Opinione scritta da Rosaliaa
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Il lavoro spaventoso
Moravia non è mai stato molto clemente con questo romanzo, definendolo un “lavoro spaventoso” di oltre cinque anni, un pensum di contenuto dostoevskiano con la scrittura manzoniana. Di questo turbine di parole salva solo Andreina, che per lo meno le è servita per liberarsi de Gli indifferenti, prima di arrivare ad Agostino.
Questo romanzo, che definirei un enorme testo di teatro, è fitto fitto di dialoghi, stanze buie, poche uscite all’aria aperta e solo in tassì; è un esemplare unico nella narrativa dello scrittore, in cui non c’è il solito personaggio primadonna, ma tanti umani sfaccettati e verissimi, in cui i protagonisti non ragionano troppo ma vivono secondo la propria coscienza, e in cui c’è una donna, Andreina, costruita con una tale empatia da rimanere impareggiabile anche fra le scrittrice femmine.
Moravia, che ha la penna leggera, qui si lascia andare a un po’ di pesantezza, alle frasi lunghe e alle descrizioni corpose, ma che si incastrano a meraviglia con il procedere di questo racconto un po’ giallo.
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Il documentario interiore
Ho letto in molte recensioni che la Ferrante, in questo romanzo, desse voce a immagini violente, parole gridate, crudeli, laceranti. In realtà, tra queste pagine ho trovato una sintassi pacata e un’incredibile (perché a tratti inverosimile) onestà d’animo. Olga è una donna che analizza spietatamente il succedersi dei suoi stati d’umore in declino, la sua psicologia sempre più fragile e l’oscillazione incontrollata dell’equilibrio fisico e morale; è una macchina incorruttibile, perché perde il controllo mentre afferma di perderlo, in un lungo e spietato documentario di sé che non lascia spazio né all’autocommiserazione, né a una qualunque conciliazione con il mondo esterno che le ha fatto tanto male. Forse è per questo che, a un certo punto del romanzo, non vuole e non riesce ad aprire la porta?
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Leggere troppo fa male
Sarà che sono di parte e che spero sempre che Moravia la pensi come me, ma in questo romanzo lo scrittore ha fornito un altro grandissimo esempio di degenerazione intellettuale. Gli uomini di Moravia sono spesso giovani uomini soli, colti, che svolgono un mestiere di testa, che possiedono un grande potenziale intellettivo di cui finiscono per abusare fino a cacciarsi nei guai. Lucio, fra i suoi personaggi, è di certo il più malato: è convinto che la condizione normale dell'uomo sia la disperazione e, non solo, è ulteriormente convinto che dovrebbe essere così sempre e per tutti. Per questo decide che, per non arrivare ad ammazzarsi, è il caso che la si rende equlibrata e stabile e allora parte per Capri. Però incontra Beate, una tedesca romantica con manie suicide, che gli insegnerà molto o, per lo meno, Moravia farà in modo che insegni molto a noi: la giovane tedesca è convinta di essere come Kleist, uno scrittore romantico che ha fatto una brutta fine con la sua amante, e cerca disperatamente un uomo che sia disposto a fare il suicidio a due con lei. Presa dalla monomania, Beate si ritroverà disumanizzata: decisa a far rivivere in sé il fantasma dello scrittore, vivrà e morirà esattamente come lui, tradendo e rinunciando alla propria individualità per una causa superiore, che si rivelerà misera e che risulterà essere nient'altro che una psicopatica e totale indentificazione in un personaggio che la divorerà fino alla fine e le persone amate con lei.
Nel romanzo si respira una costante aria di malessere, irrespirabile nella prima metà del libro, accelererà i battiti verso la fine. Ci ho però ritrovato un sentimento che nelle opere moraviane sa di nuovo: la suspance.
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Il fuori guarisce
Un anno dopo la lettura di questo straordinario romanzo di viaggio mi sembra ancora di sentire quella “polvere” del mondo; nel titolo originale, la polvere diventa “usage”, cioè deterioramento, usura: è il mondo del viaggiatore che si sfalda, che perde consistenza, svuotandosi. E' lo spirito del metaviaggio, ovvero del percorso che non arricchisce, ma consuma. Nello spirito escursionistico del viaggio contemporaneo, il turista pretende che lo spostamento, fisico e mentale, verso un luogo diverso da quello quotidiano diventi un'occasione di arricchimento, fedele ad un'attitudine che spinge verso il collezionismo delle esperienze vissute e osservate nella vacanza. Al contrario, Bouvier e Vernet, pittore di grandissimo talento, percorrono una strada inversa: il viaggio diventa l'opportunità per abbandonare la propria mentalità di partenza, uno strumento per liberarsi dei preconcetti della cultura d'appartenenza e riuscire, alla fine del cammino, a percepire il mondo con la genuinità di chi lo vede per la prima volta.
Libro di grande successo in madrepatria, meno conosciuto all'estero, Bouvier colpisce per la limpidezza e il calore della sua scrittura, a volte poetica, spesso avvolta da quella malinconia rassegnata di chi osserva una realtà distante e con quel pizzico di ironia – e nessun cliché!- che rende la narrazione intelligente, umana e sincera.
