Opinione scritta da topodibiblioteca
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Crescere significa compiere scelte
“Credeva a tutto quello che non si vede. Credeva al destino già scritto, all’anima che vive dopo la morte, al malocchio che colpisce, all’invidia che affama a certi pensieri che spostano gli oggetti, alle voci dei defunti, ai sogni che si avverano, al potere misterioso della luna”.
Con questo incipit Domenico Dara nel suo ultimo romanzo, dopo il grande successo di “Malinverno”, presenta la protagonista del libro, Liberata, una ragazza sognatrice, fragile, spesso con la testa tra i fotoromanzi che divora letteralmente, sperando in una sovrapposizione tra finzione e realtà. Liberata sogna infatti che l’eroe maschile di quelle pagine patinate, il suo beniamino Franco Gasparri, possa materializzarsi realmente trasformando così la sua vita che trascorre senza particolari scossoni nel paese della provincia calabrese in cui vive, circondata dalle poche amicizie che fanno parte del suo cerchio magico. Proprio come accade nelle favole, così come l’autore ha già mostrato nelle pagine di Malinverno, ecco che la vita di Liberata cambia improvvisamente, inaspettatamente, incontrando il presunto amore, bello proprio come Franco Gasparri l’eroe dei fotoromanzi. Come tutti i cambiamenti ed in tutte le storie che alla fine insegnano qualcosa, anche Liberata, eroina di una sorta di romanzo di formazione, dovrà compiere scelte dolorose, capirà che le carezze che ti riserva la vita possono trasformarsi in schiaffi da un momento all’altro.
La narrazione intessuta dall’autore è un continuo crescendo ed elemento che ne costituisce valore aggiunto è il parallelismo con il mondo degli insetti che rappresentano un elemento cardine della storia, perché quel mondo dell’invisibile a cui appartengono cela in realtà preziosi insegnamenti per gli esseri umani. (“Liberata aveva imparato così che l’invisibile non è solo ciò che non esiste, ma anche ciò che si nasconde o non si vede”). L’istinto di sopravvivenza degli insetti, la loro capacità di mutare, di trasformarsi, di abbandonare l’esoscheletro in cui vivono rigenerandosi a nuova vita, costituisce un riferimento anche per Liberata che non è estranea a questo mondo proprio grazie alla passione del padre per l’entomologia. Crescere infatti, evolversi è un percorso paragonabile a quello di insetti che pur di sopravvivere scelgono di perdere parte dei loro arti e, figurativamente parlando, sarà così anche per Liberata.
Liberata non è tuttavia solamente una storia di invenzione con una morale, bensì una favola moderna ambientata nella prima metà degli anni ‘70 in un piccolo paese della provincia calabrese che trova compimento nei fatti di cronaca. Sono gli anni della lotta politica e di protesta, della sinistra comunista in contrapposizione alla violenza fascista calati in una realtà locale fedele alle proprie tradizioni. Il “piccolo mondo” descritto da Dara, quello delle processioni religiose di paese, degli allestimenti in onore del santo patrono, si mescola così alla vicenda di Liberata e dei suoi genitori, di Luvio (il ragazzo di cui è innamorata) e di altri personaggi non affatto secondari.
Un piccolo mondo nel quale i misteri che via via emergono troveranno una progressiva ricostruzione assolutamente credibile ed inaspettata rispetto al tono di partenza, tenendo il lettore incollato alla pagina fino alla fine del romanzo.
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Una melodia in tre movimenti
Ultimo romanzo di Tondelli scritto nel 1989 (l’autore è scomparso nel 1991), si può sicuramente definire il romanzo della maturità, nel quale la componente autobiografica emerge chiaramente nel protagonista Leo. Lo scrittore emiliano infatti costruisce attorno a lui una storia architettata in tre movimenti, con l’intento di fare un parallelismo tra il romanzo ed una melodia musicale classica.
Se il primo movimento (Verso il silenzio) introduce il tema dell’amore tra Leo e Thomas, della passione che progressivamente fiorisce per poi terminare tragicamente con la morte di Thomas, il secondo (Il mondo di Leo) è una discesa agli inferi nella realtà avvelenata di Leo, nel dolore e nella solitudine che prendono il sopravvento, oltre che nel ricordo della propria adolescenza, vista come origine del suo malessere esistenziale. Il crescendo sta tutto nel terzo movimento però, in quel “Camere Separate” che fornisce il titolo del libro e sintetizza la dimensione dell’amore viscerale tra Leo e Thomas: un amore totalizzante si, ma che Leo sente necessario vivere a distanza prendendosi la propria libertà per essere padrone del proprio tempo e della propria vita. Leo “Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità”. Una visione che inevitabilmente conduce a incomprensioni, tensioni, in quanto le esigenze di Leo non sono certamente quelle di Thomas che invece desidera una vita di coppia completa.
Dalla combinazione dei tre movimenti, “la melodia” che ne scaturisce è un suono di solitudine necessaria che ha una valenza positiva però, a dispetto del concetto di solitudine generalmente espresso, in quanto “sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio”. La solitudine infine è il mezzo che conduce alla catarsi, alla rinascita che per Leo-Tondelli è tutta definita dal potere salvifico della scrittura, “che questa sola cosa gli importa ed è questa, non lui, a dirigere gli spostamenti interiori della sua vita”.
Tondelli non amava definire “Camere Separate” un libro che narra di amore omosessuale in quanto non c’è assolutamente bisogno di questa etichettatura (talvolta invece sottolineata dalla critica), considerato che in sostanza il romanzo rappresenta la narrazione di una storia d’amore, di vita, di solitudini che si incontrano e poi si perdono.
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Arriverà la primavera, Bandini!
Primo romanzo della saga di Arturo Bandini, cronologicamente parlando, che permette di fare la conoscenza della famiglia Bandini ed in particolare di Arturo e del padre Svevo, muratore di professione, sullo sfondo di una cittadina del Colorado dove è ambientata la vicenda. Per capire a fondo la figura di Arturo Bandini, i suoi tormenti interiori, la ricerca di riscatto e del successo come scrittore, i sensi di colpa di un cattolico osservante (tutti aspetti ben evidenti nel celebre “Chiedi alla polvere”), occorre sicuramente affrontare questo romanzo della saga nel quale si fa la conoscenza con il giovane Arturo-Fante (“Lui era Arturo e aveva quattordici anni. Era suo padre in miniatura ma senza baffi...Era il maggiore e pensava di essere un duro”).
Tra queste pagine si respirano affanni e atmosfere di una famiglia italo americana, le difficoltà del vivere quotidiano magistralmente rappresentate dalla madre Maria, moglie di Svevo, ferita, tradita, arrabbiata a causa della scappatella di Svevo con un’altra donna. Se Arturo è appunto l’alter ego di Fante, Svevo lo è di Nick, il vero padre dell’autore: figurata temuta, ammirata, modello per lo stesso figlio nonostante i comportamenti sui generis, i problemi con l’alcol e la lotta quotidiana per sbarcare il lunario. Un amore che verrà riconosciuto in un altro celebre libro di Fante tutto dedicato alla figura paterna “La confraternita dell’uva”.
Nell’emblematico titolo di questo romanzo, l’unico della saga raccontato in terza persona da un Fante non ancora pienamente maturo e pronto al passaggio di stile in prima, si racchiude il senso di un’attesa. L’attesa di una primavera, dopo il rigido inverno del Colorado, che per Arturo saprà di riscatto, di sfogo alla rabbia repressa a causa della sua natura di italo americano non pienamente accettato se non addirittura disprezzato dai compagni di classe, ma anche a causa dell’amor non ricambiato da Rosa, la sua prima grande passione giovanile. Ma prima ancora che in Arturo questi elementi, questo desiderio di riscatto sociale, è ben visibile in Svevo e risulta evidente nel capitolo tutto dedicato alla parentesi con la ricca vedova invaghita alla quale fa da contrappeso la sofferenza di una Maria, moglie tradita, che cerca conforto nella preghiera. In sintesi, ritratti d’autore che Fante ha tratteggiato splendidamente nella loro dimensione autobiografica.
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La giustizia non esiste
Questo libro, un giallo-noir di natura psicologica si potrebbe definire, risulta essere sicuramente meno noto rispetto ai più grandi successi di Dürrenmatt (uno su tutti il celebre “Il Giudice e il suo boia”), Tuttavia anche se più contorto, grottesco e, a tratti, caotico nell’esposizione rispetto ad altre sue opere, ha l’indubbio pregio di cavalcare uno dei temi cardine che più stanno a cuore all’autore e drammaturgo svizzero: quello della “Giustizia”, che appunto fornisce il titolo al romanzo. Nella visione di Dürrenmatt si tratta di un concetto assolutamente soggettivo, ci si chiede infatti:
“A che serve la giustizia? Alla nostra società? Solo uno scandalo in più, solo materia di conversazione”.
Al tempo stesso la giustizia “si regola a seconda delle classi sociali di cui deve giudicare”.
Elementi che emergono nella loro comica tragicità (alla maniera di Dürrenmatt) nello sviluppo di una storia raccontata come sorta di confessione a posteriori dal protagonista di nome Spät. Avvocato penalista che accetta per pura venalità l’incarico di difendere un consigliere cantonale svizzero accusato di omicidio e già condannato in primo grado, per poi scoprire troppo tardi, pentendosene fortemente, di essere solo un ingranaggio utile al disegno criminale del potente accusato che ovviamente punta all’assoluzione sfruttando cavilli legislativi del sistema giudiziario elvetico.
In una Svizzera nella quale i poteri economici e politici si stagliano in primo piano, dove la corruzione e gli intrallazzi sono all’ordine del giorno, si evidenzia che la polizia e gli organi giudiziari soccombono al cospetto di forze più grandi.
Dürrenmatt costruisce un intreccio in cui l’amara conclusione è che “la giustizia può compiersi soltanto tra coloro che sono ugualmente colpevoli” perché non solo un accusato che riesce a sfangarla rimane tale quando è palesemente reo, ma anche un avvocato che contribuisce alla sua assoluzione nascondendosi dietro alla maschera dell’esercizio della professione non è certamente da meno. La galleria dei personaggi che compaiono come attori sul palcoscenico man mano che la narrazione procede sono caricature assolutamente realistiche che abbracciano tutti gli strati sociali possibili: prostitute, nani, controfigure, politici, avvocati, comandanti della polizia etc. A dimostrazione del fatto che l’intento dello scrittore svizzero è quello di tratteggiare un sottomondo che coinvolge ampie sfere dell’establishment in cui nessun soggetto è realmente innocente, nemmeno le vittime stesse (come si scoprirà proprio alla fine del romanzo).
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La Strigossa
"Fu proprio allora che la bambina si guadagnó il nome di Fumana, che poi nella bassa vuol dire appunto nebbia".
Nell’ultimo libro di Paolo Malaguti la storia di Fumana nata “vestita”, e quindi secondo le credenze popolari dotata di un talento non comune che si manifesta nella capacità di “sapere segnare” certe malattie, si riesce a comprendere a pieno solamente legandola al territorio in cui vive. La provincia di Rovigo ed il basso Veneto, quella terra di confine “dove non sai dire con certezza cosa è terra, cosa mare e cosa fiume perché tutto è impastato e confuso”, abitata da agricoltori e pescatori di anguille che frequentano “Il Canal Bianco” e le golene. Un territorio immobile in cui “le nebbie levano ogni prospettiva, che non sai più dove vai”, nel quale lo spazio si mescola con il tempo e la storia di Provincia si trasforma progressivamente nella storia d’Italia di fine ‘800 e metà ‘900, quando le vicende nazionali come l'avvento del fascismo prima e la Seconda Guerra Mondiale dopo, permeano e condizionano le vicende personali. In questo humus si colloca la storia di formazione di Fumana, allevata dal nonno Petrolio, pescatore di anguille, poi cresciuta dalla Lena, la “Strigossa” della zona che la inizia ai segreti delle erbe e della Natura con l’intento di curare la gente. Fumana a sua volta ne prenderà il posto, ma sta proprio in questa dimensione che Malaguti riesce a mostrare ai nostri occhi di lettori del XXI° secolo, l’arretratezza di un mondo contadino in fin dei conti non così lontano, nel quale essere guaritrice, diventare una "Striga" significa anche essere considerata un’emarginata, una diversa, una donna temuta ed odiata al tempo stesso, ad esempio dalla suocera che non le perdonerà mai di avere addescato e sedotto il proprio figlio.
Partendo da questi elementi il romanzo acquisisce un valore aggiunto perché si manifesta come una storia di ribellione, di emancipazione femminile. Fumana non teme le etichette affibiatele, ed orgogliosamente si costruisce il proprio futuro, decide di dare speranza ad una bambina rimasta orfana, soffre ed a denti stretti continua a progredire in quanto comprende “di essere in grado di fare del bene, e di avere quindi un senso, un ruolo preciso in quella fetta di mondo nella quale era nata”. Il tutto viene altresì raccontato avvalendosi di uno stile ibrido, in quanto il Malaguti veneto riesce ad alternare il registro della lingua italiana agli idiomi dialettali e popolari, con l'effetto di rendere la narrazione più realistica e piacevole.
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L'ottimismo è l'oppio dei popoli!
“L’ottimismo è l’oppio dei popoli!”, con queste parole scritte su un bigliettino appunto per scherzo, Ludvik, il protagonista del romanzo vedrà la sua vita completamente devastata, trasformata: subirà un giudizio pubblico da parte di un Comitato del partito comunista (“Pensi che si possa edificare il socialismo senza l’ottimismo?...Sarei curioso di sapere cosa direbbero i nostri lavoratori e i nostri operai modello...se venissero a sapere che il loro ottimismo è oppio”), quindi l’espulsione dall’università e dal partito stesso. Emarginato ed obbligato ad un servizio di leva prolungato coverà dentro di sé il germe della vendetta nei confronti di quell’ex amico colpevole di avere contribuito alla sua rovina.
Questa in sintesi è la sinossi dello Scherzo, uno dei primi libri di Kundera, dal contenuto fortemente politico, nel quale la denuncia nei confronti del Partito Comunista è forte, dove la dimensione pubblica che penetra nel privato delle persone, riesce a trasformarle da dentro a condizionarle. Kundera costruisce una storia stratificata a più voci, in cui diversi personaggi si alternano con monologhi che si perdono nei ricordi della giovinezza, nei quali le storie private di amori vissuti e non vissuti vanno a braccetto con la politica in una Cecoslovacchia prima esaltata dalla vittoria del socialismo nell’immediato dopoguerra e quindi rassegnata ad una realtà fatta di aspettative che non trovano realizzazione. Ludvik, Helena, Jaroslav, sono le principali voci narranti, ognuno a modo suo in cerca di un riscatto che non arriverà, ognuno attaccato ad un passato che non esiste più nei confronti del quale la nostalgia è molto intensa, ma che sopravvive come realtà di facciata in quelle manifestazioni folkloristiche che trovano giustificazione in un mondo oramai dimenticato (“ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio”).
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Kundera come sempre narra magnificamente, racconta e filosofeggia, ci fa riflettere su quanto l’ideologia ed il fanatismo politico possano condizionare la vita delle persone. Ci ricorda che alla fine il tempo passa ed il desiderio di vendetta, che sembra essere l’unica vera ragione di legame col passato, si affievolisca e diventi inconsistente a distanza di anni (“Rinviata, la vendetta, si trasforma in qualcosa di ingannevole, in una religione personale”). I personaggi kunderiani hanno la caratteristica di essere estremamente reali e convincenti, sono visti nelle loro debolezze e fragilità. Tra questi talvolta alcuni si stagliano però come simboli di purezza e di candore, come nel caso di Lucie, legata alla gioventù di Ludvik ed avvolta da un passato misterioso e doloroso che progressivamente si svela e riesce a portare un senso di pace e serenità nella vita del protagonista.
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Quando l'amore sconfina nell'ossessione
“Quando avevo diciassette anni e obbedivo soltanto ai perentori comandi del cuore, ho abbandonato il sentiero della vita normale e nell’arco di un attimo ho distrutto tutto ciò che amavo”.
Spencer non va tanto per il sottile e mette in bocca al protagonista-narratore queste parole in un incipit dal forte contenuto drammatico che indirizza immediatamente il lettore, preparandolo ad una storia cruda che non sembra riservare un lieto fine. Eppure nonostante queste note non liete che immediatamente portano allo svelamento di un evento terribilmente tragico (il giovane protagonista David che pazzo d’amore a causa dell’allontanamento che ha dovuto subire dalla sua amata Jade da parte del padre di lei, darà fuoco alla casa dove la famiglia abita), la narrazione viene edulcorata dal tema portante dell’amore. Di quell’amore senza fine che non solo fornisce il titolo al libro ma che in qualche modo si pone come tema centrale nella visione di Spencer in quanto, come raccontato dallo stesso David:
”Se l'amore senza fine era davvero un sogno, era un sogno comune a tutti, ancor più comune del sogno dell'immortalità o di viaggiare nel tempo, e a pormi su un altro piano non erano i miei impulsi ma la caparbietà, l'intenzione di spingere il sogno oltre i limiti della ragionevolezza e affermare che quel sogno non era l'inganno di una mente in delirio ma una realtà tangibile almeno quanto quell'altra illusione, più esile e infelice, che chiamiamo vita normale”.
Dunque è proprio l’amore passionale, quello vissuto da David e Jade e che coinvolge mente e corpo fino a diventare un’ossessione, a rappresentare la chiave di lettura di un romanzo scritto nel 1979 ma che tuttora, anche grazie ad un forte tam-tam social, continua ad appassionare generazioni di lettori che in qualche modo si identificano in certe dinamiche. David non risulta un personaggio positivo, lungo l'arco della narrazione le nefandezze e i comportamenti esibiti suscitano forse più condanna che giustificazione. In ogni caso, a lettura ultimata, prevale un sentimento di tristezza e compassione che si ricollega inevitabilmente a quelle emozioni provate e condivise con Jade, che trovano una sublimazione nelle pagine finali, quando finalmente si scopre chi è il vero destinatario della lunga confessione di un David ormai maturo, passato da anni vissuti all’interno di una struttura psichiatrica per guarire dal suo “mal d’amore”.
