno) per appropriarsi dell’unico bene di cui non era ancora entrato in possesso, la casa. Eszter ,ancora una volta, glielo consentirà.
Torna e allestisce il suo “teatrino psicopatico” di cui egli è il regista, ma anche l’attore principale. Recita, avvalendosi dell’aiuto di altri collaboratori che gli fanno da spalla (la figlia Eva più di tutti) o che si limitano ad interpretare il ruolo della comparsa. Riporta in scena una vecchia commedia che ormai gli spettatori conoscono a memoria, utilizzando peraltro gli stessi numeri retorici che avevano funzionato in passato. Il copione resta pressochè invariato, ma tutto funziona alla perfezione.
Rispolvera il proprio fascino, il magnetismo, la parlantina, come armi di conquista, e inizia la gara per guadagnarsi la fiducia dell’altro, inventando ad arte bugie tragicomiche, per esempio vince la diffidenza di Nunu, la più scettica del gruppo, consegnandole una lettera (falsa) di un Sottosegretario di stato in cui questi dimostra di avere a cuore il desiderio della donna di diventare un’impiegata postale. Peccato che Nunu con i suoi 70 anni non possa più lavorare.
Si cala nel ruolo del bravo prestigiatore, tira fuori dal cilindro una tartaruga “sensibile alla musica”, fischietta,e invita tutti ad osservare l’animale che allunga il collo -come per rispondere. Gli spettatori ne rimangono storditi. Li ha conquistati e finalmente abbassano la guardia.
Da buon psicopatico, Lajos dimostra ancora una straordinaria abilità nel diventare l’immagine riflessa del suo pubblico, ne intercetta i gusti e i desideri e si attiva per realizzarli. A questo punto il terreno è pronto per assestare il colpo di grazia: ottenere la casa.
E per fare questo sa che dovrà vendersi bene, camuffare il desiderio di dominio e la sua tendenza a distruggere la vita degli altri.
Chi è informato tema di psicopatia, nella figura di Lajos ritroverà quasi tutto: uno spiccato egocentrismo patologico, la completa aridità negli affetti (non conosce l’amore, nemmeno quello filiale) l’inganno perpetrato con precise tecniche della manipolazione come il gaslighting (basti pensare alla vicenda delle tre lettere che avrebbe spedito ad Eszter, probabilmente l’ennesima bugia), le calunnie e il tentativo di scaricare la colpa sugli altri, in primis su Vilma ( l’unica che non può più difendersi perchè deceduta), la vaghezza dei suoi discorsi, l’invenzione di dettagli per rendere più credibili le fandonie che va a snocciolare, la mistificazione, il vittimismo, la teatralità dei gesti, la sua innata capacità di giocare con le emozioni degli altri (il colloquio finale con Eszter ne è una conferma), ma anche un'inspiegabile spietatezza, la totale assenza di empatia (liquida il progetto di spogliare Eszter della sua casa per rinchiuderla in un ospizio come “ una faccenda non così tragica”), la mancanza del senso di rimorso e di vergogna per il danno inflitto (“Dov’è il tuo limite, Lajos? Domandai. Immagino che tutte le persone abbiano un limite interiore grazie al quale attribuiscono una certa misura sia al bene che al male. Ma tu non hai limiti”), e soprattutto l'abgilità con cui altera la capacità di raziocinio del suo interlocutore.
Per i lettori meno attenti è facile simpatizzare con personaggi ,come Teresa Batista, che subiscono una violenza fisica evidente e dunque riconoscibile, faticheranno invece a solidarizzare con una donna, come Eszter ,la cui “stima di se” è così compromessa da portarla ad accettare il suo totale annientamento.
In realtà non dobbiamo dimenticare che Eszter, al pari dell'eroina brasiliana, deve essere considerata una vittima.
Marai, a mio avviso, in questa sua opera, ha avuto il grande merito di rappresentare, con crudo realismo, la devastazione psicologica di chi incappa in un predatore emotivo, dimostrando, anche agli scettici, come uno psicopatico, senza schiaffi o calci, possa comunque trasformare persone forti e sane nell’ombra di se stesse relegandole ad una non-vita.
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"Viaggiare è come sognare" Edgar Allan Poe
Immaginate di salire su un treno, non su uno di quei mostri freddi e asettici che oggi attraversano le nostre città, ma di prendere posto a sedere su un antica carrozza, trainata dalla sua bella locomotiva, che con la ciminiera sulla cresta, sbuffa vapore e scivola sulla strada ferrata.
Nel vagone passeggeri, una donna, dalla pelle bianchissima, legge un libro preso a nolo nella stazione di partenza e con una mano sorregge la lampada ad illuminare la pagina aperta, qualcun altro invece è raggomitolato in un angolo e nel sonno si lascia dondolare.
Gli odori di valigia, dei guanti nuovi, del lucido degli stivali, del fresco delle sottovesti si mescolano al lamento del grande cavallo, che a piccoli spintoni, si lancia nella corsa.