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Alla fine muoiono tutti
Dal titolo pare proprio di trovarsi di fronte al tipico romanzo polemico e, vista l'ambientazione storica, al tipico romanzo antifascista. Moravia, forte ormai di un'esperienza trentennale di scrittore, riesce a dare qualcosa in più. L'autore non si pone in un terreno di scontro nei confronti del protagonista, Marcello, e del sentimento che lo anima, il conformismo, ma ne indaga le ragioni, ne analizza le dinamiche, si muove verso la comprensione. Marcello, nato "diverso", decide di modellare e costruire la propria vita per renderla uguale a quella di tutti, con una forza di volontà tale che non si può non sospettare che questo sentimento non sia solo una pressione esterna: il conformista Marcello vive la pulsione verso l'omologazione dall'interno, come una religione dalla potentissima forza di fede, che prefiggerà a scopo della vita. Ma durante un viaggio di missione a Parigi incontrerà Lina e a quel punto capirà il pesante fraintendimento nel quale era caduto e al quale aveva dedicato trent'anni di vita: la sua non era che una ricerca del vivere puro, non era che una repulsione violenta nei confronti dello sporco, del malsano - e non quel disperato sentimento di normalità che erroneamente aveva scambiato per conformismo: normale è vivere fedeli al proprio spirito.
La critica del tempo e di qualche anno dopo ha considerato Il conformista il peggior romanzo in assoluto di Moravia e di certo la sua superficie lo conferma: lo stile è pesante, lento, eccessivamente verboso e zeppo di riflessioni tortuose; ma, si sa, a volte basterebbe solo un po' di paziente buon senso per scoprire grandi lavori.
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La commedia romana
In questi settanta racconti Moravia è stato in grado di stupirmi; ammetto che avendo già letto molto di lui credevo di non potermi sorprendere più di tanto. Invece in queste novelle riesce a tirare fuori il meglio di sé: sono testi molto brevi, che vanno dalle cinque alle nove pagine, ma che nonostante l'esiguità del cartaceo sono pezzi ricchi, pieni di colore e di vita, ognuno in grado di formare un piccolo universo originale, con una propria storia e senza ricalchi e riusi di situazioni e di particolari. Me li vedo tutti davanti, questi romani simpatici, gioiosi, qualcuno fortunato, qualcuno che prende tante mazzate: Roma diventa una città simbolo dell'Italia del dopoguerra, con la sua voglia di presente, desiderosa di allontanarsi da quel passato che tutti conosciamo. Moravia, con una bravura di stile che difficilmente riuscirà a rieguagliare, è in grado di sfruttare al massimo il poco spazio bianco che concede ad ogni suo personaggio: riesce concretamente a modellare la vita con l'inchiostro.
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Il segreto di Ulisse
Ancora più che in altri romanzi, in questo Moravia si distingue per le sue fini intuizioni. Egli è famoso per aver cantato di un particolare sentimento, gettonato nell'opera precedente, ma anche lo sarà anche in quella futura, quello dell'apatia. E' riuscito però anche a scrivere di importanti passioni e forti destini di vita, come in Agostino e La romana: Il disprezzo si colloca, almeno sentimentalmente, in quest'ambito. Lo schema della trama è prevedibile, una coppia di sposi che, dopo molta convivenza e in seguito a qualche ingrippo, si trovano a vivere un periodo di crisi irremovibile che porterà ad un definitivo distacco. Riccardo è un personaggio modellato vivacemente, un uomo che riesce a lasciar esplodere i propri sentimenti (pur senza rinunciare al marchio moraviano dell'analisi interiore) e a farsi guidare da essi in una disperata (proprio disperata!) ricerca della verità; Emilia, sua moglie, è costruita in modo credibile, è concreta e palpeggiabile. La magistrale vivacità dei personaggi, che può costituire già in sé un motivo per considerare un romanzo un libro davvero buono, si affianca all'elaborazione di una geniale cosmologia dell'amore coniugale, esemplificata dal buon vecchio Ulisse, indiscusso terzo protagonista del romanzo.
Sono solita a non aspettarmi grande partecipazione emotiva dalla lettura di Moravia, sempre così asciutto nella scrittura e razionale nel racconto; in questo caso mi sono stupita positivamente, non credendo di potermi aspettare tanta affettività e sensibilità in una sua opera non neorealista.
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Ti hanno mozzato la lingua?
Opera manifesto del Teatro dell'assurdo, genere quanto mai indefinito, a Ionesco il soggetto venne in mente mentre imparava l'inglese su uno di quei manuali che fanno studiare a memoria le conversazioni e, ripetendole, si accorse che quelle frasi mancavano di logica e comunicazione. Guardandosi attorno, capì che l'incomunicabilità, che involontariamente insegnava quel libro, era la norma in quell'Europa occidentale del dopoguerra, che aveva visto osteggiare l'identità umana, le certezze morali mancare, il buon senso ucciso. L'Europa che aveva conosciuto il nazismo, ossia l'universo antiumano, non si era allontanata dalla dimensione psicologica del regime, isolandosi: l'uomo aveva perso il senso della relazione, diventando un involucro di se stesso, agilmente interscambiabile con qualunque altra persona. E' questa la situazione dei protagonisti della breve pièce (non dura più di 45 minuti), gli Smith e i Martin. Essi, per quanto finemente radicati nel loro ruolo familiare, non esistono: esiste il signor Smith, non esiste l'uomo Smith, perché ha perso la capacità di parlare. Il linguaggio, così essenziale nel ciclo della vita di un essere umano, nella pièce di Ionesco è forma mentis e strumento di individualità e di pensiero. Perdendo la capacità di trasmutare la parola pronunciata (il significante) in un oggetto con significato, l'uomo perde anche la capacità di ragionare, di ascoltare, di provare sentimento. Conseguentemente anche tutto ciò che circonda l'uomo perde consistenza: il tempo, nell'opera rappresentata da un orologio a pendolo, batte i rintocchi a caso, senza rispettare il tempo; lo spazio, cioè il salotto degli Smith, è privo di calore e di personalità, tanto che alle ultime battute cambierà addirittura proprietario, diventando dei Martin.