Non è solo la storia di per sé ad appassionare, in quanto l’elegante e coinvolgente prosa di Spencer allarga la visione contestualizzando il racconto in un’America nella quale vizi e costumi degli anni Sessanta del secolo scorso ci portano direttamente al periodo dell’amore libero, del consumo di droghe e di LSD, che in qualche modo forniscono un valore aggiunto all’intero impianto narrativo
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Tra labirinti, ricerca dell'infinito e divinità
Borges non è mai e mai sarà un autore di facile fruizione, eppure il mistero e l’erudizione che traspare dai suoi libri rappresentano un richiamo irresistibile per un lettore curioso o semplicemente attratto dalle tematiche espresse. In questi racconti vengono riproposti alcuni di quei temi già riscontrati in “Finzioni” ed alcuni sicuramente spiccano più di altri per la loro particolarità. A partire dall’”Aleph “che dà per l’appunto il titolo alla raccolta e rappresenta “il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. Prima lettera dell’alfabeto ebraico, che nella tradizione cabalistica designa la divinità, nell’aleph è lo stesso Borges il protagonista che cerca il contatto con l’Assoluto. Il tema viene riproposto anche in un altro racconto, “Zahir”, termine di derivazione araba che richiama un pensiero fisso, un’ossessione e che al tempo stesso indica uno dei novantanove nomi di Dio.
Se la ricerca della trascendenza è parte della poetica di Borges, altro tassello imprescindibile è il tema del labirinto che torna più volte nella narrazione, a partire dal racconto “L’immortale”, dove accanto alla dimensione del ricordo dimenticato e della perdita di identità si tratteggia il concetto di caos, la ricerca di un percorso, di un ordine che in realtà non esiste perché il labirinto è innanzitutto parte della natura stesa e può condurre all’angoscia come avviene anche ne “I due re e i due labirinti”. Borges gioca con i contenuti, la realtà che definisce è caleidoscopica, si autoriproduce in sogni onirici che sono figli di altri sogni come precisa nel racconto “La scrittura del Dio” (“Questo sogno è dentro a un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia”). Eppure, al tempo stesso, non perde di vista la tragica realtà come si può ben vedere in “Deutsches Requiem” nel quale le tragiche conseguenze del nazismo su un’Europa contaminata dai veleni della guerra risultano evidenti dalla confessione del fedele funzionario del Reich condannato.
Cosa rimane dunque a lettura ultimata? Un senso di mistero, di messaggio criptico, di contenuti eccezionali non completamente decifrati...oltre ad un desiderio di tornare tra queste terre e riprovarci nuovamente.
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L'inutilità dei pregiudizi
“Avrei voluto non avere visto dell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani: lente, intimidite e goffe...Mi sarebbero bastati quei movimenti...per capire che non si sarebbe curato, che non aveva nessuna idea da cui trarre la volontà di curarsi”.
Da queste descrizioni secche, incisive e lapidarie che si trovano a pagina 1 e 2 di questo breve romanzo, Onetti ci fa intuire quello che sarà il finale di una storia probabilmente non a lieto fine. Siamo in Sudamerica, il protagonista è un ex giocatore di basket ammalato di tubercolosi che si reca in una località di villeggiatura dove è presente un sanatorio con l’intenzione di farsi curare. Ma quello che preme a Onetti non è tanto “il cosa” raccontare bensì “il come”, e lo fa avvalendosi di un espediente nel quale il narratore in terza persona è il proprietario dell’emporio cittadino, crocevia di turisti ed abitanti del luogo in cui è inevitabile mettere piede. Il racconto diventa così un meccanismo stratificato a più voci di tanti testimoni (dall’infermiere, alla cameriera dell’hotel dove l’uomo ha scelto di dimorare, all'agente immobiliare etc) che osservano e riferiscono al narratore le proprie impressioni sul protagonista.
Prende progressivamente forma una storia in cui accanto al malato, uomo schivo e solitario “...con il suo vestito grigio di città, il cappello calato sulla nuca” si affiancano due donne, l’una matura con figlio a carico e l’altra giovane, come se si trattasse di una contesa, di una scelta finale a carico del protagonista. Da questi scorci, dal voyeurismo dei tanti curiosi, dalle insinuazioni e dai pregiudizi della gente, ecco che si definisce un puzzle frammentato nel quale è il narratore a tirare le fila. Fino alla conclusione che nel richiamare il titolo del romanzo sembra voler ricordare, in primis ai lettori, quanto sia facile, oltre che dannoso e crudele, ricostruire le vite altrui dalla semplice osservazione dei fatti, da un'etichettatura talvolta avvelenata che in conclusione si rivela fallace.
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Quando la Storia si mescola con la vita
In quest’ultima fatica letteraria di McEwan si ritrovano molti di quegli elementi che contraddistinguono il noto autore inglese. Innanzitutto lo stile e la prosa assolutamente eleganti ma anche la centralità e la vocazione individuale alla scrittura, già vista in “Espiazione”. Lezioni infatti è anche un atto d’amore verso questa arte, considerando che Alissa, la moglie del protagonista, Roland ad un certo punto del romanzo decide di abbandonare la famiglia (marito e bimbo da poco nato) proprio per seguire questa sua vocazione personale, diventando una scrittrice di fama internazionale, di grandissimo successo editoriale ed osannata dal pubblico. Tra gli spunti su cui riflettere contenuti nell’opera ci sta proprio anche questo aspetto: se può ritenersi giustificabile un comportamento del genere quando il risultato è quello di lasciare ai posteri contenuti letterari dal valore universale (per la risposta si rimanda alla lettura del libro).
Lezioni però è anche molto altro: un romanzo fortemente autobiografico, perché il passato di Roland assomiglia alla vita dell’autore (l’infanzia vissuta all’estero per seguire la carriera militare del padre, gli studi compiuti lontano da casa, fino alla scoperta di avere un fratello sconosciuto). Una storia di vita raccontata anche avvalendosi di flash back, dall’infanzia fino all’anzianità di Roland, con sullo sfondo gli eventi più importanti della storia del XX° e XXI° secolo come ad es il secondo Conflitto Mondiale, il Nazismo in Germania e il movimento della “Rosa bianca” che cerca di contrastarne l’ascesa, la caduta del muro di Berlino, il governo Thatcher nel Regno Unito, la centralità delle tematiche ambientali ed anche il lockdown causa Covid. Con la percezione che gli avvenimenti storici e gli stati d’animo dell’opinione pubblica mondiale sembrano in qualche modo accompagnare i dubbi, i momenti di estasi ed i tormenti del protagonista, che sembra capire troppo tardi qual è il segreto dell’esistenza (“Ecco come ci si può mettere con successo alla guida della propria vita, pensò Roland. Facendo una scelta, imparando ad agire! Era questa la lezione. Peccato non avere conosciuto il trucco molto tempo prima").
La vita di Roland è condizionata innanzitutto dalla crisi globale dei missili di Cuba che sembra irrimediabilmente condurre l’umanità verso il baratro. Ed è da queste premesse che Roland adolescente inquieto farà quel passo che condizionerà la sua esistenza futura: affidarsi a Miss Cornell, la sua insegnante di pianoforte che lo svezzerà si all’età adulta svelandogli i piaceri più viscerali, ma che al tempo stesso abuserà del suo ruolo dominante assoggettandolo al suo volere (“I loro ruoli, maestra, allievo, le gerarchie e la prosopopea della scuola...era tutto soltanto un diversivo che doveva tenere la gente lontana da questo”). Lungo l’intero corso della storia sono le figure di Miss Cornell, e di altre due donne, rispettivamente la madre (succube del marito) e la moglie Alissa (che non esita ad abbandonarlo dopo il matrimonio per seguire la sua volontà di diventare scrittrice) a condizionarne le scelte, obnubilando in qualche modo la sua volontà e facendo emergere un’indolenza esistenziale a scapito di un talento (musicale in primis) che così risulta inespresso.
Nelle circa 600 pagine del romanzo (forse unico vero neo in quanto a tratti Mcewan dà l’impressione di tergiversare eccessivamente allungando un po’ il brodo della narrazione) l’autore riesce così a coniugare un racconto che mischia sapientemente gli avvenimenti della storia (con la “S” maiuscola) a quelli individuali, tratteggiando una vita in cui è possibile ritrovare quelle indecisioni, quei dubbi e rimpianti che forse accomunano le esistenze di molti.
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Il lato oscuro del consumismo
Un vero classico contemporaneo questo libro che può assolutamente definirsi un “evergreen” che non ha perso smalto dal 1962 (anno di pubblicazione) ad oggi. Nella storia fortemente autobiografica del protagonista, emigrato a Milano negli anni del boom economico per spirito di vendetta con l’intento di provocare un’esplosione nel “Torracchione” (un grattacielo pieno di uffici direzionali) e vendicare così le morti sul lavoro di numerosi minatori suoi compaesani, si evidenzia un messaggio ancora molto attuale. A tutt’oggi infatti le morti sul lavoro continuano a esistere, così come le mille difficoltà a trovare un lavoro e sbarcare il lunario per coprire tutte le spese ed arrivare a fine mese.
La vicenda raccontata da Bianciardi a tratti assume i contorni di un saggio sociologico nel quale l’autore non esita a illustrare il suo pensiero (“...questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre...Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano”). L’Italia del dopoguerra è un Paese nel quale la logica consumistica, il bisogno di spendere denaro per possedere sempre più oggetti è pompato al parossismo. L’obiettivo è la crescita continua della produzione, del reddito, dell’occupazione, con l’intento di creare un meccanismo apparentemente virtuoso che in realtà non fa che accrescere il potere delle classi dirigenti, delle autorità, provocando altresì l’alienazione delle masse, l’incomunicabilità degli individui, per ultima la noia. Lo stesso protagonista non risulta immune dal perverso meccanismo in quanto travolto dal fascino delle mille luci della città. Milano ed in particolare il quartiere di Brera dove vive, garantiscono un facile divertimento, molteplici occasioni di incontro, tanto che sembra inevitabile arrivare a tradire non solo la moglie rimasta col figlio nella provincia toscana, bensì il proprio vissuto, le proprie origini.
Sta proprio in questa aspetto il messaggio salvifico rilanciato dal protagonista che si rende conto del proprio fallimento, oramai ruota di un ingranaggio dal quale non riesce a staccarsi, perennemente alla ricerca di quel denaro necessario per vivere e da mandare a casa, dalla moglie. L’unica possibilità di redenzione da questa “Vita agra” passa dalla scelta consapevole della gente che deve imparare a “non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi rinunziare a quelli che ha”. Solo così si potrebbe tornare ad uno stato di natura primigenio, con una riscoperta della sessualità “dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole” che farebbe così cessare qualsiasi altro bisogno consumistico.
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Non hai mai avuto voglia di cambiare pelle, tu?
Il protagonista che dà il titolo a questo romanzo tipicamente Simenoniano è un medico di provincia, sposato con figli, che suo malgrado, con la complicità di un altro collega proprietario di una clinica privata, si ritroverà coinvolto (colpevolmente) nella morte di una donna partoriente e del neo nascituro. Da questo presupposto si snoderà tutta la vicenda: il desiderio di vendetta del marito vedovo che troverà sfogo in un’incessante comportamento da stolker accompagnato dall'inquietante promessa di vendicarsi uccidendo il povero dottore.
Ma quella che potrebbe sembrare una storia dall'esito prevedibile si trasforma in una narrazione densa di contenuti, come se si trattasse di un “romanzo on the road”. Il dottore protagonista infatti, spostandosi dalla provincia francese apparentemente per sfuggire alla vendetta del marito, non farà altro invece che fuggire da se stesso, dalle sue inquietudini borghesi e da una moglie che non sopporta più, ritrovando quello spirito giovanile che si accorge di non avere dimenticato e rappresentato dalla ricerca di facili piaceri, dal senso di libertà che lo porterà a prendere un treno e dirigersi verso la città di Anversa, in Belgio, semplicemente per voglia di farlo.
“Qual è il momento esatto in cui ci si accorge che un vestito è diventato troppo stretto?”
“Non hai mai avuto voglia di cambiare pelle, tu?”.
Attorno a queste due domande si snoda il cuore pulsante del romanzo in quanto il dottor Bergelon si interroga chiedendosi cosa sarebbe successo "Se non ci fosse stata quella notte, l'infame notte del parto...Avrebbe provato lo stesso lancinante bisogno di cambiamento?"
Simenon è un maestro nel tratteggiare traiettorie imprevedibili, che sfociano ad es. in un rapporto di complicità tra l’aguzzino (il marito vedovo in cerca di vendetta) e la vittima (il dottore) che si manifesta attraverso una serie di scambi epistolari, come se alla fine entrambi, a seguito di quel tragico evento avessero scoperto lati nascosti della loro personalità. Si evidenzia così il pressante bisogno di confessarsi reciprocamente, riconoscendo che le loro tranquille e precedenti vite erano solo il frutto di quel perbenismo tipicamente borghese di facciata, mentre covava in loro l’ardente desiderio di cambiare pelle disegnando nuove esistenze.
Il dottor Bergelon è l'ennesima prova dell'abilitá dell’autore belga nell'analisi introspettiva dei suoi personaggi, scavandone nell’io più profondo. Forse rispetto ad altre storie qui lo stile è meno incisivo, manca forse di una certa organicità espositiva, ma l'intensità della narrazione rende questo romanzo un autentico gioiellino.
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Il ritorno di Monterossi
Carlo Monterossi, autore e creatore della trasmissione tv spazzatura “Crazy Love” presentata da Flora de Pisis, programma di punta della “Grande Fabbrica televisiva della m…”, è nuovamente tornato! In quest’ultimo romanzo di A. Robecchi, Monterossi si trova coinvolto, come di consueto, da una parte nel caso mediatico del momento avente a che fare con presunti miracoli, crocefissi che si illuminano e la predicazione di un ex prete diventato santone, e dall’altra invece in un’indagine privata che coinvolge i compagni-amici di sempre, Oscar falcone e Agatina Cirrielli.
Le storie di Robecchi sono una sicurezza, perché in ogni romanzo si ritrovano quegli elementi conosciuti dai lettori affezionati, a partire dalla “solita” Milano che vive di contrasti, di luci e di ombre, di ambienti lussuosi che si mescolano con quelli popolari. Poi ovviamente c’è Monterossi, ci sono le sue crisi di coscienza, i sensi di colpa che lo attraversano per “la creatura televisiva” ideata, per lo share altissimo frutto della tv spazzatura rappresentata, ma che al tempo stesso sono le ragioni della sua fortuna e del suo benessere. Nonché i contrasti tra la vita agiata che conduce “al sicuro, al caldo, protetto e tranquillo” e la vita invece vissuta da quei “Pesci piccoli” che danno il titolo a questo romanzo, “gente che pena, che striscia...che si guarda alle spalle, che può finire in ginocchio ad ogni momento e non rialzarsi mai più”. Spesso si tratta di piccoli delinquenti sprovveduti che fanno più male a loro stessi che agli altri, ma in tanti altri casi invece si tratta di brava gente che fatica a sbarcare il lunario. Lo spunto narrativo di Robecchi nasce da questi estremi ed ha il pregio di raccontare una storia noir assolutamente attuale, nella quale si fondano truffe, tentativi di estorsione, presunti ricattati che diventano ricattatori, ma anche quei pesci piccoli che all’improvviso, per eventi fortuiti e casuali, possono sfruttare a loro vantaggio questa situazione per emergere dall’abisso in cui si ritrovano.
Il tutto condito poi da un sano romanticismo, perché tutto sommato l’alternanza tra il rosa ed il noir non stona nelle avventure del Monterossi, così come non stona il sottofondo della colonna sonora, come sempre rappresentata dalle canzoni di Bob Dylan.
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Un tuffo nella Los Angeles anni '80
Ritorno in grande stile quello di B. Ellis alla letteratura a distanza di parecchi anni, con un romanzo che conduce il lettore nella Los Angeles anni ‘80 della sua adolescenza. La metropoli californiana a modo suo diventa protagonista di una storia in cui l’autore fonde sapientemente l’elemento fiction con alcuni frammenti autobiografici del suo passato, primo fra tutti la scelta di chiamare il protagonista-narratore con il suo stesso nome, Bret, attribuendogli altresì la peculiarità di volere diventare uno scrittore.
Ecco che si viene trasportati nella vita di una serie di ragazzi appartenenti all’elite cittadina, frequentatori di una prestigiosa scuola privata, la Buckley. Ognuno dei quali dotato di auto di lusso, abituati ad organizzare ed a partecipare a sontuosi party alcolici a bordo piscina di ville altrettanto sontuose, abusando di droghe, di psico farmaci per stordirsi (e per superare l'orrore della quotidianità): “nonostante vivessimo nella teoricamente glamour Los Angeles quelli erano i sobborghi, pieni di quartieri tranquilli e alberati, di ragazzini che correvano sulle loro biciclette lungo strade deserte, di feste in piscina e grigliate all’aperto”.
Tuttavia pur essendo la L.A. dei quartieri esclusivi di Beverly Hills e Bel Air, adagiati sulle colline di Hollywood, la realtà descritta dal Bret (autore) in cui il Bret (protagonista) si muove è una zona grigia in cui oltre l’apparente facciata di spensieratezza e l’ottimismo sfrenato accompagnato dal sottofondo delle hit musicali del periodo, si nasconde una crisi esistenziale, spesso alimentata da famiglie poco presenti. Bret deve fare i conti con un momento di passaggio dall’età adolescenziale a quella matura, scoprendo la propria identità sessuale ed avendo la percezione che, per timore e per non esporsi, è preferibile nascondere la propria omosessualità e l’attrazione verso i compagni di scuola impegnandosi piuttosto in una (simulata) relazione con una delle ragazze più attraenti che conosca.
In questi dettagli e nel reticolo di relazioni amicali e amorose in cui Bret ed i suoi migliori amici si ritrovano, Ellis introduce improvvisamente gli elementi “di disturbo”, di contaminazione che ben lo contraddistinguono, visti anche nella sua opera più nota “American psyco”: l’arrivo di un nuovo affascinante compagno di scuola che sembra nascondere un passato misterioso con manifesti sintomi di disagio ed un serial killer chiamato “Il Pescatore a strascico”, che compie omicidi efferati e che in qualche modo sembra avere un collegamento proprio con il nuovo arrivato.
Come affermato dallo stesso autore, “Le schegge” è un romanzo nostalgico di un periodo storico caro a Ellis, probabilmente anche ridondante ed eccessivamente lungo, scritto però con l’intendo di sottolineare uno spaccato di società che ha fatto dell’apparenza e dell’opulenza un marchio di fabbrica ("Le nostre chance sembravano buone: eravamo giovani e vivi e forti e niente poteva farci del male, e nulla riusciva a offuscare questa percezione, questa favola riguardo al nostro posto nel mondo, e ci rifiutavamo di prendere in considerazione qualunque idea di un destino orribile o una morte atroce che avrebbero potuto strapparci dal tempio dorato dell'adolescenza in cui risiedevamo"). Una società nella quale l’abuso sfrenato di alcol, droghe e la conseguente disinibizione, nascondono un disagio evidente.
