Opinione scritta da pirata miope

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Racconti
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    04 Settembre, 2016
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UN'AUTOBIOGRAFIA RINFORZATA

Jann Kross, uno dei massimi esponenti della letteratura estone contemporanea, dà questa definizione della sua stessa opera. Consapevole di rappresentare la coscienza storica e civile del proprio stesso Paese, conteso perennemente fra la Germania Hitleriana e la Russia di Stalin, affida il compito di testimoniare la passione di un popolo, i sensi di colpa per i tradimenti perpetrati a un protagonista che ha le sue precise caratteristiche e le sue medesime esperienze di vita. Nei tre racconti scritti fra il 1979 e il 1980 e pubblicati da Iperborea con il titolo di uno di essi” La congiura” a raccontare in prima persona è infatti uno studente dell’università di Toru, scrittore, prigioniero sia dei Nazisti in “La grammatica di Stahl” sia dei Russi in “La congiura”. Il personaggio Kross è più un ombra che una presenza ben definita, se nel primo racconto “La ferita” ove lascia trasparire nella storia d’amore con Flora le emozioni e i turbamenti tipici dell’adolescenza. Più filtro che attore degli eventi, lo scrittore racconta il trauma di un popolo vittima della Storia: il primo racconto attraverso le vicende della famiglia della ragazza amata si incentra sullo stato d’animo dei tedeschi, da secoli classe dirigente in Estonia, costretti da Hitler a lasciare il paese e a trasferirsi in una Polonia devastata dall’invasione del Reich. “Non voglio vedere quelle navi…Qui sono piene di luci, ma quando prendono il largo, lo so, si spengono tutte. In mare sono nere e cieche come tombe!” cosi esclama Flora nell’ultimo emozionante incontro con l’innamorato al porto di Tallin ed è metafora efficace di un sentimento collettivo. Il mare, il Baltico, spazio dell’avventura e della fuga, è un angosciosa tomba oscura, che rimanda a carceri e prigionie ove l’umanità si perde e annega. A distanza di anni il ricordo degli uomini conosciuti nelle celle, traditi per scherzo o per necessità sopravvive, pietà o senso di colpa che sia.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    05 Agosto, 2016
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TRASLOCHI

Più che una macchina fotografica la penna della Munro è una sorta di bacchetta magica particolare: immobilizza i protagoniste delle sue storie non mentre stanno ferme, in posa, davanti all’obiettivo. bensì nel momento esatto in cui si spostano, traslocano da una casa all’altra, da una città a un paese e viceversa, da un amore all’altro, da un sentimento all’altro. I racconti della scrittrice canadese, non sono il regno del definitivo, né nel senso del tragico né del comico: ci sono sentimenti, riflette Rose, la protagonista di “Chi ti credi di essere”, di cui si può parlare soltanto in traduzione, e la traduzione è “ambigua” e “pericolosa per giunta”. Ed è la strada scivolosa di educazioni sentimentali che è possibile raccontare solo di sbieco che la Munro ha scelto di intraprendere: strada scivolosa, in quanto non ci si imbatte mai in nulla di scontato e la realtà non è mai quella che siamo stati abituati a raffigurarci. La condizione di precariato di Rose costituisce infatti il filo conduttore dei 10 racconti che ne rappresentano la vicenda nell’arco di un’intera vita: dovrebbe essere un romanzo di formazione, ma ogni evento, dall’adolescenza difficile con la matrigna Flo in un sobborgo povero di una cittadina di provincia durante la Depressione, al matrimonio, agli amanti, al lavoro, costituisce le tappe di una diseducazione più che di un educazione. Diseducazione da cosa? Da certezze e da luoghi comuni attraverso cui gettiamo le fondamenta al nostro esistere, illudendoci della loro solidità. Fuggendo da un uomo che forse potrebbe dargli ciò che non ha mai avuto, Rose, arriva a concludere che l’amore“ in un modo o nell’altro ti derubava sempre di qualcosa”. E poi ci sono i tiri mancini del destino che alla fin fine si finiscono di digerire, come cibi mangiati contro voglia e gli impulsi che ti portano a baciare una persona sposata, appena conosciuta a una festa, semplicemente perché si conosce “l’avidità” o a cedere nello scompartimento di un treno alle voglie di un uomo mai visto prima. Se dunque la nostra condizione è una costante e progressiva perdita di centri di gravità, che cosa possiamo dire di noi stessi? Molto poco se non come avviene a Rosa che riconosciuto un vecchio compagno di scuola ex militare infermo in un ospizio sente “vicina la vita di lui, più vicina di quella di uomini che aveva amato”.

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Storia e biografie
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Luglio, 2016
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LA VITA IMITA L'ARTE

Il libro di Stajano dedicato all’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso dalla mafia su mandato di Michele Sindona, scritto nel ’91, inizia con un citazione de “I promessi sposi” : “Per tutto cenci e, più ributtanti dei cenci, fasce marciose , strame ammorbato, o lenzuoli buttati dalle finestre”. Se non l’avessimo letta fra i banchi di scuola la descrizione degli effetti materiali e morali della peste sul panorama urbano e extraurbano potremmo credere che le parole di Alessandro Manzoni fossero cronaca fedeli della nostra realtà. Già perché il capolavoro del grande scrittore lombardo è la carta d’identità dell’Italia unita e la fotografia del Paese lì contenuta ad ogni pagina non è affatto ingiallita con il passare dei decenni e con l’avvento delle varie trasformazioni imposte dal tempo. C’è infatti un filo conduttore che lega la storia di Renzo e Lucia, “Gomorra” di Saviano e “Romanzo Criminale” di Cataldo e i suoi epigoni: la malattia etica delle classi dirigenti corrotte e spesso colluse a vario titolo con le organizzazioni criminali che hanno reso cronica la peste in Italia. Il libro inchiesta di Stajano racconta la lotta impari per emergere dallo “strame ammorbato” di un’altra Italia, un’Italia periferica, schiva alla luce dei riflettori, animata certo da passione civile e figlia forse di una Milano illuminista ma senza grandi aspirazione se non quella di vivere in una società civile ed equa. Di questo paese ai margini è un simbolo Giorgio Ambrosoli, monarchico, di estrazione borghese, incaricato quasi casualmente di liquidare la banca di Michele Sindona finanziere con amicizie importanti, considerato dalla politica “salvatore della lira” L’ossimoro del titolo, eroe borghese, riassume il senso del dramma: la battaglia contro il male è epica e impone d’essere eroe a chi vorrebbe essere persona normale. Il libro illustra la quotidianità del professionista e di chi lo sostiene, ravvivata dal rigore morale e dal senso della stato e in parallelo attraverso i documenti le stanze del potere, politico e finanziario, popolate da un sottobosco di massoni e faccendieri e caratterizzate dalla certezza dell’impunità o dall’ambiguità complice. “Un borghese gentiluomo” ha tutto del poema epico o del romanzo tranne che nella conclusione: l’eroe muore davanti a un passo carraio e ai suoi funerali, il 14 Luglio 1979, lo Stato, assente, non innalza bandiere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    07 Luglio, 2016
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NOSTALGIA

“La sostanza del male” dell’esordiente Luca D’andrea, ci viene detto, è diventato ancora prima di uscire un caso internazionale: sarà infatti pubblicato in ben trenta paesi. Leggendolo però solo in un secondo momento ho preso in considerazione le qualità effettive del giallo: infatti seguendo il racconto fin dalle prime pagine ho iniziato a sentire nostalgia, una profonda nostalgia, della mia lingua madre, dell’italiano, quell’idioma antico di secoli, innervato tutto nelle sfumature lessicali e sintattiche, che, dicono i pessimisti, è destinato a scomparire a favore di una sorta di una koinè/ lingua comune che ha come base l’inglese. Non mi si fraintenda, D’Andrea non è scorretto e il suo thriller per gli amanti del genere non ha grossi difetti, tuttavia, non è certo una novità, il suo è un italiano standard, senza storture creative, coniato già per essere tradotto in inglese ed abbracciare il ricco mercato anglosassone. Detto questo, do atto al libro di seguire le regole base del buon prodotto editoriale: lo sfondo è il Betterbach, una gigantesca gola, in un piccolo centro nel Sud Tirolo, ove si sente “il peso del tempo”e ove i mostri preistorici paiono essere sopravvissuti. Il mistero di un efferato crimine lì avvenuto molti anni prima sprigiona una sorta di fascino malefico che spinge il protagonista Jeremiah, un autore televisivo newyorkese, giunto lì in vacanza con la famiglia a penetrare i segreti del microcosmo e a disseppellire verità scomode. Come ci si attende, la necessità di scendere letteralmente nei recessi della terra per capire provoca quasi lo sfaldamento dell’idillio domestico pronto però a rinsaldarsi una volta rimosso il mostro e ristabilito l’ordine. Non male in definitiva, ma tutto come previsto.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Giugno, 2016
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NEW YORK, NEW YORK


Hallesberg, autore esordiente, prima ancora di pubblicare il suo romanzo fiume”Città in fiamme” è riuscito a strappare all’editore un contratto miliardario: le premesse erano che il libro avrebbe rinverdito il mito del romanzo americano, un’opera mondo, l’enciclopedia tribale degli Stati Uniti e della sua città manifesto “New York. E a colpirti appena prendi in mano il volume non è tanto la mole-sono circa mille pagine-quando il sistema dei personaggi, tutti in egual misura esemplari dell’animale metropolitano, dal giovane bello e maledetto, all’aspirante scrittore omosessuale venuto dalla provincia, dall’adolescente smarrito all’arrivista privo di scrupoli e alla coppia in crisi. Essi con il loro incrociarsi per vie e zone della Grande Mela ne delineano una mappa tanto ideale quanto concreta. La stazione di partenza è costituita dal corpo di un’adolescente, Sam Cicciaro, ferita a morte in un parco: i rapporti dei vari personaggi con lei fanno da esilissimo filo conduttore di una trama coerente nel suo rappresentare aggrovigliandone destini e sogni l’umanità che negli anni 70 faceva di New York il centro propulsore dell’immaginario collettivo di tutto l’Occidente, basti pensare ai gruppi punk, alla musica, al consumo di droga, alle avanguardie artistiche, ai graffiti, a Wall Street, e alla velleità rivoluzionarie e nichiliste di una fauna pittoresca di giovani ribelli al sistema. Tanto più che a fungere da stazione di arrivo è il black out del 13 luglio 77 nel quale in un delirante rincorrersi, ritrovarsi e perdersi, paiono darsi appuntamento i tanti protagonisti di “Città in fiamme”. In realtà la città funziona da calamita ed è la simbiosi con essa a dare spessore alle tante anime che la vivono sulla propria pelle. Dunque romanzo policentrico dove tutti sono attori e nessuno è comparsa: il rischio è ovviamente l’indigestione. Conflitti, moventi, contraddizioni, odi, amore, intrighi, delusioni ed aspirazioni, si affastellano in una prosa esuberante e straripante , che ingigantisce dettagli e visioni, che apre infiniti cerchi senza mai chiuderli

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Arte e Spettacolo
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    08 Giugno, 2016
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L'ELOGIO DELL'E-BOOK

Tim Parks, scrittore e giornalista inglese, nonché professore universitario presso l’Università IULM di Milano, traduce la sua esperienza sul campo nell’universo dei libri in una serie di riflessioni, per molti versi sorprendenti e provocatorie. Colpisce ad esempio la valorizzazione dell’e-ebook: io mi sono riconosciuto fra i detrattori poco generosi della lettura di testi su supporti elettronici, privilegiando il rapporto quasi fisico con il volume cartaceo. Eppure, mi rendo conto, ha ragione l’autore del saggio: l’e-book offre un rapporto con le parole più essenziale e diretto rispetto al libro tradizionale, in quanto si avvicina molto di più all’essenza dell’esperienza letteraria, che è più mentale che fisica. Ma sono molti i miti che Parks sfata, ad esempio il Nobel: chi decide lo scrittore da insignire non legge i suoi testi nella lingua originale ed è probabile che l’illustre onorificenza sia più che altro l’espressione di solidarietà verso le esperienza culturali più significative di determinate aree del globo in crisi, quali il blocco sovietico, il Sud America o l’Italia berlusconiana. Il saggio infine finisce con il delineare l’identità dello scrittore e del lettore contemporanei: chi scrive oggi ha come interlocutore non più un contesto locale specifico come nel passato ma il villaggio globale, che parla e pensa in inglese e chi legge spesso compra libri, generalmente di autore anglossassoni, per poterne parlare. La letteratura comunque è viva e vegeta, ma tutto quanto ci viene detto conferma la premessa del saggio: che l’umanità abbia bisogno di storie non è che un luogo comune