La lettura è estremamente consigliata, è un libro poi molto piccolo: può essere curioso leggerlo sul pullman o sul treno, mentre si vive l'incomunicabilità del pendolarismo.
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La metamorfosi
Ho bellissimi ricordi di questo romanzo, che lessi a diciassette anni e che consacrò definitivamente il mio trasporto per la letteratura. Virginia Woolf ha una penna unica, uno stile che scavalca i confini tipologici tra prosa e poesia per creare uno stile ibrido, melodioso, leggiadro, pari all'essenza femminile di Orlando, ma anche determinato e omogeneo, come la sua parte d'uomo. Non a caso il romanzo ha cavalcato gli anni cruciali per la storia letteraria, anni che sperimentarono, dissacrarono, torturarono, modellarono la parola scritta creando, probabilmente, le cose migliori che il Novecento ci ha lasciato.
Orlando è una biografia romanzata di Vita Sackville West, personaggio poetico più che poeta, donna moderna e sfuggente, sulla cresta dell'onda nella moda del periodo: androgina, bisessuale, fumatrice accanita e intellettuale mascolino. Virginia ne uscirà benedetta dal loro incontro, invaghita della sua forza, del suo fascino, della sua couperose: era "una vera donna", una scrittrice mediocre e una madre sbrigativa, ma forte, "colorata come un pappagallo", con gambe lunghissime. Orlando camminerà proprio su quelle gambe, mentre percorrendo i secoli della modernità inglese, si trasformerà da uomo a donna. Virginia inserisce nella biografia tanti elementi e tante vicende vissute in compagnia della nobildonna, incomprensibili per un lettore ignaro, ma che diventano ironici e commoventi per chi ne coglie i rimandi.
La metamorfosi di Orlando, dalla lunghissima vita biblica, è storicamente sincronica e diacronica: sincronica nell'esistenza di Vita, che amava travestirsi da uomo, sincronica nella rinnovata condizione della donna di lettere, arrivata al punto di poter decidere tra l'assumere il ruolo di scrittrice tradizionale alla Austen o vestire una maschera intellettuale da uomo, alla Gertrude Stein o alla Simone de Beauvoir o alla Margaret Thatcher; diacronica nella storia culturale anglosassone, che nell'epoca della virilità di Shakespeare ed Elisabetta diventerà sempre più femminea con l'avvicinarsi all'impero di Vittoria.
Il capolavoro della Woolf meriterebbe parole su parole, tante sono le sfaccettature che il romanzo offre; ma a quel punto converrebbe solo rileggerlo e rileggerlo.
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Il germe
Serie di bellissimi racconti che m'hanno lasciata finalmente soddisfatta, poiché ricordo ancora le tremendissime ore che gli scritti de Il Paradiso mi avevano fatto passare. Sono quindi contenta che il Moravia-breve si sia riscattato (darà il suo meglio nei Racconti romani), specialmente nei racconti più stretti; ricordo dunque con piacere La casa è sacra, La messicana, L'ufficiale inglese.
Per quanto riguarda il racconto omonimo non posso non vederci il germe de Il disprezzo: uomo ragionevole, Silvio dovrà piegarsi al mistero dell'irragionevolezza coniugale, che Moravia spiegherà con la storia di Ulisse. La genesi della letteratura, quella dell'equilibrio e disequilibrio tra sesso e fecondità creativa, lo svilupperà nel voyeurismo di Dodo, quello de L'uomo che guarda. Oltre a questo, non riuscirei a valutare la vicenda in sé, perché è un po' spenta e la scrittura di Moravia, già non molto colorata, è quasi priva di contrasti. Ma mi piace vederci da lontano (ma neanche troppo) tutti i migliori temi che lo scrittore svilupperà con maggiore ampiezza.
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La stanchezza
E' un romanzo dai contenuti ricchi e diversi, ma inevitabilmente Moravia non riesce a scrollarsi di dosso una pesante stanchezza. In queste pagine troviamo delle grandi spiegazioni ma dei mediocri personaggi: il protagonista, francesista noioso e ancorato al sessantotto più contradditorio, quello dei rivoluzionari ricchi e nozionistici; una padre accademico di ruolo e di viso, ma almeno integro e che riuscirà a farlo fesso in molte occasioni; la moglie leggera e capricciosa. Moravia è invecchiato e lo sentiamo: la comprensione dei sentimenti umani che aveva ai tempi de Il disprezzo, in questo romanzo sembra averla dimenticata. Non so quanto frequentare Pasolini e la Maraini gli abbia fatto bene.
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Il cuore d'Europa
Storia di un tempo e di un luogo vicino, la più celebre della saga dell'autore macedone. La scrittura si dilata al suono delle capre, la dimensione temporale è ridotta al tempo dell'animale, il presente, e la dimensione mentale si restringe alla sola terra, senza cielo e senza Stalin. Forse perché il narratore parla come quando era bambino e i bambini sono come le caprette.
E che altro dire, bisogna leggerlo, Starova è il più grande narratore balcanico, dovrebbe essere un dovere. Peccato che la saga balcanica è stata pubblicata a spezzoni nel nostro Paese - o forse questo è proprio il solo romanzo tradotto, perdippiù dal francese.