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Un romanzo al femminile
Primo capitolo della trilogia di “Bois Sauvage”, quest’opera di J. Ward (insignita meritatamente del prestigioso National Book Award per ben due volte) raggiunge picchi di elevata intensità narrativa. In particolare, per quanto possa risultare intuitivo, innanzitutto con la descrizione di Katrina, il temibile uragano che devastó la costa meridionale degli Stati Uniti lungo il golfo del Messico, colpendo Louisiana e Mississippi con il suo carico di distruzione (“Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte...Ci ha lasciato un mare buio ed una terra bruciata dal sole”) . Ma forse ancora di più tenuto conto dell’importanza che assumono all’interno del romanzo, per i legami che intercorrono tra i membri della famiglia Batiste protagonista della storia, come se tendessero a farsi reciprocamente scudo rispetto alle difficoltà provenienti dal mondo esterno, in primis lo stesso uragano. E tra tutti i legami che emergono si staglia prepotentemente quello tra skeetah, uno dei fratelli Batiste per l’appunto, ed il suo cane China, pitbull da combattimento, che diventa emblema di una purezza che va oltre ogni forma di violenza e prevaricazione, più forte ancora di Katrina.
“Salvare le ossa” è una storia viscerale, cruda, al tempo stesso dal forte sapore familiare e decisamente contraddistinta dall’impronta femminile.
A partire da Esch la protagonista e voce narrante, unica donna della famiglia Batiste assieme ad altri tre fratelli ed al padre, che trova consolazione nel nostalgico ricordo della madre morta (“chissà se papà sentirà le dita che gli mancano come noi sentiamo mamma, che è sempre presente anche se non c’è più”). Esch svolge il ruolo di trait d’union con i fratelli e il padre e porta dentro di sé il fardello di una gravidanza segreta quanto inattesa, espressione di una profonda solitudine che trova sfogo nella passione (non altrettanto ricambiata) verso Manny, amico del fratello maggiore. L’autrice inoltre riesce a dare un’ampia caratterizzazione alla figura di Esch grazie all’azzeccato parallelismo con la tragedia greca ed al mito di Medea e Giasone. Esch infatti appassionata di letteratura, rivede nella sua condizione la figura di Medea prova quella solidarietà nei suoi confronti figlia del medesimo dolore per un amore non ricambiato, riuscendo a capirne la rabbia ed il desiderio di vendetta.
Quindi China, il pitbull da combattimento, che assolve ad un’importante funzione di riscatto sociale, fresca di parto ma estremamente feroce con tutti (compresi i cuccioli in allattamento) ad eccezione di colui che riconosce come suo unico padrone al quale obbedisce ciecamente. Ed infine l'uragano Katrina ("È una donna, sono i peggiori"), devastante evento naturale che si abbatte inesorabile sulla regione seminando distruzione.
La Ward costruisce un meccanismo narrativo nel quale il lettore inevitabilmente si sente partecipe con la famiglia Batiste, gioendo e preoccupandosi a seconda dei momenti, respirando le atmosfere del profondo Sud degli Stati Uniti, ed in particolare dello Stato del Mississippi dove è ambientata l’intera vicenda.
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Il fantasma bianco
Osborne ha abituato i lettori a storie totalmente immersive nel mondo dell’estremo Oriente che così ben conosce. Questa volta è stato il turno di Hong Kong, l’ex territorio britannico passato alla Cina, che continua a esercitare un fascino esotico ed allo stesso tempo nostalgico del passato coloniale. L’Hong Kong descritta da Osborne però è quella più recente in cui l’imperialismo cinese, la rigida politica restrittiva di Pechino, ha preso oramai il sopravvento in cui “La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte” ha lasciato il posto ad “un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni”. L’autore attraverso il protagonista Adrian Gyle, giornalista, inglese trapiantato nella metropoli, racconta un mondo nel quale il capitalismo cinese contrassegnato dallo skyline e dai ristoranti di lusso, si fonde con i panorami mozzafiato a picco sul mare, con i profumi della foresta pluviale. Quest’ambientazione fa da sfondo ad un tessuto sociale dinamico e turbolento in cui le giovani generazioni senza futuro protestano, tentano di ribellarsi, si scontrano quotidianamente con la polizia cinese, la faccia dura del regime che si pone l’obiettivo di eliminare progressivamente le libertà precedenti ed instaurare un clima rigido di controllo basato sulla censura. Le fratture sociali si espandono in quanto diventa evidente la dicotomia tra coloro che provano ad alzare la voce e le ricche famiglie locali che invece preferiscono dichiarare la fedeltà incondizionata a Pecchino in cambio di agio, benessere, accontentandosi di quei lussi figli di una cultura occidentale ancora impressa nel tessuto urbano.
Su questi presupposti Osborne costruisce una storia che si svela molto lentamente, stancamente, in cui due vecchi amici conosciutisi al college, il protagonista Adrian per l’appunto e Jimmy Tang ricco ereditiere cinese figlio di quella società opulenta che fa finta di non vedere le nefandezze cinesi, si trovano ad un certo punto su due terreni opposti. Adrian dovrà così risolvere un proprio dilemma personale: se fare prevalere il suo dovere di cronista portando all’evidenza pubblica un caso di presunto omicidio di una ragazza che rappresenta la giovane generazione ribelle -causato dalla polizia con la connivenza di Jimmy- oppure se in nome della vecchia amicizia chiudere un occhio sulla vicenda. Adrian progressivamente appare sempre più come un elemento evanescente, estraneo nella nuova società, tendendo così a rappresentare quanto oramai della vecchia Hong Kong occidentale rimanga ben poco. Tanto che il termine coniato appositamente per quelli come lui nell’idioma cantonese, “Gwai lo”, fantasma bianco, risulta essere assolutamente calzante.
Java Road, titolo che deriva da una delle principali arterie commerciali di Hong Kong, forse non è il miglior libro di Osborne anche se rappresenta indubbiamente una lettura di spessore grazie alle sapienti pennellate autoriali dalle quali emerge quell’atmosfera “inacidita dall’odio, l’urlo delle sirene che si moltiplicano in lontananza...le sirene che echeggiavano senza sosta, come lacerando un tremendo vuoto, e tutt’intorno nell’etere si increspava un’elettricità: il gregge era spaventato, i lupi erano in arrivo”.
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La (poco) Divina Commedia del Polacco
Si potrebbe sintetizzare l’ultimo romanzo di Coetzee, scrittore sudafricano Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, come breve ma molto intenso. In poco più di 100 pagine infatti Coetzee riesce a realizzare un libro dal profondo contenuto, in cui traspare l’importanza che assume l’amore nella vita delle persone. Evidenziando quanto lo stesso amore vissuto univocamente da un uomo (“Cara Signora -dice il Polacco- , non sono un poeta. L'unica cosa che posso dire è che da quando ti ho incontrata la mia memoria è piena di te, dell'immagine di te”), seppur non ricambiato, possa spingere gli individui a mostrare le proprie debolezze senza paura di mettersi a nudo, anche a rischio di essere compatiti dal destinatario della propria passione.
L’uomo in questione è appunto Witold, “Il Polacco” del titolo, celebre pianista dal nome impronunciabile e grande interprete di Chopin che a seguito di una performance in una sala concerto di Barcellona incontra Beatriz, affascinante donna del Comitato organizzatore dell’evento, di cui si innamora perdutamente senza però trovare lo stesso sentimento nella controparte. Partendo da questo presupposto Coetzee tratteggia la figura del Polacco, talentuoso pianista si, ma al tempo stesso non dotato di quella “sensibilità” musicale che invece dovrebbe rappresentare un must per chi interpreta Chopin. Tuttavia visto che il concetto di arte è insito nel personaggio, Witold veste i panni di un novello Dante dei nostri tempi, dedicando appassionate poesie alla sua "musa" con il dichiarato intento di riuscire a scalfire l'anima di Beatriz andando oltre ai brevi momenti di passione vissuti.
Poesia e musica risultano così intrecciate ed in questo accostamento, nel goffo tentativo di emulare "Il Sommo Poeta" da parte del Polacco, si svela la grandezza di questo breve romanzo in cui la sublime arte della poesia, vista come strumento per raggiungere il cuore della sua Beatrice con l’intento di “corteggiarla, perché lei lo ami e lo mantenga vivo nel suo cuore”, ha un risvolto ironico con effetti tutt’altro che producenti. Perché Beatriz riconosce la grandezza del gesto, conscia che il significato ultimo di questa "Commedia" scritta per lei con il fine di renderla immortale, ha in realtà veramente poco di "Divina" ed anzi risulta piuttosto comica.
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Romanzo di formazione contemporaneo
Un romanzo che merita indubbiamente di rientrare nell’olimpo della letteratura americana contemporanea, “Canada” di R. Ford. Una storia in cui si capisce subito, fin dalle prime righe dell’incipit, che all’autore non interessa tanto raccontare degli avvenimenti di per sé (“Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi. La rapina è la parte piu importante, perché fece prendere alla mia vita e a quella di mia sorella le strade che da ultimo avrebbero seguito”), bensì narrare un percorso di crescita, un “romanzo di formazione” direttamente attraverso le parole di Dell Parsons, il protagonista.
Della dolorosa storia di questa famiglia del Montana e delle conseguenze che ebbe sui figli Dell e Berner la scellerata scelta dei genitori di architettare una rapina ad una banca come forma di riscatto sociale, a Ford preme sottolineare, attraverso le parole del poeta irlandese W. Yeats, che “Non può esistere alcunché di unico ed intero che non sia stato strappato”. Lo stesso Dell, diventato adulto e narratore degli avvenimenti fornisce la chiave di interpretazione di questi versi: “le cose sono imperfette e tuttavia accettabili”. La comprensione di queste riflessioni per Dell e la sorella Berner passa dalla fuga, dalla ricerca di nuovi luoghi dove costruirsi un futuro che, in particolare per Dell, si materializza in una sperduta cittadina di provincia del Canada, famosa come luogo di ritrovo dei cacciatori per sparare alle oche. Ecco che improvvisamente il titolo del libro diventa subito chiaro: il Canada non tanto come luogo geografico bensì come luogo di formazione in cui il passaggio (di frontiera) con gli Stati Uniti assume i contorni di un doloroso passaggio dall'età adolescenziale verso l'età adulta. Qui in un posto sconosciuto che necessariamente diventa una nuova casa, con accanto persone sconosciute che diventano una nuova famiglia in sostituzione dei genitori finiti in carcere, Dell prosegue il suo percorso di crescita, la sua esperienza della vita, continuando ad apprendere che la fiducia è un concetto in continua evoluzione ed il prezzo da pagare rimane alto.
Un romanzo assolutamente consigliabile anche se, parere personale, la scrittura di Ford è piuttosto lenta, ripetitiva, nel ribadire i medesimi concetti in modi differenti, con la conseguenza che a tratti la lettura può diventare pesante impattando sulla capacità di concentrazione del lettore.
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Romanzo poetico a cavallo tra due epoche
“C’era una volta una casa, una casa antica, che si chiamava 'la casa della moschea'. Era una grande casa, con trentacinque stanze. Lì, per secoli, famiglie dello stesso sangue avevano vissuto al servizio della moschea”.
Con questo incipit fiabesco che ricorda un po’ i racconti mediorientali de “Le mille ed una notte”, ci si approccia a questo libro dello scrittore iraniano K. Abdolah, emigrato in Olanda ed esule dal suo paese per sfuggire alle persecuzioni del regime. La casa della moschea è una storia narrata con l’intento principale di testimoniare e fare arrivare al lettore una storia assolutamente realistica e credibile sull’Iran, in un momento storico fondamentale per la storia del Paese legato alla caduta della monarchia filo occidentale governata dallo Scià ed al successivo insediamento di un regime teocratico autoritario guidato dall’ayatollah Khomeini. Merito dell’autore è quello di seguire un percorso romanzesco molto delicato, tratteggiando un’atmosfera quasi magica in cui viene messa al centro della vicenda la figura del capofamiglia Aga Jan, ricco mercante di tappeti proprietario della casa (e della moschea che dà il titolo all’opera) in una città importante dell’Iran. Aga Jan è rappresentante di un Islam moderato in cui i valori della tradizione persiana sono vissuti nel pieno rispetto dell’altro. Accanto al protagonista sfilano tanti personaggi, a partire dalla moglie dello stesso, per poi proseguire con i vari Imam che guidano la moschea, altri parenti, senza dimenticare le due domestiche della casa. Il tocco sapiente di Abdolah permette di intrecciare un racconto in cui si parla di matrimonio, fede, vita quotidiana in un contesto nel quale, pur prevalendo le dinamiche tradizionali (basti pensare alle varie citazioni delle sure del Corano riportate in molti capitoli del libro), si percepisce il momento di “passaggio” rappresentato da quei frammenti di vita occidentale che cercano progressivamente di penetrare nel paese, come ad es. l’arrivo delle prime televisioni, l’apertura di un cinema.
Eppure ad un certo punto tutto questo meccanismo crolla, di fronte al successo della rivoluzione islamica, all’affermazione di una spirale di violenza finalizzata all’instaurazione della Sharia. Tutto questo meccanismo è sintetizzato dalle parole dell’illuminato e mite Aga Jan, che assiste senza potere ostacolare il traumatico capovolgimento, provando altresì sulla propria pelle la sofferenza di una perdita familiare a causa della dittatura (“È successa una rivoluzione, Faqri, questo non è solo un rovesciamento del potere politico, qui si è capovolto qualcosa nella testa della gente. Stanno per succedere cose che nessuno di noi avrebbe mai immaginato in una vita normale. La gente commetterá atrocità terribili. Guardati attorno, non vedi come sono tutti cambiati? Le persone sono quasi irriconoscibili. Non si capisce se si sono messi una maschera o l'hanno gettata").
Un libro da leggere per svariati motivi ed imparare a non temete l’Islam considerata la (tanta) poesia di cui è permeato: innanzitutto per lasciarsi trasportare dalle ambientazioni familiari quasi fiabesche in cui il lettore riesce a sentirsi un ospite all’interno della casa della moschea, quindi per vivere un’avventura come si trattasse di un viaggio turistico, infine per approfondire la questione politica e comprendere meglio come l’Iran di oggi sia la diretta conseguenza dei fatti narrati.
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Classico intramontabile
“Voglio fare la storia morale della mia generazione; ‘sentimentale’ sarebbe più appropriato”.
Con queste parole Flaubert esprime, in sintesi, il cuore pulsante del libro. Forse, rispetto a “Madame Bovary”, quest’opera dell’autore francese non suscita nel lettore lo stesso trasporto emotivo, eppure è innegabile constatarne la grandezza. L’occhio attento e preciso di Flaubert descrive spietatamente la generazione borghese cittadina e lo fa con una storia che in sostanza “non esiste”: rifiuta la costruzione romanzesca, punta tutto sulla quotidianità, sulla routine, sui piccoli episodi noiosi e apparentemente inutili dei suoi personaggi. Obiettivo è servirsi di uno stile, di una prosa perfetti per tratteggiare una trama in fin dei conti banale, nella quale amore, tradimento, denaro e ricerca del prestigio personale risaltino. Lo persegue servendosi di protagonisti umanamente discutibili, pronti a fare le scarpe al prossimo ed anche a tradire i valori dell’amore e dell’amicizia pur di raggiungere un’affermazione personale.
Frederic Moreau, nella sua estenuante e improduttiva ricerca di conquista della Sig.ra Arnoux, vive nella convinzione che l’amore gli spetti di diritto, giunge alla conclusione che “Gli altri si accaniscono per avere la ricchezza, la fama, il potere” mentre per lui l’unica ragione di vita è quella di divenire l’amante di Madame Arnoux. Eppure Frederic, nonostante risulti totalmente permeato dall’amore non è innocente, non risulta di certo un personaggio candido. Anche lui infatti si “sporca le mani”, non esita a tessere relazioni con altre donne, per poi tradirle, preso dalla frustrazione e dallo sconforto nel mancare il primo obiettivo. Ma ancora di più Flaubert non si accontenta di raccontare una “non storia” privata, allarga l’orizzonte e colloca il suo romanzo negli anni della Seconda Repubblica Francese (1848) analizzando con dovizia di dettagli gli scontri armati che portano alla caduta della monarchia ed all’instaurazione (temporanea) della Repubblica. Fonde la storia di Francia con le vicende personali dei protagonisti, piega la cronaca alle loro esigenze, dimostrando quanto la partecipazione politica possa così diventare strumento per cercare un’affermazione personale e quanto la ricca borghesia reazionaria non si faccia scrupoli a salire sul carro dei vincitori, sposando le idee della Repubblica pur di realizzare i propri interessi.
Classico intramontabile della letteratura francese da leggere almeno una volta nella vita anche se, a tratti, non sempre scorrevole, l'educazione sentimentale può tranquillamente considerarsi romanzo di formazione perché nella parabola di Moreau, nel continuo passaggio tra fatti pubblici e fatti privati, si giunge ad una catarsi ad una sorta di bilancio di vita ed al riconoscimento di quanto stava più a cuore a Flaubert: la denuncia di un mondo borghese artificioso che travolge inevitabilmente per poi lasciare sgomenti e privi di forze.
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Quando la neurologia è al servizio del paziente
Questa parola, “Risvegli”, porta sicuramente alla mente di ogni lettore il celebre film uscito ad inizio degli anni ‘90 nel quale recitavano due grandissimi attori: Robin Williams nei panni del medico neurologo e Robert de Niro che impersonava invece un malato all’interno di una struttura ospedaliera per malati di sindrome di Parkinson. In realtà il film trova la sua genesi ed ispirazione nel libro scritto ad inizio degli anni ‘70 da O. Sacks il celebre medico neurologo che racconta in questo saggio proprio la vita di un campione di 20 malati all’interno dell’ospedale “Mount Carmel”, sopravvissuti all’epidemia di encefalite letargica comparsa in Europa intorno agli anni ‘20 del XX° secolo (“Durante i dieci anni in cui imperversò, essa tolse o devastò la vita a quasi cinque milioni di persone, per poi scomparire, altrettanto misteriosamente e improvvisamente come era arrivata”). L’epidemia, causata da un virus sconosciuto (ricorda qualcosa?) colpiva pazienti che seppur rimanendo coscienti e consapevoli non potevano definirsi completamente svegli, erano “ontologicamente morti, o sospesi, o addormentati”. Da encefalite letargica era si possibile guarire ma a quel punto, dopo alcuni anni, potevano ricomparire nuove sintomatologie sotto forma di malattie neurologiche, riconducibili tutte a episodi di parkinsonismo, con conseguenti stati di catatonia, manifestazione di tic, rigidità o al contrario di frenesia eccessiva nella deambulazione.
