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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    31 Gennaio, 2025
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Stupore e tremori: sono i miei che leggo

La sinossi racconta praticamente tutto. Ma leggere gli accadimenti è tutt’altra cosa.

Amélie ha ventidue anni quando, grazie alla sua conoscenza del giapponese e del francese, riesce a trovare impiego, come traduttrice, con contratto di un anno, presso la Yumimoto, un'importantissima multinazionale giapponese.
Torna finalmente a vivere in Giappone, suo paese d’origine.
Il racconto, autobiografico, narra la sua esperienza lavorativa in un crescendo di situazioni che giudicherei inverosimili se non sapessi che nulla è inventato.

Gli accadimenti sono così surreali che penso, più volte, fino alla fine, siano frutto di immaginazione.
Mi sorprendo a chiedermi come faccia a prendere gli incarichi che le vengono via via affidati sul serio, come faccia a non abbattersi, ribellarsi, urlare, denunciare, fuggire, restare allibita, ridere per non piangere.

E’ una narrazione che offende e sconvolge, tutto mi appare comico, un umorismo senza intenzione, tale lo percepisco io.
Cosa la motiva? Competizione? Volercela fare a tutti i costi? Credere che gli incarichi che le vengono assegnati abbiano un fondo di utilità o logica?
Ogni incarico è per lei una sfida. Il modo in cui l’affronta mi crea stupore.

“Il signor Saito lesse il mio lavoro, lanciò un gridolino sprezzante e lo strappò: Ricominci.
Mi venne voglia di chiedergli dove sbagliavo, ma era chiaro che il mio capo non tollerava le domande.”

Mi domando il perché dell’assunzione. Perché ignorino, anzi ritengano offensive le sue competenze. Il suo saper correttamente svolgere l’incarico che le viene affidato è quanto di più odioso, intollerabile, ingiustificabile, inammissibile, inconcepibile possa accadere agli occhi dei suoi piramidali superiori.
“I giorni trascorrevano e io continuavo a non servire a niente.”

Ochakumi: “l’onorevole cerimonia del tè.”
“Lei ha profondamente turbato la delegazione dell’azienda amica! Ha servito il caffè con formule di cortesia che lasciavano intuire la sua perfetta conoscenza del giapponese!”
Una bianca, un cervello occidentale capisce perfettamente la loro lingua! Non è dunque anche questo il motivo dell’assunzione? No, è uno scandalo.

“Avevo l’impressione di essere stata dimenticata.”

Di sua iniziativa inizia a distribuire posta: un’iniziativa personale, senza permesso!

“Posso aggiornare i calendari?” Strappare la pagina da febbraio a marzo, è ben di più che spostare il quadratino sul singolo giorno!

“Mi fotocopi questo” diventa un compito impossibile da espletare. Il vassoio di alimentazione automatica della fotocopiatrice è estremamente impreciso, i migliaia di fogli vanno fotocopiati uno per uno affinché siano perfettamente centrati e tutti uguali. E’ ovvio che sia per lei un compito impossibile da svolgere.

E del rapporto sul nuovo burro light vogliamo parlarne? Il signor Tenshi le lascia carta bianca, la mia mente pensa all’istante: attenta! Lei che studia, indaga, guarda le statistiche, contatta la cooperativa belga per un confronto, insomma ne viene fuori un rapporto eccezionale. Il signor Tenshi non aveva dubbi.
La catastrofe al arriva al galoppo, per entrambi. La competenza viene travisata come comportamento da traditori e individualisti, serpenti sono. Osare una difesa è impensabile, significherebbe mettere in dubbio ciò che il superiore le contesta. “Un simile pragmatismo odioso è degno di un occidentale”

D’accordo è un racconto comico, sto’ per scoprirlo mi dico…

E la sua diretta responsabile, la stupenda, incantevole Fabuki Mori? Che Amélie osserva incantata? Fabuki pensa di lei che sia scema, minorata mentale, ultima delle imbecilli, vigliacca…
La faccenda della contabilità, che si riduceva a copiare elenchi ha dell’incredibile.

L’incarico del calcolo per il rimborso delle spese di viaggio e la decisione di passare i giorni e le notti in azienda, per cercare di portare a temine l’incarico. Inutilmente.

E siamo alla destinazione finale, qui non può sbagliare…forse!
I bagni il suo nuovo regno, la carta igienica il suo nuovo alleato, il water pulito il suo nuovo obiettivo: guardiana dei cessi. Finalmente è atterrata sul gradino più basso. Ma anche questo incarico si rileva troppo complesso per la nostra Amélie.
“La mia memoria cominciava a funzionare come uno sciacquone. Lo tiravo la sera. Uno scopino mentale eliminava le ultime tracce di lordura.”

La mentalità nipponica non contempla le dimissioni, sarebbe offensivo nei confronti di sé stessi, significherebbe perdere la faccia.

E’ il primo romanzo che leggo di questa scrittrice, apprezzo la prosa schietta e veloce. Il racconto è breve ma zeppo di significato, apprendo una realtà che ignoravo, la considerazione che hanno del lavoro altrui, le rigidissime regole, i cerimoniali che vanno rispettati, le trappole poste sul cammino di una collega che potrebbe farsi strada in tempi più brevi rispetto ad altri colleghi, dover ascoltare rimproveri urlati a voce altissima senza poter giustificarsi perché sarebbe irrispettoso, far finta che tutto sia normale e che vada tutto bene. Ammettere colpe inesistenti per soddisfare pretese assurde altrui.
La nostra Amélie è la mia vincitrice assoluta.

E’ il 7 gennaio 1991. Il contratto scade a giugno. Arriva giugno.

Ormai è chiaro, nessun compito può vederla all’altezza della situazione, non resta altro che ringraziare, essersi resa conto dei propri limiti le sarà utilissimo in futuro. Un cervello limitato. Basta saperlo.
“Nel antico protocollo imperiale nipponico, si afferma che ci si rivolgerà all’Imperatore con ”stupore e tremore. Assunsi dunque la maschera dello stupore e cominciai a tremare.”

Torna in Europa e nel 1992 viene pubblicato il suo primo romanzo.
Nel 1993 riceve le congratulazioni di Mori Fabuki, in giapponese.

“Finché esisteranno finestre, l’essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    28 Settembre, 2024
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Ritrovarsi, riconoscersi, scegliersi

Scambio di emozioni, amicizia che è fratellanza, senso di appartenenza e istinto di fuga, reciproca solidarietà, accettazione, stupore, legami… è ciò che ho sentito durante questa lettura.

Dice Paolo Cognetti: “E’ un romanzo che parla di due amici e una montagna, che non è solo neve, dirupi, creste, torrenti, laghi e pascoli, bensì un modo di vivere la vita, un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura.”

Ambientazioni e personaggi mi sono apparsi ben descritti.
La linearità del racconto anche. Seguiamo i protagonisti da un certo momento nel loro tempo fino ad un altro. Di alcuni sapremo cosa accadrà, per altri possiamo solo immaginarlo.

L’incipit è dedicato a Giovanni Giusti, questo padre “ostinato” ad andare sempre più su, finché più su in montagna non si può più andare ma solo ridiscendere “a rotta di collo.” Nel dubbio prendere sempre la strada che sale, superare chi ci precede. Vietato fermarsi per bere, lamentarsi, riposarsi o per il freddo o la fame. La sua ossessione per i ghiacciai.
Pietro racconta che, avrà avuto sei o sette anni, una mattina si è fatto trovare vestito di tutto punto dal padre e gli ha detto “vengo con te.” O forse questo è ciò che al padre piace ricordare.

La madre è una figura che può apparire secondaria ma io l’ho amata molto. Lei che ama rendere accogliente persone e cose che la circondano. Quando arrivano nel paese di Grana ridà vita alla vecchia stufa non accesa da tanti anni, riempie di fiori le finestre, riaccende i fornelli e mette a scaldare il latte osservando, con una coperta sulle spalle a proteggersi dal freddo, insieme a Pietro, il latte che fuoriesce dal bricco, brucia i fuochi e il fumo che invade la cucina.
Dice che in montagna ciascuno ha la sua quota, quella si sente di star bene e dove può stare. Per lei sono i 1500 metri, dei rododendri, abeti, mirtilli, ginepri e caprioli. Per Pietro è un po’ più su, dove ci sono pascoli, erbe e torrenti. Per il padre ancora più su, verso i 4000 dove compaiono i ghiacciai, la vegetazione scompare e la montagna si fa ostile e aspra.

Bruno che guida le sue mucche verso la stalla con quel verso, dice eh, eh, eh, oh,oh,oh…sarà quel verso che aiuterà Pietro a ritornare verso casa, ritrovando l’equilibrio perso al crepaccio, e quello stesso verso se lo diranno reciprocamente, in futuro, per richiamarsi, per dirsi, io ci sono, anche io.
La loro amicizia ha un’intimità che non creerà loro mai imbarazzo, neanche quando Pietro gli si aggrappa sulla schiena, in moto, insieme.

Pietro e Bruno, è il 1984 e hanno 11 anni. Inizialmente si osservano, nessuno fa il primo passo. Fino a quella mattina a colazione quando Bruno gli dice seguimi, andiamo. E Pietro va.

Sembra non accadere nulla, ma invece di cose ne accadono tante. Ciascuno prenderà la propria strada.
Pietro che va, Bruno che resta.

Sul muro la cartina geografica attaccata con le puntine, tre colori tracciati con il pennarello. Nero per il padre, rosso per Pietro, verde per Bruno. A volte il nero cammina da solo, altre volte cammina con il verde, altre con il rosso, raramente camminano tutti e tre colori insieme. E’ un’immagine che dice tantissimo e che mi ha molto commossa. L’autore riesce a raffigurare perfettamente questo momento. Mi sembra di vederli, ora che leggo, camminare e camminare.

E’ un racconto di nostalgia e di rimpianti ma con leggerezza, c’è solo un velo di malinconia. Il tono non è mai sdolcinato, mai piagnucoloso, è una narrazione di suggestioni. Non ci sono pagine solo per riempimento, mi pare un racconto bilanciato e misurato che evoca ricordi per risvegliarne altri.

Tra questi due amici, Pietro e Bruno, c’è un filo che li unisce e si tende all’infinito quando Pietro va e Bruno resta. Ma poi lo stesso filo si riavvolge. Sempre a Grana, sempre in quelle montagne del Grenon che sono anche le montagne di Pietro. Si ritrovano sempre. Come se non si fossero mai lasciati davvero. Anche ora che di anni ne sono passati tanti sa quel loro primo incontro.

La storia delle otto montagne narra che il mondo è raffigurato come un cerchio, al centro un monte altissimo, il Sumeru, e intorno otto raggi che sono otto mari e otto montagne.
Ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato sulla vetta del Sumeru?

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    26 Luglio, 2024
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Siamo condannati a essere liberi

Un continuo stimolo a riflettere per non banalizzare situazioni ed atteggiamenti che poniamo in atto e che ci circondano.
Un invito a fare ciascuno la propria parte per rendere il posto in cui viviamo e interagiamo, per obbligo o scelta, con altre persone, un posto più "cordiale" e inclusivo.
Un insegnamento, una raccomandazione, un avvertimento a non trovarci dove non dovremmo o potremmo essere, rifiutati, non accettati, disprezzati.
Avere la forza e il coraggio di fare un passo indietro o un passo in avanti. Inclusivo.
Sono le sensazioni che ho provato durante tutta la lettura. Ce ne sarebbero tante altre che non riesco pienamente ad esprimere.

Muro come difesa, barriera, protezione, salvaguardia delle frontiere da un’invasione di stranieri con intenti distruttori. Ma anche un concetto psicologico che ci induce a difendere ciò che avvertiamo come nostro.

La tentazione del muro è credere a una sola verità, a un solo libro, a un solo popolo, a una sola lingua, a una sola religione. Pluralismo e democrazia sono da combattere a tutti i costi.

L’odio non è altro che un sentimento che si autoalimenta.

Il Covid ci ha insegnato la solidarietà, ad andare oltre la nostra famiglia per farcela tutti insieme, perché proteggendo gli altri proteggiamo noi stessi.
Senza gli altri non esistiamo. Ospitalità come civiltà.

Sono impressionata dal ribaltamento del concetto “dell’aver bisogno”. Quando l’invadenza diventa essenziale per poter sopravvivere, e lo “straniero” diventa necessario. L’urgenza di un trapianto ci dovrebbe far riflettere sul concetto di selettività…

“Ogni processo di integrazione origina dall’amicizia verso lo straniero che porto in me.”

La libertà sono le libertà, altrimenti sono fanatismo: non ascolto, non interagisco con gli altri, leggo un solo libro.

La calunnia è attribuire il non detto e il non fatto.

L’invidia verso chi ha raggiunto traguardi a cui noi non siamo arrivati.

Uno vale uno è solo una retorica populista, una malattia della democrazia, al solo fine della propaganda elettorale. Uno non vale uno.

Questo saggio scritto da Massimo Recalcati, psicoanalista tra i più noti in Italia, è una lettura che consiglio a chiunque voglia riflettere sulla mancanza di confronto, di solidarietà, di empatia, sul sapere senza conoscere, sul prendere senza voler dare, sull'angoscia del contagio, sul non mettersi mai in dubbio, sulla certezza di aver capito.
In brevi capitoli scritti in una prosa scorrevole e comprensibilissima conduce chi ha voglia, in una breve lezione di psicoanalisi. Interessantissima.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    01 Luglio, 2024
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"Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.”

Ahmet Altan è uno dei più grandi scrittori turchi contemporanei.

Ex direttore del quotidiano “Taraf, è stato processato molte volte per il contenuto politico dei suoi articoli e per il suo impegno a favore della democratizzazione in Turchia.

Numerosi i riconoscimenti internazionali, tra cui nel 2017 l’Instanbul Human Rights Association Freedom of Thought and Expression Prize, che non ha potuto ritirare perché in carcere.
È autore di saggi e romanzi tradotti in più di 10 lingue.

Condannato, insieme al fratello Mehmet, all’ergastolo senza condizionale, per complicità nel tentato golpe fallito contro Erdogan del 15 luglio 2016.
E’ rinchiuso nel carcere di Silivri dal 23 settembre 2016 per aver espresso le sue opinioni.
Questa breve testimonianza è un messaggio che l’autore lancia al mondo.
Ha inizio quando la polizia fa irruzione all’alba nella sua casa, fino alla notizia della condanna a vita in regime duro.
Ma è, oltre che un racconto della durissima vita in carcere, soprattutto un invito per ciascuno a non lasciarsi sopraffare dalle ingiustizie, a saper guardare oltre, per salvarsi e amarsi.
Altan, da dissidente nel suo paese, l’arrivo della polizia se lo aspetta ogni notte.
La stessa sorte, 45 anni prima, era toccata al padre.
E quando lo portano in carcere pensa che può farsi schiacciare dalla realtà oppure diventare lui più forte. Più forte anche di questo mondo sotterraneo di pietra puzzolente di sudore e umidità e morte e ferro. Così lontano da quello dei vivi. Eppure così affollato, tanto da non riuscire a vedere il pavimento.
“Sorrisi al poliziotto. Perché, questa, è solo la realtà in cui mi hanno rinchiuso.”
Superare il punto di non ritorno, quello in cui ti manca il respiro e vedi la follia così vicina, tanto che manca solo un passo per raggiungerla: ma Altan decide di voltarsi e tornare indietro.
Pensare alla morte è l’unica via di salvezza. Dalla paura sarebbe nato il coraggio perché la paura di impazzire supera tutto.
“Un giorno sarei morto, questo contava.”
Ci racconta dell’importanza di avere uno specchio, potersi guardare in volto. Non potere farlo e’un po’ come perdere se stessi, non riuscire più ad avere cognizione di esserci.
Ed io penso su quante cose non rifletto abbastanza, a quanto sono superficiale. Perché penso che tutto ci sia per esserci sempre.
Diamo tante cose per scontate.
“ Noi amiamo e ci abituiamo all’amore.
A volte è possibile capire com’è grande l’amore che sta sotto quella abitudine solo quando l’abitudine viene interrotta così violentemente.
Cominciai a sbracciarmi per farmi notare. Che mi vedessero in quel momento era la cosa più importante della mia vita…”

Quando ho letto che la lunghezza della cella è di 6 passi e la larghezza di 4, mi sono alzata e li ho fatti quei passi. E poi ho guardato lo spazio. E poi mi sono mancate le parole ed i pensieri. Poi ho letto che in questo spazio sono in tre “e ci scontriamo continuamente”. Due uomini profondamente religiosi e un non credente. Il più giovane ha 38 anni, la religione per lui è tutto ma è consapevole che ci sono anche i non credenti. L’altro ha 53 anni e poi c’è Altan che ne ha 68, non crede in Dio, ma trova l’idea di Dio interessante.
Gli sembra strano soprattutto vederli pregare così spesso ad alta voce il Corano.
Eppure quando una delle loro figlie, Meryem, verrà incarcerata e poi liberata, pregherà con loro in segno di ringraziamento.
Quando in tribunale il presidente legge loro la sentenza, gli torna in mente ciò che dice lo scrittore Elias Canetti: “Vivere tranquilli e sicuri in mezzo al benessere e sentire le preghiere di una persona avendo già deciso di non prestarvi ascolto… Che cosa potrebbe esserci di più vile?”
“Ergastolo senza condizionale”.
Non rivedrà più il mondo, non rivedrà più il cielo, non avrà mai la grazia, morirà nella cella di un carcere.
Quando tutto finisce e la speranza si spegne, sappiamo che nessuno è davvero pronto per la disperazione assoluta e sentiamo pienamente ciò che Saramago intendeva quando diceva “non esiste consolazione per gli umani”.
Altan capisce che deve lottare, non abbandonarsi alla tempesta. In quella cella lo hanno condannato a morire ma lui non è ancora morto.
Volersi bene è il comandamento, scrivere ne sarà la dimostrazione.

È il racconto di un dolore senza fine, di uno sprofondare nell'abisso, paura dell’ oblio di se stessi.
Racconta un dolore che la maggior parte di noi non proverà, perché non conosceremo la costrizione fisica, ma ciò che si legge tra le emozioni non nascoste è la paura ancestrale dell’aver paura, di quando arriverà quel momento, quel dolore che in forme diverse ci travolgerà e avvolgerà e trascinerà giù con lui nel buio più profondo della disperazione, dove non ci sono porte né finestre né luci né cielo, solo buio e angoscia che ci strozza.
Che fare?
Lasciarsi prendere perché solo così è poi possibile nuotare verso la luce?
In queste pagine terribili ci siamo anche noi,i nostri sentimenti di solidarietà verso quest’ uomo, la rabbia verso altri uomini così freddamente disinteressati eppur chiamati assurdamente a decidere. È talmente pazzesco che mi chiedo come si possa non impazzire. Per un uomo senza fede... Chissà se è più semplice.
Altan è coraggiosissimo; mi chiedo cosa abbia di così nobile nell’animo da riuscir a desiderare nuovamente. Con nuova forza. Come faccia a risalire.
Forse i ricordi di ciò che ha scritto e ciò che ha letto, e di quando era diventato Peter Pan, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin…
La sua speranza e la sua salvezza: riavere tra le mani un libro. È di nuovo in viaggio. Lo stringe al petto prima di iniziare a leggerlo, per cercare di calmare le emozioni.

Non c’è nulla che non mi colpisca.
Il racconto delle manette che si stringono intorno ai polsi sempre più non appena muove le braccia.
La giovane donna radiologa indifferente e glaciale che non gli permette di toglierle neanche durante la radiografia.
Gli ex giudici ora incarcerati, che da giudicatori a giudicati ignoravano che il carcere fosse un posto del genere e anzi, in realtà non si erano mai fermati un attimo a rifletterci, tanto era una sciagura che avrebbe riguardato solo gli altri.
Ma come non si può ammirare e piangere di gioia e commozione per quest’uomo, Altan, che ormai ha imparato a erigerlo quel muro a sua difesa e quindi nulla può più ferirlo, e tutto ciò che lo circonda diventa oggetto di studio e di suo racconto per gli altri.

Che profonda ammirazione leggere queste parole…
Si, sono rinchiuso in carcere in mezzo al deserto.
Si…..
Si….
Si…..
Si….
Si….
Ma sono anche nella villa con giardino della mia infanzia, e anche sotto la furia dei venti settentrionali sulle rive del Danubio, e anche tra le isole della Thailandia, e anche negli hotel di Londra, e anche nelle strade di Amsterdam, e anche nei labirinti di Parigi, e anche nei parchi di New York, e anche nelle strade innevate.
….
Potete vedermi lungo i fiumi dell’Amazzonia, e sulle spiagge del Messico, e nelle savane africane. Converso in continuazione e vivo gli amori degli altri, le loro avventure e le loro preoccupazioni e le loro gioie. E rido quando origlio le loro conversazioni divertenti.
…..
“ Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere.
Finora non mi sono mai svegliato in carcere. Neanche una volta.
Sono uno scrittore.
Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.
Dovunque mi rinchiudiate, io viaggerò per il mondo sulle ali infinite della mia mente.
Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.”

Il 14 aprile 2021 è stato rilasciato dal carcere, dopo una sentenza della Corte di Cassazione turca che ha ribaltato la sua precedente condanna. Il giorno precedente una sentenza della Corte europea dei diritti umani aveva stabilito che la sua detenzione, durata oltre 4 anni, era illegittima e costituiva una violazione dei suoi diritti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    05 Mag, 2024
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Agghiacciante

“Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avervi dato una mano a morire.”

La voce narrante è Jack, quattordici anni.
Con lui la sorella maggiore Julie diciotto anni, Sue dodici, Tom sei.

Tutto comincia con quindici sacchi di cemento che servono a costruire un alto muro intorno al loro mondo per circondare la casa, davanti e dietro, con una spianata liscia di cemento.

“Mio padre steso per terra a faccia in giù, con la testa appoggiata al cemento appena steso. Mi avvicinai lentamente, sapendo che dovevo correre a chiedere aiuto. Per parecchi secondi non riuscì ad allontanarmi… quando l’ambulanza se ne fu andata, uscì a guardare il nostro vialetto. Nessun pensiero mi attraversava la mente mentre raccoglievo la tavola e con ogni cura cancellavo l’impronta di mio padre dal cemento fresco, soffice. ”

Questi accadimenti non sono un segreto, che tutto ciò succederà lo sappiamo a priori. Dalla quarta di copertina.

Quattro fratelli, una madre debole e malata. Un padre assente, ora per sempre. Una casa.

La narrazione è fredda, spigolosa, spietata, nessun aggettivo che ci faccia pensare all’affetto familiare. Sono tutti come fantasmi nei sentimenti.