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La crociata
Sorvolando tutte le questioni di mitografia cattolica, di cui Isabelle Rimbaud ebbe sicuramente grande merito, il lettore onesto dovrà riconoscere la grande semplicità, la raffinatezza e la precisione del discorso della donna, perfettamente armonico e temporalmente ben scandito. Non si nega la presenza di una canonizzazione del povero poeta, ma questa è il risultato di una comunicazione spontanea: Isabelle si fa carico di una fondamentale missione, quella di salvaguardare ed accompagnare il sublime fratello nel suo cammino verso la morte, nel suo dolore e in testimonianza delle sue ultime parole. Le vicende di queste tre "reliques" sono infatti strettamente personali: Arthur diventa il suo senso, il suo idolo nascente, ciò che dà dignità alla propria esistenza. Se c'è religiosità, se c'è aria di santità, tutto sta nella mente e nella percezione esclusivamente personale di Isabelle e i documenti che hanno notoriamente distorto la figura di Rimbaud sono ben altri.
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La repubblica delle Aquile
È un romanzo gelido, non solo per l'ambientazione perennemente innevata, ma per il progressivo raffreddamento interiore di protagonisti che, per una missione arrogante e dispendiosa come la riesumazione di cadaveri dei soldati da riportare in patria (quella patria che, incurante dei suoi uomini da vivi, li abbraccia da morti), si ritrovano a vagare per gli altipiani albanesi. L'interesse storico e umano è acceso e dettagliato, come solito è nella scrittura di Kadaré, e pervade tutta la narrazione, che è subordinata a questa indagine. Gli scorci creati regalano al lettore tutta la durezza, la freddezza, l'assurdità della missione e dell'inverno albanese, e il calore e la fierezza dei suoi abitanti.
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Gli intellettuali
Non è certo il capolavoro di Moravia che, finora, attribuisco stabilmente a “La Romana”. Il romanzo è lento e monotono, la noia affiora ma non come sentimento volontario che l'autore non riesce a controllare – perché non è malessere, ma solo incapacità di cogliere il punto preciso dei fatti e scoraggiamento sulla possibilità di raggiungerlo. È comunque una gran bella opera ai livelli più alti dell'autore; ma se i lettori intellettuali non l'avessero infarcito di tutte le fantasticherie di capolavoro, non mi sarebbe venuta tanta delusione d'aspettativa. L'avrei forse anche messo un pelino sotto “La Romana”, indubbiamente, la perfezione.
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Il sole dietro la porta
LA PORTA STRETTA
C'è da ridere su quanto il farneticare gidiano oggi appaia assurdo. Il corteggiamento di Alissa è talmente ugonotto da non sembrare vero; che è poi realmente accaduto. E tutto perché la cugina Madeleine era pia e turbata da una madre promiscua, e poi perché André non aveva ancora compiuto il viaggio delle Nourritures e dell'Immoraliste, dove finalmente avrebbe capito tutto. È dolce però riflettere sul sacrificio, oltre all'apparente ilarità che mi ha causato, e sul magnifico legame che Gide riesce a creare con Madeleine (Alissa nel romanzetto), e il grande spirito che alimenta il tutto. Credo che Gide lo racconti meglio ne "Si le grain ne meurt", opera autobiografica, ma mi ha colpito la dolcezza e la completezza del suo linguaggio, un po' diaristico, un po' elevato, ma caldo come una coperta.
L'IMMORALISTA
Non potrò prescindere dalla lettura che ne fece Albert Camus, che giudicò tardivi i suoi slanci egoisti e apollinici, lui che viveva disperatamente ogni giorno, sotto il sole algerino, quel bonheur e quell'arrogante desiderio di abbandono alla naturalezza umana. Ma è sconvolgente, al contrario, l'attualità di questo compte ultracentenario, per gli europei che non possono tuffarsi nel calore del mediterraneo, come Camus, e più sconvolgente ancora è l'originalità di quei temi che Gide contemplava con occhi lucidi, come se l'abbandono (spirituale per lo meno) del milieu sociale fosse la cosa più spontanea al mondo. La sottesa derisione sta in questo: come ai nostri occhi l'immoralità di questo autore, sempre in bilico fra cielo e terra, ma sempre in rottura con essi, possa ancora colpirci. Dopo cento anni, è necessario domandarsi fino a che punto il senso comune si sia evoluto. Per dire questo, bisognerebbere leggere L'immoralista con Les Nourritures terrestres (almeno finché si ha una lettura fresca del primo, sennò il secondo diventa una palla), una specie di poema libero, in cui Gide dice sostanzialmente le stesse cose, ma con maggior trasporto. L'ho odiato, però, per il modo in cui tratta Madeleine -sempre lei, la cugina del sud che ha sposato-. Credo che sia proprio dopo l'uscita dell'Immoralista che Gide finalmente si rivela al mondo.
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L'egoista
Carlo, protagonista del Petrolio di Pasolini, è una deragliata personificazione dell'Italia degli anni '70. L'autore esplora la sessualità di Carlo: è un'indagine estrema e lasciva, al punto che la libidine sfugge al controllo e si tramuta in perversione, inarrestabile e insostenibile dallo stesso protagonista che, trascinato da questa componente sessuale irrefrenabile, perde il controllo del proprio sesso, e si tramuta in donna. È una sessualità irregolare, quella trattata in Petrolio, che diventa componente indipendente e incontrollabile della società umana, non più parte integrante dell'essere umano, ma scisso e trasfigurato da esso; è un sesso violento e prepotente, che umilia e opprime l'uomo fino alla sua completa sudditanza.