Su una seduta in legno, fa da cuscino l'immagine litografata di una traballante diligenza postale e del campanile di un villaggio: lì la prima sosta.
Partirono in ventidue per la guerra, ma il treno sta riconsegnando a Quinnipak solo Mendel, splendido nella sua uniforme, mentre compone il lungo poema della morte che all'arrivo dovrà recitare alle vedove e alle madri dei caduti.
Era il XIX secolo, quando iniziarono a comparire i primi fasci di binari che andarono a costeggiare la terra bruna delle strade attraversate dai calessi. Zoccoli di cavalli e solchi di ruote disegnavano lastricati di fango, mentre a lato venivano eretti i grandi "monumenti alla modernità".
Diapositive di paesaggi vengono proiettate sul finestrino del treno, e i viaggiatori, spettatori immobili, le riassemblano in un insolito cortometraggio.
Una freccia sul bordo della strada indica la via per Quinnipak, ed ecco spuntare il campanile del villaggio che suona le ore, il calesse di Arold fermo sul ciglio del marciapiede, il bosco, il fiume, le betulle, la casa della stimata vedova Abegg e quella stanza in fondo al corridoio dove il signor Pekisch, con la sua camiciona da notte di lana grezza, strimpella un fortepiano Pleyel del 1808, sulla collina la villa dei signori Rail e poco distante la loro fabbrica in cui il vecchio Andersson sta mettendo a punto un sistema per realizzare grandi lastre in vetro. Un progetto che porterà il suo nome: "brevetto Andersson delle vetrerie Rail".
Il tagliacarte della signora Rail rompe lo spago che avvolge il solito pacco avviluppato da carta marrone. Al suo interno una carta bianca e una carta rosa nascondono una scatola viola dove è custodito un piccolo scrigno in panno verde e dentro quell'astuccio un gioiello ad annunciare il ritorno del signor Rail.
Nel salone i tre candelieri, le salviette ricamate, i piatti bordati in oro e la zuppiera fumante attendono l'arrivo del padrone di casa. Dann Rail, con il suo foulard rosso intorno al collo, non ha regali da donare a sua moglie, ne munifici contratti da mostrare al signor Andersson, varca la porta con una mano poggiata sulla spalla di un bambino che ha la pelle color sabbia. "Questo è mio figlio" il suo saluto.
Sulla strada principale due operai stanno smontando l'insegna dell'Emporio "Fergusson & Figli".
Betty Pun, una piacente signorina bionda, è la nuova proprietaria.
Dalla veranda della sua casa, Adelaide Fergusson per ben ventitre giorni vede l'amante del marito aprire quella bottega che per anni fu sua. Il cuore smette di battere.
Dopo la tumulazione della madre, i figli di Fergusson attendono l'imbrunire per entrare nella casa della bella Betty. A turno la violentano e poi le fracassano il cranio con il manico del fucile, lasciandola esanime in una pozza di sangue. Giustizia è stata fatta.
Pekisch, l'Archimede e il Mozart del villaggio, è disteso sul prato a versare litri e litri di parole in un tubo di stagno e dall'altro capo il giovane Pehnt, con la sua giacca da uomo addosso, che si presta a fargli da assistente. Progetto interessante quello dell'autoascultatore, ma qualcosa non ha funzionato. Poco male, perchè ogni venerdi Pekisch torna a suonare l'umanofono. Anche questa una sua invenzione, ma stavolta ben collaudata. Si tratta di un organo in cui al posto delle canne, ci sono i cittadini di Quinnipak. Ogni persona emette una nota e una sola: la sua personale.
Il maestro è alla tastiera, preme un tasto e con un gioco di corde viene strattonato il polso della signora Trepper. Quello è il segnale. Risuona un femminile la bemolle.
Pehnt annota sul suo quadernetto "le cose da sapere": Sesso. Prima togliersi gli stivali, dopo i pantaloni.
Una giacca decide il suo destino, la giacca che fu di suo padre, la giacca che lo avvolgeva quando venne abbandonato ai piedi della chiesa di Quinnipak. Il suo futuro è in città, in una bella casa, dono di nozze del suocero. Sul comodino,il manuale del perfetto assicuratore ha preso il posto del logoro taccuino.
Nella fornace che sfuma via le ceneri, la signora Rail, non indossa più il suo vestito giallo e con i capelli sciolti si muove sinuosa sul corpo nudo del giovane dalla pelle color sabbia...
Il treno prosegue la sua corsa, Quinnipak è lontana. Si intravede Londra, la Grand Entrance di Hyde Park.
Il principe Albert ha già indetto il concorso. Un immenso palazzo dovrà ospitare l'Esposizione Universale.
Tra gli olmi secolari del parco campeggia in bella vista il Crystal Palace, una gigantesca cattedrale in vetro e ferro.