E poi Jack, diabolico, ne starei certamente alla larga.

Quattro ragazzi che resteranno soli.

Le risa di fronte al corpo inerme della madre. I ragazzi che discutono sul da farsi. Come se la situazione fosse estranea da loro. Per un attimo mi viene in mente la stupidità, ma solo per un attimo.
Il racconto è talmente una narrazione lontana che quasi non mi impressiona. Ciò che destabilizza è l’inutilità di questi figli che tali non sono, la loro vuotezza d’animo, il loro pensare a soddisfare gli istinti animaleschi beandosi delle situazioni più dolorose.
La loro ignoranza di sentimenti ci viene spiattellata dall’autore subito.
I loro gesti fastidiosi che avrei volentieri evitato di leggere.

La sensazione di una prosa praticamente perfetta per ciò che racconta mal si sposa con i pensieri che suscita in me che leggo. McEwan non si smentisce mai, ti fa ruzzolare giù con lui a velocità vorticosa, nonostante la narrazione sia frenata, lenta, affinché il dolore emerga piano e coinvolga chi legge. Io non vorrei farmi trascinare ma l’unico modo per resistere e interrompere la lettura. Questo è McEwan. Non te le manda a dire.
Sarò una voce fuori dal coro ma questo romanzo non mi è piaciuto, non mi sento di consigliarlo e tornando indietro non lo leggerei. Ma se non lo avessi letto non potrei esprimere questo parere. Sembra contraddittorio ma è proprio questo che provo.
L’autore mi piace tanto, ho letto diversi suoi scritti tutti più o meno gradevoli e molto interessanti.
Chissà se con questo romanzo non volesse ottenere proprio questo risultato.

Forse la risposta è tutta nel titolo.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    04 Mag, 2024
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Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Ero in libreria alla ricerca di un nuovo compagno quando lo sguardo si è posato su questa copertina e su questo titolo. Conosco l’autrice e mi piace molto come giornalista.
Una veloce lettura della quarta di copertina mi ha quasi bloccata dall’acquistarlo temendo un risveglio delle mie paure più ancestrali. Poi mi sono detta che le paure comunque restano. E questo libro non avrebbe cambiato un dato di fatto.

Ciò che mi colpisce di lei nel suo lavoro è la sensazione che possa sentirsi a casa ovunque, nei territori più lontani, feroci e poco ospitali.

Il racconto è molto diretto, sembra di leggere un diario di ricordi e di confessioni a cui non si sottrae. Famiglia e malattia si alternano nella narrazione. Ma anche le difficoltà di trovarsi al cospetto di ospedali, medici, infermieri…file interminabili e liste di attesa che non hai il tempo di attendere. Le scelte da prendere e le persone di cui fidarsi. Scontrarsi improvvisamente con quell’immenso mostro burocratico che è la Sanità. Sapere di non poterne fare a meno.

“Mentre uscivo dal parco di Santa Maria della Pietà ho chiuso gli occhi e l’ho sentita, finalmente. Era la sua voce. Mi ha detto: attenta a te.”

E’ impossibile non provare empatia, ma questo non è l’unico sentimento che la lettura suscita.
Cerco di immaginare cosa possa significare non sentire più un lato del corpo, gamba, piede, ascella, collo, testa, spalla, gomito, avambraccio, mano, anulare, mignolo, vederli, ma sentirli estranei, assenti.

Mi impressiona il racconto della sua prima risonanza, rivivo la mia, la maschera intorno alla testa a bloccarla, le cuffie per attutire i rumori, la pompetta stretta in mano da schiacciare al primo accenno di claustrofobia. Quando il lettino è scivolato nel tubo e la luce ha cominciato a sparire ho realizzato lo spazio che avevo. E non ho avuto il tempo di premere la pompetta. Ho urlato di tirarmi fuori. Solo dopo tanto tempo ho riprovato, e come lei ho tenuto gli occhi chiusi per circa un’ora.
Ammiro il suo coraggio. Perché così appare ai miei occhi. Il suo prima e il suo dopo.
E io avrei avuto lo stesso coraggio?

La sua diagnosi mi gela. Ignoravo questo aspetto della sua vita.
Francesca Mannocchi ha trentasei anni e un figlio di sei mesi quando scopre di essere affetta da una malattia neurologica cronica, la sclerosi multipla, una malattia potenzialmente disabilitante del cervello e del midollo spinale. E’ definita ingravescente, cioè la situazione patologica può peggiorare progressivamente.
Quando ciò possa accadere resta un punto oscuro.

“Chiedimi se ho paura.”

Quando sarà cominciata la malattia, dove, perché. Ha senso porsi queste domande?
Le foto con un prima e un dopo. Essere nel contempo ignari.

“Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro.”

Essere malati. Malattia. Qual è il suo nome?

Macchie nel cervello, quel grigio che invece di essere uniforme ha delle placche bianche. Il danno.

“Mi posso fidare ancora del mio corpo?”

Le sue domande sono le mie. Lo erano anche prima di leggere la sua storia.
Perché in fondo il pensiero di come sono ora e di come sarò domani non mi abbandona mai.
Rifiuto, collera, ingiustizia, depressione, vergogna, malattia.
La rabbia che le fa pensare “Perché a me?”

È un raccontarsi in modo molto pulito, asciutto ed essenziale, senza travestimenti da supereroe, senza descrizioni di una famiglia perfetta e di una gravidanza idilliaca. Forse perché quando qualcosa ti tocca da vicino mentire sarebbe un inutile sforzo. Chissà che il suo lavoro, di inviata in zone di guerra che con tanta cura riesce a raccontare, non abbia condizionato e reso veri, reali, anche i racconti su se stessa e su ciò che le sta’ intorno, sul voler chiamare le cose con il loro nome.
Che è sempre un punto di partenza fondamentale, aggiungo io.
La prosa asciutta e schietta mi fa pensare ad una rassegnazione e ad una reazione. E questo mi suscita grande ammirazione.
Se potessi farlo le direi semplicemente grazie.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Aprile, 2024
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"Basta Pre Occupazione"

Questa storia, vera, sembra incentrarsi sull’amicizia impossibile tra il palestinese Bassam e l’israeliano Rami che vivono a Gerusalemme su fronti geograficamente opposti e sulle loro bambine Abir e Smadar. C’è qualcosa che li unisce nel profondo, e questo qualcosa non fa differenza di nazionalità, cultura, ideologia, religione…hanno entrambi visto morire le proprie figlie innocenti in situazioni violente.

Smadar ha tredici anni, quando il 13 settembre 1997 dei terroristi si fanno esplodere in strada e lei viene travolta dall’esplosione. Ascoltava musica in cuffia e camminava in compagnia di altre amiche. McCann non ci risparmia dettagli sui corpi dilaniati.

Abir Aramin viene colpita dal proiettile sparato da un ufficiale israeliano che si era sentito in pericolo, in pericolo da una bambina di dieci anni, tanti ne ha Abir nel 2007. Indossava la divisa scolastica ed era appena uscita da un negozio dove aveva comprato le caramelle, un bracciale di caramelle che suo padre porterà con sé alle riunioni. Le caramelle più costose del mondo dirà sempre.
“Il proiettile di gomma scagliò Abir al suolo a faccia avanti.”

Bassam ripercorre la tentata corsa verso l’ospedale, venti minuti al di là del Muro, l’ambulanza col divieto di muoversi, ferma al checkpoint e la sua litania…ti prego, ti prego, ti prego... La descrizione è talmente angosciante che un film non riuscirebbe a rendere più nitidamente lo strazio di questo padre impotente che implora l’ambulanza di partire. Mi ritrovo a farlo anche io parti, parti, parti…anche se già so come evolverà.
“Continuo a sedermi in quell’ambulanza, ogni giorno. In attesa che si muova.”
“Svegliati, Abir, svegliati.””

Questo lunghissimo racconto di eventi nasce dai numerosi incontri dell’autore con i due genitori, che hanno fatto una scelta diversa dall’odio che pure provano, ma che sarebbe stato solo autodistruttivo e che invece diventa un punto di ripartenza per instaurare un dialogo, un comune sentire il dolore, una consolazione, non ho paura di dire un’amicizia che diventa fratellanza, oltre il credibile, oltre il possibile, oltre i contrasti e le divergenze. La loro calma, compostezza, dignità.
L’autore ce lo racconta in tanti piccoli commoventi suggestivi passaggi.
Rami e Bassam, il loro capirsi al volo, il loro salutarsi come fossero fratelli da sempre, alzando semplicemente la mano in segno di saluto. Sono dettagli di straordinaria commozione, poche parole che bastano ad aprire un mondo, un apeirogon.

L’autore parlando di Rami e Bassam dice, “guarda l’amico infilare il casco”.
“Hai un faro spento.
Il tuo faro è rotto, fratello.”
Non si chiamano per nome ma dicono l’amico, il fratello.
“Tre brevi pulsazioni della luce di stop, il loro personale codice morse.”
“Basta PreOccupazione.”
“Sono a casa fratello, il pollice su come risposta.”

Il dolore abbatte le barriere, abbatte i muri, abbatte i preconcetti, rende tutti uguali, tutti ugualmente straziati.

E’ una cosa enorme. E nel libro si percepisce tutta questa magia.

Bassam, è così empatico, così attrattivo. Il suo zoppicare così familiare. Distolgo lo sguardo dalla carta perché non so come reagire. Ma poi riprendo la lettura perché è talmente magnetico, voglio sapere di più, voglio conoscerlo meglio.

Mi soffermo a pensare che le loro figlie sono uguali alle nostre, con i piercing, i Dr. Martens, le cuffie e la musica che è quella che conosco benissimo perché l’ascolto anche io, i capelli cortissimi, i balli sfrenati e improvvisati.
Il dolore e le lacrime sono le stesse di quelle che sto’ piangendo io.
Allora mi chiedo…pensavo che il dolore in quelle zone fosse un’abitudine? Che fosse un rischio calcolato? Mi vergogno di questa riflessione.
“Era strano pensare che fuori da lì ci fosse anche un altro mondo, un mondo normale e funzionante.”
Quella che io genericamente e con ignoranza definisco banalmente guerra, Medio Oriente, è la vita di donne, uomini, bambini che non possono distrarsi.

Il racconto degli eventi tragici che hanno visto morire Smadar e Abir raccontati più e più volte, continuamente, affinché il dolore ci investa davvero nella sua grandezza.

I capitoli sono brevissimi, anche di una sola frase. La prosa è fluente ma a volte devo tornare indietro per fare ordine e rileggere.

Dopo le rispettive tragedie trovano un nuovo motivo di vita nell’organizzazione di cui Bassam è tra i fondatori, “Combattenti per la Pace”, composta da israeliani e palestinesi uniti per fermare le violenze e promuovere il dialogo e la reciproca accettazione dell’altro.
Iniziano i loro incontri sempre allo stesso modo, sempre come fosse la prima volta, perché in questo modo Abir e Smadar rinascono a nuova vita ogni volta.
“Sono Bassam Aramin, il padre di Abir.”
“Sono Rami Elhanan, il padre di Smadar.”
“Abir. Dall’arabo antico. Il profumo. La fragranza del fiore.”
“Smadar. Dal Cantico dei Cantici. Il grappolo della vigna. Il fiore che si schiude.”
“Erano così uniti e vicini che, dopo un po’, Rami sentì che avrebbero potuto concludere l’uno la storia dell’altro.”

“Non finirà finché non ci parliamo.”

Il titolo del libro diventa sempre più chiaro man mano che si avanza nella lettura, il poligono dall’infinito numero di lati rimanda a tantissimi pensieri che via via prendono forma. Mai un titolo è stato più centrato.
Infiniti sono i punti di vista che mi appaiono durante la lettura. Non uno. Non due. Infiniti. Si è possibile.
Sembra strano come una lettura possa avere un effetto così “illuminante”, ma tanto è successo. Non sono israeliani, non sono palestinesi…sono persone non violente, che non hanno chiesto di vivere ciò che hanno vissuto, ma più di tutto nessuno di loro ha più ragioni o più torti dell’altro…suo fratello.
Non ci avevo mai riflettuto abbastanza, così concentrata a sentire solo il rumore assordante delle esplosioni e dei bombardamenti che ci sono, non ho colto nella confusione generale l’urlo disperato dell’innocente ambulanza ferma al checkpoint. Non ho colto l’infinità delle molteplici possibilità.
Non ho visto questi due uomini che si tengono per mano.
Non avevo.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    21 Gennaio, 2024
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“Odiare è uno spreco di felicità”

Fa subito simpatia Diego, nove anni, lui e il suo camioncino rosso da cui non si separa mai anche se gli manca una ruota.
Diego ‘o chiatt, la balena, ‘o russ, il fesso, lo stupido. Gli altri, il branco. Lui che non riesce bene neanche di parlare in napoletano.
Avvelenato dallo sguardo della madre Miriam, che trova in lui sempre qualcosa di sbagliato, convincendolo di essere sbagliato. I silenzi di lei che maturano nella sua giovane mente i sensi di colpa. Troppi, soli silenzi.
Miriam e la sua faccia dura “sollevava il mento e s’appuntava sul viso la scortesia”, la gentilezza un concetto del tutto estraneo.

L’Icam, Istituto a custodia attenuata per detenute madri, è una struttura costituita in via sperimentale nel 2006 per consentire alle detenute madri che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere di tenere con sé i loro figli. Un carcere come una grande famiglia, detenzione attenuata, non ci sono celle ma piccoli appartamenti con camera da letto, bagno, cucina, affinché le detenute possano sentirsi come a casa propria insieme ai propri figli fino al compimento dei sei anni, in alcuni casi anche fino ai dieci se i bimbi non hanno nessun altro con cui stare.
Il direttore Giacomo Parisi parla di fiducia, ti puoi fidare le dice.
“Gentilezza viene prima della fiducia.”

Lorenzo Marone riesce a ricostruire gli eventi passati, sembrano prendere vita e accadere nel momento in cui i fatti vengono narrati. La percezione è viva. Le emozioni visibili sul viso di me che leggo. Rifletto su come alcuni destini nascano gia’ svantaggiati, la corsa al recupero sempre un poco indietro, lo sforzo più grande, il passo necessariamente più lungo. I giudizi così superficiali dati all’oscuro dei fatti.

“Chi in nessuno crede da nessuno verrà creduto.”

Un romanzo corale in cui Miki Cuomo, Greta, Gambo e Adamu, Jennifer, Amina, Melina con le gambe storte e la testa buona, Miriam che inizia a fare amicizia con Anna, Anna che le leva a poco a poco l’odio di dosso aiutandola a far pace …ci raccontano e accolgono nelle loro vite.

Diego e la sua allegria. Ma da dove nascerà mai?

“Lo sai che non ho mai visto i tuoi denti?
Che vuo’ dicere?
Che non sorridi mai.”

Fa tenerezza questa madre, che mi ricorda Rino Zena, il papa’ di Cristiano dal racconto di Niccolò Ammaniti. Questi genitori così profondamente padre e madre, così severi perché così profondamente innamorati dei propri figli, la paura della loro debolezza.
“Io starò con te e ti proteggerò.”

Per me è stato un romanzo di conoscenza. Di realtà di cui ignoravo l’esistenza.

Nonostante la prosa sia scorrevole, la lettura non è piacevole, non perché non sia interessante o coinvolgente, risulta molto dolorosa, impossibile non immedesimarsi in queste madri e pensare, mentre leggi, alle tanti madri e figli che vivono in luoghi angusti anche se privi di sbarre. Eppure la vena poetica dell’autore emerge ed è ciò che consola.

Mi ha deluso nel finale. Dei destini dei bimbi a cui mi sono affezionata avrei desiderato sapere la strada a loro destinata.

Non si è prigionieri perché in prigione, la prigione arriva prima, nel cammino, nelle scelte, nelle paure che attanagliano. La conferma che la parità dei punti di partenza è una favola anche mal riuscita.
La parità dei punti di partenza è un imbroglio imbastito per chi se ne riempie la bocca e intanto parte dieci file più avanti.

“Prima o poi quello che non sei riuscito a dire ti viene a cercare.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    01 Novembre, 2023
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Qual è la tua salvezza?

Daniele vent’anni e un’ improvvisa esplosione di rabbia viene sottoposto a TSO nel reparto di psichiatria.
Una settimana di ricovero e cure obbligatorie dividendo una stanza con altre cinque persone, intensa, calda, asfissiante, paurosa, illuminante. Da martedì a lunedì. Ogni capitolo scandisce una giornata.

Gianluca con l’urlo di ragazza.
Mario, il letto vicino alla finestra e il suo uccellino.
Alessandro e il suo fissare un punto nel vuoto in modo catatonico.
Madonnina e la sua richiesta di aiuto.
Giorgio e la sua mamma perduta.
Pino, Rossana, Lorenzo, infermieri e corazzati dalla loro stessa paura.

Bisogno, di sostegno, fratellanza, umanità, sofferenza, speranza, insonnia.
Salvezza. La mia malattia si chiama salvezza.

Tristezza e dolore e disperazione gli si appiccicano addosso a Daniele, anche se sono quelle degli altri. Servirebbe un giubbotto antiproiettile a vestire il cuore.

“Mio padre è una cellula sana di questo mondo, uno di quelli che rimarrà nella storia. La storia degli umili, delle persone oneste, dei lavoratori infaticabili, dei padri di famiglia che solo in pochi hanno la fortuna di avere, e quelli che ce l’hanno la sfregiano, come il sottoscritto.”

Una madre nonostante tutto sempre presente, capace di esprimere i propri e i di lui desideri prima che prendano forma, la sua prima lettrice di poesie, il suo primo pubblico, la sua musa ispiratrice. “Sei sempre tu che vieni a riprendermi.”

La poesia salvatrice, e “quella maestra che l’aveva capito per me, prima di me.”
“Alla fine del lavoro la ringrazio, lei, la poesia, per essere venuta ancora una volta a trovarmi.”

Si invoca la normalità, come quella che c’è al di fuori delle mura dell’ospedale, dove tutto sembra scorrere come sempre rispetto al dentro, dove invece situazioni non ce ne sono. Emergono solo quando si iniziano ad aprire gli occhi e le orecchie per vederle, per sentirle.

Salvezza in una medicina, in una parola, in un ascolto. Qual è la tua salvezza?

Esiste una colpa o la colpa è della mente disturbata?

Tutti gli accadimenti non sono altro che il racconto di queste diverse umanità che per un caso fortuito un giorno si incontrano, costretti a convivere, prima ad occhi aperti per osservarsi meglio, poi ad occhi chiusi, quando la fiducia inizia a farsi spazio, i dolori diventano comuni e le paure anche, gli animi vengono allo scoperto, le solitudini si incontrano e si tengono per mano al buio di notte, affinché gli incubi o l’insonnia passino più in fretta.

Un racconto di cure date e ricevute, di sconosciuti che non si riconoscono e si evitano, e poi si abbracciano, stretti, senza spazio tra i corpi, nella calura di un’estate di fuoco che diventa comune.

Un racconto di preghiere improvvisate, disperate, inginocchiati sul pavimento tenendosi per mano.

La narrazione in prima persona conduce in un viaggio che non si vorrebbe intraprendere, tra quei letti allineati, minestre gialle poco invitanti, rumori che sono il russare degli altri mentre agogni il tuo che non arriva mai, in quelle puzze così umane e così riconoscibili, in quei minuti, ore, giornate che sembrano interminabili. Le difese crollano e le diffidenze anche, di fronte a persone accomunate dal fatto di avere la stessa natura. Dove l’urlo che si alza accomuna tutti.

“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.
I miei fratelli.”

20 giugno ‘94
Un TSO durato una settimana. Poche ore per sconvolgere le vite.
Bastava talmente poco.
Bastava ascoltassero.
Bastava vedessero.
Bastava concedere.
Chi voglio diventare?

“Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.”

Il romanzo è stato vincitore nel 2020 del premio Strega Giovani.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Settembre, 2023
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Sipario

“Tutto il mondo è in una stanza.
Tutto il mondo è in quella stanza.”

Corrado Lazzari, il Maestro, appena diciottenne è entrato nell’Accademia di Arte Drammatica, è da poco finita la guerra. Vuole fare l’attore.
E’ stato il più grande attore del Novecento e Shakespeare il suo mondo. Affollatissimo.

Poi sono trascorsi gli anni e le stagioni. La folla è scemata. I sipari si sono aperti e chiusi.
Oggi è solo. Nessuno va a trovarlo. Nessuno si siede con lui per parlare, per ricordare.
E’ solo con i suoi scatoloni strapieni di ricordi del teatro, della sua vita ormai fatta di foto, ritagli di giornale, vecchi copioni.

Abita in un vecchio palazzo al quinto piano al centro di Roma, esce poco, per lo più legge, scrive, ascolta musica, riordina il suo archivio. Un appartamento frequentato solo da lui, se non fosse per Alessandra, che a pranzo e a cena gli va a consegnare il pasto su un vassoio.

Le giornate trascorrono tutte uguali, alcuni parlerebbero di una perfetta solitudine e ne avrebbero paura. Lui no. Lui, le sue abitudini e la sua quotidianità, scandita ogni giorno.
La sua casa che vive anche quando lui non c’è.

Sembra un racconto di una grande solitudine, ma forse mi inganno.
Forse basta poco a far ritornare quel mondo, forse basta un po’ di luce.

Qualcosa ancora può succedere. Accade che Alessandra vada a bussare alla sua porta, questa volta non per portagli il pasto, ma perché sta’ studiando alla sua tesi sulla storia della messa in scena di Shakespeare in Italia, dunque ha pensato a lui, al Maestro.
Alessandra. Parlare. Ascoltare. Raccontare. Rivivere. Lasciare l’eredità dei ricordi.

“A volte invece è come se si aprisse una porta, ed entrasse una luce che acceca.
E quel mondo torna.”

Francesco Carofiglio fratello del più famoso Gianrico, ci narra di una vita avventurosa e felice e del suo evolversi nella vecchiaia. Di come la solitudine possa trasformarsi in un interesse ritrovato, come i ricordi possano smettere di essere solo ricordi e tornare a rivivere lasciando una eredità di racconti.
Si può tornare a essere vivi se i desideri non sono definitivamente morti, ma solo sopiti.
Non importa quanti spettatori ci saranno.
Basta la ritrovata emozione per scoprire che nulla è perduto, per intraprendere il nuovo viaggio in serenità.

Ridere a voce alta quando si è soli fa compagnia oppure rende il silenzio più concreto?

La prosa scorrevole, a tratti quasi lenta, sembra essere scolpita a immagine di quest’uomo, che in fondo mi tiene compagnia, e mi chiedo se lui riesca a sentire la mia. Mi viene facile immedesimarmi e mi chiedo chi potrebbe essere la mia Alessandra, e se ci possa essere una Alessandra per me.
Il Maestro mi fa riflettere, in silenzio, mi perdo nei miei ricordi e nelle mie elucubrazioni.

