Opinione scritta da Simoncé

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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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I racconti della Kolyma

Forse la descrizione massima "dell'errore, dell'orrore", citando gli Offlaga Disco Pax, della visione distorta del comunismo marxista, prodotta in Unione Sovietica durante la dittatura di Stalin.

Più potenti nella loro drammatica semplicità risuonano le pagine di Šalamov, rispetto al più famoso e ricordato scrittore sugli orrori del GULag, ovvero Solženicyn. Šalamov, stesso, rimase esterrefatto nel leggerne il famosissimo libro Una giornata di Ivan Denisovi? e leggere di gatti liberi di girare per alcuni luoghi del campo: era impensabile per un reduce della Kolyma il passeggiare di un gatto ancora vivo!

Non vorrei però qui sminuire ciò che ha passato Solženicyn, insignito pure del Premio Nobel per la Letteratura nel 1970; esperienze terribili, che solo in parte il lettore riesce ad evocare leggendo le sue pagine.

Ma la Kolyma era ben altro. Rappresenta il fondo della capacità dell'uomo di disumanizzarsi, neanche Dante quando descrive il fondo del suo Inferno, la Ghiaccia di Cocito, arriva a pensare a qualcosa del genere per rappresentare la bassezza e l'abbrutimento dove può arrivare l'uomo. E purtroppo per la storia dell'umanità questo fondo sarà toccato nuovamente; Auschwitz e tutti gli altri lager nazisti toccano livelli simili: gli orrori degli anni '30 e '40 che l'uomo a provocato a se stesso devono continuare ad essere ricordati per evitare che si ripetano nuovamente.

Ed è questa l'importanza delle pagine dei Racconti ed il perché vadano lette. Come lucidamente analizzò lo stesso Šalamov in una lettera a Pasternak, «l'essenziale non è qui, ma nella corruzione della mente e del cuore, quando giorno dopo giorno l'immensa maggioranza delle persone capisce sempre più chiaramente che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore né senso del dovere. Tutto viene a nudo, e l'ultimo denudamento è tremendo. La mente sconvolta, già attaccata dalla follia, si aggrappa all'idea di "salvare la vita" grazie al geniale sistema di ricompense e sanzioni che le viene proposto. Questo sistema è stato concepito in modo empirico, giacché è impossibile credere all'esistenza di un genio capace di inventarlo da solo e d'un sol colpo...» (p. 630)

Continuare a leggere per continuare a ricordare questi orrori, a questo serve questo libro (e tanti altri simili) e provare a crescere come essere umani, perché non accada più che "l'uomo dimentichi che è un essere umano" (p. 630).

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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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La disubbidienza

Luca, un sedicenne "gracile, soggetto a furie improvvise durante le quali il corpo stremato par bruciare le poche forze chi gli restano in parossismi di rivolta e odio", appare sempre più insofferente alle decisioni dei genitori.

Inizia una lunga lotta di ribellione, di rivolta, di disubbidienza non solo ai desideri dei genitori, ma anche disobbedienza alle regole della società e infine, la disubbidienza estrema, la disubbidienza alla vita.

Il romanzo assume così i tratti di un racconto della ribellione adolescenziale al mondo, una ribellione preparata in ogni sua fase e organizzata a puntino. Dopo la disubbidienza all'infanzia, con l'addio a tutti i ricordi, Luca abbandona ogni legame con la scuola, con i compagni di classe, riducendo al limite i contatti con i genitori. Culmine di questo addio alla società è l'abbandono ai soldi. Ma il percorso deve compiere ancora un passo e, ultima cosa che gli rimane, Luca vuole disubbidire alla vita. Ma il suo non è un desiderio suicida, anzi disdegna ciò, lui prosegue solo il cammino di odio nei confronti di ciò i genitori e la società gli impongono di fare e proseguirà fino allo stremo delle forze.

La conclusione è però speranzosa; dopo un crescendo drammatico, con la spettacolare descrizione del delirio, Luca si risveglia e, grazie ad una anziana infermiera, sembra rinascere scoprendo e comprendendo l'amore e ritrovando il gusto della vita.

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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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Gesù

Ho comprato questo volumetto poco dopo aver superato l'esame di Storia delle chiese e del cristianesimo, in un diverso contesto difficilmente mi sarei avvicinato ad un libro su questo argomento e scritto da questo autore.

Già, perché ho scelto di acquistare questo Gesù per leggere le atee tesi di d'Arcais e metterle a confronto con quanto studiato per l'esame: un mettermi alla prova correlato da una buona dose di autocompiacimento.