Partendo da questa anamnesi, Sacks racconta la vita del proprio campione di pazienti e di come grazie ad una nuova cura scoperta alla fine degli anni ‘60, la “L-dopa” (sostanzialmente costituita da quella dopamina mancante ai malati di Parkinson), molti di loro sottoposti a trattamento sperimentale poterono letteralmente rinascere, risvegliarsi a nuova vita. Nelle pieghe del racconto dell’autore, che riesce a calibrare il linguaggio medico-scientifico con una chiarezza tale da essere compreso dal lettore medio, si delineano gli andamenti tipici della malattia e del trattamento sperimentale: la fase di “Risveglio”, seguita da quella definita di “Tribolazione”, nella quale si manifestano gli effetti collaterali all’uso della L-dopa, in taluni casi anche distorcenti e controproducenti rispetto allo stato patologico pre-sperimentazione, ed infine da quella di “Accomodamento” in cui la terapia opportunamente rivista nel dosaggio e nelle modalità di somministrazione, permette di garantire il raggiungimento di condizioni soddisfacenti di lucidità e vivibilità alla maggior parte dei pazienti (anche se non a tutti).
Valore aggiunto dell’analisi di Sacks sta innanzitutto nella consapevolezza dell’”assoluta insufficienza della medicina meccanicistica”, e della fede assoluta verso una scienza medica fondata su tabelle e dati, in quanto occorre abbracciare una visione più ampia, nella quale entra in gioco la dimensione umana del paziente, la vita del malato, la sua anima, la sua caratterizzazione biologica in cui il trattamento farmacologico deve adattarsi, non viceversa. Ed ancora di più, ulteriore valore aggiunto è contenuto nella profonda umanità del Neurologo, che riesce a raccontare una storia di dolore e sofferenza con tanto rispetto, entrando in punta di piedi nelle vite dei suoi pazienti, rendendoli protagonisti, provando grande empatia, evidenziandone le frustrazioni quando i risultati non arrivano ma anche gioendo assieme a loro quando invece i miglioramenti sono evidenti.
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Dalla Cenere alla cenere
Deledda, che rimane al momento l’unica scrittrice italiana Premio Nobel per la Letteratura, scrive “Cenere” ad inizio del XX° secolo. Non è certamente ancora l’affermata scrittrice di “Canne al vento”, eppure questo romanzo sembra già anticipare certe tematiche care all’autrice sarda: un senso profondo di precarietà della vita, l’evidente constatazione che “Siamo nati per soffrire” e soprattutto un’analisi profonda della sua terra, una Sardegna rurale, a tratti tribale, in cui si evince “il male, la miseria, l’abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone”.
Sullo sfondo di un territorio aspro, selvaggio, nel quale spicca il massiccio del Gennargentu, in un mondo ancora profondamente contadino ove vige la mezzadria, si inserisce la storia di Anania, raccontata come si trattasse di una narrazione davanti al focolare, di quelle che ti fanno dimenticare tutto il resto perché non si vede l’ora di sapere come va a finire. Nato da una relazione clandestina extraconiugale, abbandonato dalla madre e cresciuto poi dalla famiglia del padre, Anania porta dentro di sé il vissuto della Sardegna più reale, quella delle credenze popolari, che spera di trovare tesori nascosti nei Nuraghe, ma anche quella “degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino”.
Nel raccontare l'evoluzione di Anania attraverso lo spazio (dalla Sardegna al Continente) ed il tempo (dall'infanzia alla maturità), ne evidenzia i limiti, la progressiva presa di coscienza che il suo riscatto sociale, per mondarsi dall’onta di una madre colpevole di abbandono e di cattiva condotta, debba passare inevitabilmente dal rinunciare all’amore, al matrimonio, per assumere una mentalità paternalistica, una forma di controllo assoluto proprio nei confronti della madre degenerata. Ma dove può portare questo comportamento? La Deledda lo riassume nei pensieri di Anania: “Ora si, ora capisco che cosa è l’uomo: è una vana fiamma che passa nella vita e incenerisce tutto ciò che tocca”.
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Undici vite solitarie
Yates è un autore che non ha certo bisogno di presentazioni anche se forse non ha ancora ottenuto quella notorietà che si merita pienamente. Basta citare “Revolutionary Road”, il suo libro più famoso che così bene ha saputo tratteggiare le (poche) gioie e le tante meschinità della “middle class americana”, di quella piccola borghesia che si ritrova anche in questa serie di undici racconti che narrano di solitudini, di piccole miserie quotidiane. Nella prefazione al libro di Paolo Cognetti è possibile individuare il tema dominante di questi racconti dal forte sapore autobiografico:
"Undici solitudini ritrae allo stesso tempo un'epoca e una condizione universale dell'essere umano. I personaggi di Yates sono uomini immobili nella massa fluttuante, illuminati dall'occhio di bue della scrittura, colti nel momento in cui la solitudine provoca in loro uno scatto: desiderio, violenza, commozione, o solo un piccolo spostamento vitale dopo il quale, probabilmente, torneranno mansueti a occupare il loro posto".
Yates colloca i suoi personaggi all’interno di luoghi assolutamente comuni che fanno parte della vita di tutti: la scuola, il posto di lavoro, l’ospedale o l’esercito. Parte da qui per arrivare direttamente al cuore del lettore con l’intento di inquietarlo, di farlo riflettere su quanto le vite descritte non siano poi così diverse dalle nostre, sul fatto che esattamente come avviene per i suoi personaggi, tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo cercato di risollevarci, di uscire dal fango, con esiti non necessariamente positivi.
La solitudine dello studente problematico che non riesce ad integrarsi a scuola, l’incapacità di un’insegnante di farsi amare dai propri studenti perché troppo rigida e seriosa, la frustrazione di un impiegato soffocato dalla routine quotidiana, la tubercolosi che sembra non riservare un futuro di speranza ad un ammalato sono solo alcuni degli esempi di queste solitudini che generano goffi tentativi di ribellione, talvolta sfocianti nella meschinità, destinati a non avere successo od a peggiorare lo stato delle cose. Tra tutte le vite raccontate in poche pagina spicca forse, ancor di più, l’ultimo racconto, “Costruttori”, nel quale l’elemento autobiografico emerge chiaramente ed in cui si incontrano-scontrano diverse tendenze, evidenti in due personaggi antagonisti: da un lato il sogno di vedere pubblicato un racconto col proprio nome, sogno che spinge a espedienti estremi come ricorrere alle prestazioni di altri scrittori a pagamento, dall’altro invece la necessità di sbarcare il lunario aggrappandosi fortemente alla scrittura come ultima risorse per raccimolare pochi denari. In queste pagine si trovano sapienti riflessioni su come può essere considerata la scrittura, paragonabile ad una casa che per forza di cose deve risultare solida, partendo quindi dalle fondamenta per poi creare i muri ed elevarsi fino al tetto. Ma soprattutto occorre chiedersi “Dove sono le finestre?...Da dove entra la luce? Perché capisce che cosa voglio dire quando parlo di luce, Bob, vero? Voglio dire...la filosofia della sua storia, la sua verità”.
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I nuovi cavalieri della Tavola Rotonda
Quando Steinbeck non era ancora Steinbeck, prima di “Furore” e “Uomini e topi”, nel 1935 venne pubblicato questo libro che in Italia è stato tradotto da Vittorini. Eppure questa storia “picaresca” che racconta le (dis)avventure di sei amici che possono definirsi Paisanos (“Che cos’è un paisanos? E’ un miscuglio di spagnolo, di indio, di messicano e di varie razze caucasiche. Gli antenati suoi vivevano in California anche cento e anche duecento anni fa”), ambientata a Pian della Tortilla, Monterey (California), mostra quell’attenzione e sensibilità tipica dell’autore nei confronti della povera gente, degli emarginati dimenticati dal mondo.
Ciò che accomuna Danny, Pablo, Pilon, il Pirata (ed i suoi cani), Gesù Maria e Joe il portoghese, banda di disperati perdigiorno radunati sotto lo stesso tetto e che hanno come principale occupazione quella di rifornirsi di vino, è in realtà una solidale e sincera amicizia. Possono considerarsi degli attaccabrighe, ladruncoli provocatori ma forniti di un gran cuore. Riescono a superare le difficoltà sostenendosi a vicenda, annegando nell'alcol le disavventure quotidiane e rivelando "al mondo il buono che c'è in ogni cosa cattiva".
Steinbeck imposta la narrazione come se ogni capitolo fosse un racconto a sé stante nel quale si combinano alcuni schemi ricorrenti che ritornano frequentemente, quasi a sottolineare la natura goliardica e guascone di questo libro: la ricerca di denaro -con qualsiasi espediente- necessario per acquistare l’alcol da condividere (“Che bella cosa avere amici! Com’è desolato il mondo quando non si ha nessun amico col quale dividere, seduti insieme, la nostra grappa!”), oppure le avventure libertine con ragazze compiacenti. Il tutto avviene scegliendo uno stile che ammicca al poema epico cavalleresco, con l’impiego di una brevissima sinossi all’inizio di ogni capitolo che anticipa quanto verrà narrato ed un richiamo, sarcastico ovviamente, ai cavalieri della Tavola Rotonda, qui rappresentati dai sei amici protagonisti. Tra questi emerge Danny, una sorta di “Re Artù”, leader di questo strampalato gruppo, che mette a disposizione degli altri le case ereditate da un vecchio parente. Proprio questo riferimento alla proprietà privata al fatto che Danny, improvvisamente, da nullatenente diventa proprietario di immobili, sembra anticipare certe tematiche care a Steinbeck, quella contrapposizione, quella frattura che si delinea tra la povera gente e chi detiene invece un capitale.
Un libro da leggere quindi per avvicinarsi all’autore o semplicemente, per chi lo conosce già, per continuare ad immergersi nel suo mondo.
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Per non restare soli
“Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me
Cosa? In che senso?
Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare".
Il significato profondo di quest’ultimo romanzo di Haruf (scritto proprio come ultimo libro prima della sua scomparsa) sta proprio in quel breve ma efficace dialogo. Perché la straordinaria bravura dell’autore risiede innanzitutto nel suo stile così asciutto, ma tremendamente diretto, che senza tanti fronzoli va subito al dunque. “Le nostre anime di notte” (il libro ha avuto fortunate trasposizioni cinematografiche e teatrali), è una storia di assoluta delicatezza, che entra in punta di piedi e con grande rispetto nelle vite di un uomo (Louis) ed una donna (Addie) che si conoscono superficialmente in quanto vicini di casa con un punto in comune: il fatto di essere rimasti vedovi, con la solitudine quale compagna di vita quotidiana ed il ricordo indelebile, rispettivamente, della moglie e del marito scomparsi. Ecco che allora la proposta che Addie fa a Louis non ha certamente un doppio senso, considerato che l’unica vera ragione è quella di mettere assieme queste rispettive solitudini cercando di alleviare un dolore troppo intimo e silenzioso, che non può essere mostrato in pubblico.
Se Addie e Louis iniziano a frequentarsi lo fanno esclusivamente per raccontarsi, per parlare delle loro vite, dei drammi vissuti, degli errori compiuti e dei conseguenti rimorsi, tuttora presenti. Con l’intento di sopravvivere a quelle notti in cui la mente comincia a vagare trascinando il suo carico di dolore; quelle notti in cui si sente il bisogno di confessarsi stringendo la mano della persona con la quale si sta condividendo il letto (“Adoro questa cosa. E’ meglio di quel che speravo. E’ una specie di mistero. Mi piace per il senso di amicizia. Mi piace il tempo che passiamo insieme. Starcene qui al buio di notte. Parlare. Sentirti respirare accanto a me se mi sveglio”).
La dolcezza che Haruf riesce a fare arrivare al lettore supera la storia personale di Addie e Louis, riuscendo a mostrare un concetto più ampio di solitudine che coinvolge anche il giovane nipote di Addie, che ne soffre a causa della separazione dei suoi genitori. Le loro vite vengono così mescolate, nonostante la differenza di età tra i due protagonisti ormai settantenni ed il giovane nipote, ne scaturisce un forte legame, come se si trattasse di una nuova famiglia, a dimostrazione del fatto che quando le relazioni umane sono autentiche la voglia di stare insieme è la sola autentica medicina.
Per chi conosce Haruf e ha letto “La trilogia della pianura” questo romanzo rappresenta un ritorno a casa, in quella cittadina del middlewest del Colorado che si chiama Holt nella quale l’autore tratteggia le vite di persone comuni (per dirla con le parole del traduttore Fabio Cremonesi rappresentanti della working class o della middle class, a seconda delle storie narrate) affette da problematiche comuni e quotidiane così simili alle nostre. Ed è forse questo, sotto sotto, il principale motivo per il quale non è possibile non amare Haruf.
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La peste
Se si trattasse di un romanzo scritto ai giorni nostri farebbe molto clamore, verrebbe tacciato di omofobia, di crudezza eccessiva. Insomma farebbe parlare di sé. “La pelle” è invece semplicemente un romanzo disturbante, un pugno allo stomaco, ma dando a queste caratteristiche una connotazione assolutamente positiva. Malaparte con la sua prosa di qualità, a tratti pomposa, barocca, didascalica, fornisce una rappresentazione decisamente realistica della città di Napoli nell’ottobre del ‘43, al momento dell’arrivo degli Alleati a seguito della caduta del Fascismo.
Secondo la visione dell’autore, che narra in prima persona in qualità di ufficiale di collegamento con l’esercito alleato, la città di Napoli è lo specchio di un’Europa intera, di una “civiltà moderna, questa civiltà senza Dio, che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla propria pelle. Non c’è che la pelle che conta oramai”. Il lettore si trova così immerso all’interno di splendide pagine dove la città di Napoli emerge tanto nella sua bellezza quanto nella sua trivialità, in quanto “La peste era scoppiata a Napoli il 1° ottobre 1943...Era quella una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa”.
“La peste” (doveva essere il vero titolo di quest’opera poi cambiato esclusivamente perché nel frattempo Camus aveva dato alle stampe un libro così intitolato), è la rappresentazione di un degrado morale al quale non vi è rimedio secondo Malaparte. Degrado figlio del proprio tempo, conseguenza della sconfitta italiana, del popolo vinto, per questo colpevole agli occhi di se stesso ed a quelli dei vincitori, che si consegna nelle mani dei “colonizzatori” Alleati cercando di compiacerli. Le conseguenze sono nefaste: “per effetto di quella schifosa peste, che per prima cosa corrompeva il senso dell’onore e della dignità femminile” in città dilaga la prostituzione, compresa quella minorile, si fa mercificazione del proprio corpo, della carne. In aggiunta a questi aspetti la città si mette in vetrina, non esita ad allietare i conquistatori con le usanze, il folklore tipicamente partenopeo, e nemmeno la politica è esente da tutto questo. Secondo Malaparte infatti la voglia di libertà post bellica sfocia in comportamenti ambigui che investono le nuove generazioni: “siete dei poveri ragazzi che si vergognano d’esser borghesi, e non hanno il coraggio di diventar proletarii. Credete che diventar pederasti sia un modo come un altro di diventar comunisti”.
In ogni caso andando oltre alle pagine in cui si parla di guerra, di prostituzione, di politica, oltre la ferocia così squisitamente "Malapartiana", emergono riflessioni di una bellezza unica, pagine in cui la luce della speranza appare nel suo fulgore, descrizioni in cui si evince un rispetto profondo verso tutti coloro che hanno sacrificato la vita in nome della libertà, per salvare tutti gli Altri. Che si tratti di italiani, anglo americani poco importa, il sacrificio li accomuna, li pone tutti quanti sullo stesso piano, a livello di nuovi Cristi del XX° secolo.
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Per non dimenticare
Questo è uno di quei libri da “leggere almeno una volta nella vita”, di quelli che si definiscono assolutamente necessari per non dimenticare gli orrori della guerra. Un libro come questo non deve essere giudicato dallo stile, nella costruzione della narrazione, nell’attenzione rivolta ai personaggi, perché è sufficiente il contenuto e l’ambientazione per esprimere la massima valutazione possibile. Remarque scrive una storia dal sapore fortemente autobiografico, che rappresenta una spietata cronaca della Grande Guerra, “conflitto di posizione” per eccellenza, vissuto dentro le trincee. Una guerra capace di annientare milioni di ragazzi, come del resto già si intuisce dall’incipit, che esprime il concetto di “tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate- venne distrutta dalla guerra”.
I giovani tedeschi mandati al fronte, spesso sobillati e indottrinati dalla precedente generazione pregna di un forte nazionalismo, si identificano in una gioventù senza futuro, senza speranza, come carne da macello che combatte una guerra voluta da altri (“Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda...Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a chiedere conto?”).
Attraverso la narrazione diretta del protagonista, si assiste alla spietato ed insensato svolgimento della guerra, alle sue innumerevoli sfaccettature: i continui combattimenti con il rischio di venire colpiti da proiettili, colpi d’artiglieria, schegge, i compagni feriti, mutilati o caduti in battaglia, le sofferenze dentro gli ospedali da campo, lo spirito di solidarietà e cameratismo che inevitabilmente si costruisce tra soldati nei brevi momenti di riposo e pausa. Su tutto questo aleggia legittimamente una domanda:
“Quanto appare assurdo tutto ciò che è stato scritto, fatto, pensato in ogni tempo, se una cosa del genere è ancora possibile! Deve essere tutto falso e inconsistente, se migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti a impedire che scorressero questi fiumi di sangue”.