Il progetto dell'architetto Hector Horeau è stato scartato, le lastre di vetro della fabbrica Rail non arriveranno mai nella capitale inglese.
Siamo già lontani. Con un gigantesco rogo se ne sta andando il Crystal Palace.
Prossima tappa Morivar, finalmente l'odore del mare.
"Signori si scende" urla sotto il finestrino il capitano Abegg. La donna, dalla pelle bianchissima, chiude il libro e torna ad avere paura. Ora non è più salva ma l'America non è così lontana...
Fotogrammi che si ripiegano nella memoria come le figure in rilievo nei libri per bambini ed un finale che riavvolge la pellicola
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Il viaggio non è il mezzo, ma lo scopo....
Qualcuno disse "non esiste viaggio più affascinante di quello alla scoperta di se stessi", eppure pensare a "Siddharta" come ad un "percorso interiore" dentro la propria storia, come all'esasperazione del soggettivismo individuale dove latita la presenza del "divino", sembra estremamente riduttivo.
Infatti quello del protagonista non è un semplice errare nello spazio, è un cammino spirituale, scandito da una prosa dell'interiorità, contornato dall'incanto e dall'evanescenza di luoghi irreali,impalbabili fatti di fiumi, boschi, giardini, di risaie, di giacigli di spine, di preziosi tappeti,di sacre abluzioni, di formule magiche, di penitenti, santi, di predicatori, di monaci,di ricchi mercanti,di cortigiane, di contadini e di mendicanti.
Il viaggio è un esperienza iniziatica che un giovane Siddharta affronta in totale solitudine, una lenta ed inesorabile evoluzione spirituale che come dicevo, non si traduce in un inno all'individualismo perchè il protagonista non nega mai a se stesso la possibilità di incontrare l'Assoluto (quello che noi occidentali chiamiamo "Dio"), di entrare in contatto con una realtà che va oltre quella terrena e dalla quale dipende l'esistenza stessa.
Einstein affermava : "qual'è il senso della nostra esistenza? Il saper rispondere a siffatta domanda significa avere sentimenti religiosi" e in effetti vi è un aspirazione comune in ogni percorso spirituale: conoscere e trovare Dio per capire il senso della vita.
Lo stesso Sant'Agostino,nelle "Confessioni", vive lo stesso dramma del protagonista indiano, ovvero cerca il suo Dio nell'intimità della propria coscienza, in bilico tra l' inafferabile perfezione morale e le attrazioni mondane-terrene, però per il Vescovo di Ippona, l'uomo non è mai la misura ultima della Verità, perchè è Dio a narrargli il senso dell'esistenza ("Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te").
Parlando di quest'opera dunque non si può tralasciare l'aspetto "religioso-filosofico" che pure esiste.
Per questo motivo, la scrittura di H. Hesse è simbolica, ricca di suggestioni "mitiche" e per il lettore occidentale, è veramente difficile comprendere fino in fondo il significato che l'immagine veicola.
Questo continuo interscambio fra narrazione (è il viaggio che rende questo breve romanzo un opera essenzialmente narrativa) e simbolismo religioso partorisce una complicata esegesi allegorica e figurale che difficilmente può essere interpretata correttamente se non si conosce la cultura indo-buddista.
Un esempio su tutti: di fronte all'immagine del fiume-oracolo, che istruisce il barcaiolo Vasudeva prima e Siddharta poi, non si può negare lo sforzo intellettivo che costringe il lettore occidentale a decifrare un messaggio latente che in realtà risuona solo come una bizzarra elucubrazione orientaleggiante.
Personalmente, quando ho letto questo passaggio, ripensavo al pastore errante di Leopardi che si ritrovò "a ragionar" con la luna su se stesso ("ed io che sono?") e sul proprio destino ma con una differenza: se il pastore esprime tutta la sua inquietudine fatta di domande senza risposte, al barcaiolo le correnti del fiume parlano.
Solo attraverso un attenta riflessione, ho capito che le acque di quel fiume sono caricate di un profondo sovrasenso simbolico: lo scorrere delle correnti rappresenta la vita, la musica del divenire, per questo Siddharta non può lasciarsi annegare tra quelle acque. Il fiume è simbolo di vita, diventa un ponte che unisce la vecchia e la nuova esistenza di Siddharta, che inaspettatamente gli riconsegna il passato (Kamala) e che gli regala il futuro (suo figlio).
Assorbendo il suono del fiume il protagonista, ormai in là con gli anni, impara ad amare il mondo e ad appartenergli senza confrontarlo con un "mondo perfetto" che in realtà è immaginario, inafferrabile.
Non solo il venerato fiume, ma "ogni brezza, ogni nuovola, ogni uccello, ogni insetto è altrettanto divino e può essere altrettanto saggio e istruttivo", questo è ciò che Siddharta apprende dopo il lungo peregrinare.