Detto questo, la trasposizione cinematografica di Pasolini del Decameron è un capolavoro: più che fedele all'opera boccacciana, è l'opera stessa, rigoroso nelle trame delle novelle, agli intenti, al milieu storico medievale; l'aspetto e i modi degli attori stessi sono specchio del quattordicesimo secolo comunale. Quindi, io stimo Pasolini, come regista e, perché no, come polemista. Mi chiedo allora perché non riesca a sopportare la sua penna, le sue frasi prolisse e noiose, i suoi intenti indecifrabili; non credo che sarei una lettrice onesta se mi mascherassi dietro il movimento très chic dei filopasoliniani, per nascondere la mia incomprensione, ma ribadisco la mia opinione, che è di lettrice e non di studiosa (ma il lettore ha sempre ragione, a modo suo), che reputa Pasolini uno scrittore egoista, grasso e compiaciuto nel suo universo strettissimo, in cui non c'è posto per il lettore.
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Il sogno
L'unico libro letto di Sepulveda, autore mai più toccato; sento tuttavia l'autorità di convicermi, a ragione, che non è da questo libro che si può comprendere l'opera dello scrittore, ma che da qui si può iniziare a capire come se è simpatico o meno. Un libro adulto, di ricordo e di atmosfera, dalla trama che non segna ma lascia addosso una sorta di velo umido, come un'ombra collosa, di storia. Come Conception, anni fa mi promisi di leggere Berlin Alexanderplatz ed è proprio lei il mio personaggio preferito, insolito in quel gruppo di maschi ormai convertiti, senza ammetterlo, alla serietà della vita, lontani dai sogni della giovinezza. Come per Conception, Berlino lasciò anche su di me un inequivocabile peso (su di lei è fascino) storico che m'ha reso l'aria tedesca fredda e pesante, come se il mondo si riversasse tutto lì, ad Alexanderplatz. Poi, la saga onirica della donna non è che un piccolo pezzo di questo romanzetto, anche se in fondo il senso è anche nel suo sogno in miniatura, un'ombra di un passato lontano che può, nonostante tutto, essere riportato in terra.
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Nella Kulla
Il romanzo è immerso nel Kanun (il codice consuetudinario albanese) o il Kanun è immerso nel romanzo; il risultato è un universo non peculiare, che è frammentato, ma un universo senza giri di parole, a sé. Il fascino che ne scaturisce è irresistibile e violento, base stessa del Kanun. Del Kanun non ho mai sentito parlare prima di leggere Aprile Spezzato, è l'impatto emotivo è violentissimo: l'orrore, primissima sensazione che il lettore dell'occidente contemporaneo sente avvamparsi nello stomaco, lascia il posto allo stupore, allo sgomento, poi alla sensazionalità dell'incomprensione fin quando, dopo un incessante climax di avvenimenti interiori, il lettore se ne abbandona, completamente soggiogato da questo mitico codice autarchico ed universale, che trasforma gli Altipiani albanesi in lontane Arcadie sanguinose. I protagonisti, il sangue e la morte, perdono di potenza negativa e diventano protagonisti semiumani e quotidiani, incredibilmente colmi di quella freddezza e di quel fascino che non mi ha permesso di staccare gli occhi dalle parole di Kadaré, dall'inizio alla fine.
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Lo specchio
Sfogliare I Mandarini significa immergersi nella vita, nella storia, nell'umanità. La struttura è perfetta, complessa, una sequenza di vicende in cui si incastrano, con grande serenità, scene d'ogni tipo, tutte legate da un unico filo, che è lo scontro interno, la paralisi dell'uomo pubblico e dell'uomo privato, la ricerca di una dimensione che inevitabilmente porterà al fallimento. Simone ci svela cosa si nasconde dietro lo scrittore francese di spicco, di moda, di fascino, come poteva esserlo Camus e come cercava di essere Sartre; dopotutto furono loro che portarono . E' la storia dell'intellettuale "engagé", visto con gli occhi di madame De Beauvoir, donna senza occhiali scuri e filtri, negando ogni femminismo, perché non si tratteneva mai dall'essere spietata, in primis con se stessa, nell'autobiografia. Pochi ricordano che Camus (Henri?) era un uomo debole, a tratti viscido, arrogante e insensibile. Simone è invece indulgente con Sartre (Robert?), non lo è con chi, pur non essendo francese, si comporta allo stesso modo (il suo amore americano) e ambigua nei confronti di Paule (Francine?). La frattura finale è evidente, lo squallore dietro gli uomini del potere intellettuale -ché sempre potere resta- è evidente e ci lascia con un finale lieve, un po' rassegnato, ma con quel po' di speranza che Simone ci ha tramandato e in cui lei credeva. Senza dubbio il capolavoro europeo del dopoguerra.
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Lo sguardo miope di Valéry
Valéry si definiva uno spirito anarchico e ha sempre rifiutato l'impegno politico, accusando ogni partito di quella propaganda che “combine les sentiments et les syllogismes” laddove c'era invece richiesta di fatti e concretezza. E a questo punto noi ci aspetteremmo che il poeta si dimostri osservatore lucido dei problemi del suo tempo e fermo critico, a tratti profeta. Ma dietro quella prosa salda e virtuosa che stenta a tirar fuori i contenuti, i fatti non si rivelano e le idee del padre di Monsieur Teste si scoprono vuote, banali, tanto inconsistenti che è naturale chiedersi se l'autore non ci stia prendendo in giro. Infatti, il poeta di Sète (città, ricordiamo, di Georges Brassens) era senza dubbio una mente tra le più brillanti: i lunghi discorsi di Monsieur Teste erano tra i più cervellotici della letteratura francese, le poesie, neanche a dirlo, tra le più ardue e raffinate. Non mi capacito della mancanza di lucidità, di approfondimento e, in primo luogo, dell'adesione a luoghi comuni e stereotipi della peggior mente borghese (supera di gran lunga De Gaulle!) per quel che riguarda le pecurialità dei francesi, false e banali e leggermente nazionaliste. Non mi resta che fingere che il Valéry saggista non sia mai esistito.