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Il dramma della sopravvivenza alla Shoah
Singer ha indubbiamente meritato il riconoscimento del Nobel per la letteratura nel 1978 perché i suoi romanzi contengono un valore aggiunto notevole, rappresentano una finestra aperta sul mondo ebraico. “Nemici”, così come i suoi tanti altri scritti, porta dentro di sé il vissuto, le tradizioni del popolo ebraico emigrato negli Stati Uniti a seguito del Secondo Conflitto Mondiale e svela al lettore le tragedie dei sopravvissuti alla Shoah. Il protagonista del libro, Herman, è l’emblema del profugo scampato allo sterminio nazista che salva la pelle perché nascosto in un fienile, ma che non riesce a superare l’incubo dei rastrellamenti tedeschi nemmeno una volta giunto a New York (“In piedi davanti allo specchio, cominciò a fantasticare. I nazisti erano tornati al potere e avevano occupato New York”). Herman porta con sé una stanchezza atavica “Non era una vittima di Hitler, era già una vittima ben prima di Hitler”. Attraverso la sua figura Singer fa emergere la questione di un popolo ebraico sfiduciato e pessimista perché la fede non può essere d'aiuto visto che Dio ha permesso tutto questo (“Il vero Dio ci odia, ma noi ci siamo sognati un idolo che ci ama e ha fatto di noi il Suo popolo eletto”). Herman è il manifesto di quegli ebrei profughi senza speranza che non credono più nella Torah, che sostengono che “Non esiste un Dio, mi capisci? E se anche esistesse Lo sfiderei” definendolo addirittura “sadico Onnipotente”. Al tempo stesso Herman ha completamente perso la speranza verso il genere umano, perché se da una parte i nazisti hanno ucciso un popolo, dall’altra parte i comunisti di Stalin non sono stati da meno con i loro campi di lavoro in cui molti ebrei in fuga dalla barbarie tedesca sono comunque finiti per anni.
Il colpo di genio di Singer sta tuttavia nella scelta fatta di parlare di un dramma universale come questo ma con levità, attraverso il filone della commedia, perché le questioni esistenziali si intrecciano con il tragicomico dramma personale di un uomo, Herman, che un po’ per colpa del destino ed un po’ per negligenza personale, si trova sposato a ben tre donne! ("Lui intanto rifletteva su come fosse fantastico essere in America, in un paese libero, senza la paura dei nazisti, della polizia segreta russa...Però non riusciva a dimenticare che in una strada tra Mermaid e Neptune Avenue Jadwiga lo stava aspettando. Nell'appartamento di reb Abraham Nissen sulla East Broadway c'era Tamara...Quelle donne avevano diritti legittimi su di lui").
Inizia così per Herman un “viaggio” fatto di continui spostamenti tra New York ed altre località, condito da bugie, sotterfugi, al fine di riuscire a sopravvivere a questa paradossale situazione, cercando di camminare sul filo del rasoio per accontentare le sue donne: l’ex moglie sfuggita alle persecuzioni tedesche e russe, la contadina polacca che lo aveva salvato nascondendolo nel fienile ed una terza donna, forse l’unica veramente amata, anch’essa sfuggita ai rastrellamenti in Europa. Herman viene dipinto da Singer come una sorta di macchietta non solo in fuga perenne ed alla ricerca di soluzioni ed equilibri impossibili, ma anche e soprattutto come un uomo che riflette sul proprio destino e su quello dell’umanità, giungendo alla conclusione che forse l’unica soluzione realmente fattibile in quel momento storico era quella da lui adottata, in cui “L’intera sua vita era un inganno, un atto di astuzia”. La figura del protagonista può far dunque sorridere nella sua debolezza caratteriale e nella sua ignavia ma viene adeguatamente riequilibrata dal “contrappeso” delle tre mogli, figure femminili forti, carismatiche, magari anche senza scrupoli in alcuni casi ma comunque capaci di reagire alla tragedia ebraica da cui sono state investite e soprattutto capaci, a modo loro, di togliere le castagne dal fuoco a Herman, di fargli da guida. Delle tre, Tamara, la prima moglie di Herman fin dai tempi in cui i nazisti non erano ancora arrivati, sembra sintetizzare lo spirito di sopravvivenza alla tragedia, la parola chiave attorno alla quale ruota la speranza ad andare avanti: “Il fatto è che per quanto soffrissimo, per quanto non sapessimo mai se saremmo sopravvissuti un altro giorno o addirittura un’altra ora, avevamo bisogno d’amore. Lo bramavamo ancor più di quanto non lo avessimo desiderato in tempi normali”.
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Dall'infinitamente grande all'infinitamente piccol
Opera immensa tanto per il contenuto quanto per la mole per un libro che già nel titolo, criptico, richiama elementi di fisica considerato che il solenoide è una sorta di pila, di bobina che produce un campo elettromagnetico. Sullo sfondo di una Bucarest decadente e fatiscente durante il periodo della dittatura di Ceausescu (“Città sinistra, enorme, disabitata. Necropoli che lorda la superficie della terra con i suoi bloc operai, già in rovina dal momento della progettazione”), che presenta nel sottosuolo ben sei di questi solenoidi (uno dei quali collocato proprio sotto la casa del protagonista) viene raccontata una storia dalle tinte surreali, in cui diventa impossibile distinguere la linea di demarcazione tra realtà, sogno e finzione. Per Cartarescu infatti “ Tutto è stato reale, tutto è avvenuto nel piano dell’esistenza in cui mangiamo e beviamo...Reale è anche il sogno, reali sono anche i primi ricordi, reale è anche la finzione”.
Partendo da questi presupposti, l’autore si affida al meccanismo delle “sliding doors” ed immagina un “universo parallelo” in cui, a differenza di quanto avvenuto per lui, il protagonista assume le vesti di poeta mancato, senza successo, frustrato e depresso, che ripiega sulla carriera di insegnante di rumeno presso una scuola specchio della fatiscenza della città. Afflitto da una solitudine e tristezza perenne decide di riscattarsi raccontando in un manoscritto i suoi ricordi, la sua vita, fatta di “anomalie”, di realtà parallele che sembrano assolutamente realistiche e che convivono con la quotidianità, di mondi infestati da insetti, statue giganti, manifestanti che inveiscono contro la morte presso la sede dell’obitorio, fabbriche dismesse che sembrano contenere oggetti misteriosi. Proprio qui sta la portata rivoluzionaria del pensiero del protagonista, il “Cartarescu alternativo “che dichiara il fallimento della letteratura in quanto incapace di descrivere la realtà, perché ogni libro rappresenta un “trompe d’oeil” su finte porte che aprono su muri. L’obiettivo sarebbe invece quello di descrivere l’insieme di sogni, fantasie, deliri e follie che escono dalla nostra mente, trovare una “porta”, una via di fuga che permetta la fuoriuscita del contenuto della scatola cranica (“Dove troverò la pagina cubica in cui sia scolpita la realtà? Dov’è il libro ipercubico...solo allora, attraverso il tunnel di cubi, sarebbe possibile evadere dalla soffocante cella”).
Solenoide strizza l’occhiolino a Borges e Kafka, alla loro poetica, ma poi va oltre perché diventa un viaggio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo, in quanto cerca la strada della “quarta dimensione”, quello spazio-tempo descritto da matematici e fisici che esiste ma non è percepibile, per poi cambiare prospettiva e concentrarsi sul mondo degli insetti, degli acari, le cui vite disperate non sono poi così diverse da quelle umane. Se la letteratura non è la soluzione per spiegare i limiti della natura umana, la sofferenza, la caducità della vita, il non senso di una quotidianità in cui siamo condannati fin dal momento della nascita, forse però ci può comunque salvare la scrittura, a patto che sia quella di un non scrittore che ha veramente qualcosa da raccontare (“Diversamente da tutti gli scrittori del mondo, proprio perché non sono uno scrittore, io sento di avere qualcosa da dire”).
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La potenza della scrittura di Yehoshua
“….e noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante. Avevamo un amante, e da quando è cominciata la guerra non lo si trova più, è sparito”.
Un incipit spiazzante e non immediatamente comprensibile, ma in queste criptiche iniziali parole è nascosta l’essenza di questo piccolo capolavoro dell’autore israeliano A. Yehoshua, pubblicato nella metà degli anni ‘70 ed in cui il richiamo alle vicende della guerra del Kippur è fortemente presente. Tutta la storia si sviluppa nella disperata ricerca di questo “amante”, apparso improvvisamente nell’autofficina di proprietà di Adam, il benestante capofamiglia protagonista di questo libro, nonché principale voce narrante di una vicenda in cui la ricerca di una persona che è diventata l’amante della moglie si delinea nella sua singolarità, svelando contenuti profondi che hanno a che fare con la storia di Israele e le relazioni arabo-israeliane.
La ricchezza del romanzo di Yehoshua risiede innanzitutto nello stile polifonico, nelle tante voci narranti che fanno da corollario a quella di Adam: la figlia, la moglie, il giovane arabo apprendista entrato a lavorare nell’autofficina, Vaduccia, una vecchia signora in fin di vita che aveva perso conoscenza, ma che riesce miracolosamente a recuperare lucidità. Ognuna di queste voci racconta gli avvenimenti che si succedono in una storia in cui la ripetizione degli eventi, narrati dal proprio punto di vista, diventa emblema di un’analisi attenta tanto della storia politica di Israele quanto della propria più stretta intimità, dando vita ad un racconto corale a più dimensioni. Da una parte così, il libro evidenzia le criticità, i forti contrasti, gli stereotipi legati alla difficile convivenza tra ebrei e arabi palestinesi in un paese manifestamente diviso, in cui Na’im, il giovane arabo apprendista nell’officina di Adam riassume sarcasticamente i confini tra due mondi che cercano di convivere ma che fanno fatica ad accettarsi reciprocamente (“Quelli sono gli ebrei che si credono di conoscerci alla perfezione, accidenti a loro. E invece tutto quello che sanno di noi sono le cose che possono riderci dietro, e non hanno nessun rispetto per noi”). Concetti in qualche modo ripresi nei pensieri di Vaduccia, l’anziana donna uscita dal coma che pur provando riconoscenza e dolcezza nei confronti del giovane Na’im, non riesce a rinunciare a quei luoghi comuni che fanno apparire “un arabetto” come un potenziale terrorista da cui prendere le distanze e di cui non potersi fidare ciecamente.
Al di là della dimensione politica, tutte le voci narranti di questo libro sono voci sofferenti, perché ognuna di loro porta dentro i propri drammi interiori, le proprie debolezze, al disopra delle quali aleggia questa figura misteriosa di Gabriel, l’amante scomparso, il cui ritrovamento garantirebbe in qualche modo la risoluzione di diverse inquietudini famigliari. Gabriel nella prosa di Yehoshua appare quasi come il Messia ancora atteso dal popolo ebraico e fortemente cercato tanto dalla nonna Vaduccia, affranta dal dolore per questo nipote che non vedeva da anni e ricomparso in Israele proprio a seguito del suo malessere, quanto da Adam, pervaso dal senso di colpa per averlo spinto a partecipare alla guerra del Kippur e desideroso di ritrovarlo per amore di quella moglie che aveva finalmente ritrovato la gioia di vivere proprio grazie a quell’amante perduto. Gabriel assume i contorni di una figura candida, innocente, che si manifesta in Israele dopo anni trascorsi a Parigi. Innocenza che risulta venire improvvisamente contaminata dalla guerra del Kippur, dalle vicissitudini che lo vedono partecipare passivamente alle sorti di un conflitto che non riesce a comprendere fino in fondo vista la sua assurdità, come ben si intuisce dalla narrazione dello stesso Gabriel.
Ma la poesia dell’autore israeliano si evince proprio in questo frangente, dall’astuto comportamento di un amante forse non più candido come all’inizio del romanzo, ma illuminato dal fatto che la soluzione all’assurdità di una guerra possa scaturire dalla fede, dal rispetto pedissequo della legge e della tradizione ebraica, dal comportamento che qualsiasi ebreo osservante sa di dovere rispettare. Queste sono le pagine in cui emerge la potenza della “scrittura ebraica” di Yehoshua, lo splendore delle descrizioni della città di Gerusalemme, del muro del pianto e dei vicoli dove si respirano i profumi e la fede e soprattutto dove si staglia l’importanza del rispetto della Parola. Sono anche le pagine in cui l’autore tocca il cuore di ogni lettore con un romanticismo che supera le barriere razziali ed in cui si può sognare che l’amore scoppiato tra un’adolescente ebrea ed un giovane arabo possa realmente superare l’odio razziale e le differenze etniche.
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Storia di una mutazione
Un titolo di per sé già evocativo che in estrema e raffinata sintesi racchiude la sinossi di questo romanzo: Calliope Stephanides, un protagonista (ma anche una protagonista) che scopre la propria bizzarria ed eccentricità sessuale causata da un gene recessivo che complici i capricci dell’ereditarietà si manifesta durante l’adolescenza. Ma visto che il mondo tratteggiato da Eugenides è tutto fuorché scontato e prevedibile, il titolo va oltre il suo significato più prossimo, in quanto dalle parole di Calliope, si capisce che “Middlesex” è in realtà un luogo, la casa che ospita tutta quanta la famiglia Stephanides, emigrata poco dopo la fine della prima Guerra Mondiale dalla Grecia verso gli Stati Uniti ed in particolare la città di Detroit.
A modo suo Eugenides attraverso le parole di Cal, nato femmina e poi diventato maschio, l’ermafrodito che narra la sua storia in prima persona, descrive un’epica che strizza l’occhio alla letteratura classica considerata l’origine greca dello stesso autore poi traslata alla famiglia Stephanides. Perché la sapiente capacità autoriale fonde il classicismo con la modernità più sconvolgente, addirittura in anticipo sui tempi, quando le questioni sull’identità di genere rispetto a quella biologica non erano ancora così rilevanti come ai giorni nostri. Eugenides anticipa che la storia di Cal attinge a Omero con un richiamo esemplare e adattato nelle prime pagine del libro: “Cantami, o diva, del quinto cromosoma la mutazione recessiva! Cantami di come fiorì sui pendii del Monte Olimpo…..Cantami le nove generazioni per cui viaggiò”.
Eugenides non dimentica i propri illustri avi ma l’intreccio che costruisce è tutt’altro che pomposo ed elegiaco, perché la storia di Calliope è in realtà una saga familiare sullo sfondo della storia americana, con alcuni passaggi memorabili come il racconto del lavoro logorante, ripetitivo ed estraniante alla catena di montaggio della Ford svolto dal nonno di Cal. Allo stesso tempo però ama variare e condire la storia con elementi di un realismo magico che ricordano un po’ Marquez, tra cui spicca la meravigliosa trovata di affidare alle arti divinatorie di nonna Desdemona la previsione sul futuro sesso del nascituro, basandosi sulle oscillazioni di un cucchiaio d’argento. E naturalmente al centro di tutto sta quindi la storia di Cal, il racconto dalla nascita all’adolescenza, fino all’età adulta, dando ampio risalto ad una serie di elementi chiave che accompagnano il lettore, come se si trattasse di indizi, di tasselli che man mano si ricompongono a proposito della presunta anormalità della Calliope femmina: il menarca che non arriva, il seno non sviluppato e soprattutto la travolgente passione adolescenziale provata nei confronti di una ragazza chiamata “l’oscuro oggetto del desiderio”.
Eugenides non ha però bisogno di colpi di scena od espedienti narrativi per stupire, anzi fin dall’incipit anticipa al lettore il cuore della storia: “Sono nato due volte: bambina, la prima….e maschio adolescente, la seconda”. Lo stupore infatti sta nella vicenda così sui generis di Cal, nella sua semplicità in quanto le sue insicurezze, i suoi turbamenti, i facili entusiasmi sono in fin dei conti caratteristiche comuni a tutti gli individui in cui anche il lettore può riconoscersi.
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Il fuoco creativo per Canetti
“Libro secondo” dell’autobiografia dello scrittore Premio Nobel Elias Canetti, che oramai adolescente racconta dieci anni della sua vita (1921-1931) tra Francoforte, Vienna e Berlino. Se un lettore si dovesse chiedere(come peraltro successo a me) il significato del titolo dovrà attendere però le pagine finali del libro, quando l’autore farà comprendere a cosa porterà il “frutto del fuoco”, l’intuizione squisitamente letteraria che verrà a questo punto svelata avente a che fare con la sua produzione letteraria (“Che incendio! Quello si che fu davvero un incendio! Non sapeva che per me quella parola era ormai diventata un nome”).
Questo secondo capitolo approfondisce alcuni aspetti fondamentali nell’evoluzione personale dello scrittore, nel suo vissuto interiore, a partire dal rapporto con la madre che diventa via via sempre più conflittuale a causa di interferenze piuttosto forti aventi a che fare con la sfera sentimentale del figlio. Ma forse la tematica centrale, che permea tutte le pagine del libro, e che lo stesso definisce come “L’illuminazione che determinò tutto il resto della mia vita” sono le riflessioni sul concetto di “massa” (“Ero stato afferrato dalla massa, era un’ebbrezza, nella massa ti perdevi, dimenticavi te stesso”). Il fascino che assume la massa è tale che porterà l’autore a dedicarle un libro (Massa e potere) ed è a sua volta conseguenza della partecipazione dello scrittore ad un episodio di protesta popolare al quale partecipò durante il periodo viennese, quando la massa diede fuoco al palazzo di Giustizia. Nuovamente il fuoco dunque “l’elemento di coesione. Sentivi il fuoco, la sua presenza era schiacciante….la forza di attrazione del fuoco e quella della massa facevano tutt’uno”. A completamento della progressiva formazione di Canetti come persona prima e scrittore poi viene descritto inoltre l’incontro con intellettuali che hanno inciso profondamente nel suo vissuto, tra i quali spiccano i nomi di Karl Kraus (a Vienna), Bertold Brecht e George Grosz a Berlino. Quest’ultima, città dove l’autore visse alcuni mesi e tratteggiata, in maniera non proprio lusinghiera però, come nucleo urbano in forte fermento piuttosto ammalato di edonismo; una città nella quale una novità culturale dopo pochi giorni era già dimenticata, dove gli intellettuali, i mecenati o semplicemente la gente comune, si radunavano alla sera nei locali con l’obiettivo di mettersi in mostra, di parlare, criticare.
Una lettura interessante in definitiva, propedeutica per affrontare altri libri molto noti dell’autore. Tuttavia una lettura che, a tratti, tende a perdersi e risultare un pochino pesante da affrontare, in particolare quando l’autore si dilunga nelle descrizioni dei tanti personaggi incontrati, spesso anche marginali rispetto alla centralità delle vicende.
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Il fardello della vergogna
Coetzee, scrittore premio Nobel per la letteratura, attraverso la storia narrata in questo libro riesce magnificamente a mostrare la “discesa agli inferi”, la caduta di David Lurie, uno stimato professore universitario accusato di molestie sessuali nei confronti di una sua giovane studentessa con le conseguenze più nefaste: subire l’emarginazione sociale, la perdita del lavoro e di uno status quo che lo mettono a nudo ma che al tempo stesso gli permettono di scavare profondamente nella sua anima. Vergogna è un libro doloroso che mette in luce il concetto di perdita, di sconfitta, in cui questa parola che dà il titolo al romanzo si percepisce lungo l’intero racconto, riscontrandola innanzitutto nell’afflizione personale di David (“Sono caduto in disgrazia, e non sarà facile risollevarmi. Non rifiuto la punizione. Non mi ribello. Anzi, la vivo giorno dopo giorno, cercando di accettare la vergogna come la condizione della mia esistenza”).