Una nota malinconica accompagna tutto il racconto, provo una tristezza che è anche una constatazione, mi inseguono continuamente e mi accompagnano nel finale che è anche consolazione.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    19 Luglio, 2023
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“Toctoc”

Il romanzo è vincitore del Premio John Fante Opera Prima 2019.

L’incipit così violentemente realistico, quello di una famiglia con un figlio problematico che non riesco a ben definire.
Penso ad una malattia della mente. E immagino quelle mura domestiche.
Questa madre che ogni notte si addormenta sui tre gradini che portano alla stanza del figlio. Dice tutto.
“Io ti ho fatto nascere, ma rinascere spetta solo a te.”

Non conosco l’autore, ancora non so che la storia è autobiografica.

L’importanza di chiedere aiuto, senza vergogna, senza pudore.
“Io sono quello che sta’ distruggendo tutto.”

Il protagonista è Daniele, e mi fa tanta simpatia. Vorrei soccorrerlo, schiaffeggiarlo, scuoterlo, dirgli complimenti quando porta a compimento il suo primo, letteralmente, schifosissimo incarico.
La sua apparente debolezza nasconde una forza immensa. Lo ammiro.
“Mai sottovalutare la forza e l’abnegazione degli squilibrati.”

Il tempo che vola via…è una soddisfazione grande. Fare cose.

“Ricordo le urla verso mia madre, la sua meraviglia che abbracciò la mia.”

Il 3 marzo 1999 Daniele firma un contratto con una cooperativa di servizi legata all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Pulizie e facchinaggio.
Bambini e genitori e lavoratori.
I colleghi e le mansioni, le tante cose nuove da imparare, i caffè al bar offerti e ricevuti, le notti buie, il pronto soccorso e i vari padiglioni, la chiesa, la disperazione che ti piega in due senza pietà.
Giovanni, Claudio, Luciano, Carmelo, Massimo, Antonio: la squadra. In pochi mesi impari da uno sguardo a capire cosa provano.

Il Day Hospital di Cardiologia tirato a lucido in una notte, sembra come appena inaugurato. La stanchezza, il sorgere del sole, il Tavor in soccorso. Le prime ventiquattro ore libero dal veleno. La seduzione che nasconde la trappola. Ricascarci, tradire la fiducia di chi è tradito.
Daniele soffre nel vivere, vuole perdersi. La stanchezza, quella fisica, che arriva in soccorso.

La lotta per tenere buono l’animale che gli si annida dentro è solo una parte della narrazione, un’altra, appena accennata, che suscita immenso dolore e fa solo immaginare il baratro a chi legge, è quella dei tanti bambini che affollano il reparto.

“Toc toc”

“Dio, tu, non noi, dovresti chiedere perdono.”

Mencarelli è bravissimo a descrivere Daniele, il suo rincorrere il demone che non vuole liberarlo.
Ospedale come cura per chi ci lavora.
Poter contare sull’ambiente e sulla squadra di lavoro in cui regna amicizia e fiducia, solidarietà e gesti disinteressati, mettere la propria vita nelle mani dei compagni e viceversa. La sintonia che nasce spontanea con qualcuno in particolare, sentirsi accettati e ricambiare l’affetto.

La lettura mi ha riempita di buoni propositi, emana sicurezza e ottimismo sul futuro. Le lacrime sono sempre sul punto di esplodere ma ciò nonostante la prosa tranquillizza sul potercela infine fare, qualunque cosa accada. Anche lavorativamente.
Non è un romanzo di continui piagnistei o di tragedie annunciate, ma di rovinose cadute accompagnate da innumerevoli tentativi di ripresa, alzarsi nuovamente il mattino successivo nonostante tutto e raggiungere i colleghi.
Non è vero che se non siamo in grado di aiutare noi stessi non possiamo essere in grado di aiutare gli altri.

Il lavoro descritto in una accezione assolutamente positiva e il sottolineare l’importanza di farlo bene, perché non è solo un luogo di lavoro quanto un luogo del cuore e della mente e del corpo, dove le vicende umane si alternano continuamente in un su e giù.
Tutto è raccontato senza pietismo ma semplicemente per come accade.

Daniele è un poeta, tutto il racconto lo è, insieme ai suoi abissi.

Rinascita, possibilità, bellezza.

“Sull’acqua in movimento, torbida al colmo, scura come il cielo senza sole che in questo istante sovrasta tutto, mi vedo riflesso, portato via dall’acqua eppure sempre presente a me stesso. L’acqua scorre, trascina, ma io sono sempre qui.”

Forse siamo già rinati e non ce ne siamo accorti ancora, aggiungo io.

“A volte Dio sale con l’alba di un nuovo mattino.”

Non pensavo che un romanzo così breve, letto in due giorni, potesse arrivarmi così forte, così vicino.
Giro l’ultima pagina, leggo anche i ringraziamenti e saluto Toctoc.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    22 Gennaio, 2023
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“Lasciamo che i morti seppelliscano i morti.”

Se questo romanzo non fosse stato scelto dal gruppo di lettura che frequento probabilmente ne avrei continuato a rimandare la lettura. Sbagliando.

Il capolavoro di Harper Lee esce negli Stati Uniti nel 1960 e nel 1961 vince il premio Pulitzer per la narrativa.
Gli accadimenti sono narrati dalla voce di Scout Finch, e questo è davvero un elemento sorprendente, sei anni, sorella di Jem che di anni ne ha dieci. Abitano con il padre Atticus e la governante di colore Calpurnia a Maycomb nel Sud dell’ Alabama.
Siamo nei primi anni trenta.
Amico estivo di giochi è Dill che ha sette anni.

La lettura non mi ha immediatamente coinvolta, le aspettative che avevo si sono rivelate subito errate. Pensavo che tutto il romanzo ruotasse intorno alla vicenda del bracciante di colore Tom Robinson e che fosse strutturato come un legal thriller, ma poche pagine sono bastate a farmi ricredere. Solo verso la conclusione del romanzo tante domande trovano risposta e il cerchio perfettamente si chiude. Il processo arriva solo come ulteriore rafforzamento di un’idea che ormai è già ben chiara nella mente.
“Non possiamo mai capire veramente una persona finché non consideriamo le cose dal suo punto di vista…Finché non ci mettiamo i suoi panni e non andiamo un po’ in giro così.” Atticus

A ben vedere gli elementi ci sono tutti: un avvocato d’ufficio che deve difendere un nero accusato di aver stuprato una donna bianca, piantagioni di cotone, estrema povertà e ignoranza accanto a famiglie più agiate e non solo economicamente, domestiche di colore si occupano di mandare avanti la famiglia, misteri, incomprensioni, razzismo.

Gran parte del racconto è dedicata ai rapporti di vicinato e in particolare a Radley Place dove si mormora viva un malevolo fantasma… “una palla da baseball battuta nel cortile dei Radley era una palla persa, inutile discutere.” Lì vive un essere ignoto. Costringere Arthur Boo Radley ad uscire di casa diventa per i tre ragazzini un pensiero fisso. L’arrivo di Dill in estate e la certezza di incursioni nella misteriosa proprietà.
Quando nella cavità degli alberi al confine con la proprietà dei Radley i ragazzini iniziano a trovare oggetti, il mistero si infittisce sempre di più. Verrà spiegato solo alla fine, quando ogni pedina troverà la sua esatta collocazione.
“Dentro la casa qualcuno rideva.”

I compagni di classe di Scout e la sua maestra offrono un panoramica della varietà umana che affolla il paese e la classe. Scout, che già sa leggere e scrivere viene duramente redarguita dalla maestra affinché il padre non continui a insegnarle altro. “Leggere è una cosa che mi veniva naturale.”

“Tu difendi i negri, Atticus?
Certo.
Non dire negro, Scout. Non sta bene.
Qualcuno sostiene che non dovrei difendere quest’uomo.
Se non dovresti difenderlo allora perché lo fai?
Per molte ragioni disse Atticus. La principale che, se non lo facessi, non potrei girare più a testa alta, non potrei neanche più dire a te o a Jem di fare o non fare qualcosa.”
Tutti parlavano del fatto che Scout e Jem abbiano assistito al processo dalla balconata della gente di colore. Con Calpurnia.

Atticus e il suo impegno concreto nel rasserenare Tom che può tornare a dormire perché nessuno gli darà più noia. Viene additato come un negrofilo che mortifica il resto della famiglia. Lui desidera solo la fiducia dei suoi figli.
E’ una persona riservata, che non utilizza il suo ingiusto vantaggio a svantaggio di altri esseri viventi.
“Avevi paura di essere arrestato, paura di dover rispondere di quello che hai fatto?
Nossignore, avevo paura di dover rispondere di quello che non ho fatto.”
Dill inizia a piangere e non riesce a smettere. Sente che non è vero che “è solo un nero,” sente che non è giusto che sia trattato così.
“Imbrogliare un uomo di colore è dieci volte peggio che imbrogliare un uomo bianco. E’ la cosa peggiore che si possa fare.”

La narrazione ricopre circa due anni.
Jem compie dodici anni e Scout otto.
Siamo nel 1935.
Tutte le persone che incontreranno sul loro cammino impartiranno loro una lezione, come la signora Dubose che si libera dalla dipendenza prima di morire. Anche lei è un esempio di donna vincente. Ma non è l’unico. C’è Calpurnia che invita i ragazzi nella sua chiesa “dei negri” perché in fondo è lo stesso Dio. Lei è un membro fedele della famiglia, che ha cercato di allevare i ragazzi secondo i suoi criteri, che sono stati piuttosto buoni.

La verità che infine emerge è addirittura molto più “banale”, è una verità di oltraggio che va distrutto, di una bianca che ha tentato un nero.

“Sono fiducioso che voi, signori, riesaminerete senza pregiudizi le testimonianze che avete udito, arriverete a una decisione e restituirete l’imputato alla sua famiglia. In nome di Dio, fate il vostro dovere.”

“Io non ho mai visto una giuria decidere a favore di un uomo di colore contro un bianco.”
Anche Jem piangeva.

Tom ha avuto dalla sua i suoi amici di colore, le persone come i Finch, persone come il giudice Taylor, persone come il signor Heck Tate. E Atticus Finch è stato l’unico capace di tenere così a lungo una giuria di dodici persone in camera di consiglio in un caso come questo.

Il finale, incredibilmente inaspettato, è liberatorio e commovente. Torno indietro a rileggerlo. E’ una riappacificazione nell’ingiustizia che se non basta almeno tenta di dare sollievo. Ci riesce.

Nella notte silenziosa al ritorno da scuola, nell’incapacità di vedere a causa dell’oscurità, accadono molte cose…l’urlo di Jem, la paura di morire, e quella presenza… ecco che tutto torna… sono emozionata e sorpresa.
“Chi era?
Ma è là Signor Tate, e può dirle il suo nome.”
Le lacrime improvvise di Scout, il prenderlo sotto al braccio per riaccompagnarlo a casa.

Atticus, era proprio simpatico…
Sono quasi tutti così, Scout, quando finalmente li vedi.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Gennaio, 2023
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Le case degli altri sono più belle?

Secondo romanzo che leggo di questa autrice e nuovamente mi sorprende la scorrevolezza della prosa.

Entriamo nelle vite di Jacob e Theo Hunt e della loro mamma, tra improvvise crisi e difficoltà che vengono superate con tanto impegno.
Theo soffre il doversi comportare da fratello maggiore pur non essendolo, intervenire per evitare che tutto volga al peggio in un attimo, perché è improvvisamente finito il latte di soia. Per Jacob, adolescente autistico, sarebbe l’inizio di una burrasca.

Jacob ha la passione per i casi giudiziari, è molto loquace e dotato di acuta intelligenza, chiuso nel suo mondo ci prova a comunicare con gli altri, anche se non gli è ben chiaro come fare.
Un breve contatto può sconvolgerlo.
A due anni ha iniziato a non voler udire nessuno.
Nel 1995 arriva la diagnosi di Asperger.

“Tu come fai? Domandai dopo un istante.
Poteva capitare a me, rispose.”

La routine delle nostre abitazioni, delle nostre vite, la diamo per scontata, certa, e ci lascia indifferenti, ma in altre case può essere l’unico modo per andare avanti e farcela. Dovremmo apprezzare di più la nostra noiosa quotidianità che ci consente di scegliere se seguirla pedissequamente oppure no.

Anche se il romanzo è strutturato come un giallo, la curiosità di capire chi ha commesso cosa, passa in secondo piano, ciò che voglio sapere è come la mente di Jacob elabora ciò che è accaduto. Come lo vive e percepisce.

E’ un romanzo corale e questo lo rende particolarmente interessante, ci consente di conoscere i pensieri di tutti i protagonisti che a turno diventano narratori.
Difficile non schierarsi dalla parte della giuria che ha il compito di deliberare su una materia così complessa.

Il finale del romanzo è forse, dico forse, leggermente scontato, ma questo non è importante. Penso che l’autrice abbia voluto condividere un aspetto della vita degli altri che a troppi sfugge.
Il finale è ciò che mi interessa meno, tuttavia lo giudico un po’ frettoloso considerando le oltre seicento pagine. Forse è una scelta deliberata, affinché la nostra lettura si concentri su altro, sulla conoscenza di questa famiglia e sulle sue difficoltà, su questa mamma che fa da collante, imperfetta ma perfetta, su questi figli fragili e all’apparenza indifesi, sempre presenti nonostante appaiano altrove.

Ne consiglio senz’altro la lettura, per aprire la mente e posare lo sguardo su ciò che spesso ci circonda ma ignoriamo. Su ciò che per noi è banalmente ovvio.
La piatta quotidianità è spesso una fortuna, per altri una conquista.

Apprezzare la normalità a volte è auspicabile. Per alcuni il suo quotidiano raggiungimento una vittoria.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    05 Dicembre, 2022
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SFMV, 15 GIUGNO 1985

Sono le prime righe, il tuffo nel passato del protagonista, a catapultarmi violentemente nella mia infanzia. Come in una visione mi appaiono l’alimentari dove andavo con mamma a fare la spesa, e seduta subito fuori, quella che tutti chiamavamo “la signora delle sigarette”, con in grembo sempre lo stesso borsellino grande che conteneva i pacchetti sfusi di sigarette e i soldi. Tutto intorno una gran luce e un gran sole caldo ed estivo. C’è mamma, c’è Monica, mia sorella, e poi ci sono io, con quei jeans che odiavo portare perché mi stringevano, fanciulla e inconsapevole del futuro. E’ come un quadro rimasto fissato nel tempo. Peccato manchino i suoni delle parole, delle risate, del chiamarsi a vicenda.

“Vengo, ribatto, solo un attimo.”
Il tempo di ricordare.
Il tempo di ritrovare.
Di sorridere a una fata.

Mimì, dodici anni, ha un amico speciale, Giancarlo, Giancarlo Siani, vivono nello stesso palazzo, ha venticinque anni ed è un giornalista de “Il Mattino”, uno con le palle, che sfida la criminalità. Scrive cose pericolose, facendo nomi e cognomi. E’ un pazzo, o un eroe. Il suo esempio da seguire.

E’ simpaticissimo questo ragazzino, fissato con la lingua italiana e il vocabolario… e per Viola.
Divide gli spazi di una piccola abitazione con la mamma, il papà, portiere dello stabile, la sorella, il nonno, la nonna e il cane.

Ormai non dovrei più sorprendermi, e invece ancora una volta mi trovo a sorridere pensando “ma quanto è simpatico Lorenzo Marone?” le situazioni che descrive sono così reali, così vicine che davvero mi sembra di viverle e non semplicemente leggerle.

E’ commovente il ricordo di Giancarlo Siani. Attraverso l’espediente degli occhi di un bambino ricorda un uomo coraggioso, con il quale val la pena parlare di cose belle, pieno di vitalità ed energia, sorridente e coinvolgente. Un supereroe per Mimì. Giancarlo gli ricorda continuamente che i supereroi non esistono. Un supereroe avrebbe un contratto definitivo al giornale.

“Io, invece, credo che esistano, e sono in mezzo a noi. E tu ne sei un esempio.”

Ci sono i ricordi di quando Maradona diventa giocatore del Napoli. Ci sono i ricordi delle strade come erano una volta, dei negozi che hanno chiuso, delle macchine che si sono trasformate.

I ricordi di chi scrive si fondono con i miei. Sono anche i miei. Riconosco la Napoli di quando ero bambina. Di quel lontano 1985.

Mi piacciono le digressioni nella mente dei personaggi, il rivelarci i caratteri attraverso un’ azione che amano ripetere.

“Se mai un giorno sarai felice, e te lo auguro di cuore, sarà solo grazie alla stretta di un’altra mano.”

Riaffiorano i vecchi ricordi rivedendo dopo trenta anni la casa dei signori Scognamiglio, le tante estati lì trascorse insieme a Viola, Sasà, Fabio…trovare tutto uguale ma così diverso.

Voglio bene a Mimì, questo adorabile ragazzino così normale nella sua anormalità, con la sua curiosità e con la sua agenda rossa che porta sempre con sé.

“Se vuoi scrivere, devi anche imparare a farti leggere, aveva commentato con il suo solito faccione allegro, il ciuffo di capelli neri a tagliargli la fronte e gli occhiali tondi che gli davano un’aria bonaria.”

La consapevolezza della perdita, dell’amicizia, dell’amore, di una fase della vita che è passata e finita mi fa riflettere sulla mia adolescenza e sui cambiamenti intervenuti nella mia vita. Anche i miei sono stati rivolti verso un dolore immenso.

“Nella foto nessuno fissa l’obiettivo: papà guarda me che guardo mamma, quest’ultima ha gli occhi verso il basso, in direzione di lupo Alberto, Bea mi sta baciando, e i nonni sorridono alla nipote. L’unico che guarda dritto è Pino.”

Intanto, Vasco canta “Una splendida giornata.”

Non sapevo cosa aspettarmi da questo romanzo, non pensavo avrei ritrovato tanto di me. La costruzione della narrazione, la prosa fluida, semplice, i brevi capitoli, il grande affetto che trasuda dalle pagine, la caratterizzazione di tutti i personaggi, gli estemporanei dialoghi, tutto me lo ha fatto amare e lo rende particolarmente adatto a un pubblico giovanissimo.
Un romanzo che nel 2018 ha visto il riconoscimento “Premio Giancarlo Siani.”

Essere normali è una sicura certezza.

I supereroi esistono nei rapporti che costruiamo, negli amori che viviamo, nelle amicizie che consolidiamo, nelle scelte che facciamo.

Per me essere supereroi significa esser fieri di se stessi.

“Se fossi un supereroe la mia unica missione sarebbe proteggerti.”

I supereroi esistono. Per fortuna, dico io.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    18 Novembre, 2022
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“Sono tornato a casa”

Questo racconto potrebbe essere un film.
C’è una città, Napoli, narrata attraverso i vicoletti e i bassi, le strade ampie e soleggiate, il rumoroso traffico, le stuzzicanti leccornie, i suoi variegati abitanti, le piogge improvvise e le schiarite illuminanti.
Ci sono gli abitanti, che sono anche i protagonisti, che si incontrano perché sanno riconoscersi.
C’è la musica in sottofondo, che sono le parole e gli sguardi.
Ci sono gli odori, che sono quelli delle case e di chi le abitano.

Non ci sono divieti, ma suggerimenti si, perché siamo nei Quartieri Spagnoli.

“Le cose belle della vita, sient’a me, quasi sempre ci sopravvivono.”

C’è Luce Di Notte, trentacinque anni, una laurea in giurisprudenza e una solitudine spezzata da Alleria, il suo inseparabile cane. Si sono trovati e scelti.
E’ con lui che divide la casa di 35 mq, balconcino compreso.

Vari espedienti lavorativi la portano sulla strada del detestabile Avv. Arminio Geronimo, un tempo famoso avvocato matrimonialista, oggi preso dalle truffe assicurative e falsi sinistri insieme ad ambigui personaggi che a seconda della necessità si prestano ad essere vittime, responsabili o testimoni.

Suo padre è andato via quando era bambina e da quel momento non ha avuto più paura di nulla.

C’è grande attenzione ai sentimenti nel racconto di queste vite che si incontrano e scontrano, come con don Vittorio, che non è un semplice vicino, è il vicino che ti lascia la tavola apparecchiata con piatto, posate, tovagliolo, panino, bottiglia di vino e quell’accoglienza che ciascuno di noi vorrebbe ricevere e dare.

Sono compagni di vita un vicino premuroso e un cane, che anela il tuo ritorno e ti dimostra tutto il suo amore non appena rientri in casa. E’ la bellezza, sapere che hai qualcuno che ti aspetta.
Non deve per forza essere un figlio, un compagno, un genitore, un fratello….l’amore e l’accoglienza possono assumere sembianze anche diverse da quelle tradizionali. E’ amore, sono attenzioni. E’ prendersi cura. Anche la puzza di stantio, di umidità, di trascuratezza… pare non si senta più, pare sia sparita. Forse lo è.

“Per un piccolo infinitesimale scorcio di vita ho covato la bellezza. E non ho saputo tenerla dentro di me.”

In questo romanzo di Lorenzo Marone la famiglia, i sentimenti, le cose fatte e dette sono il centro del racconto. Famiglia che ci scegliamo, quella che ti accoglie e ti sa far star bene. Dove c’è tutto ciò che deve esserci. Dove troviamo il coraggio di alzarci in volo per seguire i nostri desideri. Finalmente liberi e con serenità.

“Non pensavo che nell’infanzia degli altri si potesse scorgere un pizzico della propria e che una cameretta addobbata potesse trasmettermi la stessa sensazione di sicurezza che provavo da bambina, quando me ne stavo al letto a leggere con il lumino acceso e la voce della televisione in salotto che filtrava da sotto la porta.”

Consiglio il romanzo a chi è scettico…sui legami affettivi che sanno andare oltre.
A chi si sente perso e vuole sentirsi amato. A chi non sente ma ascolta. A chi non osserva ma guarda.
Non resterà deluso. E neanche solo.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    16 Ottobre, 2022
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Quanto sono schierata? Ammetto il contraddittorio?

E’ giugno e siamo a Londra.

McEwan ci introduce senza preamboli nel racconto, nella vita del giudice dell’Alta Corte britannica Fiona Maye, cinquantanove anni. Sposata con Jack. Una vita di coppia al capolinea.

I piccoli dettagli che sembrano detti per caso, aiutano ad inquadrare perfettamente l’ambientazione e i protagonisti della storia.