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La perfezione
E' il miglior romanzo di Moravia, a mio parere. E' anche molto diverso dagli altri, dal marchio tipico del Pincherle, quello de "Gli indifferenti", "La noia", "Agostino", ad esempio. La borghesia c'è, anche se di sottofondo e il sesso c'è, ed è naturalizzato. Per quanto Adriana sia una prostitura il sesso non è la chiave per capire il romanzo. Una chiave non l'ho poi trovata, dovrei rileggerlo altre due volte, perché La Romana è uno scritto che incanta, che prende, che non lascia tempo all'analisi, che sbatte dopo aver affascinato con la parola maestra e con quei personaggi reali, vicini, belli e con Roma che domina beata. E poi Mino, quel ragazzo idealista e freddissimo, pazzo poi, per una morte assurda. Non oso dire nulla di questa creatura perfetta, perché in questo caso (forse solo in questo) ogni commento è idiota.
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Dio è morto
Possiamo semplificare il romanzetto come la storia di una religione perduta e, quindi, di un'innocenza perduta, sulla scia di Rosetta (La Ciociara). Agostino viveva un'infanzia tranquilla, devoto alla madre (Dio), senza troppi dubbi e riconoscente sin dalla prima presa di coscienza. Poi arrivò il fattaccio e la madre, da genitrice, si scopre donna: Agostino capisce che il suo Dio non è il Dio di tutti ma, anzi, che Dio stesso è a sua volta assoggettato da altre divinità (gli uomini di carisma). Il crack di Rosetta fu lo stupro fisico (la guerra), Agostino subisce uno stupro di spirito; così come Rosetta diventerà (per breve) una ragazza dissoluta e disincantata, Agostino tenterà di toccare il fondo della sozzura della condizione umana, di essere viventi senza Dio, tentando di sperimentare quel sesso che ha ucciso il suo Dio, rendendola donna. In altre parole: è un romanzo di formazione, di passaggio dall'infanzia all'adolescenza attraverso la scoperta del sesso.
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I am vertical
Non è un romanzo letterario, per quanto insensata sia la definizione. E' un romanzo di distruzione, di annientamento, un umile strumento di tortura (il valore letterario, sinceramente, non è dei più alti) per verificare la propria adeguatezza alla vita. Come disse Camus di Meursault, lui venne ucciso perché non recitava la parte. Per Sylvia non è poi così diverso. E' certamente autobiografico, risultato di uno sfogo psicanalitico che non porterà però il giovane poeta alla guarigione, ma alla morte. Compararlo ad un romanzo di formazione come "Il giovane Holden" è indubbiamente sbagliato, perché risultano netti nell'opposizione della vicenda stessa, Esther nella rassegnazione (anche se il romanzo finisce effettivamente bene) e Holden in un nuovo inizio. Ma per capire Sylvia Plath è necessario leggere le sue poesie; metto in primo piano la raccolta Ariel, poesie forti (e forzate), dalla genesi sofferta e incompresa. Questo, che in fondo non è che un romanzetto, non reca giustizia ad un poeta di grande talento e cultura come Sylvia, unico (inoltre) poeta e scrittore in lingua inglese che amo.
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La resurrezione
Se ne "Gli indifferenti" Moravia metteva in crisi il mondo borghese, ne "La disubbidienza" la crisi si concede un margine più ampio, prendendosela con tutto il mondo esterno. La crisi (La Disubbidienza) non segnerà una definitiva rassegnazione, incomprensione e abbruttimento, come troviamo a tonnellate nella letteratura europea del periodo, ma segna una nuova rinascita -o meglio- un ritorno all'atto di vita naturale dell'essere vivente umano, più irrazionale, più istantaneo e, se vogliamo, più puro. E' un romanzo, se vogliamo, interno: pur essendo stato comparato ad "Agostino", anch'esso narrante vicende adolescenziali, gli eventi non toccano se non la realtà psichica di Luca (il protagonista) mentre Agostino, evidentemente, è toccato e mutato da una realtà (quindi esterna) che non riusciva a fronteggiare a causa dell'inesperienza. Sono presenti sia il sesso che la borghesia e la rivoluzione: la borghesia è l'istinto di annientamento, ciò che spinge Luca a voler troncare l'esistenza, il sesso diventerà la vita e lo tratterrà in terra; inoltre, segnerà il trapasso da infanzia a età adulta. La rivoluzione è, appunto, questo passaggio: la sintesi psicologica del sesso da distruzione a costruzione.
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Il pene
I protagonisti sono uno solo e parlano in due: l'uomo e il suo pene. Il pene, che non è altro che la coscienza sdoppiata dell'uomo, e non il suo inconscio e neanche il suo alter ego, ha una personalità propria, definita, in lotta con l'uomo. Fa parte dell'uomo? No, possiamo dire che è una cosa a parte, un personaggio, un compagno che è nettamente scisso dalla carne dell'uomo, un gemello siamese in eterno contrasto col vicino. Eppure l'uomo consiste nel suo pene: seppure l'uomo pensa, ragiona, codifica col suo cervello, che è molto lontano "geograficamente" dal pene, è proprio questo che controlla i suoi atti. L'uomo, visto da fuori, non è altro che l'incarnazione del volere del pene. Quindi chi vince, l'uomo o il pene? Io non ho ancora capito, Moravia li mette in comune accordo.