Ecco che per tentare di risollevarsi David cerca comprensione negli affetti più cari, in questo caso una figlia, Lucy, che vive per conto suo nelle selvagge terre sudafricane, in una sorta di fattoria dove coltiva fiori e dà ristoro a cani senza padrone. Ma Coetzee sa perfettamente quanto sia dura la realtà e ce lo dimostra narrando una storia nella quale il rapporto conflittuale tra padre e figlia è evidente e si acuisce ulteriormente a seguito di un episodio che investe Lucy, a sua volta vittima di abusi sessuali e costretta a portarsi addosso una vergogna non meno pesante del fardello paterno. Partendo da questi intrecci l’autore riesce a illuminare la scena perché la vergogna figliale è in qualche modo conseguenza della storia del Sudafrica. Di un paese da poco uscito dall’apartheid, ancora fortemente in fibrillazione e afflitto da sperequazioni sociali ed economiche, in cui un bianco che decide di vivere lontano dai grandi centri urbani (come Città del Capo) deve accettare di sentirsi un corpo estraneo in una società in cui la gente di colore ha preso il sopravvento, ed in cui una denuncia di stupro non porterebbe a nessun risultato concreto:
“- Quello che mi è successo è una questione puramente personale. In altri tempi, in un altro luogo potrebbe essere considerata di pubblico interesse. In questo posto, in questo momento non lo è .E’ una faccenda che riguarda me e solo me.
- Questo posto in che senso?
- Nel senso del Sudafrica".
Vergogna è un libro aspro, duro ma che non è mai sopra alle righe, in cui Coetzee suggerisce comunque che dietro ad ogni storia di violenza e di dolore esiste la possibilità di un riscatto, di una catarsi perché una volta toccato il fondo si può solamente risalire....avendo anche il coraggio di fare scelte difficili come quella di Lucy, che viene svelata nella parte conclusiva del libro..
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La vita di Gauguin secondo Maugham
“Le ripeto che devo dipingere. Non posso farci niente. Quando uno cade in acqua non importa come nuota, se bene o male: o nuota o annega.”
In estrema sintesi questo è il pensiero di Charles Strickland, nome coniato dall’autore per narrare in forma romanzata la vita di Paul Gauguin, il celebre pittore post impressionista. Lo Strickland-Gauguin tratteggiato da Maugham (per scherzarci si potrebbe forse usare anche il verbo dipinto) ci viene descritto come un uomo cinico, sprezzante, al limite della disumanità ed estremamente egoista. Persona senza scrupoli che per soddisfare il suo desiderio di dipingere abbandona improvvisamente moglie e figli e scappa prima a Parigi e poi in Polinesia, a Thaiti pur di dare sfogo a questa necessità. Termine quanto mai appropriato perché l’artista che ci viene rappresentato è un uomo che ha bisogno di dipingere come se dovesse respirare, (“Sembrava davvero posseduto da un demone, che potesse a un tratto rivoltarglisi contro e farlo a brani”).
Indiscusso merito della raffinata penna dello scrittore inglese è quello di scavare in profondità nell’animo di Strickland, evidenziandone la forte dicotomia: da una parte un uomo con evidenti limiti umani, che presenta un’assoluta mancanza di rispetto verso gli altri, che prova piacere a dileggiare ed insultare chi gli sta vicino, perfino a sottrarre la moglie ad uno sfortunato pittore che lo aiuta in un momento di difficoltà. Dall’altra un artista dotato di un talento incompreso fino alla morte, alla perenne ricerca di “qualcosa che avesse significato per lui. Era come se avesse acquistato coscienza dell’anima dell’universo e si sentisse costretto ad esprimerla”.
Maugham di certo non annoia il lettore, scrive una biografia romanzata nella quale fonde verità è finzione, narrando in prima persona, entrando direttamente nella vita dell’artista e delle persone con cui egli interagisce. Non si dimostra certo tenero nei confronti di Strickland-Gauguin, prova fastidio e talvolta disprezzo nell’accostarsi a lui ma celebra inequivocabilmente il talento sopraffino ed eterno, riconoscendo nei suoi quadri “l’uomo nella nudità dei suoi istinti primordiali, e ti faceva paura, perché vedevi te stesso”.
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Balla balla ballerino
Questo breve romanzo di Kundera mi ha riportato alla mente una canzone di Lucio Dalla, dalle parole “Balla balla ballerino tutta la notte e al mattino” in quanto lo stesso autore ceco definisce “ballerino” colui che desidera “occupare la scena perché il suo io possa rifulgere”. La parola viene così rivestita di un significato emblematico che descrive l’attuale condizione umana: gli individui tendono a volersi mettere in mostra, a occupare uno spazio per soddisfare un ideale pubblico, un bisogno di emergere. Una necessità amplificata dalla tecnologia moderna in quanto al giorno d’oggi è assodato che “tutti viviamo sotto l’occhio delle telecamere”. La società così costituita tende a vivere freneticamente, a provare emozioni usa e getta, continuamente bombardata da stimoli esterni.
“La nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità”.
In pratica Kundera attraverso il titolo scelto per questo libro si pone l’obiettivo di rimarcare quanto la vita, per essere degnamente vissuta, debba svolgersi sotto l’ombrello protettivo della “lentezza”. L’elogio della lentezza assurge così a valore che si contrappone alla velocità ed al facile oblio di quella felicità effimera propria del ballerino che desidera mettersi in mostra continuamente senza soffermarsi un istante. La lentezza è considerata un ozio nel senso migliore del termine e non nell’accezione data dalla modernità: “l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento, che gli manca”.
Per raccontare tutto questo prende come esempio un convegno di entomologia che si svolge all’interno di un castello in Francia, che diventa così l’occasione per sfoggiare quei (dis)valori della nostra società. Il simposio rappresenta una giustificazione per pianificare incontri amorosi estemporanei messi in piedi senza criterio, finalizzati al procacciamento di una notte di passione di cui vantarsi con gli amici per ottenere una gloria terrena. A questa messinscena della “velocità” si contrappone invece un modello tipicamente lento di corteggiamento in cui la tresca amorosa è vissuta rispettando quelle regole non scritte che, tracciate nel solco della lentezza, dimostrano quanto il piacere e la sensualità siano elementi saldi che si conservano nella memoria. Una lentezza di questo tipo va ricercata nel passato però, nel ‘700, un’epoca che ha saputo sapientemente valorizzare questa scelta di campo. Per spiegarlo Kundera prende a prestito un romanzetto del periodo che narra di una (lenta) notte di passione tra un giovane cavaliere ed una dama (“Senza domani” di V. Denon).
La lentezza rappresenta l’ennesima dimostrazione della grandezza dell’autore ceco, che ha scritto questo libro nel 1995 ergendosi a precursore della realtà quotidiana di oggi.
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Eravamo i Mulvaney
“Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?”. Con questo incipit inizia la saga della famiglia Mulvaney che la raffinata penna di J.C. Oates descrive dettagliatamente entrando a gamba tesa nelle vicende familiari di un “clan” apparentemente perfetto, che vive ad High Point Farm, in una “casa da fiaba”, una fattoria della provincia americana nello stato di New York, vicino al confine col Canada.
Il talento creativo dell’autrice è tale da dipingere un quadro idilliaco di una famiglia borghese della seconda metà degli anni ‘70, senza difficoltà economiche composta da padre, madre, quattro figli ed un sacco di animali tra cani, gatti, cavalli, in cui emergono, tra l’altro, le doti imprenditoriali del padre, il fascino educato e discreto della figlia Marianne studentessa modello che gode di grande celebrità e che tutti vorrebbero come amica e fidanzata, il successo sportivo del figlio maggiore, asso del football. Sopra a tutto aleggia quell’austerità della provincia americana, in cui i saldi principi della famiglia, del lavoro, dello studio si combinano con la fede religiosa (cattolica o protestante poco importa).
Fino a quando “un evento” che coinvolge la figlia Marianne non entra prepotentemente nelle vite famigliari, un evento che nessuno ha il coraggio di chiamare col proprio nome ed attorno al quale la Oates gira e rigira, e che solo verso pagina 200 viene chiamato esattamente col suo nome. Quasi a significare che quella parola impronunciabile, che si teme, che si odia e che provoca dolore solo a pensarci una volta pronunciata, metterebbe a nudo tutti i membri del clan: “Nessuno sarebbe stato in grado di dire che cosa fosse successo, o avrebbe desiderato dargli un nome: stupro era una parola che non si pronunciava a High Point Farm”. Una volta giunti a questo punto l’autrice può spietatamente tratteggiare il rovescio della medaglia, rappresentando la caduta dei Mulvaney, una situazione paradossale nella quale la figlia diventa il capro espiatorio, in cui non c’è nemmeno più spazio per la fede, per la solidarietà tanto all’interno della famiglia quanto nel resto della società che sembra voltare le spalle alla famiglia portandosi dietro un’inevitabile discesa agli inferi. Ecco che Marianne diventa colpevole, connivente, la sua vicinanza crea fastidio e l’unica soluzione è rappresentata dalla progressiva emarginazione, l’allontanamento diventa la panacea di tutti i mali, agli occhi della famiglia prima e della comunità poi, alimentando altresì un’inevitabile senso di colpa in capo alla vittima stessa (“Commetto sbagli, errori di giudizio. Sono immatura, e sbadata. Deludo gli altri. Specialmente la mia famiglia”).
Quello che emerge è pertanto lo spietato ritratto di una società malata, paranoica, di un sistema giudiziario che non tutela le vittime di stupro (soprattutto se il presunto colpevole è una persona potente), tanto meno tutela le donne per cui vale il pregiudizio che non si possa parlare di violenza sessuale, che in fin dei conti se la sia cercata, che sia una poco di buono.
La Oates accompagna il lettore lungo 500 pagine di un libro vastissimo e denso, non risparmiando nulla ed entrando nei meandri delle singole vite dei personaggi, talvolta con l’impressione che certe parti, forse, si sarebbero potute sfrondare ridurre, senza nulla togliere al “sale” della vicenda. In sostanza fa sentire il lettore un membro della famiglia, gli fa provare le emozioni da loro vissute, i propositi di vendetta che solleticano le coscienze al fine di trovare una forma di giustizia su misura, il desiderio di riappacificazione e di catarsi. In queste pagine ho percepito quanto l’autrice sia stata un faro, un esempio per altri grandi romanzieri americani a partire da J. Franzen nel quale ho ritrovato meccanismi narrativi e tematiche simili.
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Una confessione tra rimorso e rimpianto
Esattamente come accade a David il protagonista del romanzo, Baldwin si trova in Francia, vive tra Parigi ed il sud del paese, lontano dalla sua patria, gli Stati Uniti, dove la questione razziale è sempre più accesa. Sarà quindi qui in Europa che trarrà personalmente quell’ispirazione, e che vivrà sulla propria pelle quelle esperienze che lo porteranno a scrivere questo libro in cui il protagonista è un uomo bianco in quanto, come scrive lo stesso autore, “di certo non mi sarebbe stato possibile trattare l’altra grande questione, quella della razza. La questione sessuale-morale era già abbastanza difficile”.
La stanza di Giovanni però, prima ancora di essere considerato come una storia d'amore omosessuale, è un libro che “parla di quello che succede se hai paura di amare”. Una paura così grande perché pone David davanti all’ostacolo di dovere infrangere le convenzioni sociali, davanti alla necessità di dovere fare outing e comunicare a familiari e fidanzata la propria natura. Il proprio legame verso quel Giovanni comparso a ciel sereno nella sua vita e capace di scoperchiare sensazioni ed emozioni che aveva in parte già vissuto ma anche rimosso; improvvisamente ritrovate nella stanza da letto di un Giovanni incontrato in un locale notturno di Parigi (“Adesso credo che, se avessi avuto anche solo un vago sentore che l’io che avrei trovato si sarebbe rivelato semplicemente lo stesso io dal quale avevo passato tanto tempo a fuggire, sarei rimasto a casa”).
Attraverso una narrazione-confessione in prima persona, a metà strada tra rimorso e rimpianto e che a ritroso ricostruisce i dolorosi passi compiuti (ma sarebbe meglio dire non compiuti) da David, tali da rappresentare una progressiva e inarrestabile discesa agli inferi per Giovanni, il lettore riesce a rendersi conto che quella “stanza” del titolo alla fine non rappresenterà altro che una zona franca che fa da sfondo ad attimi fugaci di vite che si sono intrecciate, senza poi dare seguito ad alcun progetto duraturo. Per David però è impossibile provare a dimenticare, il senso di colpa per la propria debolezza caratteriale, per la propria ignavia, lo spinge a riflettere ed a ricordare, anche quando si desidererebbe soltanto dimenticare.
Perché in fin dei conti, come dice David, “ognuno di noi ha un giardino dell’Eden” e forse “La vita offre solo la possibilità di scegliere fra il ricordare il giardino e dimenticarlo. Una cosa o l’altra: ci vuole forza per ricordare, ci vuole un altro tipo di forza per dimenticare, ci vuole un eroe per fare le due cose insieme”.
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Una lingua collante
Elias Canetti, autore Premio Nobel per la Letteratura, decide di mettere nero su bianco la storia della propria vita facendolo nel miglior modo possibile: con un trittico di cui “La lingua salvata” rappresenta il primo capitolo (tant’è che il sottotitolo all’opera è “Storia di una giovinezza”). Scrivere un’autobiografia è sicuramente un’impresa non facile, innanzitutto in quanto occorre rovistare nella propria memoria alla ricerca di quegli “episodi di vita” che fanno la differenza, poi perché il rischio di annoiare il lettore rimane dietro l’angolo.
Canetti supera brillantemente le difficoltà nonostante alcuni capitoli del libro possano effettivamente risultare un minimo noiosi o privi di interesse, perché complessivamente il valore aggiunto risulta notevole. Tanto per l’eleganza e la fluidità della prosa accattivante fin dalla prima pagina con quell’incipit “il mio più lontano ricordo”, quanto per la ricchezza dei contenuti di una vita piuttosto piena di eventi fin dall’infanzia e prima adolescenza. Canetti riesce a fare sentire il lettore parte del proprio percorso di crescita, riesce a condurlo per mano nella casa d’infanzia in Bulgaria, all’interno di una famiglia di origine ebraica (sia da parte materna che paterna) di forte stampo patriarcale nella quale emerge potente ed ingombrante la figura del nonno paterno. Poi a Vienna e Zurigo, dove la famiglia si trasferirà ed il giovane Canetti compirà i propri studi, sullo sfondo di uno dei più importanti eventi storici del XX° secolo, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale (quando Vienna era ancora la capitale dell’impero Austro-Ungarico).
Questo primo capitolo della vita dell’autore trasmette l’immagine di un bambino che fin dai primi anni di vita risulta essere fortemente attratto dal mondo delle lettere, dalla scuola, dai libri, dall’apprendimento delle lingue all’interno di una famiglia multietnica. Tra queste la lingua tedesca si colloca al di sopra delle altre, innanzitutto per la sua funzione di collante, quasi a rappresentare un “lessico famigliare” alla maniera della Ginzburg. Dotata di un carico emotivo non indifferente, questa lingua ha il potere di fare vivere per sempre un padre (e marito) morto troppo presto. Attraverso il tedesco il giovane Canetti e la madre riescono a costruire un rapporto profondo, simbiotico addirittura asfissiante e con risvolti quasi “edipici”, comunque necessario ad entrambi per superare lo smarrimento imputabile alla mancanza della figura paterna. Lo stesso Canetti sintetizza bene il concetto con le sue parole:
“Vissi sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato a entrambe, a quella lingua e a mia madre. Senza questi due elementi, che in fondo erano un’unica e medesima cosa, tutto il corso successivo della mia esistenza resterebbe incomprensibile e privo di significato.
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La matita e la montagna
Vale la pena spendere alcune parole su questa autobiografia partendo dalla copertina, in quanto grazie ad una felice intuizione editoriale, la sua ambivalenza racconta già molto. A prima vista infatti l’occhio umano interpreta l’immagine vedendo una matita appuntita, evidente rappresentazione di quel “potente strumento” funzionale al raggiungimento di quell’educazione attraverso la quale Tara riesce a emanciparsi e costruire il proprio riscatto sociale, dopo un’infanzia e adolescenza vissute lontano dalle aule scolastiche e dai libri per scelta della famiglia:
“Tutti i miei sforzi, tutti i miei anni di studio mi erano serviti ad avere quest'unico privilegio: poter vedere e sperimentare piu verità di quelle che mi dava mio padre, e usare queste verità per imparare a pensare con la mia testa”.
Tuttavia da un’analisi più attenta questa matita diventa qualcos’altro, il picco di una montagna dove volano attorno alcuni uccelli con accanto la silhouette di una ragazzina. Allora si capisce che questo luogo rappresenta Buck Peak, il territorio del middle west americano, nell’Idaho, dove l’autrice ha passato la sua infanzia, la sua giovinezza, prima di compiere “il grande salto”.
Ed è proprio attorno a questa montagna che la giovane Tara cresce assorbendo quotidianamente gli insegnamenti di un padre mormone, bacchettone e bigotto, affetto per giunta da disturbo bipolare. Un uomo fanatico che considera lo Stato e la scuola, una minaccia perché le Istituzioni sarebbero guidate da “La setta degli Illuminati” in rappresentanza delle forze oscure, e che vede altresì il sistema sanitario come strumento demoniaco (per cui le uniche cure affidabili sarebbero quelle fornite dalle erbe contenute nelle boccette, che una madre succube del marito confeziona alacremente).
Inevitabile quindi che al cospetto di una famiglia patriarcale e violenta come quella di Tara, in cui oltre alla figura paterna si eleva a modello negativo di brutalità anche uno dei fratelli, diventi veramente difficile crescere senza subire contraccolpi psicologici. Il risultato, sicuramente paradossale, è quello di sentirsi un pesce fuor d’acqua e vivere con senso di colpa qualsiasi successo ottenuto nella vita, sapendo che per la propria famiglia scegliere l’emancipazione, lo studio, il dottorato di ricerca, assume il significato di tradimento profondo delle proprie radici (“Quand’ero bambina aspettavo di crescere, di accumulare esperienze e fare delle scelte, di formarmi come persona. Quella persona o quella sembianza di una persona, aveva delle radici. Appartenevo a quella montagna, la montagna che mi aveva creato. Solo quando diventai più grande mi chiesi se sarei sempre stata così”).