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    15 Mag, 2016
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DUE LUNE NEL CIELO

Quale pianeta misterioso e inquietante intravedono i protagonisti di 1Q84, l’insegnante di arte marziali Aomame e il matematico ed editor Tengo, quando la Tokio contemporanea in cui abitano li abbandona ai margini delle sue tangenziali intasate e dei suoi quartieri affollati di bar per uomini e donne sole? Si tratta certamente di un luogo funestamente magico nel quale spuntano due lune nel cielo, dalla labbra di una bambina stuprata e traumatizzata fuoriescono minuscole creature, i cosidetti Little People e una capra cieca viene segregata da una setta religiosa e sorvegliata da un’adolescente che poi trascriverà l’esperienza in un abbozzo di romanzo. Eppure all’inizio del libro, un taxista sentenzia” Di realtà ce n’è sempre una sola”. Allora il problema non sta tanto nello stabilire se abbiamo una o mille realtà ma di definire qual è quell’unica realtà che noi percepiamo e facciamo nostra. Aoname e Tengo in realtà non sono individui comuni, ma il loro sguardo sul mondo è particolare: tutto in loro, storia, personalità, solitudine, in realtà li rende straordinariamente affini a personaggi dei grandi classici della letteratura occidentale, dagli orfani di Dickens all’Alice di Lewis Caroll. Essi condividono l’esperienza dell’abbandono dei genitori con l’altra sfuggente ma fondamentale apparizione del romanzo, la diciasettene scrittrice Fukaeri. E la condizioni di orfanità caratterizza non solo gli attori principale della vicenda ma l’intero universo in cui compiono la loro discensio ad inferos, scendendone da entrate speculari: Aomame conosce la violenza e l’omicidio, Tengo l’impossibilità di darsi un’identità stabile. Ed è lì che essi ritrovano la realtà di cui solo la grande letteratura ha svelato la natura distopica e disorientante: c’è un entità misteriosa che sovradetermina la trama delle nostra vite, come ne “Il castello” di Kafka rappresentata nel libro dalla setta misteriosa attorno a cui le sorti di tutti finiscono per gravitare. Ma non esiste più il Grande Fratello della celebre distopia orwelliana e il 1984 è diventato 1Q84, dove la q maiuscola rappresenta il grande interrogativo sulla peculiarità metamorfica della contemporaneità ove non esiste più l’assolutizzazione di una qualche verità e dove la presenza corporale si confonde con quella virtuale. Ma è comunque la sola realtà che noi possediamo, il labirinto di forme che solo la letteratura, fin dai tempi del multiforme Odisseo omerico, ha saputo imprigionare con il suo sguardo tentacolare.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    08 Mag, 2016
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IL PROFONDO CUORE DELL'AMERICA

Ognuno di noi nella propria vita di case ne ha molte, una sola o nessuna, a seconda di come esse o essa, se ci sono, ha messo radici inamovibili nel nostro modo di essere al mondo e di vedere la vita e coloro che ci circondano. E’ questa la tematica profonda del terzo romanzo della sessantottenne e poco prolifica Marilyn Robinson nata di un paesino dell’Idaho (Usa): la casa del reverendo Robert Baughton, ormai giunto alla fine della vita, accoglie due dei suoi otto figli, i più fragili, quando essi fuggono dal mondo che li ha in un modo o nell’altro traditi. Glory è stata ingannata da un uomo sposato, e Jack, dopo aver abbandonato un figlio, ha un’esistenza irrequieta, fatta di celle di prigione, accattonaggio e relazioni tormentate. L’immaginario villaggio dello Iowa, Gilead, è il luogo dove la dimora paterna con le sue leggi li attende, immobile nel tempo e nello spazio, le cui mura sono talmente solide da non lasciar filtrare quasi nulla dall’esterno: ed è precisamente l’impossibilità di conciliare la forza tirannica di quel dominio fatto più di silenzi e allusioni che di divieti, con l’esperienza adulta, a rendere irrealizzabili, monche, le vite dei due fratelli. “Casa” condivide con il predente romanzo dell'autrice, "Gilead" personaggi e luoghi, come se la Robinson, a disagio nell’America contemporanea, quella delle metropoli, delle serie tv e di Trump/Clinton, sentisse l’urgenza di trovarsi un angulus, appartato, lontano anche nel tempo, considerato che la storia è collocata negli anni 50’: un milieu rurale, ove la l'umanità si divide in chi consiera la Bibbia testo sacro e in chi vi si ribella, in chi perdona e in chi esilia, forse mai scomparso, insomma il cuore profondo dell’America, al centro di tutta una tradizione letteraria, cui forse dovremmo rassegnarsi a prestare attenzione per comprendere i destini del pianeta.

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Religione e spiritualità
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    17 Aprile, 2016
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E' STORIA ANTICA!

Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de' preti...Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici m'ha necessitato a amare, per el particulare mio, la grandezza loro: e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo...per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità": cosi scrive Guicciardini( 1483-1540) nei suoi “Ricordi”, ma un ben motivato anticlericalismo lega teorici, poeti e storiografi italiani, da Dante a Machiavelli. Ciò che si rimproverava alla Chiesa era l’anteporre il potere temporale a quello spirituale, nonché l’aver impedito allo Stato italiano prima di formarsi poi di aver interferito pesantemente con la vita democratica del nostro Paese. Il libro di Fittipaldi, giornalista dell’Espresso, non teorizza, è piuttosto una registrazione dettagliata e documentata di come il Vaticano, in contrasto con l’azione moralizzatrice del nuovo Pontefice, sia in realtà uno dei poteri occulti che inquinano dalle fondamenta l’etica e la morale non solo della comunità dei credenti. Intrighi, corrotti e corruttori, insomma uno dei migliori gialli in circolazione, tenuto conto che di ispirazione e di idee illuminanti non c’è stato alcun bisogno.

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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    19 Marzo, 2016
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MENTALISTI

Carlo Martigli nel suo ultimo romanzo affida a Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, l’indagine sugli intrighi in Vaticano, ipotizzando per assurdo che nel 1903 Leone XIII, prima di spirare, ricorra a lui per scoprire chi ha spinto una cameriera e una guardia svizzera a gettarsi da una finestra; suo scopo è impedire che il colpevole diventi papa. Perché proprio lui, ebreo e notoriamente scettico in materia religiosa? Il motivo è semplice: suo compito non è quello di andare in giro a raccogliere indizi e ad interrogare testimoni. Egli deve limitarsi a far sdraiare sul suo lettino i tre possibili indiziati, esaminare i loro sogni e da lì trarre le sue deduzioni. L’inchiesta dunque prevede molta più riflessione che azione, tanto più che l’immersione nell’ambiente romanzo provoca nel dottore viennese rigurgiti di sensi di colpa provocati dal risveglio dei sensi nonché aneliti di auto analisi. La promozione a “ mentalista” di un personaggio storico è un topos nella detective story, basti pensare, per limitarci ad un solo esempio, ad Aristotele nei libri della canadese Doody. Ma a non convincere pienamente nella contaminazione fra romanzo storico e giallo in questo caso è proprio l’assenza di un vero percorso che conduca a una verità sorpredente: gli intrighi trans Tiberim restano sullo sfondo, limitati ai peccati di letto, cosi come i demoni vestiti di porpora della situazione, tratteggiati in breve, non affascinano più di tanto, abbastanza simili come sono l’uno all’altro nelle loro ambiguità. Ma forse la delusione deriva dall’impatto con la realtà svelata della recenti inchieste giornalistiche di Fittipaldi e Nuzzi: altro che romanzo!

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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    11 Marzo, 2016
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LISISTRATA REDIVIVA?

Alessandro Barbero, classe 1959, autore di romanzi storici, in quest’ultimo rende omaggio ad Aristofane, colui che nelle sue commedie irrise alla democrazia ateniese antica e ai suoi principali leader. La sua satira si rivolse a uno stile di vita che aveva come base una politica imperialistica, aggressiva e guerrafondaia, volta a finanziare la partecipazione retribuita del popolo all’assemblea, ai tribunali popolari e al teatro. Nella letteratura greca del periodo ( V e IV a. C.) Atene ebbe occasione di riflettere sulle conseguenze del suo operato, e sono molte le pagine di storiografi e tragediografi in cui è possibile riscontrare una disanima della guerra nonché intuire i sensi di colpa per la ferocia imposta dalla medesima, come ad esempio la strage dei cittadini maschi della piccola isola di Melo, colpevole di non essersi schierata, patria d’origine di uno dei personaggi del libro. Aristofane in uno dei suoi capolavori, “Lisistrata”, immagina che le donne trovino il mezzo per costringere le due città rivali Atene e Sparta alla pace: stringere un’ alleanza con le donne spartane e negare il letto ai rispettivi uomini. Nel romanzo Barbero racconta il momento della rappresentazione della commedia, citando passi salienti del testo e sintetizzandone la messa in scena con riferimento alle meravigliose parti corali. In parallelo all’utopica rivincita delle donne in teatro lo scrittore descrive per molti capitoli lo stupro di due ragazze d’origini umili perpetrato da un branco di rampolli ricchi. Il montaggio alternato sicuramente è efficace, mantiene viva la tensione, soprattutto tenuto conto che il contesto storico è verosimile, senza inutili forzature attualizzanti. Interessante ricordare con “Le Ateniesi” che sulla cosiddetta miglior forma di governo avevano dubbi persino coloro che l’avevano inventata.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    07 Marzo, 2016
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UN IPPOPOTAMO IN BAGNO

Il mondo estremo è quello del caos, di forme e corpi mutabili, inafferrabili, contrapposto all’universo ordinato e gerarchizzato di Roma: il primo è simboleggiato dal poeta Ovidio, il secondo dall’imperatore Augusto. Lo scrittore deve spingersi in quei territori impervi e il bellissimo libro dello scrittore austriaco Christoph Ransmayr, classe 1954, metaforizza l’itinerario esplorativo di ogni poeta: più poema che romanzo “Il mondo estremo” ripercorre il soggiorno di Cotta a Tomi, sul mar Nero, luogo d’esilio del poeta latino, sulle tracce del capolavoro di lui, “Le metamorfosi”. Il cronotopo(il dove e il quando) evoca uno spazio interiore, un luogo seperato dell’anima dove della Storia e della civiltà arrivano vaghi riflessi: siamo in una contemporaneità indefinibile, simboleggiata da un imperatore che passa le giornate a contemplare un ippopotamo in una vasca, e in una città quasi fantasma, vivificata da Carnevali e riti arcaici e popolata da presenze più oniriche che reali, incarnazione delle tante figure mitiche raccontate nel poema ovidiano. Lì l’artista scopre che deve smarrire la propria immagine, confonderla con altre mille, sprofondare nel baratro del dolore e della follia, diventare pietra per essere sangue e carne.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    01 Marzo, 2016
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PIU' DE BELLO GALLICO CHE GAMES OF THRONES

Piu De bello gallico che Game of thrones! Nel primo volume della trilogia di Jacqueline Carey il male esiste, il suo obiettivo è la conquista del potere e si concretizza negli intrighi di nobiluomini e gentildonne al fine di sottrarre la corona a colei cui spetta di diritto. Ci sono dunque da una parte della barricata i cospiratori e i malvagi, contro cui si ergono, coraggiosi, i difensori dell’ordine e i loro alleati. La schema nella sua classicità è però rimpolpato da alcuni elementi inconsueti: in primo luogo il lato oscuro nella psiche dell’eroina protagonista, Phèdre, simboleggiato da una macchia scarlatta nell’occhio sinistro. Educata a esercitare una sorta di prostituzione sacra in nome del Dio delle sue genti essa prova una masochistica attrazione nei confronti dei suoi carnefici, soprattutto verso Mélisande, la perfida donna che ha massacrato i suoi protettori e l’ha resa schiava. E’Phèdre stessa a narrare le sue avventure in prima persona e la scelta di farne la voce narrante ha consentito all’autrice di dilatare il racconto, di aprire ampie digressioni sugli usi e i costumi dei popoli del regno fantastico rappresentato, vagamente somigliante all’Europa, suddiviso fra i civili angeline e i barbari skaldi. Ci sarà ovviamente battaglia, ci saranno amori e abbandoni, i buoni vinceranno, i cattivi perderanno in attesa della rinascita/riapparizione nella prossima puntata.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    13 Febbraio, 2016
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EVANESCENZA

Non appena inizi a leggere il libro, fai fatica a orientarti: chi racconta cosa, a chi? Lo scrittore più che raccontare allude, come se già noi fossimo a conoscenza dei fatti e delle persone di cui si sta parlando. In effetti, andando avanti, capisci che a sbagliare eri tu, nell’aspettarti un romanzo da qualcosa che romanzo non è: escludendo i tassisti dal suo racconto, Cordelli abbonda in definizioni e precisa che il loro racconto, ovvero suo e della persona cui il racconto viene fatto, sua figlia, è una raccolta di appunti, è una serie di ricordi e infine è la sua “compiacenza” e il suo “amore”. “Una sostanza sottile” sfida il lettore dandogli il ruolo di terzo incomodo fra un padre e una figlia che colloquiano fra loro in Provenza ad Avignone. In realtà è il genitore a svelare, a ripercorre avanti ed indietro gli eventi di un’esistenza, che fa fatica a definirsi, a essere qualcosa di più di un vago assestarsi fra figure femminili evanescenti, letture e reminiscenze letterarie, malattie e degenze in ospedale, viaggi ed eros. La natura di un libro, si afferma ad un certo punto, è non intellettuale ma “cantabile” ed alla fin fine la sonorità dei periodi, il ritmo, la composizione sinfonica, l’eufonia degli aforismi è l’impronta che ti resta di quello che hai letto, il resto ti è sfuggito, un’ombra appena intravista.