Fiona, “una chaise longue a fissare in fondo alla stanza, oltre i propri piedi scalzi, lo scorcio di una libreria a incasso accanto al camino…”

E’ coinvolgente il lavoro di Fiona presso la Sezione Famiglia dell’Alta Corte britannica.

Le piomba, improvvisamente addosso, il caso di Adam Henry, diciassette anni, malato di leucemia. Necessita urgentemente di una trasfusione, ma sia il ragazzo che i genitori, in quanto Testimoni di Geova, rifiutano categoricamente. L’ospedale chiede l’autorizzazione a procedere, anche contro la loro volontà. Il compito di Fiona non è salvarlo, ma stabilire cosa sia logico e legale. E’ la difficoltà di giungere a una conclusione attraverso la legge.

E’ impossibile non ragionare, non pensare, non schierarsi. Forse è proprio ciò che l’autore vuol fare, portare al centro del dibattito un argomento così divisivo.
Una morte lenta e orribile, la libertà di rifiutare una terapia medica come diritto fondamentale di ogni cittadino adulto. Sottoporre un paziente a una terapia, senza il suo consenso, costituirebbe un reato contro la persona. Il rifiuto a essere trasfuso è un diritto. Non schierarmi uno sforzo destinato a fallire. C’è la possibilità di infezioni a seguito delle terapie trasfusionali, certo, ma cosa c’è di più certo della morte? L’autore riesce a guardare e farci guardare entrambi i punti di vista, le tesi sono suggestive e sembra quasi che riescano a farmi cambiare idea. La religione diventa elemento divisivo e potentissimo.
Il mio pensiero si sposa perfettamente con quello esattamente all’opposto dal mio.

McEwan infonde dubbi, la materia è tanto delicata quanto politicamente s-corretta. La certezza che una possibilità di salvezza esista. La certezza che tale possibilità venga giustamente rifiutata. Mi fermo. Non colgo le ragioni. Perché non le condivido? Sono capace di vedere oltre ciò che ritengo giusto?
E’ strano, quello che è partito come un romanzo per far compagnia, mi spiazza mettendomi di fronte ai miei limiti, alle mie chiusure mentali che forse ignoravo. Cado nuovamente e nuovamente in errore. Continuare a ragionarci non mi aiuta.

“Perché esattamente non vuoi una trasfusione?”

Poi osservo la copertina e una volta tanto le do’ un significato. Non succede sempre. E non perché non le guardi con la giusta attenzione.

La lettura procede speditamente, rallenta solo verso il finale, come se in fondo il finale non sia l’elemento più importante del racconto. Conta ciò che è stato detto, ciò che è successo fin qui. Nulla potrebbe togliere o aggiungere, dunque non mi delude né mi appaga. E la sensazione di frettolosità che nel finire del racconto percepisco questa volta non mi delude.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    19 Settembre, 2022
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L’assistenza di Marina, il coraggio di Andrea.

Una lista di dieci raccomandazioni lasciate da Marina a suo fratello Andrea, che nel weekend dovrà occuparsi del padre, Libero Scotto, anziano e molto malato, e anche del Cane pazzo Tannen, Augusto.
Due giorni possono essere un tempo infinito. E lo diventano.

Ma quanto è divertente Lorenzo Marone! Sono a pagina diciotto e già mi sorprendo a sorridere e ridere. Trovo sia bravissimo a raccontare, con il suo tono serafico, i piccoli aneddoti della vita familiare quotidiana. Che sono quelli tra un fratello, una sorella, un padre e un cane. Ma non solo.

L’autore descrive questo padre freddo e austero, con il quale è difficile relazionarsi e ottenere attenzioni, lontano anche fisicamente a causa del lavoro.
Libero Scotto è stato un comandante, prima in una compagnia di navigazione del Golfo di Napoli che collegava la città alle isole, e poi alla guida delle grandi navi che attraversano gli oceani.

“Il mare di quando si parte dall’isola è diverso da quello di quando si arriva, c’è poco da fare. E’ più scuro, pastoso, forse malinconico o arrabbiato, non so. So che lo sento sotto di me, sotto il traghetto che lo ferisce a ogni metro. L’orizzonte è uno spazio bianco non abitato dalla terra…”

Andrea ancora oggi, superati i quaranta anni, si chiede se la presenza sua e di Marina sia stata per lui un ingombro, una serie di obblighi da adempiere. Non trova il coraggio di chiederglielo. Ha imparato a non prendere nulla sul serio, fortezza che si è costruito da bambino per proteggersi.

A me Libero fa subito grande simpatia e non mi appare così burbero come ci viene raccontato.
Desidera tornare a Procida, dove è nato, e dove si trova sua moglie, e per farlo deve organizzare un piano per liberarsi dai super controlli di Marina, con Andrea attuare i suoi piani sarà più semplice.
“Lo ha chiesto a te perché sapeva che tu lo avresti accontentato. Perché di te si fida… Tu sei un’anima sensibile.”

Ripercorrere la loro infanzia richiama alla mente la mia. Le presenze rassicuranti, il senso di protezione, il calore, e chissà quante altre immagini potrei ricordare e invece sono dimenticate per sempre. Sarebbe bello riuscire a riviverle, come se scorressero su un video. E penso a come sia diverso oggi, dove tutti gli attimi vengono filmati con grande facilità. Ma le immagini e i fatti di quaranta e passa anni fa rivivono solo se li ricordi. Non c’è altro modo.
La sicurezza, di sera, era semplicemente sentire il rumore delle stoviglie in cucina. Piccoli gesti di routine. La routine è noiosamente rassicurante e confortevole.
“E che fa, l’importante sono i ricordi. Voglio che un domani, sedendovi su questa panchina, vi ricordiate di vostra mamma com’è oggi. Votre maman ride!”

“Il dolore, a un certo punto, deve trasformarsi in qualcosa di più utile.”

Libero confessa al figlio che quelle trascorse in mare insieme sono state la parte migliore della giornata, che il loro stare insieme era la parte più bella, che lo faceva sentire vivo come quando era sulle navi. Ma Andrea è troppo ottuso per capirlo.
Ha perso troppo tempo a rimuginare senza dedicarsi a comprendere veramente. E ora si sente fuori tempo massimo.
Mi fa simpatia questa famiglia, forse perché fragile e imperfetta. Mi appare quasi come un suggerimento…

“La vita è fatta di attimi di perfezione nei quali arriva la giusta luce e tutto ci appare come deve essere, e forse il segreto non è cercare di prolungare questi attimi, di fermarli a ogni costo, che nulla può essere fermato, ma di accontentarsi di godere del bello, di scorgerlo.”
Io, aggiungo, di saper guardare oltre, dove tutto potrebbe essere perfetto.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    13 Settembre, 2022
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Cate/Ludo: io per te ci sono, sempre.

Da un biscotto e un panino scambiati nel cortile della scuola nasce un’amicizia che è sorellanza. Forse l’essere così diverse aiuta Caterina e Ludovica a compensare le mancanze e gli eccessi dell’altra. Infanzia, adolescenza, maturità, sempre presenti per sorreggersi in uno scambio senza fine.

Non è semplice dare un giudizio a questa lettura, scorrevolissima e da me sopravvalutata leggendo le recensioni.

Sembrano due libri, una prima parte e una seconda, che si incontrano nel finale.

I fatti sembrano banalmente ovvi, e mi dispiace il mancato azzardo da parte dell’autrice.

Un racconto fatto di felici salti e rovinosi atterraggi, ma sempre con il paracadute Cate o Ludo.

Non so esattamente cosa mi aspettassi. Forse dialoghi altisonanti e impegnativi, forse un narrato più originale, forse il voler non indovinare ciò che sarebbe di lì a poco successo. Sono rimasta delusa. Più scorreva la lettura e più la mia delusione cresceva.
Poi mi sono liberata dalle aspettative fuorvianti e mi sono abbandonata semplicemente ai fatti. Ho vissuto Ludo e Cate, Paolo, Gab, Rita e Piero, Oscar, Gianfranco, Matt, Genova, e l’Australia: e ho iniziato a viaggiare con gli occhi e con la mente su spazi immensi e lontanissimi e diversissimi da quelli che frequento. Quando mi sarebbe potuto capitare di visitare Brisbane, il Wishing Bridge, il piccolo resort di casette in legno, nel bosco di eucalipti e palme, circondato da vigneti a perdita d’occhio, il Margaret River, il faro di Cape Leeuwin sull’estrema punta sudoccidentale, dove si incontrano l’oceano Indiano e l’oceano Pacifico, con il mare a perdita d’occhio che si infrange sugli scogli, il viale verde dell’erba che si perde nel blu dell’oceano, il Ludlow Tuark Park, bosco di alberi da sughero con piante e fiori all’infinito, la punta dei surfisti dove il mare si apre a 180° davanti agli occhi.

Ho assistito ad amicizie che si sono consolidate, ad altre che sono nate, a cuori che si sono divisi e ad altri cuori che si sono incontrati, alla mano che ha saputo tendersi e a quella che ha ferito.

A pensarci bene c’è tutto quello che mi serve in questo momento, un’amicizia immensa, una famiglia protettiva e amorevole, un amore coinvolgente, il dolore da cui ripartire, il magone che rimane e la forza del domani che inevitabilmente arriva.

Romanzato si, forse troppo, si, ma cosa c’è di più bello di leggere un romanzo romanzato.

E allora amici…“ci vediamo un giorno di questi.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    23 Luglio, 2022
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“Non lo so. Tu sei tu.”

Potrei banalmente definire questo libro una grande storia di amicizia. O perché no di acquisita fratellanza. E non è sempre e comunque una grande storia d’amore?

L’autrice deliberatamente inizia il romanzo con ciò che in genere viene rivelato alla fine, e ciò mi ha stupita. Non ho apprezzato sapere da subito come la storia andasse a finire, forse perché ho ingenuamente sperato che i fatti narrati cambiassero rotta per volgere al bello. Non è stato questo a togliere bellezza a questo racconto. E’ che non mi sono affezionata alle sue pagine.

L’elemento più coinvolgente e sorprendente è la famiglia. Il modo in cui accoglie e sa dare fiducia. Viene raccontato con grande naturalezza, come se fosse una ovvietà.

La lettura mi suscita sentimenti di rabbia misti a impotenza, come se tra i protagonisti ci fossi anche io. Incomprensibile, è ciò che penso.
Il finale così ovvio e così evitabile, che l’autrice ha immaginato, addirittura ce lo anticipa come prima notizia.

Alfredo e Beatrice, Beatrice e Alfredo…scandiscono il giorno e anche la notte.
Lei e i suoi otto anni quando si conoscono. Due genitori che si ammazzano di lavoro. E un altro genitore invece che di mazzate uccide i propri figli.

E’ davvero impossibile non schierarsi.

Una vita poverissima in una casa occupata, come la maggior parte delle case nel quartiere “La Fortezza”. Una fraterna condivisione degli spazi e dei sentimenti.

Io credo nei legami più forti dei legami di sangue, in quelli così forti che stesso sangue o no non ha importanza perché tanto, è come se lo fosse, ci credo perché lo vivo ogni giorno, ogni momento. So che esiste. E’così per questi due ragazzi, additati come “i gemelli”. Si sono contaminati a vicenda.
“Ancora non lo sapevamo ma tra noi sarebbe andata sempre così. Col tempo ce ne saremmo resi conto. Non ci saremmo capiti mai.”

I fatti narrati risalgono al 1976. Proseguono poi per tutti gli anni ottanta.

Non so dire se sia più una storia d’amore o di amicizia, di rabbia o di frustrazione, di degrado o di abbandono, di fratellanza o di accoglienza, ma poco importa.

“Un giorno gli spiegherò perché il ragazzo in quella foto non guardava l’obiettivo.”

E’ una lettura che scorre veloce, ma mi è mancata quella piacevolezza che ricerco sempre quando mi abbandono alla lettura. E questo, forse, influenza il mio giudizio non del tutto positivo. Non perché cerchi a tutti i costi storie con il lieto fine. C’è un elemento che mi sfugge, una nota stonata che non ho saputo tenere da parte.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    18 Luglio, 2022
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Avevo paura della mia paura.

L'incipit di questo romanzo vale 280 pagine.
La sensazione, è quella di essere catapultati nel verdissimo parco di Londra, in attesa di sapere che epilogo avrà l'enorme mongolfiera sfuggita al controllo a causa del forte vento, e come evolveranno e si intrecceranno le storie delle quattro persone, che si trovano loro malgrado coinvolte in una disperata corsa alla fune per evitare il peggio.
E' qui che Jed Parry conosce Joe Rose.
"Fu a quel punto che notai Jed Parry intento ad osservarmi. ...
Nel paio di secondi durante i quali gli occhi grigio azzurri di quello sconosciuto incrociarono i miei, mi sembrò di poter includere anche lui nel compiaciuto senso di benessere che provavo nell'essere vivo."

Colpisce, ma chi conosce l'autore non ne è sorpreso, la sua capacità nel raccontare con grazia ed eleganza gli avvenimenti, arricchirli di sfumature e dettagli infiniti come se si trattasse di un set cinematografico piuttosto che pagine di un libro.
Gli accadimenti precipitano ma non il tono, che rimane flemmatico, minuzioso, nonostante l’allarme sia ormai conclamato, resiste al vortice che invece inizia ad avvolgere tutto e tutti. Ci tiene sulle spine. Ci regala piccoli spunti di riflessione che torneranno utili durante la lettura e lo svolgersi dei fatti. Procede lentissimamente e grande maestria a stuzzicare la nostra curiosità.

"Chi era la persona appena uscita? Perché andarsene così all’improvviso? Mi alzai. Era apprensione dunque. Ero in quello stato da tutto il giorno. Chiaro, si trattava di una forma di paura. Paura delle conseguenze. Avevo paura della mia paura."

Gli eventi ci fanno riflettere sulla dicotomia se sia giusto anteporre noi al resto del mondo, se i principi di solidarietà sociale possono avere un freno quando in pericolo è la nostra stessa vita.
Qual è il punto di incontro tra queste due realtà spesso divergenti?

McEwan ci conduce alla scoperta delle nostre paure e delle nostre ossessioni, che possono trasformarsi in un incubo per gli altri, come succede a Parry che soffrendo della sindrome di De Clérambault è indotto a pensare di amare ed essere amato dal soggetto prescelto. E’ un amore ossessivo non corrisposto. Una sorta di follia amorosa. Joe ne è la vittima e la sua vita, anche amorosa, subirà un tracollo.

Il dubbio, che l’autore è così bravo ad instillare, ci accompagnerà fino alla fine facendoci perdere certezze per questo racconto a metà tra giallo e romanzo psicologico.
E se nessuno fosse disposto a crederci? Se in questa follia restassimo soli?

Solo sul finire il ritmo narrativo allenta la morsa.
Mi sorprendo a notare che ho trattenuto il fiato e sviluppato grande empatia e solidarietà con questo protagonista e voce narrante, Joe, alla soglia dei cinquant’anni, laurea in fisica e una tesi di dottorato sull’elettrodinamica quantistica che di mestiere fa il divulgatore scientifico.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    18 Giugno, 2022
Top 100 Opinionisti  -  

E io, ho già incontrato il mio Jacques Lacan?

Appena letto l’incipit del saggio autobiografico di questo psicanalista tra i più famosi in Italia, ho immediatamente capito che avrebbe dato una risposta, psicanalitica, alle domande che da sempre mi pongo.

Da cosa nasce questo trasporto anche fisico nei confronti di questo oggetto chiamato libro?

E’ un incontro, una esperienza emotiva, un appuntamento al buio al quale ci si presenta fiduciosi senza sapere chi ci sarà, se sarà gradito, se leggeremo ciò che vorremmo oppure ciò che non avremmo voluto sapere ma che dovevamo conoscere.
Ignoriamo tutto di lui pur anelando la sua conoscenza.

E’ successo di scoprire noi stessi, diversi da come immaginavamo, altre volte ancora siamo semplicemente rimasti stupefatti.
E’ sempre un nuovo viaggio, come cambiare per crescere, come aggiungere un tassello in più che ci porti a dire ce la possiamo fare, nel lavoro, nelle amicizie, nei rapporti interpersonali in genere, nella vita. E’ una continua crescita.

Altre volte abbiamo dovuto fare un passo indietro, sempre costruttivo. Mai per sentirci abbattuti o sconfitti. Anche quando abbiamo pianto di disperazione o riso fino alle lacrime di gioia, anche quando abbiamo capito di non aver capito, o essenzialmente appreso ciò che non sapevamo.

Io personalmente ho sempre detto grazie.

Come dice Recalcati, è tutto racchiuso in questo semplice concetto: io leggevo il libro, ma lui leggeva me. Ed era ciò che volevo. La lettura spia, cattura, anche fisicamente. E’ un attaccamento, come dice l’autore, sempre anche erotico. E’ il continuo scambio di sensazioni a instaurarlo. Quanto siamo disposti a lasciarci andare, quanto siamo disposti a cedere di noi, dei nostri pensieri più segreti e reconditi, quanto siamo disposti a scoprirli per affrontarli?

Recalcati ne parla come di coltello, corpo, mare.
Coltello perché “taglia la nostra vita offrendole la possibilità di acquisire una forma nuova”, una vita prima e dopo la lettura.
Corpo nell’accezione più erotica possibile, avendo il libro un suo corpo, un suo profumo, una sua consistenza, una sua sensualità. Mette in moto impulsi.
Un mare, perché è sempre aperto, scopre mondi.
E noi lettori siamo aperti a quel supplemento di valore.

Quanti nomi illustri si sono forgiati grazie agli incontri fatti nel proprio cammino…
Lacan con Freud, Philip Roth con Kafka, Beckett con Joyce e Proust…

E per me chi ha scandito un prima e un dopo? L’ho già incontrato?
Chi mi ha spinto, se è successo, ad approfondire me stessa? Cosa ho ricordato che pensavo, aver dimenticato?

Per l’autore i suoi incontri, Lacan, Sartre, Freud, Heiddeger… ne hanno indirizzato gli studi rendendolo filosofo prima, psicanalista poi.
Lacan è stata la sua “tyke” che ha spezzato la routine.

E io, ho già incontrato il mio Jacques Lacan?

In questa piacevole e impegnativa lettura, cercando di star dietro a discorsi a volte un po’ troppo impegnativi, ho trovato tante risposte e mi sono fatte tante domande. Ho letto con gioia e meraviglia ciò che pensavo ma non sapevo esplicitare.
Il mio viaggio è solo all’inizio.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    30 Gennaio, 2022
Top 100 Opinionisti  -  

Vai. E’ ora. Non aver paura.

Max è un bambino autistico, ha nove anni e frequenta la terza elementare.

Budo è il suo amico immaginario e ha cinque anni. E’ lui il narratore di questa storia simpatica e accattivante.
Non è come gli altri amici immaginari, perché Max ha grande fantasia e lo ha voluto come un bambino vero, con braccia, gambe, faccia. Tutto ciò che Max pensa, lui lo percepisce, nessuno lo conosce bene come lui. Ed è grazie a Budo se Max riesce a fare cose che i genitori neanche sospettano.
Rifletto su quanto sia importante spingersi ad agire, quanto voglia dire essere sostenuti e incoraggiati, e cosa può significare questo per un bambino con le sue paure e insicurezze.

Le giornate vengono scandite dai ritmi scolastici e dall’insegnamento di maestre eccezionali, come la maestra Gosk tanto amata da Budo e Max: lei si che sa far bene il suo lavoro. Ha imparato l’importanza di far ridere i suoi piccoli alunni, gli vuole sinceramente bene e si prende cura di loro. Ha a cuore ciò che fa. E’ molto diversa dalla maestra Patterson…

Budo è simpaticissimo. È l’amico che tutti abbiamo sognato di avere o forse abbiamo avuto.

Max non è come gli altri bambini. Non ama ciò che in genere gli altri bambini amano. Ad esempio non ama ridere. Ciò non significa che per lui non ci sia nulla di divertente, è che le cose buffe non sempre le capisce. Per lui battute e scherzi non hanno senso, perché dicono una cosa e ne vogliono dire un’altra. E questo lo confonde. Quando una parola assume significati diversi lui non riesce a scegliere il significato giusto.
Mi ha fatto riflettere sull’ovvio delle cose, o sulle cose che ci sembrano ovvie ma che ovvie non sono, se non per noi. L’ovvio degli altri spesso non lo consideriamo, perché non lo vediamo.

"Max vive quasi tutta la sua vita dentro sé. Quel dentro grande e bellissimo che una volta ha immaginato me."
E’ il bambino, come dice Budo, più coraggioso del mondo.

Durante la lettura, che è proseguita con grande rapidità, ho giudicato il romanzo prolisso, fin troppo meticoloso nelle descrizioni, finché non sono stata illuminata dal grande messaggio di coraggio e speranza che possiede. Max è attanagliato dalla paura, è bloccato, ma capisce che deve agire, stupendoci.
La narrazione mi ha lasciato un grande insegnamento e una grande gioia.
È un racconto sulla capacità che ciascuno ha e che non pensa di avere, sulla fiducia che possiamo trovare in noi stessi. Sulla forza recondita.

Con un linguaggio semplicissimo ma mai banale, molto adatto ai bambini, durante la lettura ho quasi sempre sorriso, ho temuto quando Max si è trovato in seria difficoltà, ed ho pensato che l’autore forse ha vissuto una esperienza diretta. Chissà.

Vicissitudini si rincorrono fino a un finale sorprendente e che seppur ovvio non può definirsi scontato, ulteriore bravura che i grandi autori hanno.

Ciao Budo, ciao Max, e benvenuti.

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    14 Gennaio, 2022
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“La malerba cresce”

“Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. … Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. …”

Un incipit che da solo vale tutta la lettura, tutto il non detto, tutto il raccontato insieme ai ricordi, agli odori, ai sapori, ai rumori, ai silenzi, alle sfumature.

Mi fa tenerezza assai la mamma di Amerigo, Antonietta Speranza.
Amerigo e la sua paura di restare solo e attaccarsi alle vesti. Il suo essere così protettivo.. Sette anni di ometto già cresciuto e tuttavia spaventato nel suo coraggio.

Il romanzo è bellissimo, andrebbe letto nelle scuole, condiviso. Ha un messaggio di grande pace. Un messaggio grande, che va oltre i singoli accadimenti, comunica una ricerca di serenità.

Mi ha notevolmente sorpreso, me lo aspettavo aspro, difficile da sopportare e invece non conto le volte in cui mi è affiorato un sorriso sulle labbra.
Sono completamente coinvolta e non so spiegarmi ciò che vorrei accadesse. In realtà non so cosa desidero accada. Mi sento Amerigo, Antonietta, Derna., i bambini, il treno... respiro ciascuno di loro.

