Opinione scritta da giuse 1754

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    01 Dicembre, 2016
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Amiamo il marito fedele ma anche il partner trasgr

Vadinho è un marito impossibile: giocatore incallito, dongiovanni mai pentito, un uomo su cui non si può contare. Eppure, con la sua sensualità priva di inibizioni, sa risvegliare in Dona Flor tutti gli istinti repressi, facendole vivere amplessi gioiosi e appassionati. La moglie ne è innamorata al punto da perdonargli tutto, anche l’imperdonabile.
Vadinho muore all’improvviso, durante i riti del Carnevale baiano. Dona Flor è inconsolabile, a dispetto del sollievo della madre Donna Rozilda e delle altre comari che non si spiegano l’attaccamento della vedova a un marito tanto problematico.
Ma la vita va avanti, Dona Flor riprende le sue lezioni di cucina e finisce con l’accettare la proposta di matrimonio del morigerato farmacista Teodoro. Il dottore si rivelerà un ottimo sposo, premuroso e affidabile oltre che innamoratissimo. Ma a letto, ahi, a letto resta altrettanto morigerato, suscitando sempre più in Dona Flor la nostalgia per lo sfrenato Vadinho.
Richiamato su questo mondo dal desiderio della moglie, Vadinho ritorna a corteggiare in maniera sempre più pressante la donna, combattuta fra il desiderio di restare onesta e la voglia di cedere al primo marito. Cederà alla fine, e volentieri, barcamenandosi tra il primo e il secondo marito. Anzi, la focosa relazione con Vadinho pare giovare anche al secondo matrimonio…
Nella colorata e a tratti ridondante narrazione brasiliana di Jorge Amado, si intravede chiaramente la complessità dei rapporti umani. Siamo un po’ tutti come Dona Flor: per sentirci appagati e completi cerchiamo negli altri tanti sapori diversi, e non sto parlando solo di rapporti sentimentali. Abbiamo bisogno dell’amico d’infanzia che condivida i ricordi e di quello appena conosciuto con cui portare avanti l’ultima passione, cerchiamo il marito fedele ma anche il partner trasgressivo, le lasagne al forno e il sushi.
Perché in ognuno di noi c’è l’angelo e c’è il demone, ed entrambi vanno accontentati.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    18 Novembre, 2016
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Quando ci si sente come oggetti smarriti

tutti è capitato, dopo un abbandono, di sentirsi come oggetti smarriti: inutili propaggini di una persona che non c’è più. Qualcuno si trincera nella propria solitudine, qualcun altro metabolizza il dolore nell’impegnativo compito di cercare una nuova felicità.
Michele appartiene alla prima categoria, Elena alla seconda. Un giorno questi due mondi, all’arrivo del treno che Michele ogni sera ripulisce e da cui attinge la sua collezione di oggetti smarriti, si incontrano e la vita di entrambi cambierà per sempre.
Sarà Elena a spingere Michele a uscire dal suo sterile ma confortevole guscio, a cercare la madre che pare aver abbandonato il diario infantile di Michele su quell’unico treno che parte da Miniera di Mare, un piccolo sasso che dovrebbe ricondurlo a lei.
Una fiaba moderna, questo libro di Salvatore Basile, che ha la leggerezza della favola di Pollicino e la profondità del Piccolo principe di de Saint-Exupéry da cui è tratta la citazione che lo apre. È pure un romanzo di formazione, di tardiva crescita direi, e una bella storia d’amore che vorremmo continuare a seguire anche dopo l’ultima pagina.
Salvatore Basile, sceneggiatore prima di scrivere questo romanzo, ha dimestichezza con le trame e con le parole, e si vede; ha sincerità e ingegno, rimanendo autentico nel suo mondo inventato. Senti tra le pagine del libro la persona che l’ha scritto, e che io ho avuto il piacere di ascoltare: nel patto di felicità che Elena ha stretto con la gemella e nell’ostinazione con cui Michele insegue infine il suo sogno, nell’invenzione dell’ Orso polare e nell’attenzione verso i sentimenti degli altri, che è anche un po’ la curiosità dello scrittore di storie verso le vite e i pensieri che gli passano vicini. Non a caso, nelle sue presentazioni, Salvatore Basile non si limita a firmare dediche, ma chiede ai suoi lettori di lasciargliene una a loro volta.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    18 Novembre, 2016
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L'amore è una piccola guerra, chiedilo alla polver