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solo a chi preferisce la vaghezza della poesia alla concretezza della prosa.
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    01 Febbraio, 2016
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IL DRAMMA DELLA VOLONTA'

Nel suo romanzo più amato e poco apprezzato dal pubblico vittoriano Trollope (1815-1882) mette a confronto due volontà speculari nella fermezza e nella capacità di condizionare ma opposte negli esiti: la Contessa Lovel si è condannata all’infelicità pur di entrare a far parte della società dei “gentiluomini”, sua figlia Lady Anna invece preferisce il rispetto della propria coscienza rimanendo fedele al “sarto” che le è stato vicino soccorrendo lei è la madre quando erano disprezzate dalla società. Il terreno di scontro sono le convenzioni e i pregiudizi della mentalità vittoriana, contraria a “qualsiasi mescolanza di rango”: riottenere il titolo e i beni del marito nobile e “malvagio” è l’unica ragione di vita della madre, obiettivi a cui invece la figlia non è disposta a sacrificare futuro e felicità. Le due si amano profondamente, ma la dannazione dell’una coincide con la salvezza dell’altra: la madre vorrebbe imporre alla figlia il matrimonio con il cugino che le consentirebbe di essere ammessa a pieno titolo fra i “gentiluomini” e la figlia non assecondandola diventa la sua peggior nemica. Il cuore del libro è la tensione dovuta all’interiorizzazione del conflitto da parte delle due protagonista e il suo riverberarsi negli schemi comportamentali di una società che al di là dei pregiudizi parrebbe sempre schierarsi dalla parte di chi vince le battaglie.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    15 Gennaio, 2016
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RECENSIONE INUTILE!

Come si fa a recensire un capolavoro su cui fiumi d’inchiostro sono già stati versati e miriadi d’interpretazioni critiche sono state elaborate. Mi limito a dire cosa può piacere a un lettore d’oggi d’un romanzo dalla lunghezza interminabile e cosa invece è di difficile digestione. Cominciamo dalle pagine davvero insopportabili( il che non significa brutte, perché in realtà sono davvero mirabili, scritte con rigore certosino e hanno una giustificazione nell’economia del libro): si tratta delle digressione storiche sulla battaglia di Watherloo o sulla monarchia di luglio e sulla stessa fisionomia di Parigi. In secondo luogo si fa fatica a entrare in sintonia con la retorica e i voli pindarci su Dio e sull’amore di cui è pervasa la prosa di Hugo: oggi non si ama più cosi, le anime non sono più cosi pure e forse chi è religioso non prega più Dio in questo modo. Ma detto questo i “Miserabili” è un gioiello davvero. In primo luogo per la storia con le sue mille ramificazioni che lo rendono un edificio dall’architettura davvero ineguagliabile, tanto più che in essa si mescolano il male e il bene, la dannazione e l’utopia di una redenzione. E in ultimo se si vuole toccare con mano cosa potesse significare essere poveri più o meno 100 anni fa basta aprire una delle tante pagine del romanzo e la fame, il freddo, il ribrezzo ispirato alla gente lo senti sulla tua pelle.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    28 Dicembre, 2015
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ESTETISMO SARCASTICO

La cosa più interessante di “La biblioteca della piscina” è il sentimento di perdita che pervade le cronache in prima persona di un libertino gay, bello e ricco, William Beckwitt, che abita la Londra degli anni ’80 senza doversi preoccupare d’altro che di soddisfare le proprie voglie nei confronti di giovanotti più o meno maledetti ma dai corpi scultorei. Parlo di voglie, perché nella pagine di Hollinghurst, classe 1954, autore de “La linea della bellezza” vincitore del Booker Prize del 2006, l’amore quando fa la sua comparsa è per negarsi tragicamente o per svanire inavvertitamente, dopo apparizioni fugaci e reciproci tradimenti. L’esuberanza sessuale e l’ossessione per corpi e apparati genitali, intravisti dalle docce di una piscina, non è espressione gioiosa: siamo lontani chilometri dal trionfo di sensi ed appetiti tipici della cultura carnevalesca. Al contrario un’ombra grava sulle avventure erotiche del giovane “signore”, dei componenti del suo “giro”, e dell’ottuagenario lord Nantwich, conosciuto per caso, di cui egli legge le memorie: il senso di una precarietà e di un’instabilità emotiva, propria forse di una classe sociale condannata, al di là delle inclinazioni sessuali, all’irrilevanza dai suoi stessi vizi e privilegi. Da questo punto di vista la giovinezza trasgressiva ma inconcludente di William è speculare alla vecchiaia senza più occasioni dell’anziano Lord di cui si incarica di scrivere la biografia. Infine, la prosa cesellata alla Henry James pur in un realismo dettagliato su fellatio e sodomia porta la vicenda nell’alveo di un estetismo che di se stesso ride sarcastico.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    19 Dicembre, 2015
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LA VIRTU' DEGLI ASINI

Il primo dubbio che ti viene leggendo il libro di Trevi è se ad abitare i romanzi contemporanei ci siano ancora gli individui o se piuttosto la realtà di oggi, cosi metamorfica, cosi labile negli sconfinamenti continui nel virtuale, abbia finito per scarnficare totalmente le personalità e per ridurle a maschere, a simboli, tutti afferrabili in una sola definizione. “Il popolo di legno” racconta in effetti di un certo Topo, che aiutato da un amico/ innamorato devoto, chiamato Il Delinquente, i cui parenti, detti gli Zii, hanno legami con l’’ndrangheta, comincia a trasmettere da una radio un programma in cui si esibisce in una serie di monologhi in cui rilegge a modo suo il Pinocchio di Collodi. La sua voce, trascritta in grassetto, in realtà fornisce la chiave di lettura del romanzo: scuola, società, giornali politica hanno trasformato i calabresi da burattini di legno in bambini normali, privandoli della fantasia e di uno spirito libero, esattamente come avviene a Pinocchio. E ciò che vale per i calabresi vale per tutti noi: si può conservare l’autenticità dell’anima e sottrarsi all’omologazione imperante solo se si non ci si spoglia della scorza dura del legno. Trevi affida il messaggio disperato a personaggi dall’identità fluida, la cui visione della vita è un misto di cinismo e disperazione. La presunzione del filosofo intellettuale del resto è un' arma spuntata contro un destino inafferrabile, ove il tempo “ scorre e si dilegua, indifferente a se stesso prima ancora che ai miliardi di anime in pena che si trascina”. Se così è, gli asini vedono lontano.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Dicembre, 2015
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TERMINE DI CONFRONTO PER I SANI

“Le conseguenze dell’odio” è il 19° caso dell’aristocratico e compassionevole ispettore di New Scotland Yard, Thomas Linley, eroe dei romanzi di Elizabeth George, apprezzata autrice di romanzi gialli. Il corposo libro non rappresenta una sorpresa per chi ama la scrittrice: se ogni evento delittuoso è l’inevitabile conseguenza di un determinato contesto familiare è lì che l’attenzione del narratore deve concentrarsi, è lì che vengono gradualmente alla luce i sintomi della patologia psichica che latente per anni finirà per scaturire nell’atto violento. Ne “Le conseguenze dell’odio” la ricerca della verità sull’assassinio di una nota scrittrice femminista Clare Abbot viene condotta dall’ispettore Linley e dalla sua squadra, il rude sergente Barbara Havers e il salutista Winston Nakata nel puro rispetto delle convenzioni del genere, fra i patemi interiori dei poliziotti relativi alla loro vita privata e gli indizi che ingarbugliandosi rendono ardua la sfida. Qui però conclusa l’indagine il vero inquietante mistero, ovvero la malattia psichica, sfugge alla spiegazione logica: la personalità ingombrante di Coraline, l’assistente della donna assassinata, occupa il centro della scena come possibile assassina o come potenziale vittima. La George le affida sicuramente il ruolo di prima donna, motore degli eventi, le sue azioni hanno conseguenze irrimediabilmente tragiche, è madre snaturata, moglie inqualificabile, suocera crudelmente intrigante, ricattatrice, tuttavia un epiteto atto a qualificarla moralmente non ha molto senso. Caso clinico o amore deviato che sia, meglio consentirle d’essere il termine di confronto salvifico per il mondo dei “sani”

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Scienze umane
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    13 Novembre, 2015
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UNA SCIENZA INATTENDIBILE

Mancuso, teologo laico, è convinto che anche l’amore necessiti di una filosofia, e più specificamente, di quella parte di essa denominata etica. In primo luogo sgombra il campo dai numerosi luoghi comuni sull’argomento: l’amore pieno è prima attrazione erotica verso un corpo( eros) poi attrazione del sentimento( philia) e infine attrazione dello spirito ( agapè). In sintesi solamente chi riesce a raggiungere i tre stadi recepisce in sé la pienezza dell’amore ovvero l’amore integrale. Si tratta di una rivisitazione del “Simposio” di Platone in cui la bellezza fisica faceva da tramite fra l’individuo e il mondo delle idee situato in un iperuranio immateriale. Ovviamente nel teologo Mancuso il rimando alla metafisica ovvero alla realtà che è oltre al mondo percepito dai sensi e che può essere concepita come Dio, si fa molto più sfumato: Dio, ammesso che esista, è “un’entità immateriale, forse al di là dell’energia, da cui emergono i semi originari dell’energia e della materia”. In questo modo poi spiega l’innamoramento: c’è all’interno dell’universo una “tensione orgasmica” verso l’organizzazione aggregativi che pervade tutti i fenomeni. Tuttavia come sempre nei saggi di Mancuso, erede più di Cicerone che di Platone, la prospettiva è pragmatica e non speculativa e cerca di darci un galateo, una norma di comportamento che ci garantisca benessere interiore ovvero una morale. Ed proprio in nome della felicità individuale e sociale egli contesta sia l’ottusa chiusura della Chiesa ufficiale verso i rapporti prematrimoniali e l’omosessualità sia anche l’edonismo sfrenato proprio di moltissimi comportamenti diffusi oggi. In conclusione “Io amo” è una lettura interessante, persino fondamentale, tuttavia non posso fare a meno di sentirmi ronzare in testa una canzoncina di Bennato: l’amore “è una scienza inattendibile. Niente regole da studiare, niente formula da imparare…..”

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    09 Novembre, 2015
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PONTI PER TERABITHIA



Nelle cittadine di provincia degli States( e non solo) ciascuno si porta dentro regni incantati, popolati da creatura fiabesche e si costruisce dei ponti da attraversare per poterci entrare quando la realtà è troppo soffocante per poterla sopportare: avviene così a Leslie e Jess gli emarginati protagonisti de “Un ponte per Terabithia” (1976) della Paterson e avviene cosi anche per ogni personaggio del microcosmo descritto da Holly Goddard Jones, autrice di racconti, che con “La prossima volta” scrive il suo primo romanzo. La storia è collocata nel 1993 a Roma piccolo centro dello stato del Kentuchy ma c’è da chiedersi se la data scelta non abbia consentito alla scrittrice di presentare con i tratti di una maggior verosimiglianza il ritratto di una comunità all’interno della quale i legami la contemporaneità rende sicuramente più sfumati e più difficile da afferrare. Bisogna infatti riconoscere che nella Roma americana e nei tratti dei suoi abitanti riecheggiano prima ancora che la nota serie di Lynch “Twin Peak” i versi dell’ “Antologia di Spoon River” nonché molte pagine di King. Tuttavia la Goddard Jones lavora di cesello per cercare di sfrondare il tipico e il letterario da personaggi e contesto e almeno in parte ci riesce grazie alla naturalezza della sua prosa: la scomparsa di una giovane donna, disinvolta frequentatrice di bar e di uomini, è ciò che consente alla disperazione latente delle persone che hanno a che fare con lei di uscire allo scoperto con conseguenze devastanti. Ciascuno di loro, chi prigioniera di un matrimonio infelice chi vittima di crudeltà, chi destinato all’esclusione per l’aspetto, ha vissuto un’esistenza di pacifica desolazione, costruita sul soffocamento di impulsi, emozioni ed aspirazioni. Fino a quando un corpo fatto a pezzi chiude per sempre il ponte che porta a Terabithia: la coscienza di sé è il delitto che non risparmia nessuno.