“Non mi lasciare, le dico stringendola forte. Non ti lascio, risponde Derna. Io ci sarò sempre.”

La lettura mi ferisce perché comprendo la tua paura di sentirti un impostore, spinto dalla vita a vivere un’altra vita, ad essere felice senza la sua presenza, a crescere in un luogo lontano riuscendo anche ad essere felice e a diventare ciò che ami, spezzando legami.

Quelle voci nei vicoli che sono un rumore sempre uguale, fastidioso si, perché la musica non è mai cambiata.
La casa che è casa tua.
Una felicità di tanto tempo fa.
Noi che camminiamo in quella fredda mattina di novembre, tu avanti e io appresso a contare le scarpe della gente.
E io che leggo vedo lucidamente quel basso, il tavolo, le sedie, il cucinino, il bagno, il letto tutte le notti condiviso. Tu che fai la genovese con i tuoi movimenti così confortanti. Vedo la tua vergogna e sento e soffro per ciò che provi tu.
Non mi schiero, non vedo colpe, tutto è giusto e tutto è sbagliato, le situazioni si capiscono davvero solo quando si vivono e la strada da seguire diventa unica.
Lotto per allontanare quelle voci così familiari che risvegliano la mia memoria e poi sento la tua voce mamma.
Il tempo è passato ma è già tardi.
Un serbatoio di cose dimenticate.
Maddalena, riconoscerla dalla voce è un tuffo nel passato che diventa adesso.

“C’è molto tempo davanti a me, ma non ho fretta, il viaggio più lungo l’ho già fatto: ho dovuto percorrere la strada a ritroso fino a te, mamma.”
Piacere, Amerigo Speranza.

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    18 Novembre, 2021
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Mi chiamo Mila e questo è il mio viaggio.

E’quasi terminata una lunga giornata lavorativa quando, la nostra anatomopatologa, si accorge che nella cella frigo c’è qualcosa di sospetto. Dall’abisso della morte si risveglia una donna. Occhi terrorizzati incontrano quelli di Maura, incutendole a sua volta un terrore senza fine.

La storia fa un salto temporale. Siamo nel deserto messicano, e in un furgone bianco viaggiano sette ragazze dell’est e la diciassettenne Mila. Verranno rapite e rinchiuse per essere usate nel giro della prostituzione violenta.
“Sbarre alle finestre. Un lucchetto alla porta. Non servivano per tenere alla larga gli intrusi. Quel lucchetto serviva per tenere dentro qualcuno.”

Nel gruppo anche Olena, insieme alle altre protagonista di una storia terrificante, raccontata in prima persona proprio da Mila.
Sul loro cammino incontreranno Joe e in modi diversi arriveranno a Boston…

“Mila sa.”

Il romanzo si discosta molto dai precedenti di questa autrice, non è la solita trama, non è la solita scena del crimine e non sono i soliti efferati omicidi, sembra più un racconto di cronaca nera molto dettagliato e fortemente violento, e per l’attualità dei temi trattati, mi colpisce così duramente che in alcuni passaggi non ho potuto trattenere le lacrime per la rabbia e l’impotenza e l’ingiustizia.

La storia non ruota attorno a Maura e a Jane, anche se la loro presenza è costante e seguiamo le loro vicende personali, soprattutto l’evolversi della vita della detective e della sua famiglia. L’intervento di quest’ultima si rivelerà come al solito rischioso ma fondamentale.

Trovo che questo sia il suo migliore romanzo, non solo perché esce dai suoi soliti schemi, ma è anche un thriller abbastanza intricato; accade un fatto che si intreccia con un altro e il tutto è molto ben raccontato. L’incipit crea la giusta suspense e per tutta la lettura seguiremo le tracce di una misteriosa donna.

Jane, Detective della squadra Omicidi, dipartimento di polizia di Boston e Maura, medico legale, sono in ombra “per una buona causa”.

“Il dado è tratto.”

Buone prossime letture a tutti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    24 Ottobre, 2021
Top 100 Opinionisti  -  

“Perché piangi? Stavo leggendo, risponde lui.”

La storia, sembrerebbe narrare dell'incontro, nella propria libreria, tra A.J. Fikry, libraio arrabbiato con tutti e scontento della propria vita, con la piccola Maya, curiosa e tanto intelligente.

Un libro dolcissimo che narra due storie d’amore parallele: quello tra un padre e una figlia non direttamente sua, Maya due anni, che si ritrova a gattonare in libreria abbandonata dalla mamma che non se ne può più occupare, e la passione per i libri, nell’inconsapevolezza di comprendere ancora pienamente cosa sia l’oggetto che stringiamo tra le mani.

Chi ama i libri, anche e non solo per ciò che raccontano, non potrà che apprezzare le descrizioni che la piccola Maya ne fa, e ritornare istintivamente col pensiero a noi da bambini e al nostro primo approccio con questo oggetto così emozionante.
Abbiamo iniziato a sfogliarlo senza capire bene cosa avessimo tra le mani e quali viaggi fantastici potesse racchiudere tra le sue parole, ne abbiamo imparato ad apprezzare la fattura, il profumo, il carattere, l’odore delle pagine, i suoi colori. E abbiamo fantasticato con l’immagine della copertina interpretandola.

Maya, A.J. Fikry, Lambiase, Amelia Loman, Ismay…sono i primi amici a cui ci leghiamo.
Island Books, una piccola libreria indipendente ad Alice Island non è semplicemente un luogo, non è semplicemente una libreria, è la vita che si incontra. E’ il luogo più bello del mondo.

“Tutto quello che posso dire è che insieme ce la caveremo. Quando leggo un libro, desidero che anche tu lo stia leggendo. Voglio sapere cosa ne pensa Amelia. Voglio che tu sia mia. Posso prometterti libri e conversazioni e tutto il mio cuore, Amy.”

“La mia vita è in questi libri. Leggili e conoscerai il mio cuore.”

La sensazione del peso del libro in tasca. La sua compagnia così discreta eppure così invasiva.
Nessun posto è bello davvero se non ha una libreria accogliente.

Il romanzo l’ho sentito come un inno alle cose che possono accadere, basta volerlo, a come la vita cambia quando meno ce lo aspettiamo, facendoci tornare ad amare ciò che prima ripugnavamo.
Mette di buon umore, anche se a tratti l’amaro in bocca non manca, l’autrice riesce a consolarci e alla fine la sua interpretazione del mondo e delle cose che accadono riscalda i nostri animi.

“La felicità era larga quindici Maya e lunga venti: il perimetro di una libreria in formato bambina.”

La prosa è fluida, immediata, essenziale. Racconta una storia che riusciamo a vedere anche con gli occhi oltre che con i sensi. Ed è meravigliosamente commovente, ma con allegria.

Lo consiglio certamente a chi ha voglia di amore e tenerezza non per forza solo verso gli uomini.
A chi ha voglia di sorprendersi e sorridere col cuore. A chi ha voglia di aprirsi alla bellezza, alla campanella che tintinna quando la porta viene aperta e un nuovo ospite entra, alla polvere che si crea sui libri a riposo, alla luce che filtra dalle finestre, ai nuovi viaggi che faremo con la mente e con il cuore, alle sorprese che ci attendono se sapremo scovarle. All’amicizia, all’amore, alla vita.

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    10 Ottobre, 2021
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“Se tu inciampi io ti sorreggo.”

Ho cominciato con riluttanza questo romanzo, perché non rientra tra i generi che preferisco e mai avrei pensato potessi appassionarmi così tanto alle vicende della famiglia Denaro. Con curiosità corro avanti nei brevissimi capitoli che si succedono, e costituiscono uno sprone al proseguire.

Anni ’60, Martorana, luogo di fantasia in Sicilia, e Oliva Denaro ha quindici anni.
Una famiglia umilissima, il fratello gemello Cosimino, la sorella più grande Fortunata, la mamma Amelia e il papà Salvo, contadino.
Le giornate trascorrono nelle continue raccomandazioni e divieti imposti dalla mamma perché “la femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia.”

Oliva, brava a scuola, è combattuta tra la sua testa che vorrebbe pensare in autonomia e i vincoli imposti dal paese e dalle persone che lo abitano, che non sanno far altro che giudicare.

Questa mamma, così avida di sorrisi e carezze, ritorna a farle il bagno e asciugarla come quando era bambina, prendendosi cura di lei anche fisicamente. E’ una scena molto toccante con una narrazione perfetta, raccontandoci quel che vorremmo sapere. E’ lei a lavarle anche lo spirito. Perché una madre protegge. Sempre.

All'apparenza una famiglia “sfasciata”, dove ciascuno è per sé e una parla per tutti, pur essendo di umili origini e senza titoli di studio, capiscono che è il momento per Oliva di parlare e farsi sentire, e si ritrovano intorno alla tavola a mani aperte, come i cavalieri della tavola rotonda uniti in una unica decisione. Ci sono anche la fedele, amica Liliana e suo padre Antonino Calò.

“Cosa altro possiamo chiedere per i nostri figli, se non che un giorno ci superino senza vederci e passino oltre, diretti verso la loro strada?”

Mi commuovono gli slanci improvvisi di affetto e la solidarietà femminile e la forza di questa famiglia, la sua unione, che inizialmente non avevo sospettato.

L’arrivo di Maddalena, militante dell’Unione delle donne italiane, che offre il suo aiuto per migliorare la vita di tutte, ci fa avanzare di dieci anni in un attimo. Perché la storia di una donna non è mai solo la sua.

C’è il Sud e quel comunismo che aiuta i poveri e gli emarginati. La politica che va dagli ultimi e gli stende la mano.

Liliana, che passa ogni giorno dopo la scuola per confrontare i compiti che fa lei in classe e che Oliva ripete a casa.
Liliana è quell' amicizia unica e speciale che appariva così impossibile e ostacolata.

Oliva che ricomincia, come faceva un tempo, a condividere il silenzio con il padre all’alba, riprendendo ad andare in giro con lui per rane e lumache.
Il padre che le dice “quando si va per campi sconosciuti è meglio essere in due. Questo faccio io, se tu inciampi io ti sorreggo.”

E’ Natale e si prepara il cenone insieme, madre e figlia, senza rimproveri, lasciando stare le regole, lasciando fare, e anzi, sollevando ogni tanto gli occhi dai fornelli, la madre adesso sorride, con timidezza.

Ritorna pure Fortunata, tra quei complici di cose sapute e non denunciate. Finalmente di nuovo insieme.

Trascorrono gli anni, venti. I toni si sono addolciti, Maddalena corona il suo sogno di madre.

Si ritorna a Martorana, che nel frattempo è andata avanti da sola.

“Avevi ragione tu, papà: ogni cosa viene per chi sa aspettare.”

Non c’è rimasto più niente in paese, ma quella ragazzina che corre a scattafiato con gli zoccoletti ai piedi e i capelli spettinati, che disegnava di nascosto le divinità del cinema, è lontana ed ancora lì. Ma ora, tutti la salutano. Nessuno abbassa gli occhi, nessuno mormora.

Questo silenzioso padre ci viene raccontato tutto nel finale, ed è struggente… “pensavo di avere tre piantine deboli e ho scoperto nel mio campo tre alberi fruttuosi e resistenti. Anche dalla terra bruciata dal sale può rinascere la vita.”

Nei pensieri ritornano tutti, anche la maestra Rosaria tanto amata, e Saro, l’amico di una vita.

“Ti sei consegnata da sola. La libertà di scegliere. La possibilità di dover accettare un rifiuto.”

Il finale e le lacrime che porta con sé…poetico come mi aspettavo e non deludente affatto, è…il cerchio che finalmente si chiude. E non importa se è un finale semplice, forse ovvio, l’importante è che l’ovvio si avveri.

“Ho mantenuto la promessa che avevo fatto a lei. Liliana.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    02 Ottobre, 2021
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“Non ho capito bene.” Irene.

Romanzo ambientato a Napoli, ruota intorno a Maria insegnante in una scuola serale, e Irene, la figlia che viene al mondo dopo soli sei mesi di gravidanza, così vicine ma costrette lontane da quello spazio bianco, che non è solo l’ospedale, che racchiude le loro momentanee esistenze. Intorno personaggi vari che faticano a mandare avanti la giornata e incrociano Maria nel difficile travaglio in cui si trova a dover lottare.
Partorire un figlio bisognoso di cure è l'incubo di ogni donna, quando si realizza metabolizzarlo è solo la difficoltà successiva, a cui ne seguiranno altre.
La Parrella non si prodiga in superflue descrizioni, i sentimenti certamente percepiti sono appena accennati, come se la scrittrice volesse scrivere solo per chi comprende anche senza tanto dire.
Il romanzo si snoda in un unico lungo capitolo, senza soluzione di continuità, forse perché è così che Maria vede la sua vita e quella della piccola Irene.
Il tema è complesso e non mi ha pienamente convinto, non perché volessi più morbosi dettagli, ma nonostante l'argomento trattato, non mi ha pienamente sollecitata come invece mi sarei aspettata, e questo lo imputo al taglio che al romanzo è stato dato, che io ho percepito troppo asettico. Stranamente e incredibilmente freddo, come le stanze dell'ospedale che le riempiono la vita. Uno "spazio bianco" di sospensione che tutti abbiamo prima o poi conosciuto, può schiacciarti o forzarti a procedere nel cammino. E' forse questo aspetto dei sentimenti che più mi è mancato e che ho cercato, nella mancanza, di immaginare.
Nel finire del racconto la narrazione dei primi biberon di Irene, quel gesto così naturale che può trasformarsi in un pericolo mortale per alcuni bimbi in determinate situazioni di salute, mi ha fatto pensare al dare la vita e al toglierla, ho percepito appieno la disperazione, da solo è valso per tutto il non detto.

E’ una lettura che consiglio certamente.

"Ho provato. Aspettando la metropolitana per l'ospedale, tutti i giorni, ho provato a leggere saggistica. I primi tempi ci sono riuscita, perché non avevo altro se non la mia testa. Ed era una testa molto esercitata sui libri.
Qualunque rancore i miei si rilanciassero da un estremo all'altro del corridoio, venivano assorbiti dal silenzio del tempo fermo. Io leggevo."

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    01 Ottobre, 2021
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Per sopravvivere devi imparare l’arte di mollare

Nesbo e il suo andare subito dritto al punto in modo a dir poco spietato.

Rieccoci alla Sezioni Crimini Violenti: ritroviamo il nuovo investigatore capo Katrine Bratt, Truls Berntsen che ha ottenuto il trasferimento alla sezione grazie alla indissolubile amicizia che lo lega a Mikael Bellman, capo della polizia. Un’amicizia fatta di peccati comuni e dal dover mantenere il silenzio su essi.

Harry, sotto la cinquantina, ormai vive la sua vita serenamente con la donna che ama e lontano dallo spettro del Jim Bean. Insegna tecniche investigative agli studenti dell’ultimo anno della scuola di polizia di Oslo, Bjorn Holm è sempre il tecnico della Scientifica. Gunnar Hagen capo sezione Crimini violenti è il nuovo acquisto Anders Wyller.

“Cattura l’assassino.
Harry, non ti ho chiesto questo, ti ho chiesto come si guida una squadra investigativa che non ha fiducia in te.
E io ti ho risposto.”

Che cos'è la felicità? La risposta si trova a meno di un braccio da lui e ha un respiro regolare e calmo, i suoi capelli sono sparsi sul cuscino come i raggi di un sole corvino.

Ecco come ritrovo Harry Hole.
Ex investigatore alcolizzato con uno stipendio basso, attualmente docente, sobrio, presso la scuola di polizia con uno stipendio ancora più basso. Ma i sottili capillari rossi nelle iridi azzurre e sotto la pelle del viso, rivelano un passato fatto di alcol, caos,mancanza di sonno e cattive abitudini, la cicatrice che va dall'orecchio all'angolo della bocca e la mancanza del dito medio ad una mano ne sono la testimonianza più tangibile.
Ha giurato di aver chiuso con gli omicidi. Quando viene nuovamente richiesto per coordinare un piccolo gruppo che indaghi parallelamente alla squadra ufficiale... beh io spero che rifiuti e si goda la serenità che sta’ vivendo!

“Qualcosa che sai fare.”

“Se si riesce a immaginare una forma di devianza, in giro c’è qualcuno che ce l’ha.” E questo qualcuno è Valentin Gjertsen che abbiamo già conosciuto.

“Aurora si alzò, scansò la tazza, fece il giro del tavolo. Si chinò sopra a Harry e lo cinse con le braccia. - Va tutto bene, gli disse. - Va tutto bene.”

Vampirismo e utilizzo di Tinder da parte di quelle che ne diventeranno le prede sono un vertice in cui il lettore viene risucchiato.

Nonostante la narrazione sia adrenalinica trovo che alcuni approfondimenti ci sarebbero dovuti essere, a tratti il racconto è frettoloso e poco approfondito, quasi superficiale in situazioni inaspettate e sconvolgenti.

Ritroviamo un Harry che negli ultimi anni ha conosciuto la felicità, che ha capito che è capace di essere felice. Ma che non riesce a tirarsi indietro dalla caccia al serial killer di turno, sempre più sanguinario e, nelle descrizioni, a tratti quasi rivoltante…solo come Nesbo sa raccontare.

Il finale l’ho trovato un po’ deludente e prevedibile.

Oslo imbiancata con 14 gradi sotto zero di notte, con un sole che si riflette sulla neve e acceca, ha sempre un fascino indicibile.

Peccato che le narrazioni dei primi Nesbo siano lontane.

“E perciò anche tu sarai ingannato, Harry.”

La leggenda…Harry Hole. Sono Holeomane anche io… da tempo.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    14 Marzo, 2021
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Forse potremmo farci compagnia….

Parlare della vecchiaia non è semplice perché solitudine, preoccupazioni o banalità sembrano esserne compagni fedeli, e sono argomenti che intristiscono chi legge.
Kent Haruf riesce ad affrontare il tema da un’altra prospettiva, in modo positivo, solare, attivo, di chi non si piega alla routine di giorni vuoti e ormai finiti non restando altro che rimuginare su essi, ma vede invece una possibilità nuova di rimettersi in gioco, provare e destare interesse, avere giornate libere per poter incontrare, far compagnia, uscire a pranzo fuori e perché no amare. Raccontarsi.

"Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me." "Cosa?
In che senso?"

Il romanzo è tanto breve quanto dolcissimo e la malinconia che fa capolino solo a tratti compare davvero.
Ritornare ad Holt, immaginaria cittadina in Colorado, è un tuffo al cuore.

Conosciamo Addie Moore e Louis Waters entrambi vedovi e settantenni ma ancora aperti alla vita e alle occasioni che essa può presentare.
E’ proprio Addie a presentarsi un giorno alla porta di Louis per chiedere ed offrire compagnia. Instaurare con il suo vicino una tenera quotidianità: chiudere insieme la giornata e passare la notte insieme facendosi reciprocamente compagnia perché quando si è soli, il buio, la notte, le ore, possono essere momenti di sconforto e disperazione. E’ la proposta di una donna emancipata che non vuol arrendersi alla arretratezza sociale e culturale. E trova in Louis una spalla forte che si ritrova nei pensieri di lei. Quello che doveva essere un tentativo diventa una necessità a cui entrambi non vorrebbero rinunciare. Perciò ci spiace quando proprio dalla famiglia arrivano critiche e pregiudizi e attacchi verbali violenti.
Inizia un’ amicizia che diventa conforto e poi amore, che oltrepassa anche le maldicenze di una piccola e chiusa provincia americana. Perché se la vita ha ancora da offrire, sarebbe un delitto non cogliere le opportunità.

E quando ad arricchire ulteriormente le loro giornate arriverà il nipotino di Addie, Jamie, la famiglia ci sembra davvero formata. Siamo ancora più felici. Sono ancora più completi.

Lo stile di Haruf è caldo, tiene compagnia, osserva e racconta senza essere indiscreto, non è inutilmente buonista ma prova a costruire una visione della vita dove l’attesa di un momento da vivere ci faccia compagnia per affrontare la lunga giornata. Dove di cose da pensare e da fare ancora ce ne possono essere.
Mi ha colpita l’ottimismo della visione dell’autore di una parte di vita a cui penso spesso, e non nascondo con un certo timore, e il suo infondere coraggio e gioia di vivere. Mi ha confortata. Leggere questo romanzo mi ha fatto felicemente sorridere, perché racconta direttamente ai nostri cuori. Perché mi ha aiutata ad aprire gli occhi, tranquillizzandomi, su una fase della vita a cui non sempre penso con la dovuta serenità.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    17 Gennaio, 2021
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Le persone sono più sole di quanto manifestino

“Alcune persone - i deboli - hanno paura della solitudine. Ciò che non riescono a comprendere è che possiede qualcosa di molto liberatorio: una volta che ti rendi conto di non aver bisogno di nessuno, puoi prenderti cura di te stesso. Il punto è questo: è meglio prendersi cura solo di sé stessi. Non puoi proteggere gli altri, per quanto ci provi. Ci provi e fallisci e il tuo mondo ti crolla addosso, brucia e si riduce in cenere.”

Eleanor Oliphant è divertente e commovente.
Con un pizzico di “giallo”, di lasciato in sospeso che si rivelerà solo alla fine che spinge subito il lettore a porsi domande.

Eleanor, una piantina, poche, pochissime persone, un gatto e la liberazione: sono gli step fondamentali della narrazione per me, un crescendo di incontri e presa di coscienza.

Eleanor tanto solitaria quanto coraggiosa e inconsapevole.
Ho amato il suo non prendere in considerazione il giudizio degli altri e il suo porsi e non porsi domande, non ho mai pensato a lei come ad una persona fragile e senza stima di se stessa ma anzi, alcuni accadimenti mi hanno indotta a pensare il contrario.
Il rifiuto di integrarsi socialmente le consente di vivere serena, ignorando che potrebbe avere di più è felice di ciò che ha. Perché lei sta’ bene, e a star meglio non ci pensa.

Riconoscendomi in alcuni suoi atteggiamenti, e non trovando le sue stranezze tali, l’ho sentita subito amica.

La prosa scorrevolissima, forse leggermente prolissa, mi ha quasi spinta ad abbandonare ed ho dovuto compiere uno sforzo per proseguire nella lettura, che mi ha piacevolmente soddisfatta e stupita perché per nulla scontata o banale.

Mi ha fatto riflettere sulle persone che mi circondano e che penso di conoscere bene, che invece potrebbero nascondere più di ciò che mostrano.
Le persone appaiono spesso più sole di quanto manifestino.

Tuttavia protagonista di questo racconto non è la solitudine quanto la capacità di riuscire ad ingannare perfino se stessi. Ma l’inganno, può definirsi tale se non se ne ha consapevolezza?