Se vogliamo pensare a quest'opera come ad un apologo, il vero insegnamento morale che H.Hesse ha (almeno a me) trasmesso è che bisogna attingere la saggezza non nei libri ma nella vita, attraverso l'esperienza perchè è possibile leggere il " libro del mondo" solo decifrando e studiandone le lettere e non adottando acriticamente " un significato congetturato in precedenza".
Nella vita di ogni uomo, Dio (l'Assoluto) parla; la sua voce risuona nella coscienza e non si fa udire finchè non le si da spazio: Siddharta stesso impara ad ascoltare quella voce quando preferisce una vita randagia alle comodità della casa paterna, quando, come il più umile dei discepoli, apprende dagli asceti l'esercizio del digiuno o la sospensione del respiro, quando si lascia inghiottire dalla città e conosce, attraverso la cortigiana Kamala, il piacere della carne, quando attraverso il gioco d'azzardo si scopre avaro, quando ha il coraggio di spogliarsi dei suoi abiti da signore e delle scarpe da "uomo raffinato" per indossare un vecchio grembiule, per diventare il garzone del barcaiolo ed imparare ad ascoltare il fiume sacro, quando attraverso suo figlio rivede se stesso e la crudeltà con cui un tempo aveva abbandonato suo padre, quando con lo spirito soddisfatto, l'anima tranquilla e con il cuore placato incontra Govinda e a lui "insegna" la beatitudine.
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Dejavu Letterario
Sfogliando le prime pagine di questo piccolo capolavoro, che ha resistito ai tempi e alle mode, ogni parola, ogni frase mi rimandava a quell'immagine sbiadita della Signora March, seduta in poltrona, con le sue quattro figlie (Meg, Jo, Beth,Amy) riunite intorno al focolare, mentre legge le belle storie che le ragazze seguono in un religioso silenzio.
Da qui l'idea "un tantino" coraggiosa di pensare ad un parallelo letterario tra due grandi opere rimaste intatte fino ad oggi con il fascino della loro vicenda: "Piccole Donne" e "Orgoglio e Pregiudizio".
Lousa May Alcott scrisse "Piccole Donne" nel 1868 e come ben sappiamo, prese a modello del romanzo la sua famiglia, se stessa, la casa in cui visse, la propria adolescenza; eppure l'opera si ispira largamente alla trama austeniana. Certamente non si tratta di un copia-incolla ben riuscito, piuttosto di una rivisitazione del capolavoro di Jane Austen in salsa americana.
Difatti la lettura in sequenza dei due romanzi si rivela stimolante perchè consente di osservare il modificarsi di un tema universale che percorre trasversalmente sia la Letteratura e sia la vita : l'amore.
L'amore non dovrebbe essere uguale a tutte le latitudini ed in tutti i tempi?
Jane Austene e Louisa May Alcott, con le loro opere, sembrano rispondere decisamente di no, perchè le due scrittrici declinano questo tema all'epoca in cui sono vissute, portando in scena esempi di società così diverse come quella inglese (a ridosso della Rivoluzione Francese) e quella americana (durante la Guerra di Secessione).
Jane Austen trasforma il suo romanzo in un ironica critica sociale attraverso cui sperimenta una conciliazione tra l'amore romantico e l'istituto sociale in cui è chiamato a realizzarsi (il matrimonio).
Su carta,viene descritta quella dura battaglia necessaria a spogliare l'individuo di ogni "armatura sociale" per consacrare l'unione di due giovani socialmente distanti (Lizzy e Darcy) ma vicini sul piano dell'intelligenza, dell'eleganza, perchè è la somiglianza culturale che porta ad una parità sociale. L'avvicinamento di due mondi così diversi (aristocrazia terriera per Darcy,borghesia per Elizabeth) passa attraverso il matrimonio ma potrà avere inizio solo quando Darcy saprà rinunciare al suo "orgoglio di classe" e si renderà generoso e timido, e quando Lizzy invece imparerà a frenare la sua natura perchè si è ormai scoperta intelligente ma troppo avventata nei giudizi.
Louisa May Alcott, con leggere pennellate tratteggia un ambiente americano non molto dissimile da quello inglese: in entrambi i casi, si tratta dell'epoca dei grandi "balli di società" dove le ragazze dovevano accogliere l'invito a ballare come una promessa di matrimonio, il pegno di un amore eterno: ecco perchè diventa fondamentale la scelta dei nastri, dei guanti e delle scarpe. Tuttavia in "Piccole Donne" la critica sociale non assume mai un ruolo primario e cede il passo all'aspetto educativo e pedagogico, motivo per cui ancora oggi, il piccolo capolavoro della Alcott viene considerato, a torto, solo un "romanzo di formazione", una moderna favola.
Ebbene sono entrata nelle case dei signori Bennet e March, mi sono seduta a loro fianco, li ho spiati, e ho vissuto i loro drammi. Sorprendenti sono le analogie che avvicinano due scrittrici così diverse e lontane nel tempo e nello spazio e soprattutto nel modo di rappresentare il loro mondo.