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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    30 Ottobre, 2015
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UNA VOCE LONTANA

«L’odio non era un fatto personale, ma strutturale. Le persone non avevano più un volto, degli occhi, un nome e un lavoro….Persone che si conoscevano da una vita, dimenticavano tutto ciò che sapevano le une della altre. Rimaneva solo la cosiddetta nazionalità» Sono queste le parole con cui Masha, la giovane protagonista del romanzo d’esordio autobiografico di Olga Grjasnova, classe 1984, descrive il clima di violenza di una città, Baku, capitale dell’Azerbaigian, devastata dalla guerra civile fra azeri ed armeni.
Questa deprivazione del sentirsi persona in nome di un’astratta appartenenza a un concetto di popolo Masha la sente dentro di sé e attorno a sé, nelle persone che disperatamente ama o vorrebbe amare: è come un vincolo di parentela da cui vorrebbe liberarsi ma che la attrae a sé, come una voce che viene da lontano, dai tempi dell’Olocausto. Masha infatti è d’origine ebrea e nel suo racconto in prima persona si avverte il senso di colpa d’essere una sopravvissuta ai campi di concentramento che caratterizza molti scrittori Yiddish. La persecuzione continua a gravare sulle generazioni di figli e nipote delle vittime dell’Olocausto e a gravare come un marchio d’infamia sulle loro esistenze: l’identità perduta non può essere restituita né dalla rinata Germania dove la protagonista si è trasferita con la famiglia né Israele, dove lei si passa un breve periodo di tempo per riscoprire le proprie radici. L’universo di Masha è composto da esuli come lei, giovani fragili in perenne fuga da un luogo all’altro e da un amore all’altro o da anime sradicate, come suo padre che sognava di andare nello spazio, il cui unico conforto è la contemplazione dai tetti delle costellazioni. “Tutti i russi amano le betulle” è la testimonianza di un’altra Europa, un’Europa ancora prigioniera dei propri incubi.

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Racconti
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    24 Ottobre, 2015
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il VIRIVIRI'

“E questa fu l’origine di tutto il virivirì che capitò appresso” con questa frase Camilleri dà il via alle danze scombinate che nell’ottavo racconto della raccolta”Le vichinghe volanti” portano ad esiti imprevedibili. In realtà nel mondo di Camilleri racchiuso nei confini di Vigata il virivirì capita sempre, anzi il vivirì è la sola categoria del reale concepibile, tanto che persino sintassi e lessico devono adeguarvisi, deformandosi e reinventandosi. Il caos non è compatibile con le regole rigide della grammatica: leggere i libri di Camilleri in italiano corretto sarebbe come sentire un' orchestra con strumenti scordati. A cercare di mettere le briglie alla follia degli accadimenti di solito c’è il commissario Montalbano, la cui assenza ne “Le vichinghe volanti” lascia libertà totale al virivirì di dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. Le sue origini sono nel cuore di uomini e donne, soggetti solo alle proprie voglie: basta l’incontro casuale su un pianerottolo, in “Il terremoto del ‘38”, la visione di un corpo nudo nell’acqua di un fiume, ne “i cacciatori”, o in un quadro, in “il boccone del povero”, per far scaturire la passione fino a farla coincidere con il deliro e con l’allucinazione come avviene al prete protagonista di “In odore di santità”. Le convenzioni sociali da sempre contrastano con il desiderio: il tempo scorre, cambiano governi e condizioni, la Vigata del 1910 non è più quella di oggi ma da questo punto di vista non vi sono mutamenti significativi. Le storie sono infatti ambientate fra l’inizio e la metà del secolo scorso, ma qualunque sia il contesto, l’eros è sempre e comunque elemento ribelle e destabilizzante. L'esplosione dell'eros incontrollabile porta al dramma talora, più spesso alla farse ridicola.Né le differenze di classe né la gelosia patologica di una madre( “Il boccone del povero”) e neppure la paura del cataclisma ( “Il terremoto del '38”) vincono del resto“Il sciaurio di giglio” della bellezza di un corpo.

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Romanzi autobiografici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Ottobre, 2015
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PiCCOLE REALTA' EDITORIALI

Ritengo doveroso prima di dire qualcosa del bel libro dello scrittore ungherese György Konrad fare un cenno al piccolo editore di Rovereto nel trentino Keller che ci consente di scoprire testi ed autori che altrimenti ci resterebbero preclusi.
Un esempio è proprio questo brevissimo libro autobiografico in cui György Konard parla dell’Olocausto, dunque di un argomento su cui, a torto, crediamo di sapere tutto. In “Partenza e ritorno” a rivivere e a raccontare in prima persona il tragico evento è lo scrittore bambino ebreo di undici anni: nella cittadina ungherese dove vive con i genitori benestanti egli vede suo padre varcare il cancello di casa portato via dalla Gestapo, sua madre scomparire, e tutta la comunità svanire nel nulla. Quanto a lui, grazie a una provvidenziale fuga da una zia a Budapest riesce a scampare alla sorte riservata a tutti i suoi compagni di classe, ovvero la camera a gas ad Auschiwits. Il campo di concentramento resta però sullo sfondo: al centro del racconto vi sono piuttosto gli effetti collaterali, anche molti anni dopo i fatti, della decimazione di un intero popolo sui sopravvissuti. Uno stile sobrio concentrato sui dettagli che riprende in istantanee folgoranti come in un quadro o nella scena di un film, lo stupore, l’orgoglio ferito, la sensazione di desolazione e di vuoto di chi ha vissuto sulla propria pelle, prima ancora di diventare adulto, quegli eventi. Emergono figure tragiche, dipinte in pochi tratti essenziali, e persino l’impossibilità introiettata di abbandonarsi al proprio dolore: ” In caso di pericolo l’essere umano diventa pragmatico e pensa alla morte solo se si presenta concretamente, come quando gli viene puntata una pistola alla tempia. In quell’istante si rende conto che è possibile morire. Poiché si diventa adulti nel momento in cui ci si confronta con la propria morte, io sono adulto dall’età di undici anni. Può succedere anche prima, o più avanti con l’età, o anche mai”

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Fantasy
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    05 Ottobre, 2015
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ETERNI RITORNI

Nei regni del fantasy non c’è progresso o regresso: la Storia è ciclica, la pace assicurata dal trionfo del bene non è mai duratura, il male sconfitto si risveglia e torna sempre. Il Mondo Emerso creato dalla penna di Licia Troisi, classe 1980, l’autrice di fantasy più venduta in Italia, non fa eccezione alla legge dell’eterno ritorno: cinquant’anni dopo che la Gilda degli Assassini( la lotta contro di essa è stata al centro de le “Guerre del mondo emerso”) è stata annientata e il buon re Learco ha assicurato la pace alle varie terre del suo regno, una terribile pestilenza, dalle origini oscure, annienta popoli e città e impone l’ennesima competizioni contro un nemico, i cui connotati nel “Destino di Adhara”, primo libro della terza trilogia del ciclo del Mondo Emerso, sono ancora misteriosi. Dato che nel continente del fantasy, la democrazia non è concepibile, la competizione può essere solo fra il tiranno spietato e il monarca paterno ed illuminato, ai fini del dominio assoluto su razze diverse e creature mitiche antropomorfe, quali ninfe ed elfi. La prima mossa del Signore del male è l’aggressione alla mente dei potenziali nemici, per sottrarli all’avversario e per utilizzarli ai propri fini. La protagonista del libro Adhara è stata infatti privata della memoria e Amahl, il ragazzo da lei amato, un coraggioso Cavaliere di Drago, viene soggiogato dall’ambiguo San, fino a smarrire la coscienza di sé e a trasformarsi in una sorta di automa al servizio di una forza oscura. I patemi della crisi d’identità costituiscono dunque buona parte del romanzo, con sullo sfondo a garantire l’azione la devastazione dell’epidemia e la lotta disperata dell’eroina per sottrarre l’amato al suo destino. Sorprese? Perché mai se l’oliato meccanismo per gli amanti del genere funziona?

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    28 Settembre, 2015
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EFFETTO MOCKUMENTARY

L’assalto alle Torri gemelle avvenuto 11 settembre 2001 ha traumatizzato e cambiato il mondo, nel romanzo di Sarah Lotz l’evento sconvolgente, tale da portare l’umanità sull’orlo del baratro, non è confrontabile con nessun accadimento storico, in quanto non ha una spiegazione razionale. Quattro aerei di linea di schiantano al suolo in luoghi diversi del pianeta, senza che si possa ricostruire la dinamica dell’incidente; altrettanto inspiegabile, data la condizione dell’apparecchio, è la sopravvivenza di tre, forse quattro bambini. E un avvertimento inviato da Dio, il segno evidente che la fine del mondo sta per arrivare? Il romanzo lascia in sospeso l’inquietante interrogativo, rinuncia all’investigazione sul fatto motore dell’intreccio come ci si aspetterebbe, soffermandosi piuttosto sul logoramento psicologico dei familiari di tre fra le vittime dell’incidente, costretti a prendersi cura dei fanciulli sopravvissuti in quanto parenti più prossimi. La tensione è generata dal fatto che nessuno dei piccoli appare nei comportamenti e nei discorsi quale era prima della tragedia. E allora chi sono? Sono i messaggeri di qualcuno o il segno di qualcosa? Il dramma intimo vissuto di chi vive accanto ai “Tre” salvati ha come sfondo le condizioni di vita di un’umanità sempre più preda di fanatismi e follia. La trama in sé è dunque ben orchestrata, a lasciare perplesso chi scrive è la struttura scelta dalla Lozt con l’artificio di una giornalista, Elpesth Martins, intenzionata a raccogliere dati e informazioni per ricavarne un libro. A distoglierti dall’angoscia indispensabile per gustarti un testo del genere è il continuo mutamento di scenario, l’alternanze di testimonianze, l’utilizzo di dialoghi, la trascrizione letterale di chat e di interviste. In altre parole l’effetto verità a cui l’autrice evidentemente mira fa pensare al mockumentary ovvero al falso documentario genere cinematografico utilizzato sugli schermi per presentare eventi fittizi come se fossero reali. L’espediente sullo schermo funziona, ha una sua efficacia, ma sulla pagina? La questione è aperta….

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a chi ama al cinema il genere mockumentary.
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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    11 Settembre, 2015
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CAPARBIETA'

La metropoli gremita di folla alienata in cui il linguista Budai si trova dopo un viaggio in aereo forse per errore o chissà per un complotto o magari perché punito da un Dio in cui non crede non ha neppure un nome: è certo un luogo situato in una zona di confine fra il reale e l’immaginario, o almeno è così che il protagonista la vede. A ricordare le città grandi in cui abitiamo, sono le periferie grigie e sterminate, i grattacieli, le zone a luci rosse, il mercato, i grandi alberghi anonimi, i monumenti nel centro, la metropolitane, il traffico incessante e la ressa di gente; non solo ma come in ogni città del mondo la Storia vi lascia le sue pesanti impronte. Rivolte di massa, esecuzioni violente, e la condizione miserabili di chi è emarginato, esperienze che il benestante studioso si trova a dover vivere, trovandosi senza soldi e privato della sua identità in un luogo in cui si parla un idioma per lui indecifrabile. L’impossibilità di comunicare in una delle tante lingue che il glottologo Budai padroneggia è ciò che rende inverosimile, un vero e proprio scenario da incubo la metropoli. Non riuscendo a capire e a farsi capire tutto assume la forma di una visione onirica: le case, le strade, la prostituta in lacrime, il portiere dell’albergo, Epepe/ Pepe, Bebe, Edede, la ragazza dal nome incerto, con cui si scambia cenni d’intesa e tenerezza. Da questo punto di vista “Epepe”, pubblicata dallo scrittore ungherese Ferenc Karinthy( 1921-1992) nel 1970, è uno dei tanti libri che raccontano l’immersione dell’uomo in una distopia dalle origini indefinibili. Inevitabile poi il rimando a Kafka. Tuttavia il libro ha una sua originalità che può essere sintetizzato nella caparbietà incrollabile del suo eroe: Budai coglie la sfida della situazione irrisolvibile, non si arrende, prega Dio nel caso esista di non sopprimere il lui la pietà ovvero la forza di essere uomo e come tale di vivere sempre e comunque di speranza.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.3
Stile 
 
3.0
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    05 Settembre, 2015
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IMPASSE: QUELLO CHE NON E’ POSSIBILE OLTREPASSARE.