Raymond, tecnico informatico che lavora nello stesso studio di design in cui lavora Eleanor è l’amico prezioso, il dono che ciascuno dovrebbe avere nella vita. E’ possibile vivere senza una tale gioia?

Tanti sono gli argomenti che la scrittrice tira in ballo e tutti ruotano intorno alla socialità e al suo variegato mondo.

Definito un romanzo di resilienza, io preferisco la definizione di romanzo dalla grande anima. Che racconta di una persona che da sola sta’bene.

Narrazione schietta, sincera, senza inutili fronzoli racconta la semplicità della quotidianità e come forzando il proprio cuore e aprendosi si possa star meglio…e perché no, davvero benissimo.

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    06 Gennaio, 2021
Top 100 Opinionisti  -  

Dimmi che non è finito tutto, Giulia.

Il romanzo è alle prime battute e una fortissima emozione mi cattura e mi catapulta in quella stanza d'ospedale, nel reparto dei lungodegenti, tra Giovanni sospeso e suor Giulia annichilita.

Siamo a Roma, è il 13 giugno 1984 e Giovanni sta' partecipando, insieme al padre e alla fidanzata, ai funerali del segretario generale del Partito Comunista Enrico Berlinguer quando, a seguito di un "banale" incidente si addormenta, per risvegliarsi nel luglio del 2017.
Sono trascorsi 33 anni.

"Lui, ignaro e incurante della destinazione, sporgeva la faccia fuori dal finestrino, chiudeva gli occhi e gustava rapito lo schiaffo indolore del vento."

Il romanzo procede con piccoli capitoli, piccoli passi di un tempo che riesci a ritagliarti nella giornata e che sono uno sprone a leggere il capitolo successivo, perché in fondo, pur poche pagine possono arricchirti tanto.

Mi convince il modo in cui l'autore sceglie di pensare e raccontare di Giovanni, non segregato nel buio perenne ma rimasto fermo, in tutti quegli anni, nella soffitta della sua infanzia, illuminato da una luce chiara e sincera che penetra da l'unica finestrella, ed è sempre in un mattino assolato.

"Come un giorno che non scorre, resta fermo, rifiuta il tempo, si nega al buio. E invece Giovanni al buio non era."

Qualche cliché non manca, dal professore che pensa a come intestarsi e comunicare un merito non suo di un risveglio da un coma durato 30 anni, all'altra suora, quella che nutre sentimenti di noia e pregiudizi nei confronti dello strano malato.

Veltroni si sofferma sulla fame di notizie che abbiamo, e la contrappone alla propria ignoranza umana e culturale, alla mancanza di intensità, al voler sapere tutto senza avere la pazienza di capire e senza avere la capacità di ascoltare.

"Lui si avvicinò al suo ombrellone, lei sembro' non accorgersene. Erano tre anni che Giovanni aspettava questo momento. ... Ascoltare qualcuno che legge ad alta voce è molto diverso da leggere in silenzio. Quando leggi, puoi fermarti o sorvolare sulle frasi: il tempo sei tu che lo decidi. ... Lei sorrideva. Lo aveva visto arrivare. E sorrideva. Perché, forse, lo stava aspettando."

E poi c'è suor Giulia per la quale non è necessario, come diceva Kant "sospendere il sapere per far posto alla fede."

È strano come un racconto, probabilmente frutto di fantasia, riesca a farti riflettere su te stessa e sul tuo ritorno, sui tanti ritorni che quotidianamente avvengono verso noi stessi, ci allontaniamo, ma può succedere che attraverso un romanzo inizi ad analizzare te stessa.

Ci sono attimi di grande tenerezza che mi inducono a pensare alla dolcezza, alla protezione di una mamma per i figli. Così è suor Giulia con Giovanni, "vecchio" in un mondo nuovo troppo giovane per lui.
I pensieri sul rapporto tra fede e libertà di scegliere anche come pensarla mi commuovono, e li condivido pienamente.

Giovanni. Disarmato. Indifeso. Tanto tanto curioso, di una curiosità che da sola basterà a salvarlo, a ritornarlo alla vita. Che in quell'immenso ma non interminabile sonno non è mai stato solo. Chissà se lo sentiva di non essere mai solo e non riuscire a dirlo. È così rassicurante pensarlo. Nessuno vorrebbe mai sapere di essere stato solo.

"Io torno alla vita." Dal giugno 1984 "era risorto Giovanni."

Ritrovo Veltroni uomo di sinistra e uomo grato alla Resistenza quando ci narra di un padre, che racconta storie di uomini speciali a un bambino in ascolto prima di dormire.

Ho in mente tante domande, e ogni curiosità viene soddisfatta.

"In tutto questo tempo lui che aveva fatto? Aveva dormito."

È un racconto di una dolcezza infinita del Veltroni ex sindaco di Roma e non solo, che leggo in una luce completamente diversa da quella a cui sono abituata; lo vedo come uomo, come figlio, come fratello, come padre, come amante, come compagno, come amico.
Walter Veltroni marito, padre ma soprattutto umilmente uomo. E in quanto tale racconta una storia che mi fa riflettere.

"Meglio accendere una candela che maledire il buio." Lao Tse

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    24 Settembre, 2020
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“E tu di chi sei la figlia?”

Tredici anni, una sorella che non sa di avere. E dei fratelli che la salutano con un fischio o la ignorano. Non li conosce. Loro sono la sua famiglia per forza.

E’ l’agosto del 1975. Frequenterà la terza media.

Si lavano i piedi nella stessa bacinella, lei e la sorella, l’acqua si fa subito nera, dividono il letto, il sudore, l’odore di ammoniaca della sua urina calda. Nel buio denso di fiati cerca la pianta del suo piede da tenere sulla propria guancia. E’ la sua unica compagnia.

Eppure…Adriana. Un cenno di intesa. Solo un vago sguardo. O un tocco al volo sul braccio. Bastano a capire che è il momento di scappar via insieme. “Poi è venuta con una corsa breve e improvvisa, mi ha abbracciata. Avevo posato tutto sull’asfalto, l’ho stretta e baciata sulla fronte. Ci siamo mosse fianco a fianco senza dirci niente…”

Adriana che blocca il braccio della madre perché.. “non devi mena’ pure a essa.”

Adriana…che le dice ”quando scappi a me non ci pensi?” ci siamo stritolate in un abbraccio. E’ il Natale del 1976.

Vincenzo, in quell'attimo, occhi negli occhi dimenticando “chi eravamo”. E continuare a sentirlo, anche dopo, quando resta solo l’odore e i ricordi.

Sergio e i suoi cattivi scherzi.

Giuseppe che gattona e la guarda non riconoscendola. Ma solo all'inizio.

Quella madre, alla fine di se stessa, da salvare.

L’autrice è così brava a introdurci nella cucina spoglia e sporca, nella stanza da letto divisa con tutti gli sconosciuti fratelli, nel bagno già usato e chiazzato di acqua ovunque, nella continua ricerca di una spiegazione che tarderà ad arrivare e nel nuovo mondo di questa sorella che non ha un nome.

Arminuta si chiama, che nel dialetto abruzzese significa ritornata, restituita.

I brevi capitoli, anzi brevissimi, mi conducono a piccole dosi in una storia che sarebbe tristissima se non fosse un continuo riscoprire dolcissime e inaspettate attenzioni. Ovvia. Naturale.

Non l’ha mai chiamata. Non con quella parola strozzata, morta in gola. Mamma.

Mi commuovono i grandi slanci di amicizia e di affetto e di ricerca e di compagnia reciproca. Di comprensione.

E’un romanzo a tratti poetico con grandissimi slanci di passione, rabbia, disperazione, sentimenti che si rincorrono continuamente. Due sorelle, perché tali sono nella realtà, ma sorelle…perché lo diventano. Nella protezione, nell'aiuto, nell'intima condivisione, nella compagnia.

Chi dice che il mestiere di madre è uguale per tutti sbaglia. Per alcuni è ulteriormente più difficile e faticoso. Ma ci sono gesti, a volte solo sguardi, che restano, anche se ce ne accorgiamo solo dopo.

Ci sono sorelle che sono anche madri.

Avere due madri o nessuna, e non avere un nome. Il nome è tutto, ti fa sentire al mondo e accettata. Ed è ancora più importante che ti chiamino col nome che tu hai scelto per te, per sentirti, per riconoscerti.

“Lo sanno tutti. Lo sapevano tutti e io no.”

“Poi si è spogliata anche lei e ha lasciato i vestiti sulla sabbia tiepida, insieme alla sua paura. Si è affidata alla mia mano e siamo entrate, con la biancheria intima addosso. … mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Nella complicità ci siamo salvate.”

La sorella di tutti i giorni. Mi guarda. La guardo.

Il finale da solo vale tutto il romanzo. La sua poesia da sola vale tutto il racconto. Che è potente e bellissimo.

Buone prossime letture a tutti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    08 Agosto, 2020
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La musica e i colori e gli odori del tempo

Pasquale e il suo bloc-notes a spirale dalla copertina nera e ruvida e il taglio lievemente colorato di rosso, da cui non si separa mai, acquistati in quella vecchia cartoleria polverosa e fuori moda…potrei essere io…. con i miei evidenziatori e le mie agende e i miei quaderni in cui scrivo e scrivo e scrivo.

Guido Guerrieri e le sue antiche vergogne, il non riuscire a resistere alla tentazione di guardarsi intorno per vedere se qualcuno nota il suo imbarazzo. “Il mio vecchio problema con il giudizio degli altri.”

Lorenza Delle Foglie… un nome che gli ritorna in mente senza riuscire a inquadrarlo. Poi i ricordi ritornano, e anche Lorenza, che non è più lei, non per Guerrieri, e tornano anche quei 25 anni… Il figlio Jacopo è in carcere con una condanna di primo grado per omicidio.

Lorenza, gli anni 80 e quel mondo analogico e rumoroso incrociano i miei ricordi, improvvisamente così vicini che posso davvero sentirli: il rumore del gettone nel telefono pubblico, il ruotare del selettore a disco nel telefono grigio di casa, il rumore dei tasti e del rullo e della levetta per andare a capo della macchina da scrivere, il tac del registratore quando lo facevi partire o lo fermavi…mi ritorna in mente come un lampo l’odore del sapone tra le righe di Erica Jong… sono tornata per un attimo alla fine degli anni 80…

“ Ci ho riflettuto molti anni dopo, esaminando la mia grande difficoltà ad accettare aiuto. Sapersela sbrigare da soli è bene. Credere di doversela sbrigare sempre da soli, senza mai chiedere aiuto, è una debolezza travestita da forza. Se non sai chiedere aiuto, di regola non sai nemmeno cosa fare quando ti viene offerto spontaneamente, quando sarebbe morale accettarlo (e immorale rifiutarlo).”

Classificatosi secondo al Premio Strega, non avendo letto gli altri in gara, ritengo questo non il suo miglior romanzo e avrei difficoltà a nominarne solo uno...di più meritevoli.

Ritroviamo, accanto a Guerrieri, la sua squadra: Consuelo Favia, avvocato penalista; il super fidato Carmelo Tancredi, ex poliziotto; Annapaola, investigatrice privata e …chissà…; Mr Sacco, taciturno e…il vero consigliere.

Quando ho nostalgia, quando desidero ritornare nelle mie lontane emozioni lui è la certezza, sempre, anche di un piccolo emozionante viaggio nel tempo di ciò che è stato, e quando accade è bello riuscire a tornarci con la mente in una maniera così vivida e quasi violenta, come quando ascolti una musica o senti un odore di ciò che è stato.

La fluidità della narrazione non viene meno quando l’autore ci mostra tutta la sua esperienza e abilità in fatto di interrogatori. La sovrapposizione autore-protagonista è totale. Il racconto si legge in leggerezza grazie anche al non detto che aiuta e stimola la curiosità.

Vediamo l'ipotesi alternativa? Esistono più storie plausibili? Qual è l’unica spiegazione accettabile al di là del ragionevole dubbio?

La ricostruzione del processo, la discussione sui fatti inerenti l'omicidio è così ben descritta e raccontata…il quadro indiziario si delinea perfettamente. E le eventuali carenze nell’indagine anche. “ Il funzionario ci ha infatti consentito di comprendere come l'individuazione, da subito, di un'ottima ipotesi investigativa abbia orientato le ricerche in un unico senso, facendo tralasciare ogni accertamento in altre direzioni". Questo è un monito valido sempre.

La spiegazione di “tunnel cognitivo” è…illuminante. Le suggestioni arrivano chiare e nette.

La rieducazione esiste e funziona. Orazio in prigione ha imparato a cucinare ed ora ha aperto un ristorante di pesce. Ecco l’ex magistrato e le sue pillole di saggezza…galera non solo in una accezione punitiva. L’insegnamento possiamo trovarlo dove potrebbe non esserci più speranza, se abbiamo voglia e capacità di catturarlo..

“Rimanemmo un istante senza parlare. Fu forse la mia vecchia paura del silenzio, il mio sentirmi sempre a disagio e leggermente responsabile degli altri, preoccupato di ciò che pensano, a farmi dire una cosa che in realtà non avrei voluto.”

Stiamo leggendo di un processo indiziario. Ma non solo. Il racconto delle emozioni di Guerrieri rincorre quello giudiziario e mi soffermo nella lettura per considerare davvero tutte le sensazioni.

“…dare una forma alla sofferenza, metterla in parole. “

Ma questo romanzo non è solo un legal thriller ben scritto e argomentato, i continui salti temporali in quel lontanissimo 1987, ci parlano di azioni e commozioni e vittorie e sconfitte in cui Guerrieri entra ragazzo e ne esce uomo.

“Mi venne da sorridere.”

“Bello che in città ci sia acqua così, forse significa qualcosa, mi dissi.”

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    18 Giugno, 2020
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Davvero, quando è stata l’ultima volta?

Chi è questo Samuel? Certo, il padre di Elio. Mi sembra diverso da come lo ricordavo, e questo mi spiazza.

I dialoghi mi appaiono troppo forzati e costruiti. Le situazioni banali e infantili e il racconto non arricchisce nulla.
Ho delle aspettative altissime di cui devo liberarmi prima di proseguire nella lettura, mi dico.

A che punto siamo?
Sono passati 20 anni.
Samuel e’ in treno da Firenze a Roma dove Elio vive e fa il pianista, ed è in procinto di trasferirsi a Parigi.

In treno incontra e conosce Miranda: è da qui che iniziamo a rivivere Elio e Oliver, si riaffaccia la nostalgia di quell'estate di tanti anni prima in Riviera.
“E a quel punto disse una cosa che mi fece capire quanto fosse più coraggiosa di me, e allora il cuore prese a battermi all'impazzata perché non me lo aspettavo, non me lo dimenticherò mai.
Allora, come ci organizziamo? mi chiese.
Nessuno mi aveva mai rivolto parole così esplicite, quasi brutali.”

Ogni capitolo ci fa viaggiare in un luogo diverso: Roma, New York, Parigi, Alessandria.

A Parigi Elio farà un incontro importante.

E Oliver? E’ a New York che lo ritroviamo, docente universitario, sposato, due figli. Sembra felice, sereno, e pensa che “siamo sempre gli stessi, non ci siamo allontanati. Siamo sempre gli stessi, non ci siamo persi.”
Ritorna quella musica, la sua musica, suonata per lui al piano, “ è Bach come l’ho trascritto io”, quella melodia struggente e familiare rievoca ricordi sopiti ma mai dimenticati.

E mentre mi perdo nella lettura, nel ricordo del precedente romanzo letto qualche anno fa e che forse pensavo di ritrovare in questo, mentre cerco di razionalizzare la delusione che sento crescere accompagnata da un po’ di rabbia, Aciman finalmente ritorna. Riconosco la poesia e il non detto, la musica e le distanze.
Ed anche se come allora non tutte le scelte mi rendono felice, mi sento nuovamente partecipe di una storia che era mancata, come se avessi perso le tracce di persone che sentivo vicine e che osservavo non vista. E che ho finalmente ritrovato. Perché le storie non possono restare in sospeso per sempre. Neanche quelle narrate nei libri.

“Non sono forse questi i due scenari peggiori? Da un lato ciò che sarebbe potuto accadere ma non è mai accaduto, dall'altro ciò che potrebbe ancora accadere anche se non nutriamo più speranze.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    10 Giugno, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

“Ora ero risvegliato alla vita.”

“Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 per non uscirne più.”
“…fonte della mia più grande felicità e della mia più totale disperazione.”
Mi sembra di sentirlo il tono elegante e rispettoso mentre pronuncia il suo nome…”Konradin, conte di Hohenfels, nato a Burg Hohenfels”…

Siamo a Stoccarda, Germania, inizi degli anni 30 e quella tra Hans Schwarz, ragazzo ebreo di famiglia borghese e Konradin, di famiglia aristocratica, è più di una amicizia e di un comune amore per la letteratura e l’arte.

Gli eventi ci vengono raccontati direttamente da Hans in prima persona.

Quando si incontrano per la prima volta hanno sedici anni.
“Studiavo il suo volto fiero e sono certo che nessun innamorato guardò mai Elena di Troia con altrettanta intensità…”.
Konradin risponde all’idea romantica e anche ideale che Schwarz ha dell’amicizia, come nessuno aveva fatto mai, e realizza che per lui e solo per lui, avrebbe potuto dare la vita.

L’amore non conosce età né religione né sesso né scopo e niente potrebbe essere più vero; chi pensa che siano frasi di una banale ovvietà dovrebbe leggere questa lunga novella, lasciare andare le proprie certezze e paure. E percepirà la felicità negli attimi, il profumo della primavera, la poesia dello sbocciare dei fiori e i loro colori e l’entusiasmo per l’attesa delle passeggiate che verranno, e sapere che anche domattina i due amici si attenderanno reciprocamente.

Amicizia che con l’andar degli anni verrà ripetutamente messa alla prova. Toccherà a Konradin quando andrà per la prima volta a casa dell’amico e conoscerà i genitori di lui. Il padre di Hans, medico ebreo, fortemente tedesco nell’animo, ha combattuto nella guerra con onore, e ritrovandosi in casa Konradin si comporterà in modo da sorprendere e umiliare Hans; quest’ultimo ripenserà alla figura di quel padre, di cui ha tuttavia tanta stima e affetto arrivando a provare un irresistibile senso di avversione nei confronti di quell’amico capace di far nascere in lui sentimenti così contrastanti. Eppure Konradin supera per entrambi l’umiliante momento, ponendo la sua attenzione unicamente ai libri e dando così il tempo ad Hans di liberarsi in lacrime e un sorriso. E’ un attimo nel racconto degli eventi a cui spesso sono tornata con la mente, di una dolcezza e sensibilità difficile da tradurre in parole, eppure l’autore ci riesce, e lo fa con poche frasi che si trasformano in struggenti immagini in me che leggo….l’amicizia… travalica l’amore puro.

Hans e i suoi dubbi… il sentirsi non completamente accettato, forse indesiderato, è una dolorosa sensazione sempre viva; trova conferma in quell’invito tanto anelato a casa dell’amico, che quando finalmente arriverà sarà sempre, inspiegabilmente, in assenza dei genitori di quest’ultimo.

Avanza il nazional-socialismo e precipitano gli eventi e anche l’amicizia.

La perfetta intesa appare un puzzle smembrato.
Delusione, sconcerto, rabbia. Grande dolore.
E quell’assurda ammirazione nei confronti di Adolf Hitler…

Sarò stata l’unica al mondo a non sapere cosa ha riservato la sorte ai nostri amici e dunque ho tanta pena, mi fermo indecisa e stupita e Uhlman mi fa scoppiare il cuore e mi libera, proprio quando penso di non aver capito nulla… mi lascia commossa e indifesa, ancora e ancora e ancora e sempre, dopo diciassette lunghi anni.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    19 Aprile, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Dare senso al caos

Amo la capacità che ha questo scrittore di coinvolgermi immediatamente nel racconto e nei personaggi che lo popolano, l’abilità che ha nel riuscire a costruire un legame emotivo tra me che leggo e le ambientazioni, i colori, gli odori, i rumori, i silenzi. Riesco a percepire tutto. E mi succede di sorridere di approvazione, di compiacimento, come nel breve scambio di battute tra il piccolo delinquente Albanese Francesco e il maresciallo maggiore Pietro Fenoglio.

L’ambientazione è Bari.

Appare chiaro che, gli avvenimenti che ci vengono narrati, sono stati spesso vissuti in prima persona da Carofiglio quando ha ricoperto il ruolo di Pubblico Ministero Antimafia. Ne è traccia inconfondibile la delicatezza con cui tratta temi molto delicati.
Sempre molto meticoloso nel racconto dei fatti, mai approssimativo, non pretende che il lettore sia già informato o si informi da sé sulle dinamiche e sulle procedure, ma ci supporta nella lettura con semplici ma utili indizi e spiegazioni dello svolgimento giudiziario.

A ben vedere, tutta la narrazione appare un espediente per un racconto molto più importante. Nulla è lasciato al caso. Tutto ha un ruolo ben preciso in questo che è certamente un romanzo politico e storico che racconta l’Italia del 1992; l’anno delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, che vengono apertamente ricordate, per sottolineare cosa ha significato la lotta alla mafia, e quanto sembrano lontani quei tempi, in cui ci sono stati “uomini qualunque, uomini normali”, per indicare l’eccezionalità di ciò che facevano e la consapevolezza di ciò che avrebbe loro comportato.

“Aveva un sorriso ironico, Giovanni Falcone. Però di un’ironia appena accennata. Mentre lo osservavo, a tavola, mi dicevo che era come un antidoto, quell'ironia sottotraccia. Normalità e ironia. Forse è così che si affronta il mostro. Ecco, la lezione a quell'incontro di studio non fu il contenuto della conferenza in aula, la conferenza che non ricordo. La lezione fu quello stare a tavola normale, quel sorriso vagamente ironico, quel darsi del tu con noi ragazzini. Era come se dicesse: lo sappiamo tutti che sono - ma in realtà siamo - nel mezzo di un gioco mortalmente pericoloso. Nemmeno questo però ci impedirà di sorridere. Altrimenti avrebbero già vinto gli altri.”

Il titolo “ l’estate fredda” vuol far riferimento alla data, al 12 giugno 1992, quando finalmente il capitano Valente e il maresciallo Fenoglio possono eseguire una serie di provvedimenti che vengono notificati nella notte ai tanti indagati. Piove, e il termometro segna l’incredibile temperatura di 11 gradi. E’ sicuramente una metafora atmosferica. Fuori è buio e cade la pioggia come in autunno.