Il libro è breve, poco meno di 130 pagine, appare corposo solo per la scelta editoriale di stamparlo in formato tascabile (scelta che di mio non condivido).

Lo stile di d'Arcais rimane quello con il quale l'ho conosciuto sulle pagine di MicroMega, anche se speravo che la pubblicazione di un libro divulgativo gli facesse cambiare registro; invece rimane il solito aggressivo e incalzante modo di esporre le tesi, uno stile che da sempre mi ha dato l'impressione di un "sotuttoio" che poco spazio da alle idee altrui auto-convinto della superiorità della propria (proprio quello che contesta alla Chiesa in questo testo e in altri articoli).

Così, tutto preso dalla propria attività, l'autore si inerpica su di un lavoro veramente vasto per una pubblicazione così ridotta. Tenta di fare il divulgatore di molte teorie contrastanti con la dottrina della Chiesa di Roma senza provare a farne una sintesi propria o a inserirci un proprio pensiero che non sia la solita vis polemica.

Ma d'altronde è un filosofo e non uno storico e, una volta finito di leggere il libro, vien da domandarsi perché abbia scelto di entrare in questo campo, non poteva piuttosto pubblicare un lavoro divulgativo incentrandolo sulla filosofia citando i maggiori autori atei e agnostici? A mio avviso ne sarebbe venuto fuori un testo migliore.

Il pamphlet perciò risulta un insieme di punti sviluppati più a citazioni e contro-citazioni, che con un'argomentazione, originale o non. Le stesse citazioni sono lasciate all'apparato notarile a piè pagina (a mio avviso piuttosto essenziale), senza poi una più completa bibliografia finale; c'è solo nelle "Istruzioni per l'uso" uno scarno elenco di libri. Sarebbe certamente stata gradita una bibliografia finale contenente sia le opere utilizzate, sia ulteriori opere d'approfondimento per chi avesse voluto studiare più a fondo l'argomento ( nel giustificare tale scelta, ritrovo in d'Arcais quello stile "basto io a dir le cose, porto io la verità").

Nel concluderlo poi mi son chiesto chi potesse anche essere il destinatario di tale libro. Il papa? No di certo, lavoro è troppo misero. Qualche credente? Difficile che si avvicini a un testo del genere e ancor più difficile che nel leggerlo trovi dubbi sulla fede; girando sui forum cattolici le tesi riproposte da d'Arcais sono più e più volte confutate o confermate a seconda del contesto da cui sono state estrapolate. Il libro poi non può essere destinato a qualche non credente, visto che riprende in maniera troppo semplicistica troppi autori, anche diversi tra loro (come posso discutere di Gesù con i cattolici citando Küng, autore cattolico?).

Alla conclusione del libro l'idea di uno scritto compiuto da un filosofo e non da uno storico prende sempre più corpo e la domanda "perché è stato pubblicato questo libro" prende sempre più piede.

In sostanza, per concludere con qualche buona parola per il libricino, l'unica parte che mi è parsa valida del libro, ben scritta, non polemica, neutra, è il "Commiato"; due facciate che contengo il riassunto dell'intero libro, il che la dice lunga sulla sostanza dello stesso: un po' poco per le attese e promesse date dal sottotitolo, L'invenzione del Dio cristiano, e dall'introduzione.

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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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Resistere è creare. Creare è resistere.

“Indignatevi”. Complice la crisi economica che si sta riversando sul mondo, l'utilizzo di quel vocabolo è diventato un must nei telegiornali o sui giornali. Anzi, di più, dalle proteste del maggio 2011 spagnolo, i gruppi giovani di protesta vengono per l'appunto definiti indignados.

Questo fatto e la notevole pubblicità che ha avuto questo libricino mi ha spinto a leggerlo. E subito, appena preso in mano, una domanda mi era salita alla mente: che Indignatevi! sia un nuovo “Libretto Rosso” che accompagna le proteste giovanili, che spinge i giovani a scendere in piazza come sul finire degli anni '60 e l'inizio degli anni '70? (questo quesito è dovuto al fatto che l'edizione italiana si presenta di colore rosso, di qui l'associazione “Citazioni dalle Opere del presidente Mao Zedong” (o “Libretto Rosso”) - “Indignatevi!”)