L’educazione è sostanzialmente una storia autobiografica che non ha particolari velleità stilistiche e dalla quale non è al momento possibile sapere se la Westover avrà un futuro come autrice. Rimane in ogni caso un libro dal contenuto importante, un’illustrazione-confessione del dolore vissuto, ed allo stesso tempo un libro che lancia messaggi di speranza, evidenziando che la vita può comunque riservarti sorprese ed occasioni da sapere cogliere per riscattarsi.
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Romanzo "Michelecentrico"
“Non esisteva ancora il libro dello sbandamento e delle ansie giovanili, della crisi della famiglia…...Non esisteva il libro della ribellione dei ragazzi borghesi” (P. Bianucci, Gazzetta del Popolo, 1973).
In queste riflessioni si concentra l’essenza di “Caro Michele”, che prima ancora di essere il titolo del libro rappresenta l’incipit di quasi tutte le lettere spedite al suddetto Michele dalla madre, dalle sorelle, dagli amici. Lettere che come tessere di un puzzle compongono questo romanzo epistolare e che sono qua e là intervallate dalla narrazione in terza persona, come a fungere da trait d’union tra le varie missive.
Questa storia appare come l’antitesi al più celebre libro della Ginzburg, quel “Lessico famigliare” che riusciva a ricostruire l’identità e l’unità della famiglia Levi (dell’autrice) facendo perno, appunto, su quella terminologia cara e unica che solo i membri del nucleo potevano riconoscere(“non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!). Qui invece la famiglia appare disgregata, dispersa, la solitudine imperversa, soprattutto nelle parole della madre di Michele isolata in una casa di campagna con un matrimonio fallito alle spalle (“Sono contenta di questa casa, ma certo trovo scomodo essere così lontana da tutti”). Madre che non esita a rivolgere il suo risentimento nei confronti di un figlio lontano, mai presente (“Sei venuto su molto balordo, ma non sono sicura che saresti stato meno balordo se avessi ricevuto da noi un’educazione”).
La Ginzburg definisce l’impianto della storia secondo uno schema “Michelecentrico” in cui Michele è il destinatario delle comunicazioni di molte persone. Risulta quindi molto nominato ma poco presente, sfuggente, inquieto, in fuga dalla famiglia (e dall’Italia) per questioni politiche probabilmente. Michele diventa quindi emblema di una gioventù borghese ribelle che sembra abitare un mondo “che ora è pieno di questi ragazzi, che girano senza scopo da un posto all’altro. Non si riesce a capire come invecchieranno”, e che sembra ricordare un po’ quella gioventù dei figli di papà raccontata da Pasolini.
Ma la realtà sociale che popola il romanzo è pregna di personaggi problematici, in cui è evidente innanzitutto una carenza affettiva imputabile a relazioni in crisi o compromesse (la madre, una sorella, Osvaldo amico intimo di Michele) o ancora di più l’assenza di punti fermi nella propria vita come è possibile vedere in Mara, ragazza madre senza casa e soldi, viziata e capricciosa perennemente alla ricerca di un alloggio offertogli da amici, conoscenti, amanti, con un figlio a carico il cui padre potrebbe essere proprio lo stesso Michele.
Sopra a tutto aleggia una sensazione di infelicità corale, una disillusione che tenta di trovare refrigerio nell’illusione e nella speranza che in realtà “la felicità esista, cosa che forse non è del tutto da escludere, anche se raramente ne vediamo traccia nel mondo che ci è stato offerto”.
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Quando le maschere cadono
La Reza scrive questo breve, brevissimo libro di neanche 100 pagine sottoforma di dialogo tra due coniugi appartenenti alla borghesia francese. Si tratta chiaramente di una pièce pensata per una messa in scena teatrale ma che ha avuto anche una trasposizione cinematografica da parte del regista R. Polanski (Carnage, del 2011). Fin dall’incipit infatti l’autrice ci introduce nella location appositamente pensata, la casa di una delle due coppie:
“Le due coppie hanno appena fatto conoscenza. Al centro, un tavolino basso con molti libri d’arte. Nei vasi due grandi mazzi di tulipani. Regna un’atmosfera compunta, cordiale e tollerante”.
Partendo da questo antefatto la vicenda si dipana attraverso (presunti) chiarimenti e ammissioni di colpa per il disdicevole comportante del figlio di una coppia accusato di avere colpito, munito di bastone, il viso del figlio dell’altra coppia causando lesioni a due denti incisivi.
Per la Reza si tratta di un pretesto per arrivare al nocciolo della questione: nonostante millenni di evoluzione umana, nonostante la facciata di perbenismo di due tranquille e agiate famiglie borghesi, l’essere umana è in grado di fare cadere qualsiasi sovrastruttura, qualsiasi maschera mostrando così il vero volto, che porta alla ricerca dello scontro, al conflitto. Inevitabile quindi la propensione ad inveire verso l’altro per affermare il proprio status, per fare emergere le proprie ragioni e difendere il “clan”. L’autrice è abile nel descrivere il crescendo, come progressivamente la discussione si animi, girando intorno alla questione principale (la richiesta di scuse da parte del figlio in torto nei confronti del figlio colpito). Ma in maniera furba, esattamente come è furbo l’essere umano civilizzato che per non affrontare la situazione di petto cerca di girarci intorno, intervallando con digressioni sulla cucina, con domande reciproche sulle professioni (rispettabilissime) di tutti gli adulti coinvolti, fino a prendere una piega inattesa quando emergeranno evidenti disagi di coppia tanto da una parte quanto dall’altra, visti più come differenza di comportamenti tra universo maschile e femminile.
La conclusione, messa in bocca al distaccato padre avvocato (senza scrupoli) del bambino reo è che alla fine la violenza, anche se parliamo di un atto irresponsabile di un bambino viziato e eccessivamente vivace, è in qualche modo giustificata, fa parte della natura umana, perchè evidente conseguenza di azioni della controparte che l’hanno in qualche modo stimolata: “Io credo nel dio del massacro. E’ il solo che governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi”.
Sicuramente affermazioni e parole che fanno riflettere tanto più ai giorni nostri in cui stiamo assistendo allo svolgimento di una terribile aggressione bellica in cui sembrano valere questi principi. In definitiva lettura consigliabile, che riesce a rendere perfettamente come rappresentazione teatrale e che lascia forse qualche dubbio su un’idea interessante che poteva essere ulteriormente sviluppata.
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Nell'Olimpo della letteratura
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Queste le ultime parole che Cesare Pavese lascia ai posteri la sera del suo suicidio, scritte proprio sul frontespizio di questo suo libro con il quale evidentemente il legame emotivo è molto intenso.
Dialoghi con Leucò rappresenta il testamento di Pavese, un libro scritto con l’intenzione di (ri)proporre la mitologia greca nella letteratura italiana post bellica, perché secondo l’autore il mito è un linguaggio, “un vivaio di simboli cui appartiene, come a tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati”. Attraverso la rappresentazione sotto forma di brevi dialoghi, sempre a due, di alcuni tra i più celebri miti antichi, Pavese può permettersi così di affrontare tematiche a lui care.
A partire dalla “Nube” in cui il giovane e temerario Issione non teme di sfidare gli dei ascendendo verso il monte della loro dimora nonostante gli avvertimenti della Nube (“Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace”).
Il fascino della morte esercita su Pavese una malia irresistibile, quasi sembra anticipare il suicidio come sfida al destino, come desiderio di oltrepassare la vita, soluzione alle pene d’amore terrestri. Così viene raccontato ne “La belva” in cui lo Straniero, dialogando con Endimione gli ricorda che “Ciascuno ha il sonno che gli tocca…..La solitudine selvaggia è tua. Amala come lei l’ama. E adesso, Endimione, io ti lascio. La vedrai questa notte”.
Ancora il tema della morte ma in questo caso all’opposto, intesa come fuga dall’Ade, come ricerca di sé stessi e anelito nei confronti della vita, lo si denota ne “L’inconsolabile” che ripropone il mito di Orfeo ed Euridice. Orfeo rinuncia alla sua amata una volta giunto nell’aldilà, perché la paura della morte, di rimanere invischiato è troppo forte e considera Euridice oramai perduta per sempre (“Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso”).
Anche in “Schiuma d’onda” tornano le riflessioni su morte e destino in un dialogo tra la poetessa Saffo e la ninfa Britomarti. Entrambe suicide, entrambe in lotta col destino alla ricerca di un’autodeterminazione perché come dice Saffo a proposito del destino: “Non l’accetto. Lo sono. Nessuno l’accetta”.
Sono solo alcune citazioni dei Dialoghi con Leucò, o Leucotea, divinità femminile che appare più volte come dialogante e sotto le cui spoglie si cela l’ultima donna amata dall’autore. Un testo che fa dello stile poetico la sua ragione d’essere. Tuttavia stile e contenuto sono talvolta criptici, non sempre di facile comprensione, tanto da richiedere più riletture e approfondimenti. Questi elementi rappresentano forse il vero limite di una lettura capace di svelare l’intimità più profonda dell’autore ma che allo stesso tempo la pone distante dalla prosa più nota e accessibile di opere quali “La luna e i falò” o “La bella estate” ad esempio. Sono proprio queste difficoltà nell’apprezzare pienamente un libro così complesso, e sicuramente imputabili a miei personali carenze, a non permettermi di dare voto pieno a un lavoro che visti i temi trattati si colloca in ogni caso, e a pieno diritto, nell’Olimpo della letteratura italiana del novecento.
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Gli interrogativi di Marias sulla natura umana
Marias, nei ringraziamenti finali precisa che questo libro non è precisamente un seguito bensì forma "una coppia" con il precedente "Berta Isla". Una coppia nel vero senso della parola perché Tomas Nevinson è il marito di Berta e l'indiscusso protagonista di questo episodio, narrato direttamente in prima persona. Il romanzo si colloca nel solco del filone della spy story già al centro dell’altro libro: Tom viene infatti “riabilitato” al servizio, al ritorno in missione dopo un letargo durato alcuni anni, e gli viene affidato il compito di scegliere la donna giusta da eliminare con un passato da terrorista nelle file dell’Ira e dell’Eta, individuata in una triade di potenziali sospette.
Il romanzo si snoda lungo questo crinale, sui continui interrogativi morali ed etici che si pone il protagonista, fino a chiedersi fin dove può spingersi un uomo per salvaguardare un bene superiore come la vita e la sicurezza di una comunità, quanto sia giustificabile porsi come giudici (e come boia) delle vite altrui.
“Uccidere non è un atto così estremo o difficile o ingiusto se si sa chi si sta uccidendo, quali delitti ha commesso o si prepara a commettere, quanto male si risparmierà facendolo, quante vite innocenti saranno preservate al prezzo di un solo sparo”.
Il fascino del racconto ruota attorno a questa riflessione, alla necessità di trovare quel coraggio che possa giustificare un omicidio in assenza di prove certe ma tutelati dal fatto che i servizi segreti non dimenticano ed un ragionevole sospetto rappresenta una legittimazione ad agire per fare giustizia del passato e prevenire il futuro perché “nulla se ne va mai del tutto, e quello che sembrava essersene andato prima o poi ritorna, anche trenta o cinquant’anni dopo…...Quindi bisogna pensarci, ricordarsi che tutto il male ritorna”.
Attraverso Tom Marias riflette sulla natura umana, sul fatto che gli individui seppur consapevoli dei propri errori non riescono a rifiutare la loro natura, a rinunciare completamente a quanto hanno sperimentato, al piacere della vanità, di sentirsi importanti e che “una volta che si è cominciato, una volta che si è fatto il primo passo e si esce dalla retta via, non si può fare altro che percorrere la via sbagliata e sbagliare ancora”.
Lo stile di Marias è inconfondibile e rappresenta indubbiamente il marchio di fabbrica della sua opera: lentezza, ripetizioni, citazioni colte da Shakespeare a Eliot. Per questo non a tutti può piacere questo libro che ha comunque il pregio di non farci dimenticare il male compiuto dalle azioni terroristiche dell’Ira e dell’Eta fin quasi a inizio del nuovo secolo. Riflessioni che ben calzano tra l’altro con i tempi bui che stiamo vivendo, con l’attualità dei nostri giorni dell’invasione russa dell’ucraina.
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Una fotografia fedele di un'Italia malata
Un romanzo che forse assomiglia di più ad un racconto, considerata la lunghezza di poco più di cento pagine, ma assolutamente poderoso, nel quale si racconta la storia di un’Italia anni ‘70 che forse non è poi tanto diversa dall’Italia di oggi. Il tutto narrato dall’occhio clinico (e cinico) del protagonista, un pittore alter ego di Sciascia che finisce casualmente in un albergo-eremo gestito da un sacerdote, tale don Gaetano, personaggio istrionico, pungente, colto, amante della filosofia, che non esita a definirsi cattivo (“La sopravvivenza, e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni”).
Dentro a questa location, che per l’occasione ospita un ristretto gruppo di alti prelati, industriali e politici che si sono dati appuntamento per dedicarsi ad esercizi spirituali, Sciascia inserisce una componente gialla al racconto, narrando dell’assassinio avvenuto tra le mura della struttura, di alcuni di questi importanti esponenti. La potenza letteraria del romanzo si svela innanzitutto nel pretesto di questo raduno: la volontà di svolgere esercizi spirituali che nella realtà nasconde finalità differenti colte dall’occhio attento del pittore protagonista (“Mi assalì allora il pensiero, un po’ molesto un po’ ironico...avrei finito col fare davvero gli esercizi spirituali: e sarei stato il solo, poiché tutti quegli altri….erano del tutto alieni dal farli. ….Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza…”). Quindi si sviluppa nella rappresentazione di una “triade” che sembra andare a braccetto, emblema del potere italiano in quel periodo storico: Chiesa, politica ed economia, sotto l’occhio vigile e quasi censorio di don Gaetano, il dominus del raduno che osserva attentamente dalla tavola del refettorio dove gli invitati si ritrovano dopo la conclusione degli esercizi spirituali. L’immagine che Sciascia ci offre è quella di un potere corrotto, decadente, che sembra sostenersi vicendevolmente attraverso lo scambio di favori, nel quale la Chiesa emerge come “entità” con il compito di tenere le fila, soggetto regolatore di un sistema malato che ne trae comunque giovamento. Così pare capirsi dalle parole di don Gaetano a proposito dei suoi ospiti (“Per quanto li disprezzi, al tempo stesso li amo”). Sciascia non si ferma a questo concetto ed estende la sua rappresentazione di un potere arrogante e incapace di trovare legittimazione attraverso il filone giallo, descrivendo l’inconcludenza del procuratore e del commissario di polizia nella conduzione dell’indagine finalizzata alla scoperta del colpevole proprio tra le fila dei partecipanti agli esercizi spirituali. Incapacità profonda, quella delle istituzioni alle quali è conferito il potere ispettivo, che trova piena evidenza nella presenza di una vittima illustre e sicuramente inaspettata.
Todo Modo è in definitiva un classico moderno trasudante la poetica di Sciascia, che anche a distanza di anni non ha perso smalto, considerato che certe raffigurazioni del potere malato e corrotto, sebbene ai nostri giorni forse non siano più così spudorate ed evidenti, continuano a essere assolutamente reali, operando solamente con maggiore discrezione.
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Un paesaggio fatto di numeri
Matsumoto Seicho è definito “Il Simenon giapponese” per la similitudine con le storie giallo-noir del noto e prolifico autore belga. Tuttavia, rispetto a Simenon, non si ravvisa in questo breve romanzo quell’analisi introspettiva dei personaggi e delle cause che hanno portato ad un evento, così profonda invece nella scrittura simenoniana. Ma nonostante questa personale osservazione Tokyo Express è un racconto del 1958 che acchiappa e coinvolge il lettore. Attraverso l’indagine poliziesca condotta da Mihara, un commissario della polizia di Tokyo, si narra la storia di un presunto doppio suicidio – un uomo ed una donna vengono trovati morti su una spiaggia rocciosa- dietro il quale si nasconderebbe un clamoroso caso di corruzione politica.
La particolarità del libro, il suo valore aggiunto, è indubbiamente rappresentato dal fatto che la storia del presunto suicidio della coppia, che sembra in realtà nascondere un omicidio con un potenziale colpevole individuato, si sviluppa tanto nello spazio quanto nel tempo, attorno ad un racconto di viaggi e di spostamenti: dal nord al sud del Giappone, dagli estremi dell’isola settentrionale di Hokkaido fino all’isola meridionale di Kyushu; di orari di treni presi (e forse persi), di traghetti e di aerei, che a seconda dei punti di vista e dei protagonisti coinvolti possono allo stesso tempo considerarsi alibi o schiaccianti prove di colpevolezza. Come raccontato dalla parole di uno dei personaggi del libro, l’orario dei treni del Giappone sembra nascondere “Un paesaggio fatto di numeri”, perché dietro ad ogni stazione, ad ogni orario di arrivo e di partenza, sembrano svelarsi tante storie di vita, incastri di orari da rispettare per non perdere quel treno necessario per portarti dove devi andare.
Seicho alla maniera dei migliori romanzieri di genere poliziesco, attraverso le elucubrazioni del poliziotto protagonista, riesce a confondere il lettore, ad illuderlo fornendo indizi che poi si riveleranno fallaci, anche se passettino per passettino il puzzle riesce lentamente a ricomporsi in maniera assolutamente spiazzante. L’autore infatti ci ricorda che “Le persone tendono ad agire sulla base di idee preconcette, a passare oltre dando troppe cose per scontate. E questo è pericoloso. Quando il senso comune diventa un dato di fatto spesso ci induce in errore….E così abbiamo finito per fare il gioco del nemico“.
In definitiva un romanzo piacevole anche se a mio avviso sono presenti alcune lacune riconducibili a differenze sostanziali tra l’epoca di pubblicazione del libro in Giappone, 1958, e l’attuale periodo storico in cui viviamo, tutte imputabili a differenti - e soprattutto più rigide- regole di viaggio che renderebbero praticamente impossibile la costruzione nel XXI° secolo di un certo tipo di alibi così come presentato nel testo. Inoltre se l’autore ha l’indubbio merito di approfondire l’indagine poliziesca che porterà alla soluzione del caso, tende invece a trascurare e sintetizzare eccessivamente nel finale, proprio il fattore scatenante, quindi la ricostruzione del “vissuto” delle due vittime oltre che l’elaborata e sofisticata pianificazione dell’evento delittuoso.