“Ah vuoi un consiglio? Va bene, stai lontano dalla merda.
Ho sempre pensato che quello fosse il miglior consiglio che avessi mai sentito. Anche tu passi vicino alla merda, come noi tutti. Ma gli schizzi non ti arrivano mai.”

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    14 Aprile, 2020
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“Tutto ciò che vuoi è dall’altra parte della paura

E’ il primo romanzo che leggo di Marone e ne sono piacevolmente divertita e illuminata.

Mi ha spinta a riflettere sul fatto che non mi sono mai soffermata a pensare realmente alle paure degli altri, così concentrata sulle mie, vergognandomene. In questo mi sono sempre sentita molto sola, pensando che, come me, tutti quelli che hanno la sfortuna di soffrire di paure o addirittura fobie, difficilmente tendono ad autodenunciarsi; motivo per il quale non ho completa fiducia nella sincerità di chi ne scrive e ne parla con facilità.

Eppur tuttavia questa lettura mi è tornata utile, certamente di compagnia, perché, come dice l’autore, condividere le paure è un punto di partenza, sapere che c’è qualcuno ugualmente insicuro aiuta a sentirsi meno soli, meno indifesi, meno stupidi. Ma io, a differenza dello scrittore, trovo difficile riuscire a fare gruppo, a trovare solidarietà oltre che comprensione, penso che ciascuno sia arido ed egoista, e ritengo che nessuno sia veramente così sincero da aprirsi davvero agli altri.

“Se vuoi uscire dalla gabbia, devi prima capire come ci sei finito dentro.”

E’ geniale il modo in cui questo libro è scritto, lo è il modo in cui il denudarsi davanti ai propri lettori riesce ad essere raccontato, con tale immediatezza, schiettezza, direi ingenuità o infantilità, con uno stile che rende la lettura così divertente, al punto da far apparire tutte le fobie raccontate una leggerezza. Sembra terapeutico. Ma attenzione, è così solo per chi legge. Dunque complimenti Lorenzo Marone, capace di a trasformare paure in pantomime, strappandomi sonore risate irriverenti.

Ma la bravura dell’autore non basta a cambiare l’animo di chi con questo sentimento di ansia o di terrore convive.

“Non esiste problema così grande o complicato dal quale non si possa scappare.”

Ho sempre associato il termine ipocondriaco a leggera tristezza, a malinconia, a desiderio di stare soli con se stessi più che con gli altri, e mai a un disturbo così grave e complesso. L’ipocondria descritta in queste pagine non la conoscevo, non in questi termini, o forse sbagliando l’ho sempre sottovalutata, pensando sempre e solo alla depressione, malattia grave e spaventosa e gravissima e terribile su cui mai mi verrebbe da ridere o sorridere. Insomma un ipocondriaco era per me tutto sommato un personaggio divertente al confronto. Beh mi sono ricreduta.

E’ esilarante la lotta quotidiana per la sopravvivenza che l’ipocondriaco deve fare con se stesso, con ciò che lo circonda e con ciò che deve ascoltare e vedere, ciò che per gli altri è la quotidianità assume per lui i contorni del pericolo sempre. Non ho mai pensato al pericolo che rappresentano le parole, che la mente di alcune persone rielabora in nuove fattispecie di malattia…Il suo circondario diventa qualcosa da cui proteggersi continuamente.

Non ho mai riflettuto che ogni cosa si può trasformare in una fobia e come tale ha un suo nome specifico. Cioè non ho mai pensato che ciò che può essere meraviglioso per me può essere fobico per altri, tanto da trasformarsi in malattia invalidante.

Gli aneddoti che racconta sono al limite della….follia. Ho riso tanto, tantissimo, a voce alta e mi sono chiesta se era questa la reazione che l’autore cercava. Direi di si visto che il protagonista di ciò è proprio lui, Marone, così umano e così normale, tanto da riuscire in fondo a sdrammatizzare, a scriverne, a divertire, a farne un punto di forza e di risalita, mai di autocommiserazione o vittimismo ma anzi di “accettazione e reciproca convivenza”. E se scoprissi che è solo un furbo artificio per scrivere un simpatico romanzo, beh…ne resterei delusa!

Sorrido…perché alcune paturnie sono le mie e anche reazioni e comportamenti sono i miei… E riviverli non mi ha aiutata a sdrammatizzarli. Rifletto che non ho mai pensato di associare la fobia sociale alla timidezza; “ guarda in faccia le tue paure finché non ti faranno più paura.”

Ho altro in comune con questo autore. Anche io da napoletana, sono una napoletana atipica: odio il sole, odio la spiaggia, odio il caldo e le belle giornate assolate. Abbiamo un po’ troppe cose in comune e inizio a preoccuparmi!

“Insegnarmi a sorridere delle cose” è un invito che voglio ricordare quanto più spesso possibile, ed è anche un insegnamento, per chi non riesce. Mi piace pensare di poter imparare. Di riuscirci domani. E dopodomani ancora e ancora sempre.

Cosa hanno in comune il pensare positivo con l’essere previdente o essere ottimista o pessimista? Questo ragionamento è molto interessante… mi vede molto partecipe…e previdente! Qualsiasi cosa significhi.

“Se quando morirò dovessi scoprire che c’è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato. E forse, tutto sommato, sarebbe bello essersi sbagliata.” Margherita Hack

Ma, “l’importante è che la morte mi colga vivo.” Sottoscrivo.

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Scienze umane
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    15 Marzo, 2020
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Non guardare al passato con rabbia.

La lettura di questo romanzo è stata coinvolgente come solo le situazioni che sai possono accaderti e che ti levano il fiato sanno essere. Mi batte leggermente più forte il cuore, mi prende l’ansia e tanta tanta paura e altrettanta tristezza.
Non vorrei sentirmi coinvolta, ma puntualmente è ciò che mi accade. Beh, tutto sommato meno male. Altrimenti che senso avrebbe leggere?
Mi spiace per Calabresi certo. Ma lui si rialzerà presto e si reinventerà qualcosa di interessante. E, come pensavo, nel frattempo andrà in giro per il mondo a ricostruire i suoi ricordi. Sono un po’ cinica, o forse solo realista. La lettura completa del romanzo rafforzerà le mie iniziali impressioni.

“Grazie soprattutto a chi mi ha tenuto la mano quando la corrente era più forte.”

Lo stile cosi semplice e diretto, i caratteri grandi, i capitoli brevi, sono un continuo invito a girare la successiva pagina, e ho terminato il libro in due giorni, soprattutto desiderosa di conoscere le tante storie di vita vera narrate.

I racconti di questi personaggi inizialmente sconosciuti a lui e a noi, e quelli dei suoi amici e familiari, mi appaiono quasi come un monito verso qualcosa che potrebbe essere, e da afferrare, poiché potrebbero non esserci più, e quel tempo potrebbe essere passato per sempre. Un avvertimento a fare, facendolo con consapevolezza, fino in fondo, imparare ad apprezzare davvero per non avere rimpianti.

Immagino che chi ha vissuto una vita ricca di impegni e soddisfazioni, quando tutto di colpo finisce, quando tutto si ferma e scompare, abbia maggiore facilità a reinventarsi e ripartire.
E se non fosse così?

“Non guardare al passato con rabbia. Non si può cambiare ciò che è successo, bisogna farci pace. E prima lo si fa meglio è.”

Un racconto di sofferenze personali che si accostano alla sofferenza personale di Calabresi, molto intime, anche molto quotidiane, che mette a nudo per noi ma soprattutto per se stesso. Come se fosse in analisi. Si analizza Calabresi. E lo fa attraverso le storie altrettanto vere di dolore ma anche di immensa forza di volontà di volercela fare no semplicemente a sopravvivere, ma a rinascere a nuova vita. E a questi racconti lo scrittore intreccia quelli della propria vita e della sua numerosa famiglia, il cui albero genealogico prova a ricostruire andando sui luoghi e ripercorrendo storie e incontrando persone. Perché ora ha il tempo, perché ora desidera far questo e decide che questo è il momento di farlo. Anche se ci sono prove dure. Per lui è l'incontro con Giorgio Pietrostefani.

“In ogni cosa c'è una crepa, è da lì che passa la luce.”

Sorrido e gli chiedo, come se potesse sentirmi… Il cane sua madre l’ha tenuto? Sono certa di si.

Quando leggo mi capita spesso di identificarmi in ciò che viene raccontato, sento forte empatia sempre e cerco di trovare delle ricette che vadano bene anche per me, quella frase , quel passaggio illuminante che mi sollevi dalla tristezza momentanea, il libro si trasforma sempre in una sorta di ancora di salvataggio alla quale mi aggrappo; leggere è per me terapeutico, e insegnamenti di vita, dalla conoscenza delle altrui storie, ne ho avuti tanti.

In questo libro Daniela la garagista e Damiano Cantone sono gli esempi terapeutici che più fortemente mi arrivano; spero di riuscire a ricordarmene quando arriverà il momento in cui ne avrò bisogno sperando mi aiutino a non soffocare e a non rimpiangere passivamente quello che non può più essere ma che è stato, ma anzi felicitarmi di averlo vissuto per cercare di trovare il buono e il bello in quello che ancora mi resterà.

Quello che resta. La sfida è non collegarlo solo a ciò che è stato. Perché….

“Più di tutto mi ricordo il futuro.”
Salvador Dalì

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    07 Novembre, 2019
Top 100 Opinionisti  -  

L’oscurità dei segreti

Sono io. Quella donna sono io.

Due accadimenti che apparentemente non hanno nulla in comune, rendono l’incipit davvero interessante.

Maura, quarant’anni, la conosciamo e la apprezziamo per la sua freddezza nello svolgere il suo lavoro. Sembra che nulla possa scalfire quel suo atteggiamento imperturbabile. Ma come reagirebbe se, sollevando il lenzuolo sul tavolo autoptico, scoprisse che sul quel tavolo, distesa, ci fosse proprio lei?

Mi sento legata a questa anatomopatologa, donna di ghiaccio all’apparenza e soprannominata “Regina dei Morti”; è invece desiderosa di un legame sentimentale che il destino sembra volerle ostinatamente negare.

Stessa simpatia suscita la detective della squadra Omicidi di Boston Jane Rizzoli, fredda, incisiva e risoluta. Talmente pronta e istintivamente portata a lanciarsi nelle sfide più cruente, che i rischi a cui si sottoporrà mi tengono in ansia.

In questo romanzo viene scandagliata la figura del medico legale Maura Isles e alcuni aspetti della sua vita rimasti fino ad ora oscuri vengono rivelati.
Al suo ritorno a Boston dal Congresso Internazionale di patologia forense tenutosi a Parigi, una spiacevole sorpresa l’attende. Da qui partiranno una serie di scoperte sensazionali e di indagini, che la porteranno a scoprire situazioni che davvero non avrei mai sospettato. La verità che verrà alla luce sarà davvero agghiacciante.

La fantasia di alcuni scrittori non smetterà mai di stupirmi!

Buone prossime letture a tutti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    31 Gennaio, 2019
Top 100 Opinionisti  -  

“Vuoi ballare con me?”

E’ tutto un po’ forzatamente eccessivo, ma leggo le pagine con voracità riconoscendo luoghi mai dimenticati.

Quanto mi siete mancati Ian Maayrkas, Jean Marc de Ponthieu, Daniel Freeland…e quando finalmente non ci speravo più, eccomi nuovamente catapultata da Phoenix, Arizona, Stati Uniti d’America a Clois, XVIII secolo, nella Francia nord-occidentale.

Le vicende vedono protagonista la figlia di Daniel, la diciassettenne Alex, che nella biblioteca di casa si imbatte in antico volume miniato gelosamente custodito, nel cui interno è nascosto un appunto con un accesso e una password. Curiosa di scoprire cosa si celi dietro questo enigmatico ritrovamento, avvia il computer del genitore, e, pur sapendo di violare una rigida regola, fa partire il videogioco diventato un vero cult: Hyperversum Next: famoso per la capacità di ricreare, come fosse vero, il mondo medievale nel quale si viene catapultati giocando.

La partita ha inizio, e anche la realtà virtuale, resa realistica grazie al visore 3D e ai guanti in fibra ottica. Tutto appare molto noioso ma improvvisamente l’odore del sangue diventa insopportabile! L’armadio nel quale è rinchiusa e che doveva essere solo una realistica finzione, non appare più tale. Alex sente sotto le dita il legno ruvido. Si tocca il viso con le mani. Il visore 3D non c’è più.
Prigioniera. Claustrofobia. Vertigini. Panico. Terrore. Catapultata nel tempo e nello spazio..

Dal punto di vista stilistico le forzature commesse sono forse troppe. Il tono con il quale Alex si rivolge ai cavalieri e agli scudieri appare davvero eccessivamente moderno; ma il romanzo è così tanto godibile che sono disposta a passarci su. Tuttavia non posso non chiedermi come mai Alex non venga condannata per stregoneria….

A Saint Germain nella Francia nord-occidentale, nell'anno 1233, rivedo il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu soprannominato Falco del Re e suo figlio Marc, il conte Henri de Grandpré amico del Falco e tutore di Marc, il conte Guillaume de Ponthieu, Isabeau de Montmayeu, Conte Henri de Bar, Conte Henri de Grandprè, Conte Entienne de Sancerre…tutte mie care vecchie conoscenze.

La storia è travolgente, i personaggi descritti in modo fantastico, le avventure narrate nei più piccoli dettagli e mi sento io stessa catapultata in quel mondo, in quegli abiti, in quegli usi, in quei mille pericoli…il ritmo è serrato e non posso fare a meno di calarmi in quel medioevo e lasciar passare anche qualche azzardo narrativo di troppo.

E allora…indosso l’usbergo da cavaliere, lo scudo, la spada, infilo il lungo pugnale nella cintura e mi sento pronta e felice di ricominciare questa favolosa avventura.

Buone prossime letture a tutti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    05 Dicembre, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

“Niente era più atroce di un ricordo magnifico."

Guido e Costantino.
Da bambini crescono insieme ma distanti.

Guido mi ispira subito abbastanza antipatia, la sua casa, la sua famiglia, la sua domestica, la sua solitudine di bambino “privilegiato” che non vuol aver bisogno di nessuno se non delle persone che non hanno bisogno di lui.

Costantino è il figlio del portiere. Per raggiungere la sua abitazione bisogna scendere di un piano, tuttavia ti guarda da tuo pari, oppure ti ignora, oppure si prende ciò che vuole in quel momento.

Guido sembra lottare per costruirsi una personalità; Costantino idee ed azioni già chiare.

Guido così scortese, poco riconoscente, quasi già traditore. Costantino silenziosamente presente.

“E’ tuo fratello?
No, è un mio amico.
E quella parola mi risuonò così minuscola, così falsa. …”

Poi d’improvviso la tenerezza, il cambio di carattere, di sentimenti, di parole, di movimenti, di suoni, di odori. E’talmente repentino che non sono certa di riconoscerne il momento esatto e neanche chi ne sia l’artefice. Non sono certa che abbia spalle forti per sopportare tutto ciò.

“Vidi Costantino fermarsi e dondolare come se all'improvviso avesse perso l’equilibrio. Allora sentii che era ancora innamorato di me.
Che c’è?
Sei il ragazzo più bello che abbia mai visto.”

Le loro anime erano così trasparenti…

Londra. Dove “divertendoti potevi indagare le tue ossessioni, liberare le tue emozioni. Avevi la sensazione di poter scegliere un’altra identità da quella stabilita.”

Tutto nuovamente succede, tutto nuovamente cambia e anche se sembra impossibile il tempo scorre. E’così fastidioso questo scorrere del tempo.

“Ci guardammo e forse pensammo la stessa cosa.”
“Quello che diciamo non è quello che ascoltiamo. Quello che diciamo e ascoltiamo lo sappiamo solo noi. Perché adesso sento che lui è qui per me, che non è per caso. E se anche uscirà da quella porta, così com'è arrivato, incurvandosi in un taxi e salutando da lontano, io so che è venuto a cercarmi perché come me non ha dimenticato, come me ha avuto paura di morire senza avermi rivisto.
Ci guardiamo, e facciamo un piccolo sorriso nello stesso istante.
Fa quel sorriso ineguagliabile. Il sorriso della mia infanzia, di tutto l’amore dato e perduto, di tutti i capelli, di tutti i lavandini dove ci siamo lavati vicini.
Perché Costantino è stato mia madre, quel giorno quando mi prese e mi disse non guardare nel buio, guarda me, guarda questo splendore.”

Poi il passato ritorna, perché non è mai passato. E’ sempre rimasto lì. Ha atteso. Anche se potrà durare solo un istante, che non è un solo istante. E’ un momento sospeso nel tempo.
E’ crudele la Mazzantini. La conosco. La riconosco.
Sembra voler mettere alla prova la capacità di resistenza. Alti e bassi di felicità e sicurezze e rassicurazioni e porti sicuri ed eterni approdi ed improvvisi cedimenti di disperazione e distanze incolmabili non solo di spazio ma di tempo trascorso lontano e non più recuperabile, che sembra cambiarli, impaurirli, allontanarli. E’ un continuo svuotamento di tutto ciò che era loro. Neanche più la fragilità è bella. È tutto schiacciato da paura e risentimento ed egoismo.
“Quella privazione alla quale non avevo mai pensato adesso definiva la mia omosessualità.”

“Se qualcuno ci avesse visti avrebbe riso di noi, ci avrebbe trovati ridicoli, patetici, finocchi. Ma nessuno sapeva la verità, solo noi conoscevamo quella terribile nostalgia dell’amore, che era la nostalgia di noi stessi, della nostra anima profonda.”

“Dormiremo insieme, è questo che penso, che non c’è alcuna fretta perché dormiremo insieme. Sono millenni che non dormiamo insieme. Che non chiudiamo gli occhi vicini. Immagino una vita, la nostra, docile, accoppiata. Darsi la mano, fermarsi a comprare un po’ di viveri, aspettare la notte. Non voglio dovermi separare mai più. E’assurdo farlo.”

“Voglio essere me stesso, Guido. Adesso posso essere me stesso.”

Non so dire che sensazioni mi ha suscitato questo romanzo. Non piacevoli, non felici, di grande tristezza, di grande abbandono, di grandi rimpianti e di grandi rimorsi. Come vedere scorrere tutto davanti agli occhi e non riuscire ad afferrare più nulla.

Splendore. Potrebbe essere uno splendido splendore. Oppure una terribile prigione quando resta intrappolato dentro di noi e non abbiamo il coraggio di liberarlo e di viverlo…

“Chiedere è vergogna di un minuto, non chiedere è vergogna di una vita.”

“Ciao, ragazzo.
Il mio cuore batte così forte.
Ma tu non vergognarti del viaggio.”

Pensa alla bellezza.

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    20 Novembre, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

Torneremo tutti a trovarti.

Attratta dalla copertina e anche dalle interessanti recensioni ho iniziato a leggere questo romanzo.
Particolare.Toccante certamente, perché Susie Salmon, quattordici anni, potrebbe essere la nostra vecchia compagna di banco oppure una ragazzina del nostro quartiere. Iscritta al Club degli scacchi e al Club della chimica, viene uccisa il 6 dicembre 1973. Lo apprendiamo subito.

“Ora sei mia. … Pensai a mia madre che avrebbe controllato l’ora sull'orologio del forno…”
“Dimmi che mi ami. ” Glielo dissi dolcemente. La fine arrivò comunque.

La narrazione è molto scorrevole nella prima metà del racconto, i sentimenti di rabbia e dolore e vendetta nei confronti del sig Harvey, che ci viene svelato essere il suo assassino, esplodono all'istante. E inutilmente speriamo che Susie riesca a fuggire da quella trappola mortale. Ma sappiamo che ciò non accadrà.

Dal suo Cielo continua a raccontare, vegliare, vivere parallelamente alle persone che avevano affollato il suo mondo.
Buckley, il suo fratello minore di quattro anni;
Lindsey, sua sorella che ne ha tredici e con lei vive le emozioni della sua vita che va avanti, con al suo fianco Samuel Heckler;
Holiday il loro cane;
e poi i genitori; la nonna;
Len Fenerman che si occupa delle indagini;
Ray Singh, il suo migliore amico a scuola, diventa il principale sospettato;
Ruth Connors che disegna nudi usati impropriamente dai compagni. E che ha molto più talento dei suoi insegnanti. Una ribelle deliziosa. La sua ragazza speciale. Nate per tenersi compagnia a vicenda. “Due strane ragazze che si erano incontrate nel più bizzarro dei modi: nel brivido che lei aveva avvertito quando le ero passata accanto.”

Le vite che Susie aveva intrecciato con le loro continuano a scorrere. A volte ho davvero l’impressione che quasi riesca ad apparire, anche se fugacemente, negli occhi e nel cuore di chi l’ha amata.

La seconda parte del romanzo l’ho trovata prolissa, lenta, persa in inutili elucubrazioni che nulla possono aggiungere a tutto ciò che è stato già raccontato. Fatico ad arrivare all'ultima pagina, a tratti mi sono persa e sono stata più volte tentata ad abbandonare la lettura.
Ma la curiosità di arrivare a mettere un punto, a non lasciare Susie “incompiuta” mi ha spinta ad andare avanti. Ma con tanta, inutile fatica.

“Auguro a tutti una vita lunga e felice.” Susie.

Buone prossime letture a tutti.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    09 Settembre, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

“Bon voyage, le Loup-Garou”

Patricia Cornwell questo romanzo lo hai scritto davvero tu??
E’ chiaro che è arrivato il momento dei grandi cambiamenti.
Io non amo i cambiamenti.

Accadono tanti fatti tristi che allontanano reciprocamente i nostri protagonisti.
La straziante lettera che Kay riceve dal senatore Lord..
Lucy, agente dell’ATF, l’agenzia governativa che si occupa di alcol tabacco e armi da fuoco, è stata da poco trasferita a Miami dove lavora sotto copertura per incastrare trafficanti di armi e altri personaggi di analogo livello morale. Sono mesi che non si vede con Kay. Ha una nuova compagna, Jo che lavora nella DEA e si occupa di traffico di sostanze stupefacenti.
Con il capitano Pete Marino della polizia di Richmond, quello stesso Marino con il quale Kay si conosce da talmente tanto tempo che a volte sembrano essere telepatici, il rapporto è diventato di ghiaccio. E come se non bastasse, con l’arrivo del vicecomandante Bray, Marino è stato retrocesso a coordinatore di pattuglie.

Aumentano le pressioni affinché i servizi di Kay passino dalla Sanità alla Pubblica Sicurezza, dando al Dipartimento di Polizia maggior controllo sul suo operato. Già polizia e laboratori forensi dipendono dalla Pubblica Sicurezza, se anche l’istituto di medicina legale ne va a far parte non ci sarebbe più la possibilità di effettuare controlli incrociati. Il dipartimento di polizia diventerebbe il padrone.