-La prima analogia attiene alla questione temporale: "Piccole Donne" si svolge in un anno, così anche le vicende della famiglia Bennet si snodano in un tempo relativamente breve.
-Si tratta inoltre dello stesso mondo familiare e tutto al femminile, anche perchè il signor March e il signor Bennet sono personaggi- ombra: il primo è lontano da casa per prendere parte alla "Guerra di Secessione" e vi farà ritorno, stanco e malato, solo alla fine del romanzo; l'altro invece è murato vivo nella sua biblioteca, difeso da una curiosa e buffa indolenza.
-Le giovanissime signorine March sono 4: la maggiore, Meg (la più carina, estremamente dolce con i suoi modi aristocratici, giudiziosa e paziente) ricorda la Jane Bennet di Orgoglio e Pregiudizio; Jo March ha la stessa intelligenza vivace, lo stesso piacere di ridere degli altri e di se, la stessa curiosità, la stessa energia di Elizabeth Bennet; Beth March vive in un mondo tutto suo, dal quale esce di rado e studia pianoforte, proprio come Mary (la bruttina di casa Bennet che si sforza ad apparire colta e a modo). Mary Bennet legge libri e ne ricopia parti intere, mentre Amy March, "la piccola Raffaello di casa" ha uno spiccato talento artistico e si diverte a copiare fiori e paesaggi. Tuttavia, entrambe hanno già un opinione alta di se e volutamente cercano di inserire nei loro discorsi vocaboli o concetti difficili.
Kitty e Lydia sono le figlie sciocche dei signori Bennet, con l'inguaribile vizio di correre dietro agli ufficiali. In particolare, Lydia, la più giovane, ha una vitalità prorompente che spesso si traduce in sfacciataggine e in spavalderia. Sarà lei a dare scandalo
- Entrambe le famiglie vivono un disagio di carattere economico: i March hanno conosciuto l'agiatezza ma per aiutare un amico in difficoltà, hanno perso tutto ritrovandosi quasi nella miseria. Una condizione tuttavia che viene vissuta da tutta la famiglia con estrema dignità e coraggio.
Il patrimonio del signor Bennet consiste in una proprietà terriera che rende 2000 sterline all'anno ma sfortunatamente per le figlie, la proprietà in mancanza di un erede maschio è vincolata ad un lontano parente (signor Collins). Il rischio che le donne di casa possano ritrovarsi senza un tetto sulla testa viene vissuto con angoscia e timore, soprattutto dalla Signora Bennet.
-Le piccole donne non avrebbero mai potuto desiderare una madre migliore della signora March, una donna dall'aspetto benevolo, saggia, altruista, e sempre pronta a dispensare ottimi consigli alle figlie.
La signora Bennet invece è una donna di scarsa cultura, invadente ed imbarazzante, pettegola,sprovvista di tatto e di decoro, il cui unico scopo è quello di assicurare alle figlie un matrimonio "redditizio".
-Proprio nel modo che le due madri hanno di educare, di avviare alla vita le loro figlie, si registra uno scarto incolmabile tra i due racconti:
emblematiche le parole pronunciate dalla signora March, in vista del matrimonio di Meg con un giovane insegnante privo di mezzi: "Sono contenta di vedere Meg cominciare modestamente perchè se non mi sbaglio,possiederà con ricchezza il cuore di un uomo ONESTO, e ciò vale quanto un capitale".
La signora Bennet invece accoglie in casa, con un inspiegabile cortesia, l'ufficiale Wickham, un TRUFFATORE che aveva attentato all'onore della giovane Lydia e che si era risolto a sposarla solo dopo aver ricevuto la rassicurazione che ogni suo debito verrà saldato.
E ancora, la signora March, sempre a proposito del matrimonio della sua figlia maggiore: "sarei contenta di sapere che il signor Brook riesce a procurarsi un buon lavoro, che gli frutti una rendita sufficiente a non far debiti e a procurare una vita comoda a Meg. Non ho l'ambizione che le mie figliole trovino fortune straordinarie,posizioni aristocratiche o grandi nomi."
Di altro tenore le parole della signora Bennet quando apprende del fidanzamento di sua figlia Lizzy con il signor Darcy : "Come sarai ricca e importante! Quanti soldi, quanti gioielli, quante carrozze avrai.Sono così contenta, così felice! 10 mila sterline all'anno e probabilmente di più. Quel Darcy vale quanto un Lord".
"Meglio avere figlie zitelle e felici che mogli sfortunate o ragazze indecorose alla ricerca di un marito", questo è il motto della signora March, ben lontano dal mondo della signora Bennet dove il decoro non vale mai quanto un "perfetto matrimonio".
-Altra differenza: mentre le signorine Bennet amano oziare e divertirsi, le donne March lavorano.