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Il Kamikaze
Moravia ci ha regalato un'opera molto complessa, strutturata su intese triplici. Soffermandoci sulla particolare narrazione notiamo come il tutto abbia una forma dialogica, apparente unica, ma suddivisa in tre piani: il reportage o intervista, fondato sull'azione, che incalza una poetica esistenzialista; la conversazione psicanalitica, che è un debito freudiano; il racconto-confessione neorealista, che emerge chiaro nonostante la narrazione proceda secondo un'inusuale architettura. Allo stesso modo abbiamo tre protagonisti: Desideria (la Borghesia), la Voce (la Rivoluzione) e il connubio di questi due, una potenza dissacratoria, surreale e simbolica, che è forse la storia, che è forse l'eroismo o che è semplicemente la vita, a tre dimensioni, tragicomica. Moravia ridicolizza il tutto attraverso quel piano simbolista che fatica ad attuarsi nella realtà dell'esistenza e nella sua scrittura stessa, che abbraccia temi sessuali, psichici e sociali senza dipingerli onestamente, confermando la sua tipica elusività realista.
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Saint Rimbaud
Su Rimbaud si è detto di tutto: dissacratore, maledetto, angioletto, fascista e bolscevico. La mitografia iniziò sul letto di morte, dalla distorsione memoriale del cerchio familiare del poeta (la sorellina Isabelle e il cognato postumo Dufour/Berrichon, la “mother” Vitalie Cuif e l'amico di lunga data Delahaye); poi ci si è messo il mistico selvaggio Claudel, il timido Rivière e il suo compagno di sventura (che fece però la sua fortuna) Paul Verlaine. In seguito a Rimbaud ci arrivò anche la letteratura di sinistra, fra cui Breton, e al mito cattolico se ne aggiunsero infiniti altri. Poi arrivò Etiemble e le sue frecciatine rimisero un po' le cose a posto: “per capire Rimbaud bisogna iniziare a leggerlo (magari)”. Le opere: abbiamo una primissima raccolta poetica Poésies, che arriva più o meno all'incontro con Verlaine (sottolineo la lettura di Mémoires, di Voyelles, di Les Strennes des Orphelins e non solo Le Bateaux Ivre, che fu solo un esercizio parnassiano). Poi abbiamo prose: Une Saison à l'Enfer e Illuminations. Ma per capirci davvero qualcosa della poetica rimbaldiana rimando a due lettere della corrispondenza (che, a mio parere, è migliore dell'opera): al professor Izambard (13 maggio 1871) e a Demeny (15 maggio 1971). Consiglio: non fatevi influenzare dal mito del poeta maledetto, leggete Rimbaud spassionatamente.
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L'identità
In questo breve romanzo, ci pare che Laurence abbia ritrovato una propria identità, quella di persona autentica e di donna completa; ci pare infatti che abbia strappato la propria “bella immagine” per ritrovare ciò che la contraddistingue come individuo. Ma ad una attenta lettura, riconosciamo come in realtà Laurence abbia sempre avuto consapevolezza della propria personalità, ossia, di come lei (anche grazie all'ausilio della professione di pubblicitaria, che le ha permesso una notevole conoscenza della società-immagine) abbia sempre creduto di controllare l'apparenza senza danneggiare lo spirito. La crisi di nervi, quella che la colpirà in seguito al viaggio in Grecia, non è altro che il riconoscere che quel meccanismo mondano, che lei credeva non potesse toccare i soggetti di forte spirito -suo padre, Catherine, se stessa- abbia invece il potere di assoggettare inconsapevolmente e unanimemente.
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Gli occhiali
Parlare del capolavoro di Flaubert è eccitante quanto difficile, perché raramente si raggiunge la completezza. Partendo dai personaggi, non vediamo che Emma; gli altri non sono che deformazioni della sua mente. Flaubert le costruisce una persona, una fisicità, Emma è frutto di un parto sofferto. Gli uomini, invece, sono macchie romanzate e l'unico modo per raggiungerli è un tentativo di analisi attraverso le deformazioni di Emma. Ma ancor più sono deviazioni e fraintendimendi: Emma non intraprenderà neppure il più piccolo tentativo di conoscenza autentica delle persone che la circondano, perché tutto il suo reale è trasferito in una dimensione trasfigurata e romanzata, da cui escono personaggi, non persone, e topoi, non sguardi. Emma smise di amare Charles quando la maschera cominciava a stargli stretta (o strargli larga), la stessa cosa per Léon. Che cos'è dunque il bovarismo? In "Madame Bovary" assistiamo solo alla sua caduta, o forse, alla sua presa di posizione. Il bovarismo allo stadio primitivo non è che un sano romanticismo, ma Flaubert supera immediatamente questa posizione. Il bovarista moderno è l'inetto, il nichilista, l'assurdo, bovarista è il positivista, il modernista. Flaubert ha, insomma, svelato il contemporaneo.
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La Storia
Grande testimonianza storica leggermente autobiografica (durante la guerra Moravia si rifugiò a Fondi con E. Morante per qualche mese). L'onnipresente narratore femminile dell'opera di Moravia è, questa volta, Cesira, una donna ciociara, integerrima macchietta contadina di fine saggezza popolare, a cui l'autore affida il gravoso compito di narrara il dramma della guerra. Non posso poi che rimandare alla meravigliosa trasposizione di De Sica, con una perfetta Loren e un fine Belmondo. I personaggi: Cesira appartiene al filone di Adriana (La Romana): come lei è una donna semplice, bella, forte e integra. Michele è come Mino (sempre La Romana): eroe idealista e un po' fesso, disposto a sacrificarsi, ingenuamente, per le proprie idee. Rosetta è il dramma e l'orfana, che la guerra cambierà per sempre.