Il commissario Kostas Charitos, il poliziotto a cui il celebre scrittore di gialli di Atene Petros Markaris, affida il compito di dipanare la nebbia risultante dai suoi ben studiati intrecci, ha come hobby la lettura dei dizionari. Li colleziona e li tiene in bell’ordine su uno scaffale in camera da letto. La lezione che ne riceve è che l’impasse in cui si trova chi come lui deve stabilire la giustizia coincide con l’infinito ovvero con l’irrisolvibile e l’insuperabile, come gli suggerisce il Linddel-Scott citando Aristotele. Da qui il disincanto etico con cui egli affronta i casi che il suo mestiere gli impone: in “Ultime della notte”, il primo della serie dedicata a Charitos, pubblicato nel 1995, egli è chiamato a trovare l’assassino di due rampanti giornaliste televisive e a mandare in galera un’organizzazione che lucra trafficando in organi e bambini. Due rami che si sovrappongono generando equivoci salutari per la suspense tanto più che a rendere armonioso l’insieme è lo sguardo del poliziotto sul labirinto urbano, di cui egli stesso, fa parte. La soluzione dell’enigma dà ragione al prestigioso dizionario: impossibile stabilire chi sia la vittima e chi il carnefice, al di là delle apparenze. Ma Charitos non si sente un campione del bene infallibile: egli sa di doversi limitare a sopravvivere con un lavoro mal pagato, una moglie che l’orgasmo lo finge, una figlia amata ma lontana, in una città in bilico fra Primo e Terzo Mondo devastata prima dal regime totalitario dei colonnelli e ora da una democrazia corrotta. E a chi deve accontentarsi di sopravvivere più che pistole ed intuito serva l’arma dell’ironia

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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    28 Agosto, 2015
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RISUSCITA IL REGNO DEL DESPOTA TIBERIO

Con “I giorni del terrore” terza parte della sua “Storia segreta della rivoluzione francese”, la Mantel arriva all’ultimo capitolo del dramma messo in scena, ovvero al momento in cui la palingenesi promessa e auspicata mostra l’altro volto e l’utopia diventa distopia. Cosa è cambiato per Parigi e il suo popolo da quando nel 1793 le teste di Luigi XIV e di Maria Antonietta vengono mostrate sulle picche alla folla delirante come un trofeo? La gente continua a morire di fame e come sostiene uno degli eroi della purificazione al monarca despota subentra una tirannia «che uccide con efficienza e per i piaceri della virtù, beandosi delle sue astrazioni sulle tombe ancora aperte. Così leggendo il regno del “simulatore” Tiberio in Tacito, nel quale il sospetto e la delazione riempiono di sangue la città, Camille Desmoulin è folgorato dall’analogia con la Parigi contemporanea, dominata dal Comitato di salute pubblica. La disamina della Mantel è spietata e non lascia speranza a chi crede nell’utopia: « la rivoluzione è come Saturno: divora i suoi figli» avverte qualcuno e proprio sul graduale corrodersi degli entusiasmi nei protagonisti dell’evento che la scrittrice usa la sua sonda fino a trasformarla pagina per pagina in una bisturi tagliente. Camille Desmoulin contempla la miseria dei concittadini dall’alto delle ricchezza accumulate, Georges Jacques Danton siede sullo scranno del re e chissà se il suo cuore ha mai battuto davvero per la rivoluzione, si chiede la moglie. Infine, il più puro e integerrimo, Maximilien Robespierre davanti al degenerare della situazione non sa più quello che vuole. Gli individui sono fragili o disonesti, hanno molti vizi e poche virtù, ma nessuno da solo è mai responsabile di un’ideale che diventa fanatismo, atto a mascherare perversioni collettive. E che altro è la mitica rivoluzione allora se non un momento di follia….

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Romanzi autobiografici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    21 Agosto, 2015
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TUTTO QUEL CHE ESISTE

“All that is” tutto quel che esiste è il titolo originale del libro scritto da Salter, classe 1925, dopo ben venticinque anni di silenzio: il che equivale a dire…la vita è tutta qui? Sicuramente ma in quel tutto qui vi è l’unicum che ogni esperienza umana racchiude. Non si tratta di un romanzo e sarebbe improprio parlare di un’autobiografia, nel senso che paradossalmente nel raccontare i principali eventi di Philp Bowman, più o meno suo coetaneo, dalla guerra sul Pacifico, al lavoro di editor a New York e agli amori con le donne sbagliate, l’autore galleggia sempre in superficie, non penetra mai nel cuore di scelte e decisioni. Non è difetto di talento, bensì è una convinzione profonda: lo scrittore deve arrestarsi alla soglie del mistero, lasciare spazio all’ineffabile a cui ciascuno di noi dà voce, quando si innamora, quando contempla un paesaggio o quando si appassiona a qualcosa o a qualcuno. In questo clima di sospensione sta il fascino dello stile di Salter. Nessuna delle tante persone evocate nel libro, intraviste di scorcio o seguite nell’arco di più anni, è esemplare, tanto meno lo è il protagonista, eppure, tirando le somme, si tratta di esistenze prive dello stigmate dell’eccezionalità. Persino la tragedia, la morte in un incidente, il tradimento, la malattia incurabile, la guerra, l’alcolismo, gli amori sbagliati, le differenze di classe insuperabili, diventano mai epopea, passano, lasciano un’impronta malinconica, ma non tramortiscono chi li subisce. Neppure la passione amorosa è mai tale: nasce da un incontro casuale, si nutre di equivoci e di estenuanti, persino dolorosi, amplessi, e nel niente finisce. L’unica saggezza raggiungibile la si ottiene sulla soglia delle vecchiaia: qualunque cosa sia l’aldilà, pensa Philip, ciascuno di noi ci andrà, assieme a tutti gli altri, portando con sé tutto ciò conosce, ovvero tutto ciò che è e che è stato.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    16 Agosto, 2015
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VENTRILOQUO MALEDETTO

Riduttivo definire “I detective selvaggi”, opera del cileno Bolano (1953-2003), un romanzo. Leggendo infatti ti trovi sommerso da una fantasmagoria di volti, paesaggi, strade e vicoli di metropoli, bar, soffitte, grotte sul mare, redazioni di scalcagnate riviste, campeggi squallidi: ascolti il racconto di un prodigioso ventriloquo, mille voci, borseggiatori, vagabondi, prostitute, artisti maledetti, giornalisti in zone calde, fortunati vincitori di lotterie, marxisti eretici, architetti chiusi in manicomio, ti rimbombano nelle orecchie e non sai se sia una sola. In realtà il libro narra l’epopea di un' intera generazione di sognatori e intellettuali sudamericani, giovani negli anni 60-70’, traditi dalla Storia nelle loro aspirazioni, artistiche o politiche, comunque utopistiche. I cantori del fascino di una stagione di speranza e del suo malinconico svanire sono molti, ma a marcare la differenza è la tecnica adottata da Bolano: “i detective selvaggi” è una ricucitura di racconti/ testimonianze che per molti aspetti fa venire in mente l”oral composition” omerica. La figura mitica che tiene insieme le varie composizioni è la poetessa Cesàrea Tinajero fondatrice del movimento poetico d’avanguardia a Città del Messico, i “realvisceralisti”, e misteriosamente scomparsa nel niente. Arturo Belano e Ulises Lima, velleitari suoi epigoni, spacciatori, pitocchi ed avventurieri, si mettono sulle sue tracce, poi lasciano il Messico e vanno in giro per il mondo, lasciando un’impronta di sé indelebile in tutte le persone che li hanno conosciuti, li hanno amati, ne sono stati affascinati e in loro si sono specchiati. Cesàrea, Arturo e Ulises sono personaggi evanescenti, ambigui, sfuggenti, quasi più simbolici che reali: è l’ossessione di loro che il libro con la sua esasperata polifonia persegue in tutte le sue 800 pagine Ma chi sono davvero, se il testamento spirituale di Cesarea non è che un disegno, una linea diritta, una linea ondulata e una linea spezzata? Essi rappresentano tutto ciò che si oppone alla normalità borghese ovvero ciò che solo poesia e arte in genere si fanno carico di rappresentare:l’avventura, lo spleen, il viaggio, la follia, l’amore, l’eros, la grazia della giovinezza, e infine la perdita delle illusioni e la sconfitta di ogni ideale. Insomma detective selvaggi, come poeti maledetti o picari, sbeffeggiatori delle convenzioni in nome del vivere.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    08 Agosto, 2015
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UN SUPERROMANZO!

Il bestseller “La verità sul caso Harry Quebert”, secondo libro dello scrittore ginevrino, classe 1985, Joel Dicker, ambisce a superare i confini ristretti del thriller e diventar appunto un vero e proprio caso: una storia labirintica, cronologicamente stratificata, a cui prendono parti personaggi diversi, ciascuno con una maschera, ciascuno con un passato da disseppellire, ciascuno con una propria verità nascosta. Al centro del puzzle sta una ragazza di quindici anni, Nola, che ha una love story con un’aspirante scrittore ultratrentenne, Harry Quebert, che appunto a questo si ispira per scrivere un romanzo dal successo straordinario; la ragazza all’improvviso scompare e non si hanno più tracce di lei. Siamo nel 1975 ad Aurora nella provincia americana. Speculare all’intenso rapporto fra l’adolescente e il celebre romanziere è il rapporto assoluto maestro- allievo fra Harry e il suo ex studente Marcus, anche lui scrittore fortunato. Marcus entra in gioco quando trentatrè anni dopo la sua sparizione il cadavere di Nola viene trovato nel giardino della villa di Harry che viene accusato dell’omicidio. Marcus parte da New York per Aurora con l’intento di scagionare il suo ex insegnante, anche suo migliore amico, a cui pensa di dovere la scoperta di una vocazione. Questi più o meno i fatti, ma Dicker ha il merito di scompigliare la linearità di una trama tutto sommato non originalissima, dilatandone i rami collaterali, focalizzando l’attenzione su personaggi e situazioni che sfiorano anche solo marginalmente la vicenda principale. Inoltre aggiunge alle indagini sull’omicidio un bignamino metalettario sulla tecnica di scrivere romanzi, interrompendo la narrazione, con l’inserzione fra un capitolo e l’altro dei trentun consigli che Harry dà a Marcus. Insomma un superromanzo scritto per fortuna con leggerezza!