Be, dopo averlo letto, spero di no. Seppur i principi contenuti nel libricino siano validissimi, il pamphlet mi ha deluso moltissimo, probabilmente a causa del gran parlar bene che l'accompagnava e che ne ha aumentato le mie attese. Non son che una sessantina di pagine, delle quali un buon terzo si perde in pre- o post- fazioni, note o l'allegato finale. Per carità quest'ultimo è forse una delle poche cose positive del libro, visto che si tratta della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, testo fondamentale ma non molto diffuso ( fuorché qualche estratto dei tempi delle superiori non ne avevo la copia integrale fin quando non ho comprato il libro di Hessel, e non penso di essere l'unico in una situazione del genere). Ma da li in là, non si spreme fuori altro dai discorsi del vecchio politico francese.

Indignatevi per la violazione dei diritti umani, esorta, visto che al giorno d'oggi non c'è più il nazismo per indignarsi (ma che nella sostanza è la stessa cosa: cos'è una dittatura se non la più grande e grave forma di violazione dei diritti dell'uomo?). Principio bello, nobile. Ma Hessel non va oltre. Non spiega, ad esempio, come indignarsi; dice solo “indignatevi!”. Ma è un'esortazione riduttiva; posso indignarmi davanti ai soprusi nei Territori palestinesi compiuti dai coloni e dai soldati israeliani (argomento citato dall'autore) semplicemente standomene seduto sul divano di casa e dire “Che maiali!” oppure scrivere un post su facebook o su twitter.

Ed è proprio sul metodo che Hessel nei suoi discorsi diventa vacuo e poco preciso. Inizia con una giustificazione della violenza quando “i mezzi militari di chi ti occupa sono infinitamente superiori ai tuoi”, salvo poi tornare sui propri passi citando e negando l'idea di Sartre della violenza ineluttabile per affermare che è la non-violenza la strada da perseguire; ma l'argomentazione non pare avere la stessa convinzione di quando invita all'indignazione, manca dello stesso calore.

Forse la stessa vecchiaia a impedire ad Hessel l'affondo sul metodo della protesta-indignazione, rimanendo confuso tra la giovinezza partigiana (esperienza non più riproducibile oggi) e un pacifismo che per il passato militante non riesce più a fare proprio.

“Indignatevi!” rimane nella sostanza un libretto da leggere, e che comunque consiglio di leggere, per lo più per la lezione di un vecchio partigiano francese desideroso di dare ancora qualcosa al mondo per il quale ha lottato e rischiato la vita e che ora sta scivolando verso un doloroso tracollo economico, ma ancor più sociale. Il richiamo alla difesa dei diritti contenuti nella Dichiarazione dei Diritti ha un altissimo valore morale.

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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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Tutto scorre...

Vasilij Semenovic Grossman ( Iosif Solomonovic) nacque nel 1905 a Berdicev cittadina ucraina a maggioranza ebrea (come denota il nome originale). Allineato al regime, durante la seconda guerra mondiale diviene corrispondente di guerra al seguito dell'Armata rossa. Nel lungo viaggio verso Berlino al seguito dell'esercito sovietico scoprì gli orrori perpetrati dai nazisti a danni degli ebrei, vedendo in prima persona il campo di Treblinka. Questa drammatica esperienza lo spinse a realizzare a guerra finita Il libro nero - Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 assieme a Il'ja Erenburg ( quello del Disgelo). Nel piano originale l'opera avrebbe dovuto venir pubblicata dal Comitato Antifascista Ebraico, ma la violenta svolta data da Stalin alla politica interna fece chiudere lo stesso Comitato e facendo scomparire lo stesso Libro nero ( versioni incomplete riuscirono ad uscire lo stesso dall'U.R.R.S., per la prima versione in lingua russa bisognerà aspettare il 1980 a Gerusalemme e il 1991 a Kiev).

Questa svolta ebbe profondo ripercussioni sullo stesso Grossman. Da fido servitore del regime, ideologicamente allineato, la violenta campagna antiebraica (che sostanzialmente non ha avuto il tempo per svilupparsi come quella nazista) fu una profonda scossa alla sua fiducia nel sistema sovietico.

Gli anni che vennero furono cupi per gli ebrei sovietici, ma come un fulmine a ciel sereno Stalin morì e con lui i suoi piani per un'ennesima grande purga della società sovietica.

Per gli intellettuali si apriva ora un periodo nuovo, quello che Erenburg definì come Disgelo. In questo contesto viene scritto Tutto scorre... capolavoro letterario, storico e sociologico.

Si tratta di un libro crudo, che lascia pochi spazi a descrizioni leggere, romantiche. Così come è la realtà viene riscritta nel libro. Grossman analizza col suo modo, frutto di anni di giornalismo, la storia russa degli ultimi vent'anni, dalla collettivizzazione fino alla morte di Stalin. I commenti sono caustici, non lascia speranze al regime: "Lo Stato si fece padrone" scrive.