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Saga familiare sudafricana
Romanzo vincitore del Booker Prize 2021, “La promessa” di Galgut ci trasporta in un paese che non è raccontato così frequentemente nella letteratura (Coetzee e W. Smith a parte): il Sudafrica. L’autore narra le sorti della famiglia Swart, bianchi in terra sudafricana, famiglia composta dai genitori e tre fratelli, e decide di farlo attraverso quattro decadi avvalendosi di quattro macro capitoli ognuno dei quali incentrato su un funerale differente che malgrado ciò diventa occasione di ritrovo e di confronto per i membri superstiti, parenti e altri personaggi che ruotano attorno a loro. Su tutta la storia aleggia, come una spada di Damocle, la promessa del titolo, una richiesta verbale da parte della signora Swart al marito poco prima di morire, affinché venga donata alla loro governante di colore Salome la casa di proprietà della famiglia Swart in cui però la donna vive (“Perchè voglio davvero che abbia qualcosa dopo tutto quello che ha fatto”). Ma quanto conta in fin dei conti la promessa verbale in un paese come il Sudafrica, ancora sotto il giogo dell’apartheid, che non prevede la possibilità che la gente di colore possa ereditare immobili?
“Salome non può diventare proprietaria della casa. Anche se Pa volesse, non potrebbe dargliela…..E’ contro la legge”.
Galgut partendo dal periodo dell’apartheid, stratifica il romanzo fino ai nostri giorni, in un paese che seppur uscito dalle sabbie mobili del razzismo fa comunque fatica a lasciarsi scivolare addosso i retaggi del passato e dove la gente di colore continua a essere vista con sospetto. A maggior ragione se a sostenere negli anni il dovere di adempiere a questa promessa nei confronti degli altri membri della famiglia è proprio una bianca, Amor, la figlia minore degli Swart, vista con scetticismo addirittura dal fratello Anton in quanto “….E’ sempre stata fissata con le classi inferiori mia sorella...Non lo fa per ragioni politiche ma è attratta dalle vittime, più deboli sono, meglio è…”.
La promessa è un racconto familiare in cui la storia del Sudafrica fa da sfondo alle vicende umane spuntando qua e là nel testo, senza dimenticare ad es il momento di gloria in cui il paese vinse nel 1995 la Coppa del Mondo di rugby contro gli All Blacks neozelandesi (“Quando Mandela appare con la maglia verde da rugby degli Springbooks per dare la coppa a Francois Pieenar, bé, è un gran momento”).
Particolare risulta lo stile adottato da Galgut che cambia continuamente nel testo passando dalla terza persona con frequenti commenti personali talvolta anche ironici, alla seconda rivolgendosi direttamente ai suoi personaggi, oppure facendoli pensare in prima persona. Forse proprio questa variabilità continua, alla fine disorienta ed appesantisce la lettura di un romanzo che, seppur affrontando tematiche importanti aventi a che fare con i legami di sangue, con la morte, il razzismo e la violenza in generale, non convince pienamente, lasciando un senso di soddisfazione non completo.
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Una famiglia non comune
Se il titolo e l’autrice di questo corposo romanzo, tuttora poco conosciuto in Italia, suscitassero perplessità nei potenziali lettori forse basterebbe prendere in considerazione il fatto che J. Franzen (non serve aggiungere altro) ha scritto un’interessantissima introduzione a dimostrazione della validità di quest’opera. In maniera del tutto “provocatoria” e divertente, Franzen scrive che “Vi sono diverse ragioni per non leggere L’uomo che amava i bambini. Tanto per cominciare, si tratta di un romanzo….” e ancora più sotto precisa “Leggere L’uomo che amava i bambini comporterebbe un uso particolarmente frivolo del tempo…..Parla di una famiglia, e per giunta di una famiglia molto particolare e sopra le righe”.
In effetti già il titolo deve essere letto e interpretato con i corretti strumenti, con quella giusta dose di leggerezza e candore di cui la Stead risulta dotata: Sam Pollit il capo famiglia di questa strampalata “tribù” composta da moglie e sette figli, ama veramente la propria prole di un amore smisurato, ma è altresì un padre narcisista, egoista, viziato e profondamente immaturo nel suo ruolo genitoriale. Sam gioca e scherza con i figli (tutti bambini piccoli sotto ai dieci anni ad eccezione di Louisa la primogenita nata dal precedente matrimonio), inventa per loro un “lessico famigliare”, un codice parlato divertente e accattivante costituito da storpiature di parole, nomignoli e filastrocche, ma allo stesso tempo non perde occasione per coinvolgerli nei lavoretti domestici e nella gestione della casa. In sintesi Sam, che trasforma tutto il menage familiare in un gioco per nascondere le precarie condizioni economiche e la scarsità di denaro, si erge come un capobranco che desidera essere riverito e glorificato. Già da questi elementi è quindi possibile intuire l’obiettivo della Stead in questo romanzo dal sapore fortemente autobiografico: l’autrice australiana parla di un uomo (sicuramente riconducibile alla figura paterna) letteralmente sui generis che dissimula i tesi rapporti matrimoniali con la moglie Henny, con la quale instaura una guerra quotidiana, dietro ad una facciata “da famiglia felice”. La Stead descrive la precarietà di un matrimonio mal riuscito vissuto nella conflittualità più totale, in cui “Sam era lo zar di casa per diritto divino, ma Henny era l’eterno antagonista di questo zar”. Il conflitto tra moglie e marito rappresenta l’ossatura, la colonna portante di questo romanzo in cui Henny, borghese decaduta, viziata e inadatta al matrimonio, non manca di inveire quotidianamente contro il marito (“Mi hai presa, maltrattata, quasi fatta morire di fame…...mi obbligavi a stare qui in questa casa che pare un dente cariato”).
Tra questi due poli troviamo i figli, elementi di un focolare domestico in cui ogni genitore lotta per sottrarne all’altro le attenzioni. In particolare Louisa, la primogenita alter ego dell’autrice, “il brutto anatraccolo” che attraverso la sofferenza respirata all’interno di questa famiglia disfunzionale, tenta di elevarsi, per potere finalmente spiccare il volo. La Stead carica sulle spalle della piccola “Louie” il peso delle complesse dinamiche familiari, evidenziando il disprezzo di cui spesso è vittima da parte di Henny, che essendone la matrigna vede nella figliastra il riflesso dell’odiato coniuge (“Ho sopportato te e la tua puzzolente marmocchia e i suoi pidocchi….Sono dieci anni ed è troppo, non ne posso più”).
L’uomo che amava i bambini è un romanzo che merita fiducia e pazienza, considerata la sua corposità. La prosa e lo stile dell’autrice possono risultare inizialmente di non facile assimilazione, anche a causa di quel lessico inventato ed usato da Sam nel rapportarsi con i figli, ma una volta entrati nell’atmosfera della famiglia Pollit, nonostante l’opera abbia toni decisamente drammatici, si percepisce una levità, una delicatezza, che spingono a procedere nella lettura e che favoriscono una piena immersione nelle dinamiche descritte. Riprendendo le parole di Franzen: “Ogni volta che mi viene voglia di rileggerlo dopo qualche anno di lontananza, comincio a temere di essermi sbagliato, data la scarsa considerazione di cui gode nel mondo letterario. Poi apro il libro con trepidazione, quando dopo cinque pagine vengo di nuovo catturato, capisco che non mi sbagliavo affatto. Sento di essere tornato a casa”.
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Bassezze e splendori di Pietroburgo
Gogol’ arriva a Pietroburgo proveniendo dalla Russia rurale, dall’ambiente borghese di provincia e si trova improvvisamente catapultato nella rutilante atmosfera della nuova capitale dell’impero russo. Pietroburgo agli occhi dello scrittore appare una città in perenne movimento, nella quale convivono due anime: quella dinamica, opulenta, in cui si respira la voglia di vivere, di divertirsi, di farsi notare camminando per strada con abiti alla moda, e quella burocratica, nella quale gli individui sono chiusi nei loro uffici governativi ed in cui l’ordine gerachico, la divisione in classi sociali è rigidamente istituzionalizzata. Partendo da tali presupposti nascono questi racconti pietroburghesi, piccoli gioielli che svelano la visione gogoliana della vita cittadina nei quali l’autore, con il ricorso ad una forte ironia ed non perde occasione per sottolineare i difetti della capitale.
A partire dal primo, “La prospettiva Nevskij”, la principale arteria cittadina ed “Unico svago di una Pietroburgo così povera di luoghi di passeggio!” ma molto attenta all’ostentazione ed all’abbordaggio, da parte degli uomini, di bellezze femminili all’ultima moda che passeggiano indossando “vitini di vespa quali non avete mai neppure sognato”.
Ma i veri piccoli capolavori di questa raccolta sono probabilmente visibili nel racconto “Il ritratto”, nel quale Gogol non perde occasione per parlare dell’ossessione cittadina per il denaro, attraverso la rappresentazione di un quadro maledetto, che sembra garantire ricchezza al suo possessore minandone però l’anima nelle fondamenta e lasciando “in giro un senso di oppressione; agli artisti ispira sentimenti di invidia, un odio cupo verso i propri fratelli”.
E ancora nel celeberrimo “Il cappotto”, che nelle tragedie quotidiane di un antesignano Fantozzi sottoposto alle angherie dei superiori e dei colleghi, fotografa spietatamente la rigidità e la chiusura della società pietroburghese del tempo, divisa da gerarchie che rendono complicata un’ascesa sociale ed in cui possedere un cappotto nuovo può diventare l’unica soluzione per estraniarsi dalla propria mediocrità.
In questi racconti non si trova quell’analisi profonda e filosofica dell’animo umano così evidente ad es in Dostoevskij, ma Gogol’ riesce comunque a raccontare spietatamente i limiti della società del tempo grazie all’ironia di cui è dotato, ammiccando direttamente al lettore e introducendo altresì una sapiente dose di surrealismo e di ricorso al soprannaturale, che in qualche modo costituiscono una ricetta assolutamente gradevole e vincente e che probabilmente non ci si aspetterebbe da uno scrittore russo del XIX° secolo. Come nel racconto “Diario di un pazzo” in cui il protagonista ruba le lettere che una cagnolina ha scritto ad un’altra cagnolina per informarla sui movimenti della sua padrona.
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Una famiglia, una fede e tanti sensi di colpa
In quest’ultimo lavoro di Franzen, primo capitolo di una nuova trilogia, è possibile riscontrare quei “marchi di fabbrica” che caratterizzano lo stile dell’autore. A partire dall’incipit, con quel riferimento meteorologico che sembra ricordare l’inizio de “Le correzioni”, quasi a volere anticipare le vicissitudini turbolente della famiglia Hildebrandt protagonista del libro (“Il cielo spezzato dalle querce e dagli olmi spogli di New Prospect era pieno di una promessa umida”).
A seguire la scelta della location, quel midwest della provincia americana – sobborghi di Chicago- a cui Franzen è tanto legato e che rappresenta il cuore del Paese, ideale per fare da sfondo alla storia degli Hildebrandt descrivendo le aspirazioni di una famiglia borghese (forse meno borghese di quella dei Lambert) che cerca di superare le proprie crisi interiori affidandosi a Dio. Perchè se sostanzialmente esiste una colonna portante di tutto il libro questa è rappresentata dalla centralità della fede, dalla ricerca di una nuova spiritualità nel rapporto col Signore necessaria per trovare la forza per espiare i propri peccati, per non soccombere di fronte ad un senso di colpa immanente caratterizzante ogni membro della famiglia, emblema a sua volta di un senso di colpa collettivo, tratto dominante di tutta un’America bigotta.
Proprio per enfatizzare quanto sia importante la dimensione religiosa nella sua opera Franzen intitola il suo libro Crossroads, che rappresenta il nome dato alla comunità della pastorale giovanile della chiesa di New Prospect, luogo di ritrovo per adolescenti in cerca della propria identità spirituale, e che rappresenta altresì il titolo di una canzone degli anni ‘70, epoca di ambientazione del libro. Attorno a Crossroads si sviluppano le sorti degli Hildebrandt, si manifestano i loro disagi interiori, le loro irrequietezze. A partire dal padre, Russ: il pastore della chiesa locale che oltre ad essere in piena crisi matrimoniale e fortemente attratto da una sua parrocchiana, risulta al tempo stesso pieno di rancore e risentimento nei confronti di Rick Ambrose, nuovo leader di Crossroads, colpevole di averlo umiliato e di avergli sottratto la guida spirituale del gruppo (“Lo sa -disse - perché il gruppo si chiama Crossroads? Perché Rick Ambrose pensava che il titolo di una canzone rock potesse coinvolgere i ragazzi”). Russ nel suo stato di malessere spirituale trova “la dolcezza di affidarsi completamente alla misericordia di Dio: di rendersi così solo e spregevole che solamente Dio poteva amarlo”.
Lo stesso malessere, ma con differenti sensi di colpa Franzen li evidenzia nelle vite degli altri membri, tra cui Marion la moglie di Russ, depressa e con un passato troppo ingombrante da confessare persino allo stesso marito, inevitabilmente “ossessionata dal peccato e dalla redenzione”. O ancora nelle pieghe delle vite dei figli di Russ e Marion, in particolare Bechy e Perry, pregni di problemi adolescenziali che apparentemente sembra possano risolversi con la partecipazione al gruppo della pastorale giovanile di Crossroads.
Nella costruzione della storia si ravvisa poi il "colpo di genio" del narratore, attraverso una narrazione che risulta idealmente suddivisa in due macrosezioni. La prima collocata durante l’Avvento, in attesa dell’arrivo del Natale, in quanto l’Epifania del Verbo che si fa carne rappresenta la sola soluzione per portare nella vita dei protagonisti quella luce spirituale necessaria a sgombrare le tante ombre interiori. Una seconda invece spostata in avanti, poco prima della Pasqua, come a sottolineare che la Resurrezione del Signore possa condurre ad una piena redenzione, ad una catarsi, che lo stesso Franzen ci svela solo parzialmente, lasciando aperti diversi interrogativi in attesa dei prossimi libri.
Franzen nel raccontare le vite della famiglia coglie con dovizia chirurgica lo spirito di protesta, di disagio, di crisi degli anni ‘70, nel quale emerge inesorabilmente il fallimento della guerra del Vietnam e l’ingiustizia sociale, evidente nel mandare al fronte poveri e gente di colore. Come peraltro si evince dalle parole di Clem, il figlio maggiore degli Hildebrandt, che sente sulle sue spalle il peso immorale di essere un privilegiato che si sottrae alla leva grazie agli studi universitari (“Ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, non ci trovi niente di male nel mandare me al college e lasciare che un ragazzo nero combatta al mio posto in Vietnam”). Di conseguenza le tensioni individuali si mescolano con quelle sociali in un Paese, l’America, che vive quotidianamente i conflitti tra oppressori e oppressi, perché Franzen non dimentica nemmeno il problema delle minoranze dei nativi americani. In questo caso i Navajo, confinati nelle riserve in Arizona e oggetto di attenzioni da parte della comunità religiosa di New Prospect, come se l’organizzazione di un annuale campo presso la riserva possa servire a soffocare il senso di colpa per l’oltraggio compiuto dai bianchi oppressori e conquistatori.
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Una vita a colori
Claire Berest in un libro a metà strada tra romanzo e biografia, racconta l’amore totalizzante tra Frida Kahlo (“indossa gonne i cui orli racchiudono messaggi erotici ricamati da lei stessa….si acconcia secondo un rituale prezioso e con la stessa attenzione che mette nel dipingere”) e Diego Rivera (“una figura scenografica, mezzo pachiderma mezzo piovra….Diego Rivera magnetizza le donne senza che queste ne siano del tutto coscienti”). Una passione vissuta tra ispirazioni artistiche, tradimenti e conflitti coniugali di questi due grandi “pintores messicani”, rappresentata ricorrendo ad un azzeccatissimo espediente narrativo: la divisione in macro capitoli avviene sulla base dei principali colori. Attraverso il colore infatti il pittore veicola il messaggio che intende comunicare agli spettatori della sua opera, e così diventa ugualmente possibile veicolare al lettore il contenuto delle vite di questi due grandissimi artisti.
Si comincia con il blu che descrive la prima giovinezza di Frida, il terribile incidente che subisce -lo scontro tra il bus su cui viaggiava ed un tram- che la condizionerà fisicamente e psicologicamente per il resto dei suoi giorni. Ma è proprio a seguito di questo evento che Frida inizia a dipingere, come necessità per trascorrere il tempo durante il periodo di degenza (“Dipingere le dà sollievo. Dipinge perché è inchiodata al letto”) e proprio in questi anni avrà l’occasione di conoscere Diego.
Si prosegue quindi con il rosso, colore della passione, del sangue, dell’amore viscerale che lega Frida a Diego, croce e delizia della sua vita a causa dei continui tradimenti coniugali, della sfacciataggine con cui compiva le sue scappatelle mentre Frida sopportava e piangeva in silenzio (“Sai perché piango? Perché nella mia vita sono stata vittima di due incidenti orribili, Diego, il primo è stato il tram. L’altro quando ti ho incontrato”). Il rosso definisce anche il periodo artistico forse più rappresentativo e prolifico per Diego che assieme a Frida si sposta negli Stati Uniti per diverse commesse artistiche tra San Francisco, Detroit e New York.
A seguire il giallo, colore che rappresenta invece il momento della maturità artistica per Frida. Questa volta infatti sarà lei a soggiornare per lungo tempo negli Stati Uniti dove il suo talento espressivo trova pieno riconoscimento. Ma la lontananza da Diego si fa sentire, i pensieri che gli rivolge, le lettere che gli scrive ne sono un esempio (“è per te che io dipingo, perché tu possa guardare quello che c’è dentro la mia testa”). La lontananza tuttavia anziché sanare vecchie ferite acuisce un senso di disagio nella coppia, in particolare in Diego.
Infine il nero, colore che apparentemente evoca oscurità, negatività un epilogo nefasto. Ma riprendendo il titolo del libro nulla è nero e nulla può scalfire un legame realmente indissolubile come questo. Perché nonostante tutto anche l’amore di Diego nei confronti di Frida è indissolubile e niente potrà mai separare questa coppia che continua a vivere ai nostri giorni, e che continuerà nell’eternità, come risulta facilmente intuibile dalle parole di Frida:
“Tutto quello che i miei occhi vedono e che il mio io tocca, quale che sia la distanza che ci separa, è Diego. Diego, il colore del colore”.
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