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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    03 Agosto, 2015
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COME UN ROMANZO DI BALZAC

In “Un posto più sicuro”, seconda parte della “Storia segreta della rivoluzione francese” la Mantel entra nel cuore degli eventi, quelli che vanno da dopo la presa della Bastiglia fino all’assalto dei sanculotti alle Tuileries il 10 agosto 1792. Un periodo di fermenti, di caos, di mosse e contromosse, in cui le sorti della Francia e dell’intera Europa stanno andando in una determinata direzione, ma potrebbero ancora andare in quella opposta. Il merito dell’autrice della saga su Cromwell, vincitrice per due volte del prestigioso Booker Prize, è soprattutto questo: la descrizione della Storia come di un campo aperto, nel quale le aspirazione utopiche dell’ideale si scontrano perennemente con l’ambiguità del reale. Una molteplicità di prospettiva evidenziata dalla tecnica cinematografica del montaggio parallelo: tante voci, tanti punti di vista, i salotti alla moda, la corte, i giornali di propaganda, l’Assemblea, le stanze segrete, deputate agli arcana imperii, e infine le case private, riservate alla vita coniugale ma anche alle relazioni adulterine. Un mondo complicato, personaggi degni della “Commedie Humaine” di Balzac, dove né il bene né il male hanno i loro eroi e dove i grandi della Storia non sono più icone ma persone autentiche: se la monarchia e l’aristocrazia difendono i secolari privilegi, per paura o arroganza, quasi mai coloro che vorrebbero sottrarglieli lo fanno in nome di una società più equa. Intrighi e ambizioni personali pesano assai più delle offese al senso di giustizia e la “plebe” da tutelare non è che un’ombra irrilevante: significativo che l’idealismo, il solo senza macchia, di Robespierre crei imbarazzo nei suoi amici. «Eunuco», il nomignolo affibbiatogli da Danton, dice tutto!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    17 Luglio, 2015
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MARCHINGEGNI NON LUBRIFICATI

Lindqvist, emulo di King, sembra condividerne la medesima visione del male come scaturigine della psiche umana: la vita è un susseguirsi di traumi, insuperabili, provocati dall’insania altrui o dalla propria. Se incerta è l’esistenza di un Dio salvatore e redentore, sicuro è invece il potere del demone misterioso che, preso possesso delle anime, ne deturpa l’innocenza, e trasforma tempo e spazio in un delirio caotico, un ammasso confuso di sensazioni, ricordi ed emozioni che gradualmente conducono chi ne è preda alla follia. Se cosi non fosse, però gli esseri umani sarebbero «marchingegni ben lubrificati» le loro azioni sarebbero prevedibili, pertanto calcoli e simulazioni sostituirebbero letteratura ed arte. Da questo punto di vista “Musica dalla spiaggia del paradiso” è un romanzo fin troppo esemplare: un gruppo di ospiti di un campeggio vicino Stoccolma si trova all’improvviso in un luogo che rimanda a una realtà “altra”, irriconoscibile per gli occhi umani. Non ci sono alberi né sole, piove fuoco, strane creature la popolano e all’estremità dell’orizzonte una parete nera richiama e inghiotte chi vi entra. A dire vero, via via che leggi, ti addentri nelle turbe, descritte con dovizia di dettagli, dei vari personaggi, e la metafora si fa trasparente: la landa raccapricciante, il locus horridus, non è altro che l’interiorità disturbata di ciascuno di loro. Tutti rivedono li in forma di allucinazione le tracce di un passato di dolore e violenza; le canzoni degli Abba e del cantautore svedese Peter Himmerlstrand ascoltate ripetutamente alla radio fanno da controcanto, beffarda rievocazione di idilli illusori o perduti. E’ soprattutto la famiglia a generare mostri: nessuno delle vittime del “paradiso” vi si trova senza la compagnia di un coniuge/compagno odiato o disprezzato o non accettato fino in fondo. Significativo è il fatto che la figura più inquietante sia una bambina, Molly, che di quell’inferno sostiene di essere il frutto. La madre, una modella bellissima e nevrotica, stanca di lei, l’ha abbandonata in un tunnel buio dove ha subito la metamorfosi che l’ha trasformata in qualcos’altro. Come dimostra la coppia di contadini omosessuali neppure la purezza e la scoperta di un amore ricambiato salva: a chi si è limitato a negare per anni se stesso, senza nuocere ad altri, resta almeno l’unica consolazione di un attimo di dolcezza prima del precipizio.

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Consigliato a chi ha letto...
interessante il confronto per gli amanti dei romanzi di King
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    11 Luglio, 2015
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TUTTO QUI

“Tutto qui?” E la domanda che ti fai, non appena la fantasia di Cooper, autore di bestseller dal successo planetario, apre a te e ai suoi eroi le porte dell’inferno, collocato in una dimensione parallela alla nostra, raggiungibile attraverso esperimenti scientifici analoghi a quelli realizzati dal CERN di Ginevra. Se è vero che è l’inimmaginabile a spaventare, qui a far paura non c’è davvero nulla. L’Oltre, come viene definito dai suoi abitanti, è una sorta di Medioevo maleodorante, con fortezze, capanne e automobili a vapore, popolato da una miriade di personaggi storici proveniente da epoche diverse e dove se si viene feriti a morte l’agonia è eterna. Federico Barbarossa, Himmler, Cesare Borgia, Enrico VIII regnano o consigliano, si contendono i territori guerreggiando e mantengono in vigore la legge della giungla. Il diavolo non si vede da nessuna parte, e le ragioni per cui fra i malvagi un residuo di bontà e generosità in qualcuno sopravvive non hanno una vera motivazione, se non quella di svolgere il ruolo di aiutanti magici della coppia protagonista. Comunque c’è persino Garibaldi ( finito lì chissà perché?) che aspirerebbe a mutare la distopia in utopia. Emily, una scienziata inglese, finisce lì per un errore non suo, l’innamorato John, un veterano di guerra americano, si fa inviare lì per riportarla a casa, novello Orfeo. Inizia cosi l’avventura esplorativa nell’aldilà che, considerato l’abilità da artigiano di Cooper, ti divertirebbe anche, se non fosse per l’intreccio arzigogolato, infarcito da creature uscite dai manuali scolastici di Storia che danno vita a un inferno più assurdamente ridicolo che raccapricciante.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    08 Luglio, 2015
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SE AVESSI DAVANTI MODIANO....

Che affronto quello di Modiano al lettore contemporaneo avvezzo a una letteratura di puro intrattenimento che pur nell’estrema varietà di stili e storie, incasella l’esistenza, ignorandone il lato più in ombra, l’irrisolto che ciascuno di noi si porta dentro! In questo suo ultimo e brevissimo romanzo in effetti quando arrivi alla fine sono più le cose che non sia di quelle che ti sono state dette. Se avessi davanti il premio Nobel lo subisseresti di domande sui personaggi, sul loro passato, sul perché qualcuno all’improvviso compare e qualcuno altro scompare nel nulla. Modiano però probabilmente scuoterebbe la testa sconsolato: le cose che voleva dirti non le hai capite o lui non è riuscito a esprimerle. Le cose importanti nella vita non sono quelle che tieni in mente, bensì proprio quelle che hai rimosso, ti tieni ben sepolte giù giù in fondo all’anima, non avendole mai chiarite a te stesso. L’anziano scrittore parigino Daragane viene strappato al suo totale isolamento da una carnet di indirizzi che ha perduto e che una strana coppia trova e gli riporta. E’ l’occasione per ripercorre il proprio passato: in particolare vorrebbe ritrovare una misteriosa Anne che gli è vissuta accanto nell’infanzia, finita in carcere perché coinvolta in un omicidio. Il tema dunque è quello classico della memoria. In “Perché tu non ti perda nel quartiere” il recupero memoriale risveglia la coscienza individuale, impone un viaggio all’interno di una città metamorfica a seconda dei momenti, fra volti e figure affioranti a metà dall’ombra. Tuttavia al contrario di ciò che il titolo suggerisce il risultato del cammino a ritroso nel passato è un’acuirsi della sensazione di smarrimento e di perdita. Ciò che si ricorda, è appena un frammento di tempo, un’immagine ingannevole, un quadro sbiadito. Volevi sapere, come il protagonista, chi sei o chi eri, ma niente e nessuno è più in grado di dirtelo.

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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    07 Luglio, 2015
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LA STORIA NUDA!

Il talento di Hilary Mantel, vincitrice con i suoi libri su Oliver Cronwell per ben due volte del Man Booker Prize, il più prestigioso premio letterario inglese. lo si misura facilmente: quando arrivi alla fine di ogni suo romanzo storico credi con assoluta certezza che i personaggi evocati siano assolutamente credibili. Non avviene cosi per altri autori che quando richiamano in vita figure storiche le fanno assomigliare un po’ troppo a te, uomo o donna del 2015 oppure le depauperano dal punto di vista psicologico riducendole a puro motore degli accadimenti. La storia diventa così un puro sfondo esotico, un fondale quasi magico in cui ambientare avventure ed intrighi. Al contrario la visione della storia che la Mantel lascia sottendere riprende nei pregi ma anche nei limiti quella della tradizione storiografica classica, da Tucidide a Tacito: per comprendere le cause degli eventi è prioritario indagare in profondità le motivazioni intime di tutti coloro che ne sono stati i protagonisti. Per queste nelle sue pagine l’analisi psicologica dell’individuo, nel momento in cui sale sul palcoscenico nel ruolo di primo attore degli eventi, prevale sul quadro d’insieme: il primo volume della storia segreta della rivoluzione francese nasce dalla necessità di raccontare l’infanzia e l’adolescenza in provincia di Robespierre, Danton e del meno noto Desmoulins. A muoverli sono ragioni complesse, un intreccio inestricabile di ambizioni, frustrazioni, ansia di giustizia, opportunismo ma anche senso del destino. Le cause che portano al grande mutamento rivoluzionario sono comunque al di fuori di loro, nelle condizioni generali della Francia di Luigi XVI, ma tramite la loro permeabilità anche tu penetri nello spirito del tempo e soprattutto nel gorgo degli accadimenti che li sovrasta. La volontà umana di dominare la realtà è di fatto illusoria, laeder è semplicemente chi grazie al caso si trova al momento giusto nel posto giusto un istante prima di precipitare nel baratro

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    27 Giugno, 2015
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CON UN PALMO DI NASO!

Ti sta subito simpatico, se non avevi avuto modo di conoscerlo prima negli altri libri di Francesco Recami, classe 1956, Amedeo Consonni, il protagonista di “L’uomo con la valigia”. Ti piace, perché faceva il tappezziere, uno di quei mestieri che oggi non si fanno più, perché vive in una anacronistica casa di ringhiera, perché è anziano, perché si caccia nei guai e infine perché non si scandalizza quando le sue avventure lo costringono ad affrontare il degrado morale della Milano contemporanea. E non ultimo ti diverte lo scherzetto che lo scrittore ti fa quando arrivi agli ultimi capitoli, deviando verso la commedia e facendoti restare con un palmo di naso, se ti aspettavi il classico scioglimento da romanzo giallo. Il motore della vicenda è comunque tipico del genere: Consonni rischia di essere accusato dell’omicidio di una giovane donna, ha poco tempo per trovare il vero assassino e dimostrare la sua innocenza. Deve allora fuggire portandosi dietro una valigia per non essere arrestato, rendendosi irriconoscibile mediante peripezie varie, compreso il furto di una carta d’identità. La sua discensio ad inferos nei paesi che oggi gravitano attorno alla metropoli lombarda, la cosiddetta Brianza, lo porta a contatto con figure e situazioni tipo: i centri sociali, i motel anonimi, i seduttori di provincia, le villette a schiera, le palestre, le prestazione sessuali obbligate a docenti universitari poco professionali, madri protettive e bambini viziati. Parallela alla sua immersione nello spirito dei tempi è quella della sua abitazione: la vecchia casa di ringhiera infatti è preda della tentata speculazione di due architetti alla moda che agiscono con la complicità di un funzionario del comune corrotto. Dunque tutto molto familiare, niente di davvero spaventevole. Il male non viene negato, ma la senilità insegna a prenderlo con ironia.

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a chi ha letto gli altri libri di Recami, a chi ama i gialli dove si coglie l'atmosfera della città italiane.
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Romanzi
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    20 Giugno, 2015
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IL PIU' AGGHIACCIANTE DEGLI HORROR

Le etichettature con cui siamo soliti classificare i libri che leggiamo lasciano davvero il tempo che trovano. Questo per dire che “L’invenzione della madre” è uno dei più agghiaccianti horror che abbia mai letto: qui non c’è il maniaco immaginario, il feroce serial killer che aggredisce fra i fiordi dell’Europa del Nord o in un parco di Londra, qui non esce dall’ombra il mostro che prima o poi il poliziotto comprensivo e filosofo ricaccerà fra gli spettri sempre pronti a risorgere per intrattenerti un paio d’ore. Qui i campione del bene sono i barellieri, la dottoressa piccola, quella con le trecce, il chirurgo dalla mani miracolose, ma essi sono eroi ambigui, paradossalmente complici con le loro cure illusorie del cancro che uccide, massacrandone il corpo, la madre del venticinquenne cinefilo Mattia. Qui l’assassino carnefice è invincibile. Se entra in casa tua, essa diventa la stanza della tortura, dove tu sei condannato a guardare impotente la persona che ami e a seguire attimo per attimo la sua agonia. Allora non esiste più nulla, cose e persone diventano trasparenti, non hanno più un nome né un‘identità: il padre è solo più il padre, la ragazza è solo più la ragazza, la città e il paese diventano uno spazio anonimo, un luogo irriconoscibile, un palcoscenico vuoto ove tu e altri attori privi di talento balbettate le battute scabre di un copione mediocre. E la cosa più spaventevole è che l’incontro con l’assassino è esperienza diffusa, non eccezionale, potrebbe capitare e capita a chiunque. Per l’esordiente Peano, editor per l’Einaudi, non deve essere stato facile raccontare l’esperienza autobiografica che ha segnato la sua giovinezza. Ovvio forse immaginare che il libro nasca dalla necessità di accettare il trauma della morte della madre, necessita tanto più urgente per chi ha fatto della letteratura il proprio mestiere. Allora tecnica e stile ovvero il come raccontare la malattia sono un modo per esorcizzare l’annullamento di sé che nasce dal dolore e dalla devastazione. Ecco dunque la scelta di bandire il racconto in prima persona e di riempirlo a mo’ di documentario con descrizioni particolareggiate di una quotidianità sconvolta dall’obbligo di assistere una persona inferma, destinata a morire: la voce narrante è infatti uno sconosciuto che pedina Mattia passo per passo, ne registra pensieri e sensazioni, inframmezzando l’osservazione oggettiva con parentesi di commento. Una sorta di fotografo/ operatore cinematografico dotato di sonda, capace di penetrare le apparenze e di andare più lontano di coloro che gli eventi li vivono e ne sono vittima. Un narratore che possiede la parola salvifica, quella che inventa la verità scoprendola ( invenzione deriva dal verbo latino invenio che significa scoprire), quella che consente il colloquio a distanza fra il figlio e la madre, ovunque essa sia, qualunque cosa essa sia.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Giugno, 2015
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MICROBI FRA LE GALASSIE