Compare sulla scena René Anderson, entrata nell’investigativa grazie ai favori della Bray, e Jay Talley, ufficiale di collegamento tra ATF e Interpol.

Nel più totale disorientamento, viene ritrovato un cadavere in un container al porto di Richmond. Ne seguiranno molti altri.
Ci sono dei punti in comune tra questi omicidi e alcuni casi accaduti in Francia.
Le tracce conducono addirittura al Lupo Mannaro…

L’impressione è di continua improvvisazione, come se il romanzo fosse stato scritto a più mani e non solo dalla Cornwell. Ero certa di ritrovare il suo saper raccontare in modo chiaro con descrizioni semplici ma accurate, capitoli pieni di dettagli cruenti ma anche con momenti di vita quotidiana in ambienti che mi sono ormai familiari e che amo rivisitare. In questo romanzo non c’è nulla di tutto ciò. E’ tutto una esagerazione.
Non un semplice punto e a capo o un voltar pagina, ma un cambio di mano. Un salto nel vuoto.
Potrebbe sembrare il primo romanzo di una nuova serie.

Mi sono persa, così come si sono persi i personaggi che tanto ho amato …

E il perché resta l’interrogativo irrisolto.

Patricia Cornwell nei prossimi romanzi tornerai in te?

Buone prossime letture a tutti.

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Consigliato a chi ha letto...
per gli amanti della Cornwell step obbligatorio per andare avanti nelle successive letture.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    24 Giugno, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

Cambio di marcia…e non solo.

Un nuovo terribile caso coinvolge Kay, capo medico legale della Virginia e consulente anatomo-patologa per l’Fbi, e i suoi stretti collaboratori.
Solo il calore del camino della sua casa a Windsor Farm, vecchio quartiere di Richmond , popolato da sfarzose ville in stile Tudor, riesce a trasmettergli quella tranquillità e lucidità mentale per affrontare una situazione che, se non bloccata subito, può provocare una pandemia mortale.
Il campo di azione è duplice: a Dublino c’è il dottor Foley ad occuparsi dell’indagine; a Richmond la dott.ssa Scarpetta.
E ciò perché c’è un serial killer che squarta i cadaveri in Irlanda ma anche in Virginia. Il killer è unico??

Piccoli indizi vengono alla luce. I più importanti e sconcertanti riguardano la sega utilizzata sui corpi, che è dello stesso tipo che Kay usa nelle sue autopsie, le discariche in cui vengono ritrovati i torsi e i sacchi di plastica che li contengono.

Pete Marino, suo amico e suo braccio destro, comandante della Squadra Omicidi del Dipartimento di Polizia, sempre trasandato, sciatto, troppo avanti con il peso, troppo fumo e troppe birre, insomma insopportabile. Eppure “ogni giorno temevo per la sua salute e non riuscivo a immaginare di poter lavorare senza di lui.”
Benton Wesley responsabile del CASKU Child Abduction Serial Killer Unit l’unità specializzata nella caccia ai rapitori di bambini e ai serial killer.
Lucy, agente dell’Fbi, specialista dell’HRT, l’unità addetta alla liberazione degli ostaggi. Dirige il CAIN Criminal Artificial Intelligence Network.
Fielding, vice di Kay e Wingo, altro suo collaboratore.
Neils Vander responsabile dell’Ufficio impronte digitali. La sua eccezionale vista gli permette di essere anche un esperto di focalizzazione delle immagini, specializzazione acquisita alla Nasa.
Aaron Koss esperto di fibre, residui, vernici ed esplosivi.
David Canter massimo esperto mondiale di tagli da sega.
Interviene e conosciamo in questa indagine l’investigatore Percy Ring della polizia di Stato. Aggressivo e saccente. Desideroso di far carriera, è un ostacolo per le indagini che si rivelano molto complesse e di difficile comprensione.

A tutto ciò si aggiunge un ulteriore disagio, perché l’ufficio di Kay, è in subbuglio per il trasloco in locali più spaziosi all’interno del Biotech Park.

Infine la notizia shock: a Tangier Island , Virginia, è stato ritrovato un cadavere pieno di eruzioni cutanee, sembrerebbe vaiolo, una malattia ormai debellata. Il CDC e l’USAMRIID entrambi specializzati nella prevenzione e nel controllo delle malattie infettive, confermano che esistono solo due enti al mondo dotati di stock del virus: il CDC ad Atlanta e un laboratorio in Russia. E sono tenuti sotto strettissimo controllo.

L’indagine è caratterizzata come sempre da colpi di scena inaspettati e da rivelazioni che mi lasciano di stucco e anche un po’ triste. In primis sapere che Kay lascerà per sempre l’istituto di medicina legale che conoscevo nei suoi piani e nei suoi corridoi e nelle sue stanze. Insomma, è come se al trasloco di sede si accompagnasse un cambio di ritmo e di racconto. Non sempre cambiare abitudini e luoghi familiari, che ho imparato ad amare e a sentire anche un po’ miei è sempre una scelta azzeccata. Può portare a disaffezione. E mi spiace.
E mi spiace perché Patricia Cornwell è riuscita davvero a creare storie e protagonisti che sembrano talmente ben descritti da prendere vita.
Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    16 Mag, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

Abbiamo tutti paura di chi ci può ferire.

In questo terzo episodio vengono delineate le figure della detective Jane Rizzoli e del medico legale Maura Isles; i sentimenti di quest’ultima verranno messi a dura prova in modo del tutto inaspettato.

In una fredda e piovosa Boston, viene ritrovato il corpo di una donna impossibile da identificare, perché l’assassino le ha asportato piedi, mani e volto.
Contemporaneamente, in un convento di clausura, la giovane novizia suor Camille, viene barbaramente uccisa e l’anziana suor Ursula gravemente ferita. Cosa hanno visto gli occhi dell’anziana suora che non dovevano vedere? E suor Camille cosa nasconde?

La morte del signor Redfield, funzionario di una miliardaria società, la Octagon Chemical, sembra avere misteriosi legami con fatti accaduti tempo prima nel continente indiano e tutto ciò sembrerebbe inspiegabilmente coinvolgere il caso che la detective Rizzoli e la dottoressa Isles si trovano a dover affrontare.

Ma quale può essere il collegamento tra queste situazioni così apparentemente distanti?

Gabriel Dean, agente dell'FBI fa la sua ricomparsa. E i colpi di scena non mancheranno.
Victor, ex marito di Maura, appare per la prima volta.
Un massacro sentimentale..per tutti.

Anche se…”solo i dimenticati muoiono davvero”.

Romanzo abbastanza interlocutorio dove si affronta un caso, ma non succede nulla di eclatante da tenermi con il fiato sospeso.

Inoltre ho la spiacevole sensazione di superficialità, quasi come se l’autrice avesse lasciato una traccia che poi ha dimenticato di approfondire.

Da un’autrice così acclamata mi aspetto di più. E se cade nel banale non perdono.

Buone prossime letture a tutti.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    09 Febbraio, 2018
Top 100 Opinionisti  -  

Fratelli di sangue.

Si riprende da dove avevamo lasciato nel romanzo precedente ed è subito chiaro che i protagonisti che inizialmente avevo inquadrato essere fondamentali si rivelano solo di passaggio; peccato, alcuni erano davvero interessanti. Ma faranno solo brevi apparizioni.

Stile, argomenti trattati, personaggi, ambientazioni, tutto mi ricorda Patricia Cornwell ma con una differenza fondamentale: tra le due scrittrici corre un abisso. La capacità di quest’ultima di addentrarsi nella materia poliziesca, informatica, nei particolari della medicina legale e di narrare i dettagli anche più minuziosi e terrificanti tanto da far sentire il lettore sul luogo del delitto o in sala autopsie beh la trovo insuperabile. Fare sentire esperto chi conoscitore della materia certamente non é.
Ciò detto la Gerritsen ci prova e non se la cava malissimo.

Il caldo torrido non abbandona le nostre vittime.

Mi manca una minuziosa descrizione dei personaggi che mi appaiono abbastanza impersonali.

L’indagine parte con un caso di incidente stradale, c’è un pirata della strada e una vittima tranciata in due all’altezza dell’ombelico che viene soprannominata dalla stampa l’Uomo Aeroplano a causa delle ferite riportate. Ma poi di lui perdiamo ogni traccia.

Ritroviamo la Detective Jane Rizzoli, del Dipartimento di polizia di Boston.

La Dottoressa Maura Isles medico legale denominata dalla Omicidi la “Regina dei morti”.
Yoshima è il suo inseparabile assistente.

E’ passato solo un anno dalle terrificanti vicende de “Il Chirurgo”, è un’altra estate e compare un altro mostro: il Dominatore, così detto perché è dal dominio, dal controllo sulle sue vittime che trae piacere, eccitazione.

“Cerco un fratello di sangue. Uno come me. Uno che mi aspetta come io aspetto lui.”
Ed ecco il colpo di scena: Warren Hoyt, “il Chirurgo“ fugge dal Centro di Detenzione Souza Baranowski (Massachussets Correctional Institute).

Il Dominatore e il Chirurgo si sono trovati. Dalla combinazione delle loro tecniche, raccapriccianti delitti tornano a disturbare il sonno della Detective Jane.

Insensibile.

E chi è Gabriel Dean, l’outsider, l’uomo del Bureau, voluto direttamente da Washington? Un’ incognita.

Buone prossime letture.

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Romanzi
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    29 Gennaio, 2018
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Non bisogna buttar via il talento.9 è meglio di 10

La storia, quella di Antonio e di suo padre e dell’umanità che li circonda.

A sette anni iniziano a manifestarsi i primi sintomi di una epilessia idiopatica, un “innominabile disturbo” per i suoi genitori, che faticano a prendere cognizione della nuova situazione venutasi a creare. Questa ignorante chiusura avrà effetti deleteri sul ragazzo e sul suo carattere che, con il passare del tempo, e con l’acuirsi delle crisi, arriverà sempre più a chiudersi in se stesso e a tralasciare gli interessi che avevano iniziato ad appassionarlo.

Inizialmente il fulcro del racconto sembra essere il Centre Saint-Paul a Marsiglia dove il professore Henri Gastaut, uno dei migliori specialisti del settore, infonde buone speranze di guarigione.

L’autore è dettagliato nelle descrizioni e nelle spiegazioni, anche mediche, prima di raccontare ha lui stesso fatto ricerche sull’argomento. Nulla è lasciato in sospeso e nessun dubbio sorge in chi legge.
Superficialità e approssimazione non sono concetti che gli appartengono.

Tutto ruota attorno a queste figure tristi e sperdute nella loro solitudine. Un padre e un figlio, all’apparenza diversissimi,hanno ciascuno dell’altro una reciproca superficiale conoscenza.
La loro simbiosi è talmente evidente da essere commovente. Ma loro ancora non lo sanno.

Mi colpisce come questa Marsiglia, inizialmente ostile e pericolosa e paurosa, che sembra continuamente spiarli da qualche meandro buio durante le loro passeggiate notturne, si sposi perfettamente col carattere di Antonio e di suo padre, con i loro imbarazzi,il loro essere schivi e misurati, con i loro dialoghi fatti per coprire i silenzi. Marsiglia buia e pericolosamente tranquilla si rispecchia nelle loro anime; bisogna guardarsi le spalle da quella città e non solo, ma non hanno il coraggio di dirselo. Ancora una volta sono sulla stessa lunghezza d’onda…

"Le merveilleux nous enveloppe et nous abreuve comme l'atmosphère; mais nous ne le voyons pas."
C. Baudelaire

E’ l’estate del 1983.
Il confine tra il prima e il dopo.
La prova che va affrontata insieme. Violentemente insieme, perché solo insieme può avere successo, bisogna che ciascuno vegli che l’altro stia a sua volta vegliando. E succede. Succede che lo vede sorridere. Succede che non aveva mai notato la fossetta sotto il mento, le ciglia lunghe, la cicatrice sul sopracciglio sinistro. Si guardano. Si vedono. Si riconoscono. E allora c’è il jazz, la musica suonata e la musica ascoltata senza vergogna ma anzi con fierezza e con orgoglio, il pornoshop perché in fondo “se fossimo stati in compagnia di amici, beh saremmo certamente entrati”, la bellezza e la spiaggia e Adèle e Lucie e Marianne.

“In qualche momento chiudeva gli occhi, in qualche momento oscillava avanti e indietro. Le sue mani erano agili e veloci: il loro movimento comunicava un senso di essenzialità che era molto bello, come una metafora ben riuscita, un ideale di stile, un modo di essere al mondo. … Quando finì, inseguendo il senso di ciò che aveva suonato in due scale conclusive e malinconiche, scoppiò un applauso pieno di simpatia. E anch’io applaudii e continuai a farlo finché non fui sicuro che mi avesse visto, perché cominciavo a capire che esistono gli equivoci e non volevo che ce ne fossero in quel momento.”

“Nella vera notte buia dell’anima sono sempre le tre del mattino.”
F. Scott Fitzgerald

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Racconti
 
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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    15 Gennaio, 2018
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"Assolutamente si mi rende alquanto nervoso."

Sono nuovamente in viaggio con Gianrico Carofiglio. Viaggio in me stessa. Mi rilasso, mi conosco e mi riconosco, a volte rido, altre piango. Emozione. Commozione. Evocazione.
Memoria olfattiva …. le pagine del sussidiario. Si, funziona davvero.

Catturare l’attenzione in trenta racconti brevissimi, ciascuno due o tre pagine. Catturata.
Sono così realistici che mi chiedo se in ognuno non ci sia un pizzico di vita dell’autore.

“Andiamo in biblioteca ci serve un’arma.” Beh … sorrido compiaciuta, perché ho sempre pensato che in sala lettura avrei trovato leali alleati per difendermi dalle cattiverie della vita. Ma i due ragazzini riescono a sorprendermi … e a darmi un utile suggerimento!!!

Con “Articolo 29” riconosco lo scrittore che diventa messaggero di lezioni di civiltà. Grazie.

Racconti che sanno di oscuro e di dolcezza...
“Ehi ci sei?
Dov’eri?
Su un treno, tanti anni fa.”

“Le parole spesso servono a nascondere quello che pensiamo, invece di rivelarlo. Mentire con l’espressione del volto è più difficile. … indispensabile saper leggere i volti al di là delle parole.
Gli avverbi sono oggetti pericolosi, bisogna badarci, sia quando parlano gli altri, sia quando parliamo noi stessi. Le menzogne peggiori si nascondono dietro gli avverbi. E sai qual è l’avverbio più pericoloso di tutti? Assolutamente.
Assolutamente si è un’espressione che mi rende alquanto nervoso.”

Ciò che io banalmente chiamo mancanza di umiltà ed eccesso di autostima non sapevo fosse detto “self-serving bias”. Il concetto della moderna psicologia sociale che si riferisce alla tendenza a prenderci il merito dei nostri successi e ad attribuire ad altri - il prossimo, la società, la sfortuna, -la responsabilità dei nostri fallimenti. Sopravvalutare le nostre qualità e sminuire i nostri difetti e i nostri limiti.
“Bill Gates ha detto che il modo migliore per raggiungere il successo è raddoppiare il numero dei nostri fallimenti; Goethe che gli errori dell’uomo sono ciò che in realtà lo rendono amabile.”
Michael Jordan è stato più specifico, più dettagliato: “Nella mia carriera ho sbagliato più di 9000 tiri. Ho perso 300 partite. Per 36 volte i miei compagni si sono affidati a me per il canestro decisivo e io l’ho sbagliato. Ho fallito tante e tante volte nella mia vita. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.”
Chi fallisce ha sempre vinto.

Saper cogliere e sottolineare la bellezza di ogni situazione, anche la più banale, che i più ed io per prima, per superficialità, non riescono a cogliere. Questo, insieme alla straordinaria capacità di racconto me lo fa apprezzare ogni volta come se fosse la prima.
Non smette mai di stupirmi. Quando voglio rilassarmi e sentirmi in compagnia di “amici” in libreria c’è sempre un suo scritto ad attendermi. A volte l’ho riletto volentieri e non mi ha mai delusa o annoiata.
E’ sempre una piacevole riscoperta.

“Com’era quella frase? Aiutami a ricordarla.
La morte non è niente. Io sono solo andato nella stanza accanto.”

Buone prossime letture.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    09 Dicembre, 2017
Top 100 Opinionisti  -  

Dell'apparenza e dell'apparire

Il romanzo si legge molto velocemente e facilmente, spinti dalla curiosità di capire quali sono i vizi che si nascondono dietro i personaggi di questa “rispettabile” famiglia.
L’autrice è particolarmente brava a svelare pian piano gli eventi e questo è sicuramente un punto di forza.
Protagonista é Pony,indiscussa presenza, anche quando misteriosamente viene a mancare.
Ho apprezzato soprattutto la prima parte della narrazione, in un crescendo di mistero assolutamente non banale e non prevedibile.

Più che una famiglia le persone che la compongono la fanno assomigliare ad uno strano accorpamento. Dovrebbe essere sinonimo di onestà, limpidezza, amorevolezza, solidarietà, rispetto, stima reciproca.
Il capofamiglia Jasper Carteret III é molto burbero e potrebbe essere il fulcro della famiglia. Fatica a tener testa e soprattutto uniti i figli.
William, il più legato a Pony, Mira che a suo modo ha cercato di salvarsi fuggendo lontano e infischiandosene di tutti, Tinker obbediente e repressa e bulimica, Pony con il suo bambino e i suoi segreti.
Ciascuno di loro nasconde gelosamente i propri.

E’ un meccanismo strano, quello dell’apparenza e dell’apparire.

Si torna nei luoghi per rubare gli ultimi istanti di vita e di calore che le persone lasciano di sé. Quando chi amiamo non possiamo più né vederlo né toccarlo, e allora cerchiamo di ritrovare qualcosa di lui nei luoghi che lui viveva quotidianamente, nell’assurda speranza di non spezzare quell’ultimo legame terreno che invece resta terreno solo nella nostra mente.

Nella seconda parte del romanzo trovo si esageri in lentezza. La scrittrice la tira un po’ troppo nel narrare gli avvenimenti, restando eccessivamente su singoli fatti raccontandoli in modo troppo prolisso.

Infine i nodi vengono al pettine non in modo così scontato direi. Tuttavia in alcune pagine sembra di leggere un film già visto e di ciò potevamo farne a meno arrivando allo stesso risultato.

La famiglia è sempre una famiglia perfetta sembra voler dire l’autrice. Basta saperla leggere,accettare e magari perché no, correggerne il cammino quando devia.

Tutto sommato un thriller che mi ha soddisfatta e che consiglio.

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    03 Dicembre, 2017
Top 100 Opinionisti  -  

Quando più voci compongono una struggente melodia.

Una prosa …”attenta ed educata” racconta sottovoce storie solo di apparente banale quotidianità.
Momenti di vita narrati in modo dolce, accorto, semplice, è un romanzo che mi dà un messaggio preciso.
Le ambientazioni povere e così immediatamente familiari. Le sale da pranzo, le cucine, le stanze da letto, le aule dei professori, le stalle, il binario del treno…le immense pianure scosse dal vento e dalla pioggia e dalla polvere; basta così poco per descriverle. Essenzialità. Nessun aggettivo superfluo.. Eppure invece che freddezza, proseguo nella lettura e sento un legame fortissimo. Perché riesco perfettamente a vedere e a capire.
La solitudine dei luoghi descritti accompagna le vite complicate e tristi di pochi personaggi che conducono esistenze normali. Penso continuamente … ed ora che accadrà? E’ una condivisione più che una semplice lettura.

Racconto forte, fortissimo, che mi colpisce direttamente al cuore.
E’ difficile schierarsi. A tutti vorrei allungare la mano, vorrei dire aggrappati, ce la facciamo insieme. Sono uomini e donne coraggiosi che si rialzano da soli, ma non solo. Con la forza di volontà, con l’ostinazione. Con quella sconosciuta, immensa parola … solidarietà. Con la reciproca compagnia.

Holt, non è solo una cittadina sperduta nelle grandi pianure del Colorado, è il canto a più voci di anime solo superficialmente sole e solitarie.

Di Tom Guthrie e dei suoi figli Ike e Bobby. I ragazzini consegnano il Denver News in tutta la cittadina con le loro biciclette prima di andare a scuola. Il papà insegna Storia americana al liceo.
“Figurati, Maggie, sei bella, disse Guthrie. Non lo sai? Mi togli il fiato.
Lo pensi davvero?
Dio mio, si. Non lo sai? Pensavo sapessi tutto.”

Di Victoria Roubideaux diciassette anni, incinta di quattro mesi. Una stupida puttanella per sua mamma.
“Io ero seduta accanto alla porta e lui è venuto a invitarmi. Quando mi si è avvicinato gli ho detto, non ti conosco nemmeno. Lui ha risposto, c’è bisogno di conoscersi? Bé, chi sei? gli ho chiesto. Che importa? Ha risposto lui. Fa lo stesso. Sono solo uno che ti sta invitando in pista a ballare.”

Di Maggie Jones così risoluta e protettiva.

Dei due vecchi fratelli McPheron, Harold e Raymond. Solitari, scapoli, decrepiti, scontrosi, ignoranti, prigionieri delle loro abitudini, in mezzo alla campagna a diciassette miglia a sud di Holt.
Raymond che decide subito di accoglierla e Harold che si arrabbia ma che accetta.
“Lei guardò prima lui, poi il fratello. Grazie, disse. Grazie di lasciarmi stare qui da voi. Bé, sei la benvenuta, disse Raymond. Davvero.”

“Due uomini anziani e una ragazza di diciassette anni seduti al tavolo sparecchiato di una sala da pranzo di campagna, dopo cena, mentre fuori, oltre le pareti di casa e le finestre senza tende, un gelido vento del nord scatenava l’ennesima tempeste invernale sugli altopiani.”

Haruf così bravo a descrivere paesaggi freddi e luminosi, neve scintillante come vetro sotto il sole, vento che soffia in raffiche improvvise e regolari che gettano i capelli sul viso e impedisce di vedersi davvero al primo sguardo.
Un gelo solo atmosferico.
Poi il buio della casa non più solo atmosferico dopo che lei è andata via.
“Salirono al piano di sopra. Si sdraiarono ciascuno in camera sua, senza riuscire ad addormentarsi, rimasero svegli al buio, separati dal corridoio, pensando a lei, e sentirono quanto la casa era cambiata, quanto all’ improvviso tutto sembrasse vuoto e triste.”

“Mia madre diceva sempre che c’è una lezione in ogni cosa che fai, basta avere gli occhi per vederla …”

Buone prossime letture a tutti.

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