La stessa signora March ha trovato un occupazione in un laboratorio di sartoria. Meg, grazie alla sua cultura scolastica e alla sua buona educazione, lavora come istitutrice presso la famiglia King; Jo è la dama di compagnia della zia March e Beth è l'angelo del focolare.
E' proprio la signora March a spiegare alle sue figlie, attraverso un efficace "esperimento", quello che accade in casa, quando ognuno pensa a se stessa, scegliendo di non essere collaborativa. "Il lavoro è benefico, fa been alla salute e allo spirito e procura un senso di forza e di indipendenza molto più di quanto ne procurino il denaro e la società".
Neanche a dirlo, diversa è l'opinione della signora Bennet che aspramente redarguisce il povero signor Collins colpevole di aver anche solo pensato che quel pranzo fosse stato preparato da una delle signorine. In risposta, la signora Bennet precisa che quella è un incombenza che spetta alla cuoca, non alle sue figlie.
Ma ancora più paradossale è quello che accade nel "campeggio Laurence" quando il signor Brook mette a tacere una giovane inglese, che aveva criticato,sia pur velatamente, il lavoro di Meg, con : "le signorine americane amano la loro indipendenza come l'amavano i loro antenati e sono ammirate e rispettate per il fatto di sapersi mantenere da se". Il femminismo della Alcott qui supera di gran lunga quello di Jane Austen.
- In entrambi i racconti fanno ingresso gli uomini: Laurie,il nipote del ricco signor Laurence (come Darcy è il nipote della ricca Lady Catherine), è solitario e sensibile. Si invaghisce di Jo, chiederà la sua mano (in "Piccole donne crescono") ma verrà respinto.
John Brooke è povero ma serio e assennato. La sua forte amicizia con Laurie, di cui è anche il precettore, ricorda quel forte legame che univa il signor Bingley a Darcy. Sarà il signor Brooke a chiedere la mano di Meg, ma come Darcy viene rifiutato. Meg scoprirà di amarlo solo dopo il discorso della zia March. Poichè le era stato ordinato perentoriamente di non amarlo (così fece la zia March con Meg e così fece Lady Catherine con Lizzy), Meg si risolse ad accettarlo.
- I Gardiner compaiono in entrambi i romanzi: Sallie Gardiner, amica delle sorelle March, è simpatica e cordiale, come sono altrettanto cordiali gli zii Gardiner delle signorine Bennet (a loro Lizzy e Darcy devono la loro unione).
-Forte è il legame che unisce Meg e Jo in "Piccole Donne" e Lizzy e Jane in "Orgoglio e Pregiudizio".
Jo vive con disperazione il matrimonio di Meg, perchè consapevole di perdere una sorella ed un amica ("vorrei che portassimo ferri da stiro sulla testa per impedirci di crescere").
Quando il sign Bingley compra una proprietà in una contea vicina al Derbyshire si realizza il sogno di Lizzy e Jane ossia quello di poter vivere a sole 30 miglia di distanza l'una dall'altra.
-Non mancano scene analoghe: al ballo nessuno si avvicina a Joe, come Lizzy che è costretta a rimanere a lungo senza cavaliere.
Jo scivola in un vano nascosto da tendaggi ma una persona timida (come lo era Darcy) aveva scelto lo stesso rifugio : si tratta di Laurence che confessa di trovarsi lì perchè "conosceva poche persone e si sentiva un estraneo" (la stessa sensazione che Darcy confessa di aver provato).
-Comune è anche l'uso dell'ironia, del sarcasmo caustico e sprezzante.
-Per entrambi i romanzi, indispensabile è la corrispondenza epistolare perchè molte delle notizie più importanti, vengono apprese tramite delle lettere: per esempio la malattia del signor March in "Piccole Donne" o la confessione del signor Darcy in "Orgoglio e Pregiudizio".
Il Massachussetts e Loungbourn non sono mai stati così vicini....
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La bomba che dà l'addio all'ottimismo di facciata
Il racconto presenta una trama semplice che si srotola in tre diverse ripartizioni di richiamo "Miltiano" (Paradiso Ricordato, la Caduta, Paradiso Perduto).
In effetti, Roth avrebbe potuto, sensibilmente, ridurre la durata narrativa di descrizioni prive di interesse (per es.le varie fasi di produzione dei guanti in pelle) ed accellerare così il ritmo della narrazione, ma è anche, attraverso queste analisi minuziose, che lo scrittore consegna al lettore l'immagine insuperabile di una Newark in rovina (" un tempo la città in cui si fabbricava tutto, ora la capitale mondiale dei furti d'auto"), un intera città distrutta da tasse,corruzione e razzismo, che diventa una proiezione simbolica, una metafora essa stessa della caduta che travolgerà il protagonista: Seymour Irving Levov, meglio noto come "Lo Svedese",uno studente ebreo, il migliore atleta del Liceo di Weequahic, insomma una leggenda.