Il commissario Bordelli, protagonista di molti romanzi di Marco Vichi, tenendo gli occhi chiusi immagina di passeggiare fra le galassie, guardando da molto lontano la sua città ,Firenze, e il suo mondo. Stando lassù si rende conto di essere un insignificante microbo fra microbi altrettanto insignificanti. Eppure è proprio il sentimento di essere un nulla rispetto all’immensità del cosmo a rendere grande l’uomo, gli dice un vecchio amico strambo ma saggio, lettore di Pascal: l’uomo è una pulce nell’universo ma fa girare il mondo, in quanto creatura capace di pensare se stessa e d’immaginare l’esistenza di Dio. Se così è, anche il dovere di un poliziotto senza più illusioni ha un senso. Il male fa irruzione nella Storia e nell’esistenza della gente comune, pertanto missione di uomini come Bordelli è combatterlo: tre bambine vengono trovate morte, in una casa viene rinvenuto il corpo straziato di un nano, informatore della polizia. L’inchiesta va a rilento, acquista così rilievo il ritratto di una città, Firenze, di un’epoca, gli anni ’60, e della personalità del protagonista. Pedinando il commissario nelle sue peregrinazione notturne e diurne fra trattorie, vie e piazze della città del Giglio, ti accorgi che viverci o averci vissuto è un valore aggiunto nella lettura dei libri di Vichi. Ti devi anche allontanare dall’oggi e dai gialli degli scrittori nordici alla moda: qui siamo negli anni 60’, l’Italia sta per essere rivoluzionata, come ci viene ricordato, dalla possibilità delle donne di usare la lavatrice e il trauma della Seconda guerra mondiale è ancora ben vivo. Ma anche la concezione del crimine potrebbe apparire anacronistica nell’epoca del porn gore: non si aggirano nel buio serial killer maniaci e senza motivazioni, i criminali non nascono mai tali ma lo diventano. « Se un infelice uccide bambine, all’origine della sua colpa…una colpa ancora più grande»

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    10 Giugno, 2015
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GENERAZIONI NASCOSTE

Dopo aver letto le 655 pagine di Leonardo Padura, cubano classe 1955, ti capita di arrivare alle medesime conclusioni, a dir vero ovvie, a cui arriva il protagonista del romanzo il disincantato ex poliziotto Conde: la storia e la vita sono un groviglio di fili, « in cui non si sapeva mai dove determinate fibre si incrociassero e si annodassero per dar forma ai destini delle persone e persino delle storie dei paesi». Vi è dunque un filo conduttore che lega eventi lontani fra loro nello spazio e nel tempo, la ricostruzione certosina offerta da “Eretici” lo ribadisce nelle diverse parti di cui è suddiviso il romanzo: religioni, ideologie e regimi totalitari si oppongono all’arte e agli artisti, in quanto nelle loro opere essi esprimono l’anelito dell’essere umano alla libertà di scelta ossia di essere “eretici”. Il centro del dramma è dunque un quadro di Rembrandt raffigurante il Cristo. Lo porta a Cuba nel 1939 una nave, su cui sono imbarcati i proprietari, i membri della famiglia Kaminsky, che assieme ad altri ebrei cercano scampo dalla Germania nazista. Ai profughi viene impedito lo sbarco, neppure altri Paesi li vogliono(ti ricorda qualcosa?) e l’imbarcazione riporta indietro verso i forni crematori i suoi passeggeri. Chi fine ha fatto la preziosa tela? Essa ricompare nel 2007 a Londra e Elias Kaminky parte per Cuba, per conoscere la verità sulla storia della sua famiglia, a cui il quadro è legato. Ad aiutarlo nell’indagine trova Conde. Scavare nel passato è impresa ardua: la scomparsa del Cristo è indissolubilmente connessa ai delitti della Cuba degli anni 30 e del regime di Batista. Ma la tragedia si ripresenta uguale al di là delle epoche e dei contesti: carnefici spietati e vittime indifese riempiono le pagine di documenti dimenticati, basta disseppellirli dall’oblio. Così nelle peripezie del quadro si riflettono le sofferenze e i tradimenti subiti da tutti coloro che ne sono venuti a contatto a cominciare, nell’Amsterdam del 1647, da chi lo ha dipinto, lo stesso Rembrandt, e da colui che vi è dipinto, il giovane ebreo Elias aspirante pittore contro i dettami della religione, fino all’adolescente ribelle Judy uccisa nella Cuba del 2008. A tirare le file del tutto è il disilluso Conde, la cui sofferta visione fa da filtro a un ritratto dell’isola della rivoluzione di Fidel Castro. Ai fortunati che si salvano, la Storia concede solo di essere «generazione nascosta».

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gli altri romanzo di Padura Fuentese..e gli scrittori cubani in genere che parlano della situazione del loro paese
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Romanzi storici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    23 Mag, 2015
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PERDERSI NEL TEMPO

«Il tempo è un luogo dove ci si può perdere» dice un ‘immaginario Shakespeare ad Alice Nutter, la protagonista del romanzo di Jeanette Winterson, classe 1959 considerata una della più importanti scrittrici inglesi della sua generazione. E per prendere sul serio “Il cancello del crepuscolo” devi anche tu perderti nel tempo, negli stessi luoghi e nelle stesse vicende nella quali si è smarrita l’autrice, varcando il cancello del crepuscolo dove luce e ragione non possono più difenderci: siamo infatti nel Lanchaschire agli inizi del ‘600 dove un gruppo di donne, accusate di essere streghe, viene processato e condannato a morte. Il Lanchaschire costituì anche un rifugio per i sostenitori del papato e del cattolicesimo che avevano preso parte alla Congiura delle Polveri contro il re protestante Giacomo I. Questo il contesto nella quale la Winterson inserisce un intreccio dove fra i protagonisti ci sono il diavolo a caccia di anime, due donne che si amano e si odiano, elisir di giovinezza, teste parlanti, fanatismo, sabba, scene raccapriccianti di lingue mozzate e battute spiritose dell'autore dell'"Amleto" contro funzionari fanatici e sprovvisti d’ironia. Le 150 pagine di copione scorrono via veloci, senza lungaggini, e alla fine ti chiedi se l’autrice volesse prendere in giro la ragione o la superstizione.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    09 Mag, 2015
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I SEGRETI DI UNA STORIA

Chiuso "Posizione di tiro" ti domandi chi fosse davvero il protagonista, il sicario Martin Terrier? Un serial killer, che uccide per il gusto di uccidere? Non è affatto sicuro che il suo lavoro lo faccia con piacere. E‘un rigoroso professionista del delitto, ingaggiato e pagato da ambigue organizzazioni criminali, ma non ne è neppure orgoglioso. Allora lo fa, perché è avido di denaro? Neppure, giacché in nessun pagina del romanzo emerge un particolare attaccamento ai soldi. Forse lo fa per amore, giacché dopo anni di lontananza dal suo luogo d’origine, torna per portar via Anne, la ragazza ricca e per questo a lui inaccessibile mai dimenticata? Ma è troppo cinico e disincantato per illudersi sul conto di lei e del prossimo in genere. Neppure sui suoi sentimenti e sulle sue emozioni del resto sappiamo nulla: una volta sola in tutto il libro ci viene detto:«era pensoso…Forse provava solo pena» E allora chi è Martin Terrier? Non trovi una risposta e ti accorgi che sta tutto in quel mistero mai svelato il fascino del personaggio e l’individualità dello stile di Manchette. Ogni autore di talento ha dei maestri e nella pagina dell’autore di “Posizione di tiro” si avverte ad ogni passo Dashiell Hammet contaminato però con il perfezionismo cesellatore di Gustave Flaubert. Lo scrittore pedina il suo eroe, ne osserva attentamente le mosse, dà una fugace occhiata all’espressione del volto le rare volte in cui essa traspare, e riduce se stesso alla neutralità impassibile di una macchina da presa: la maestria sta nel far vedere e nel far sentire. La verità sta nell’azione pura, il resto è solo supposizione, immaginazione gratuita. Espulsi dunque intrecci inverosimili e artificiosi studi di carattere, il miglior modo di raccontare una storia è rispettarne i segreti.


Einaudi ripropone “Posizioni di tiro”, l’ultimo romanzo di Manchette( 1942-1995), considerato il miglior autore di noir della sua generazione, pubblicato in Francia nel 1981 e in Italia sempre da Einaudi nel 1998.

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Irrinunciabile per chi ama il noir
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    08 Mag, 2015
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ELENCHI

Sarà che al liceo le parti dell’Iliade saltate dall’insegnante in quanto superflue mi incuriosivano e andavo a leggermele: spesso si trattava di lunghi elenchi di nomi di guerrieri presenti all’assedio di Troia e non mi annoiavano affatto. Anzi quei nomi erano una sfida per la mia immaginazione, ciascuno di loro evocava un mondo di “sommersi”che voleva essere disseppellito, sottratto all’oblio. La stessa sensazione me l’ha data il “romanzo documentario” della scrittrice croata Daša Drndic, quando sono arrivato alle pagine, più di cinquanta, in cui elenca, uno per uno, i 9000 ebrei uccisi nei campi di sterminio nazisti o in patria fra il 1943 e il 1945: li ho letti uno per uno, con la consapevolezza di non poterli risarcire veramente, di non poter più dare loro una storia. Anche la protagonista immaginaria di “Trieste” Haya Tedeschi, insegnante di matematica, ebrea convertita al cattolicesimo, madre di un figlio avuto da un ufficiale delle SS, uno dei più crudeli comandanti di Treblinka, è un personaggio dimezzato: la scrittrice ce la presenta sessantaduenne seduta a una finestra di un vecchio palazzo di Gorizia con un cesto pieno di fotografie, ritagli di giornali, cartoline. Gli spettri del passato la assediano: la sua esistenza si riduce a un passato traumatico e all’ attesa del figlio mai conosciuto che le è stato rapito bambino per far parte del progetto Lebensborn finalizzato alla conservazione della purezza ariana. Non ci può essere romanzo né per i novemila né per lei, né per tutti gli incolpevoli della Storia, compresi i figli innocenti dei carnefici dilaniati dai sensi di colpa. Ho visto rabbrividendo le fotografie della risiera di San Sabba a Trieste, e ho provato pietà per il tormento implacabile di Monika Goth, la figlia del comandante del lager di Plaszòv, che in “Schlinder’s list” dal balcone della sua villa si divertiva a sparare ai prigionieri. Se nessuno può restituire a queste persone un destino, lo scrittore deve almeno loro giustizia e verità. Ed ecco “il romanzo documentario” in cui la documentazione e le testimonianze prevalgono sui fraintendimenti potenzialmente edulcoranti dell’immaginazione. Il male infatti non è mai banale.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    30 Aprile, 2015
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IL DELITTO PERFETTO DELLA STAGIONE IMPERFETTA