Si inizia col la liberazione di molti prigionieri dei lager voluta da Berija nel 1953. Ecco che il nostro protagonista, incarcerato per aver chiesto la libertà, ritorna dai lager, ritorna alla vita. Ma son passati ben tre decenni e tutto è cambiato. Ci son state le purghe del '36-'38, c'è stata la guerra. Le persone, le strade, le case che conosceva un tempo non ci sono più. E anche quelle che son rimaste, fanno ormai finta di nulla: lo scopo del lager è far dimenticare il condannato e il suo scopo lo ottiene sempre. E qui vien fuori l'angosciante realtà: chi si è salvato non vuole affrontare chi invece è stato condannato. Due Russie si incontrano, quella condannata e quella che è vissuta "libera", la società è fratturata e la frattura non si può più ricomporre. "Non resta che parlare a frasi fatte" commenta Grossman, un commento che dice più di interi libri.

Ma l'autore affronta anche un altro tema. Quello della collettivizzazione e della grande carestia in Ucraina, l'Holodomor. Anche qui il suo stile colpisce nel profondo. Sono forse le pagine più toccanti della sua opera, quelle che fai fatica a leggere. Riporto due frasi che da sole descrivono quella terribile catastrofe meglio di qualunque altra parola:

"Le donne si dimostravano più forti degli uomini, si attaccavano alla vita con più rabbia. Eppure toccava loro il peggio: è alle madri che i bambini domandano da mangiare."

"Hai mai visto sui giornali i bambini nei lager tedeschi? Identici: teste pesanti come palle di cannone, colli sottili come quelli delle cicogne, nelle mani e nei piedi potevi vedere il movimento di ogni ossicino, sotto la pelle, come son congiunti quelli doppi; lo scheletro era tutto fasciato dalla palle, tesa come una garza gialla. [...] Non erano più visi umani."

Infine, l'ultimo argomento toccato da Grossman è il tentativo di capire perché in Russia ebbe modo di svilupparsi una simile dittatura, e anche qui, come nel resto del libro, non c'è speranza; anche qui il suo commento è disarmante: "lo sviluppo russo ha mostrato una sua strana essenza: si trasforma in sviluppo della non-libertà". Purtroppo solo i veri rivoluzionari tentano di cambiare questo sviluppo, ma tutti han fallito, Rykov, Bucharin, Trockij, Zinov'ev, Kamenev, forse proprio per questo loro essere rivoluzionari.

Il libro finisce poi, con un ulteriore riflessione: "Che razza di storia è quella dell'uomo, se la sua bontà non può crescere?". Se anche qua di speranza non c'è ne, questa domanda è pur sempre una spinta ad analizzarsi a fondo, a scoprire l'uomo e a migliorare. Qui vuole arrivare Grossman col suo libro, descrivere la durezza degli avvenimenti come monito, perché essi non si ripetano più.

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Storia e biografie
 
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Simoncé Opinione inserita da Simoncé    12 Febbraio, 2012
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L'Inferno di Treblinka

Questo breve opuscolo giornalistico fu scritto sul finire dell'estate del 1944, subito dopo la liberazione del campo di Treblinka, usando fonti e informazioni di prima mano. Venne addirittura adoperato durante il processo di Norimberga.

Qui Grossman raggiunge le vette della sua carriera giornalistica. Lo stile è diverso dai seguenti capolavori letterari. È asciutto e duro, non divaga in constatazioni del momento ( ad esempio, in Tutto scorre... solo alcuni capitoli si avvicinano a questo lavoro, a livello di impostazione stilistica). Ma in questo lavoro, l'ancora giornalista sovietico, deve descrivere la dura realtà del genocidio perpetrato dai nazisti, arrivando a porsi il problema che forse chi ha compiuto tutto ciò uomo non lo era: sono pagine tremende, Grossman riesce nella settantina di pagine scarse a concentrare l'odio nazista e buttarcelo addosso, dicendo: perché è successo?

E nelle ultime, terribili, pagine guarda in avanti e prevede, quasi, il fascino che simili massacri potranno avere sull'uomo del futuro, sia esso vicino o lontano:

"Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il nazismo, il razzismo, non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia stato facile uno sterminio di massa.
E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera."
(V. Grossman, L'inferno di Treblinka, p. 79)

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"Se questo è un uomo" di Primo Levi
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