Il vero antagonista di Seymour è Jerry, suo fratello, in cui ritroviamo rovesciati i tratti caratterizzanti l'aspetto fisico e la personalità dello Svedese. Difatti,Seymour, da ragazzo, era uno sportivo, alto, snello, con la pelle chiara e la sua "inespressiva maschera vichinga", Jerry invece un mago della matematica, magrissimo e flessibile come una stecca di liquirizia.
Seymour e Jerry: figli di Lou Levov, il classico "self made man",l'uomo che partendo dal nulla si è fatto da solo. Prima di lui, suo padre era arrivato a Newark dopo il 1890 e aveva trovato lavoro nella conceria Howell&Co, mescolato "ai più rozzi immigrati slavi, irlandesi e italiani". In quella stessa conceria andrà a lavorare anche un giovanissimo Lou Levov che solo dopo 20 anni, maturerà l'idea ambiziosa di mettere in piedi una fabbrica di sua proprietà: nasce così la Newark Maid. Ben presto, lo Svedese sarebbe diventato il giovane Presidente della Società.
A questo punto, spiccano le differenze caratteriali tra i due giovani Levov: Seymour dimostra di essere totalmente subordinato all'autorità paterna. Dovrà ereditare l'impresa di famiglia e viene dunque allevato,educato, istruito in vista del suo compito futuro: costretto a rifiutare contratti importanti, che con i suoi successi sportivi, inevitabilmente arrivarono, per poter entrare nell'azienda del padre, imparando il mestiere in una conceria prima, e davanti ad una macchina da cucire poi. Un ragazzo semplice, STOICO (aggettivo spesso ripetuto), attratto dalle responsabilità, votato al conformismo, ad un ideale di vita ordinaria e decorosa, con una buona scorta di sopportazione e la voglia di accontentare tutti. Lo Svedese rimane fedele a quell'imperativo sociale che obbligava i figli degli immigrati ad una corsa sfrenata per migliorare la propria posizione sociale, perchè è l'America il Paese che garantisce a tutti, indistintamente, "eguali possibilità di riuscita".
Jerry invece si ribella al padre e SCEGLIE di diventare un cardiochirurgo, preferisce Miami a Newark e colleziona mogli, ben 4, e tutte infermiere. Viene ricordato come un adolescente "eccentrico", e come un uomo arrogante e presuntuoso," ferocemente sicuro di sè".
L'avvenimento principale che aziona il racconto è un incontro casuale tra due vecchi conoscenti: lo Svedese e lo scrittore Nathan Zuckerman, a cui seguirà un invito a pranzo in un ristorante italiano di New York. Spietata è la critica di Zuckerman, che paragona il suo ex idolo (lo Svedese) a Ivan Il'i?, un personaggio tolstoiano, che come Seymour aveva condotto una vita decorosa, "approvata dalla società" e che in letto di morte, rimpiange di "non aver vissuto, come avrebbe dovuto".
In realtà, lo Svedese aveva realizzato la sua VERSIONE DEL PARADISO, una vita semplice e comune, ma bellissima, "perfettamente" americana: Sposa Dawn Dwyer, una "shiksa" (ragazza non ebrea), ex Miss New Jersey; vive in una casa in pietra indistruttibile, inespugnabile nella ricca e rurale Old Rimrock, un vero fortilizio con le persiane nere e l'altalena appesa al ramo di un albero su cui aveva visto dondolare sua figlia Merry (" la ragazza più in gamba di tutte", nonostante il problema della balbuzie e i vani tentativi di curarla) e non in ultimo un azienda gestita magistralmente.
Bellissima questa contrapposizione tra la "casa in campagna" (nido domestico, l'ambiente amico in cui ritrovarsi, l'illusione della perfetta stabilità) e la "città industriale"(il luogo dove si esasperano tutte le più vistose contraddizioni della società moderna,come la guerra, l'immigrazione di massa, le discriminazioni razziali, la criminalità).
Dopo il famoso pranzo con lo Svedese, Roth parla di una riunione degli ex allievi del Liceo dove Zuckerman avrà modo di rivedere Jerry,il suo ex compagno di classe e soprattutto di avere notizie del fratello. Da quella breve e intensa chiacchierata,lo scrittore scopre non solo che Seymour era morto recentemente (l'eroe indistruttibile della Weequachic aveva perso la sua partita con il cancro) ma anche che la bellezza,la gloria non lo avevano esentato dall'incomprensibilità del dolore,dalla tragedia umana.
La vita dello Svedese non si era srotolata come un morbido gomitolo di lana. Anzi ne esce fuori
- l'immagine di un padre autoritario, impossibile da soddisfare, un "insopportabile bastardo" che Seymour sopportava con estrema tolleranza.
- Una moglie altrettanto insopportabile. "A Dwyer nessuna casa andava bene, nessun conto in banca era abbastanza grosso". Lo Svedese le aveva messo in piedi un allevamento di bestiame ma non aveva funzionato, e la stessa sorte era toccata al vivaio. La portò in Svizzera per un lifting, e non aveva neanche 50 anni, fu operata dal chirurgo di Grace.