Anche noi come Roberto il quindicenne rampollo della buona borghesia boliviana negli anni 80, protagonista voce/narrante del romanzo dello scrittore boliviano Soldàn, sognavamo un paese immaginario dove i delitti erano perfetti e noi, investigatori geniali, stanavamo il colpevole. Nella stagione imperfetta della nostra adolescenza il mondo attorno, la scuola, la famiglia, gli amici, il sesso e l’amore formavano tutt’altro che un universo perfetto: li i delitti erano sempre imperfetti, chi li compiva lasciava tracce di sé evidenti e per di più restava impunito facendosi beffe del nostro senso di giustizia e della nostra verginità ideale. Il romanzo di Soldàn scritto nel 1998 e riscritto completamente nel 2008, per gran parte autobiografico, pur facendo riferimento a un contesto storico sociale definito, lo filtra attraverso la prospettiva di un liceale particolarmente permeabile all’ambiente che lo circonda: il collegio Don Bosco dell’alta borghesia, l’emarginazione di chi vive fuori dai ghetti dorati, la crisi economica e morale che colpisce anche le classi privilegiate, l’instabilità politica e una democrazia fragile incapace di estirpare dal popolo il desiderio di un ritorno alla dittatura costituiscono il vissuto su cui si forma la personalità di Roberto. Egli non è diverso dai suoi compagni ed amici: nell’orizzonte di ognuno di loro c’è una fuga verso un altrove spesso artificiosamente indotto dalla droga o con le fattezze dell’America immaginaria dei film e dei libri. In questo microcosmo labirintico tutti i personaggi del libro si aggirano senza una direzione precisa, e disperatamente il protagonista cerca qualcuno che gli indichi una direzione senza trovarlo. A Chochabamba, la città dove vive, né padri né madri né professori sono maestri. Dunque non solo Roberto ricorrendo alla fantasia se lo deve creare un maestro plagiando le pagine di Agatha Christie, trovargli un nome, Mario Martinez, un posto ideale dove vivere, Rio fugitivo, ma quando la sua esistenza viene sconvolta da una morte vera, deve incarnarsi in lui per scoprire una verità che lo riguarda. Ma a questo punto“Rio fugitivo” lascia cadere la maschera: “il mondo è pieno di narratori pericolosi”si legge a mo’ di ambiguo congedo, lasciando intendere che romanzo di formazione e giallo sono inconciliabili se non nel fantasia della nostra stagione imperfetta.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Aprile, 2015
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UNA CITTA' E IL SUO POPOLO

«Dietro la storia di ogni omicidio, come dietro a qualunque storia, ce ne sono molte altre» tale affermazione a mo’di premessa in“La tana del bianconiglio” costituisce una sfida alla convenzione del giallo: la rivelazione dell’assassino non richiede molto abilità allo scrittore quanta ne esige il mettere insieme in un disegno coerente tutte le azioni che direttamente o indirettamente portano all’omicidio. Fedele a questo presupposto l’autore Francesco Facchinelli, classe 1980, lascia nell’ombra fin quasi alle ultime pagine gli elementi convenzionali del thriller quali la personalità della vittima del crimine e quella, spesso speculare, degli indiziati dell’assassinio, per concentrarsi piuttosto su una panoramica del luogo, il Parco Sempione a Milano, dove viene trovato il cadavere della giovane uccisa. Il libro di fatto ambisce a essere il ritratto del lato oscuro di una città contemporanea: Parco Sempione è infatti il cuore vivo della metropoli lombarda, è il posto ove convergono tutte le sue contraddizioni ed è infine il suo “cuore di tenebra”. Ed ecco nel romanzo in uno stile scarno, ove predomina il periodo dal respiro brevissimo da sceneggiatura cinematografica, ci viene presentato il popolo del parco nelle figure esemplari, la cui vicenda, sfiora, da lontano o da vicino, l’azione delittuosa: le convergenza restano oscure fino alla fine, e leggendo ti chiedi cosa c’entrino due monelli, un barbone logorroico e colto, un mafioso russo, un ristoratore rovinato dal gioco, una coppia di innamorati, una prostituta albanese e il suo redentore, con la ragazza trovata morta nel parco, di cui lo scrittore pare essersi dimenticato. In realtà il guazzabuglio nella mente dell’assassino fa da collante al girovagare delle anime partorite dalla città corrotta: ma alla fin fine cosa lo spinge? Arduo comprendere, ma nulla di stupefacente, per un libro dedicato, oltre che a Tarantino e Jung, al Luigi Pirandello di “Uno nessuno e centomila”.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    10 Aprile, 2015
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IO SONO QUI, E TU, LETTORE, DOVE SEI?

Prima di affrontare la prima pagina del romanzo dello scrittore idolo della gioventù turca, Hakan Günday, ti colpisce e ti inquieta la copertina: due figure stilizzate, verosimilmente un giovane uomo e una giovane donna, paiono voler ergere una barriera fra te e loro, lui ti volta le spalle e dal velo che copre il volto di lei si scorgono solo gli occhi, spaventati o minacciosi. Sopra di loro la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto, la A e la Z, una vocale e una consonante, speculari per posizioni e per suono, a evocare il primo la mansuetudine e la musicalità della femminilità, l’altro la durezza di una virilità che si impone. Uniti insieme la A e la Z in turco alle lettera significano “vuoto” e se il vuoto denota una mancanza, tale mancanza rimanda anche alla possibilità di colmarlo, con tutte gli altri segni dell’alfabeto, vocali e consonanti che, combinati, creano un universo, l’universo di cui sono fatti i libri e la letteratura. La storia di Derdâ, con la a accentata, e Derda, è appunto la lunga e difficile strada percorsa da due giovani diseredati per arrivare alla coscienza che suoni e immagini di un’esistenza rimandano all’abisso doloroso dell’insignificanza se privati dell’energia salvifica della letteratura. Lei viene venduta dalla madre a un aguzzino che la trascina a vivere da reclusa a Londra, quando riesce a evadere, diventa grazie al fascino del velo una diva del cinema hard ed eroinomane fino a quando un’infermiera la adotta e le consente di arrivare alla laurea. Lui vive in una baraccopoli a Istambul confinate con il cimitero: il padre è in prigione, la madre muore di cancro, e lui sopravvive facendosi pagare dai parenti dei defunti in visita la pulizia delle lapide; per non essere rinchiuso in un orfanotrofio fa a pezzi la madre e la seppellisce nel camposanto, e infine quando non gli è più consentito lavorare lì, va a fare il facchino in un stamperia clandestina e grazie a un romanzo di uno scrittore turco, Otuz Atay, “I reietti”, regalatogli quasi per caso, impara a leggere, e fa dello scrittore un idolo a cui è fanaticamente devoto. Il libro però è davvero un feuilleton rocambolesco dove ai due giovani protagonisti capita tutto ciò che potrebbe capitare oggi sia a Londra sia in Turchia, accomunati dallo stesso degrado morale: il loro destino si incrocia con mafiosi turchi, drogati, masochisti, terroristi, spie, studenti stupratori della buona borghesia inglese. Ad esercitare forza attrattiva sul lettore, dunque, per Gunday, non è tanto come si racconta una storia, ma la storia in sé nella capacita di essere in simbiosi con le mille sfaccettature del reale: « Io sono qui, caro lettore, e tu, dove sei?» domandano ossessivamente Derda, Derdâ e Atay, lo scrittore loro pronubo, come a dire che tutti siamo parte della medesima trama di uno scombinato romanzo.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    29 Marzo, 2015
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ROCOCO'

Le prime pagine dell’ultimo romanzo di Lagoia ti fanno lo stesso effetto di certi tetri edifici barocchi, ove le forme si attorcigliano in una sontuosità frastornante, cupa, respingente. Non c’è leggerezza nelle pagine di “La ferocia”, c’è al contrario pesantezza e fatica. Difetto o pregevole aderenza al putridume del contesto umano-animalesco della provincia italiana contemporanea? Sta di fatto che metafore attorcigliate e ossimori non delineano un percorso lineare, cronologico, si soffermano alla periferia dei pensieri dei protagonisti, e si arrendono all’impossibilità di coglierne l’essenza autentica. Sopravvivono intatti nel magmatico racconto i fondali, le superfici, i riflessi, la deformazione degli sguardi e dei gesti. Un surrogato di verità penzolante nel vuoto, lo svisceramento della pura apparenza su cui si ingegna Lagoia. La trama del romanzo è di fatto un eco di tanti episodi di corruzione ed arricchimento facile che costituiscono la parte più corposa delle nostre cronache: il fragile equilibrio della famiglia del palazzionaro Salvemini viene sconvolto dallo strano suicidio della figlia Clara, trovata morta sulla statale Bari-Taranto. Ma chi è davvero Clara e i chi sono i Salvemini? Il padre Vittorio è un imprenditore edile che partendo dal nulla edifica un impero intrecciando rapporti con il potere politico economico ed accademico: il Don Gesualdo di oggi si mimetizza perfettamente in un contesto accogliente per affinità di valori e comportamenti fino a diventare paradigma. Dunque il virus è condiviso, diffuso, nessuno ne è immune, e se occorre trovargli un termine questo non può essere che ferocia. Non c’è altro modo per definire la smania autodistruttiva che accumuna Clara e coloro attorno a cui gravita il suo universo: sesso estremo, cocaina, attaccamento morboso al limite dell’incesto, la nevrosi di un tormentato edonismo. Impossibile alzare lo sguardo a un Dio per averne almeno la pietà: persino i pivieri, stramazzando a terra, hanno perso l’innocenza del volo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    22 Marzo, 2015
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L'AMBIGUO MALE

Che strano malanno è l’amore! Ti viene in mente leggendo il thriller psicologico della giornalista Sabine Durrant. I fatti nudi e crudi ci sono presentati in parallelo dai due protagonisti, Zach, pittore dilettante, e Lizze, bibliotecaria in una scuola di Londra. Si sono conosciuti tramite un annuncio su Internet, si sposano, hanno un rapporto tormentoso, causa la patologica gelosia dell'uomo, fino a quando lui muore in un incidente stradale. Tuttavia il sospetto/ certezza che sia ancora vivo e che voglia continuare a esercitare il suo dominio su di lei ossessiona ogni attimo dell’esistenza di Lizze e la induce a ripercorrere le tracce del passato di Zach e a scoprire atroci verità. Questa la trama, lineare, senza guizzi né di stile né nell’intreccio: l’angelo salvatore delle grigia e sciatta zitella inglese, giorno per giorno, si rivela un mostro. In fondo una vicenda prevedibile, come attestano le cronache dei telegiornali e le infinite trasmissioni su maschi carnefici. Per questo motivo dispiace che alla scrittrice sia mancato il coraggio o la capacità di percorrere fino in fondo la strada indicatagli dai suoi stessi personaggi: la gente «sputa sentenza sul dolore, lutto, rapporti malati e violenti, la forma mentis della vittima. Forse dovrebbero prestare più attenzione a me» commenta cosi infatti la sua stessa storia Lizze, sottintendendo che l’alchimia che teneva avvinti, imprigionandoli in una ragnatela inestricabile, lei e il suo torturatore nasce da una zona oscura della psiche, irraggiungibile dalla ragione, scarsamente illuminata dal mediocre talento artistico di lui.. Ciascuno è dunque proiezione della mente dell’altro, ciascuno fa dono di sé all’altro: non è così che ci raccontano l’amore?

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a chi ama i gialli psicologici dallo stile scorrevole.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    16 Marzo, 2015
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IL TORMENTO DEL NAZISTA

La scrittrice Ben Pastor, nata in Italia, trapiantata negli Stati Uniti, docente universitaria, amante dell’archeologia ha ambientato i suoi gialli storici nell’epoca del Terzo Reich, collocandosi dalla prospettiva insolita dei perdenti, coloro che sono stati segnati dalla Storia come carnefici. In realtà nei suoi libri non compaiono carnefici, coloro che ebbero un ruolo di grandi attori degli accadimenti rilevanti del secolo scorso, come in quest’ultimo romanzo “La strada per Itaca”Berjia, capo dello spionaggio sovietico e motore del terrore staliniano, restano sullo sfondo, comparse, la cui ombra grava però sugli eventi, determinando drammatici scenari e squilibri irreparabili. Di sicuro non è un carnefice, il protagonista della maggior parte dei suoi romanzi, Martin Bora, l’ufficiale della Wermacht, qui chiamato a indagare sul massacro di un cittadino svizzero nella Creta del 1941, invasa dall’esercito tedesco: egli è l’esatto contrario di come tanti film e libri ci hanno mostrato gerarchi e ufficiali nazisti. Bora è colto, legge Heidegger e l”Ulisse” di Joyce, elegante, appartiene all’aristocrazia militare prussiana, quella che per prima avversò Hitler, ma soprattutto egli è in perenne ascolto di una coscienza lacerata da dubbi, che lo costringe a interrogarsi sul senso della propria identità e del proprio ruolo. Ed è in questa perenne e tormentata ricerca di se stesso che egli si riconosce in Ulisse, l’eroe che per essere di nuovo se stesso, fu costretto a un lungo e doloroso viaggio di esplorazione. Ed ecco che l’isola di Creta con il suo paesaggio aspro e assolato asseconda pensieri e rievocazione dell’animo inquieto dell’investigatore-viaggiatore: il Minotauro, i Lestrigoni, le Sirene, le maschere ingannevoli indossate da uomini e donne, lo trascinano in un vortice che lo imprigiona. Alla fine il colpevole, secondo la prassi si trova, ma probabile che per Bora ( e per nessuno) ci siano strade che portino ad Itaca.

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