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L'embrione
Moravia scrisse il suo primo romanzo (questo) quando era ancora un pupo e si sente: con realismo (un po' imperfetto) analizza la borghesia degli anni '20, una sorta di età del jazz alla romana. I protagonisti soffrono di non soffrire, circolo vizioso che non si cocluderà con la rivolta, ma che avrà scampo solo nella rassegnazione borghese-necessaria-infinita, che non terminerà (forse) se non in età avanzata con La Vita Interiore ma che, vedremo, fallirà. C'è scampo? Chi lo sa. Intanto vediamo in germe i primi temi ricorrenti dell'autore romano: la borghesia (cattiva, manipolatrice, stupida e indispensabile, come una matrigna) e il sesso (contributo freudiano).
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G. R. C.
In fin dei conti, Duroy è il tipico arrampicatore sociale, sensuale, forte, un antieroe decadente perfettamente riuscito, ma è anche molto di più: Georges è un trionfo, l'impotente spina nel fianco dei potenti. La scuola di Flaubert è forte e il protagonista risulta notevolmente sfaccettato; il cinismo non si arrende al sentimento (ricordo come amò Clotilde, a cui dedicò l'ultimo sguardo al suo secondo matrimonio, quasi per suggellare la loro eterna unione) e supera in forma e contenuto (a mio parere) l'altro maestro, Zola. Al diavolo chi parla di amaro in bocca, Georges è il migliore degli attori.
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Dispiacere
Ottimo e perspicace al suo tempo. "Il Piacere" è un romanzo scarno e sfavillante, un godimento esaudiente per il poeta, che nella celebrazione della superficie riusciva a scavarsi in pronfondo. Ma oggi ne abbiamo abbastanza di estetismo, e il romanzo non cattura la benevolenza, è una palla al piede. Un trionfo all'epoca, ma la decandenza è netta oggi. Un fallimento per un poeta di così grande calibro. Ma dopotutto fallì anche Petrarca, coi suoi Trionfi, quindi chiuderò un occhio; torno da Ermione.
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Mémoires d'une jeune existentialiste rangée
Primo volume del colosso autobiografico. Opera noiosa, lunghissima se letta unicamente nella primaria chiave memoriale, ma Simone opera in ben altri settori. La messa in gioco della propria vita, azzardata (potrei dire) in una storia letteraria in cui di donne- scrittore si sa ben poco, è l'espediente per la riuscita di una massiccia opera esistenziale: cosa più dell'esistenza può "creare" l'esistenzialismo? Non sarà la prima volta che Madame metterà la propria esistenzia al servizio del romanzo esistenzialista: se ne servirà anche per il suo capolavoro, Les Mandarins, campo minato in cui giocherà con l'esistenza degli altri, primo fra tutti Camus, che dal movimento ne uscì (con Le Mythe de Sisyphe) ancor prima che Sartre se ne saltasse fuori con La Nausée. Che dire dell'autobiografa? Sottile, lucida, fredda, rigorosa, sembra che nulla la riguardi personalmente. Unico, grande e vero scrittore esistenzialista, più ancora di quel Sartre che valeva solo nella teoria.
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L'élégance du hérisson
Non è orribile, non è bellissimo, ma è affascinante, se tralasciamo il fatto che l'autrice è agrégée de philo e quindi non ha fatto alcuna fatica a scriverlo. Ciò che conta, è il genere. Dopo tante sperimentazioni letterarie, movimenti d'avanguardia, Claudel (che è un genere a sé) e Nothomb, in Francia spunta fuori un romanzetto di notevole portata filosofica, scritto con leggerezza, lontano dai moralisti, con trama impercettibile e evanescente. L'ideale per purgare la mente dalla consistenza delle classiche (ottime) letture francesi.
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Le Chagrin de Balzac
È stato il mio primo, vero tentativo di avvicinamento a Balzac (perché altre volte tentai l'impresa senza successo, non essendo particolarmente in vena). L'entusiasmo e la commozione (due sentimenti che, mescolati nelle giuste dosi, sfiorano l'amore) hanno raggiunto livelli massimi; e non saprei neppure dedurne il motivo generale, perché i personaggi sono insolitamente evanescenti e faticano ad scolpirsi un gradino nella memoria. Il conte de Valentin è irreale, non so che faccia abbia (ad eccezione di una chioma dorata, un po' petrarchesca), non so che senso abbia la sua vita e il suo ruolo schietto nel romanzo: tale mia sensibilità, infatti, è conseguenza dell'arte di Balzac. Un capriccio: l'autore spara un po' troppe scemenze, una serie di massime sagge e senza senso. Ma lui lo fa sempre e che si può dire a uno che scrive quattro romanzi l'anno?
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Auto-romanzo
Autobiografia travestita da romanzo, dalla scrittura evanescente e sinuosa, dai riferimenti reali minimi e dalle sensazioni multiple. L'originalità dell'opera è garantita dalla sua struttura fotografica che, attraversata come da una serie casuale di scene, regala un universo parallelo fondato non sui ricordi in successione storica ma sui ricordi delle sensazioni vissute; la memoria, che per creare autobiografia deve fondersi con la scrittura, si basa sulle parole, più che sui fatti, sull'evocazione fine a se stessa, che sulle azioni; la temporalità è soppressa da una storicità irrazionale sapientemente modellata
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