- Una figlia assassina. Meredith Levov era la terrorista di Rimrock, la studentessa liceale che per protestare contro la Guerra in Vietnam, pensò bene di far esplodere l'ufficio postale di Hamlin, uccidendo il medico che era uscito all'alba per imbucare una lettera. Questo fu solo il primo di una serie di attentati che la vedranno coinvolta.
Da qui l'idea dello scrittore Zuckerman di raccontare la vita di una leggenda, seguendone non i successi,ma il crollo e la caduta. Si reca a Newark, a Old Rimrock e cerca di reperire informazioni utili per rendere il racconto "verosimigliante". Quella che segue è dunque una CRONACA REALISTICA che certamente non si ripropone di essere la fedele biografia di un uomo (lo Svedese), perchè il dramma dei Levov diventa lo spunto che permette allo scrittore (anche allo stesso Roth) di raccontare la storia delle tante famiglie americane, progressiste e tolleranti, che con la Guerra in Vietnam, si ritrovarono i figli in galera o in fuga verso la Svezia o il Canada.
La vita di Seymour fu sconvolta da una bomba, quella piazzata da sua figlia, che diede l'addio all'America pittoresca e il benvenuto al mondo reale. Qualcosa si inceppa nella quotidianità della vita borghese, i cui riti sono guidati da un destino senza sorprese. I valori che sembravano ormai consolidati vengono rifiutati dalla nuova generazione, quella di Merry.
Seymour si era conformato automaticamente, INCONSAPEVOLMENTE a regole che si presentavano naturali, necessarie, le uniche possibili. Aveva rispettato quell'imperativo sociale che lo obbligava ad essere un buon marito, un buon padre, un ottimo uomo d'affari. Era così diventato l'immagine perfezionata di suo padre.
Merry non aveva accettato quelle regole, si era interrogata circa la validità di queste, e CONSAPEVOLMENTE aveva deciso di non adeguarvisi. L'atto terroristico è un esempio emblematico di devianza dai valori normalmente riconosciuti. Il '68 aveva tradito il passato e la storia si è incaricata di vanificare brutalmente le illusioni, le aspettative dei genitori. Merry non è l'immagine perfezionata di suo padre, è una figlia scheletrica, vestita come uno spaventapasseri, che vive in mezzo ai rifiuti e ai derelitti, una giaina che aspira a morire per inedia e che confessa allo Svedese di aver ucciso 4 persone "con la stessa innocenza con cui un tempo avrebbe potuto dirgli : papà, oggi pomeriggio ho cotto al forno dei biscotti al cioccolato".
La storia americana aveva raggiunto anche le strade tranquille e senza traffico di Old Rimrock, fatto irruzione nella casa ordinata e sicura dello Svedese e aperto una voragine che non si sarebbe mai più richiusa: "Non si riprenderanno mai".
La cena a casa di Seymour con cui si chiude il romanzo, appaga la volontà caricaturale di Roth nel rappresentare una realtà vuota, banale, ai limiti del grottesco, dimostrando, ancora una volta, che l'ottimismo di facciata spesso coincide con un atteggiamento superficiale nei confronti della vita:
-Lo Svedese scopre che sua moglie ha un relazione con un vicino, Bill Orcutt, l'architetto che stava progettando la loro nuova casa, e ancor peggio che ormai era riuscita a gettatarsi alle spalle quel passato scomodo. Dawn ricominciava da capo con un viso, una casa, un marito, tutti nuovi. Lo Svedese invece era rimasto sempre lì, a quel 1968.
- Orcutt: Tutta apparenza e simulazione: sopra il gentleman sotto il verme.
-Lou Levov dirotta le sue attenzioni di "buon padre premuroso" verso Jessy, moglie di Orcutt, alcolizzata: un altra vita spezzata in due. Nella sua crociata contro il "disordine" Levov-padre ne esce ferito (nel vero senso della parola). La devianza (ora incarnata dall'alcolismo ) aveva avuto la meglio.
-Barry Umanoff, l'uomo ragionevole, professore di Giurisprudenza alla Columbia, figlio di un sarto immigrato e quindi l'esempio emblematico di "colui che ce l'aveva fatta",si accompagnava stranamente a Marcia, una professoressa di Lettratura, non conformista, una donna sciatta, molto più portata al sarcasmo che all'igiene personale.
-Sheila Salzman,la foniatra di Merry, l'amante di Seymour,la "ragazza carina, gentile e soave" con cui lo Svedese avrebbe voluto ricominciare, era diventata la complice di sua figlia, aveva agevolato la sua fuga, tenendola nascosta (anche ai suoi genitori) per qualche giorno dopo il famoso attentato del 68.
A tavola vengono serviti due piatti unici: la parodia dell'integrità umana e la distruzione di ogni dovere morale.
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