Non servono parole. Per innamorarsi basta uno sguardo, un maledetto sguardo e non sarai più lo stesso. Non sai quasi niente di chi sta dietro a quegli occhi, non sai chi è stata prima, né cosa pensa di chi nella vita vuole diventare scrittore, neanche cosa mangia a colazione. Eppure qualcosa, in quello sguardo, ti cattura per sempre. Così i tuoi pensieri, e la tua vita, cominciano a ruotare intorno a quel nome che hai conosciuto per caso.
Camilla è il nome della cameriera messicana di cui hai incrociato lo sguardo; lei la ladra inconsapevole che ti ha rubato istanti di vita che prima appartenevano solo a te. E mentre cerchi faticosamente di sopravvivere mangiando arance e di costruirti una credibilità di scrittore, dando seguito a quell'unico racconto che hai venduto, dal ridicolo titolo Il cagnolino rise, il bisogno di lei ti perseguita. A volte è desiderio senza passione, altre passione senza desiderio.
Di certo, in questo dannato guaio che è l'innamoramento, non ti aiuta il tuo essere cattolico fino alle ossa, con il conseguente circuito desiderio-peccato-rimorso-colpa-castigo, di certo non sei fortunato perché lei vuole un altro. Eppure è grazie all'incontro con la ladra di pensieri che hai scritto la tua storia, e quello che di te e di lei ancora non conoscevi lo hai chiesto alla polvere del deserto, dove è sparita per sempre. Perché la polvere parcellizza la materia e ne trattiene il ricordo.
Ecco, non so se ti può consolare, ma volevo dirti che anch'io ti ho amato da subito, Arturo Bandini.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    02 Gennaio, 2016
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Il dono più difficile, Riparare i viventi

Cosa scatta nella mente di due genitori o di un marito, una moglie, quando si trovano a dover decidere se autorizzare la donazione di organi del proprio congiunto in stato di morte cerebrale? Certamente il primo impulso è quello di rifiutare, per non violare la sacralità di quel corpo così caro. Poi, come nel libro di Kerangal, subentra la razionalità, la consapevolezza che il corpo è un guscio ormai vuoto e a nulla servirà preservarlo nella sua interezza, destinato com’è a sgretolarsi comunque per riconsegnarsi alla terra. E allora perché non donare quegli organi, ormai inutili per chi ci ha lasciato, ridando nuova speranza o addirittura l’unica chance di sopravvivere a qualcun altro?
Soprattutto questo percorso mentale è raccontato in “Riparare i viventi”, con lo stile appunto del flusso di coscienza, dove la punteggiatura non rispetta i canoni convenzionali specialmente nella prima parte del libro.
Marianne e il marito, genitori separati di Simon, si ritrovano uniti nel più grande e innaturale dolore che un genitore possa affrontare, quello di veder morire il proprio figlio.
Ho apprezzato molto la descrizione della ragnatela di contatti e di competenze professionali che si attivano in occasione di un possibile trapianto: il delicatissimo ruolo del medico che deve comunicare la morte dell’eventuale donatore e ottenere il consenso all’espianto, la professionalità di chi deve cercare i candidati al trapianto attraverso una rete digitale e umana che viene preparata attraverso mesi di esami del DNA e di catalogazioni genetiche; le varie eccellenze chirurgiche che si “contendono” le migliori condizioni possibili per i loro pazienti durante i momenti concitati del prelievo degli organi; la funzione dell’infermiere specializzato che cucirà i vari passaggi dell’operazione di espianto, fino alla ricomposizione del defunto per ridargli la dignità che merita, moderna prèfica che canta per il morto; infine la donatrice, in questo caso la cinquantenne Claire, che aspetta con un misto di desiderio e di paura il momento in cui riprenderà in mano la sua vita.
Un libro commovente che non si dimentica, che potrebbe avere qualche difficoltà di lettura a causa dello stile alla Joyce della prima parte e che, secondo me, si poteva evitare senza nulla togliere all’incisività del racconto.
Questo racconto, come abbiamo visto, vede lo svolgersi della vicenda dalla parte del donatore, mentre il mio “Congiunzioni divergenti” ha scelto di analizzare più a fondo le difficoltà, le speranze, le remore di chi si mette in lista trapianti e aspetta un donatore. Il percorso non è facile neanche per chi dovrà ricevere così intimamente una parte estranea, eppure di solito è ancora una volta la vita che vince, quell’impulso irrefrenabile che porta tutti gli esseri viventi a replicarsi, a evolvere lo spirito attraverso la sopravvivenza della materia. Dopo i tanti dubbi e le non poche perplessità di chi dona e di chi riceve, due esseri viventi saranno congiunti per sempre, l’uno che vive nel corpo di un altro, nell’atto d’amore più intimo e più sublime che si possa immaginare. Tra i due si creerà un legame che solo chi ha vissuto questa esperienza può capire, e che ho cercato di comunicare attraverso le ultime parole del mio libro:

“… allungò la mano ad accarezzarlo, pensando con immensa gratitudine a chi glielo aveva donato. Giurò silenziosamente che ne avrebbe avuto la massima cura e che l’avrebbe amato intensamente, come si ama la parte migliore di sé.”

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Congiunzioni divergenti, Ladolfi editore
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    16 Agosto, 2015
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Quello che ho amato, la genialità contagia

A commento di un suo libro di saggi, Siri Hustvedt dice della sua scrittura: “«Non ubbidisce alla logica […] è per sua natura contraddittoria ed enigmatica, una sconcertante verità di nebbie e brume». Proprio per dissipare questa complessa ma affascinante nebulosità mi sono presa il tempo di metabolizzare “Quello che ho amato”, il libro con cui la Hustvedt ha conquistato la notorietà, pubblicato in Italia da Einaudi.
In questi giorni la figura di Bill Wechsler mi ha sempre accompagnata, e alternativamente ho provato per lui ammirazione, invidia, tenerezza, compassione; mai indifferenza. Ne ho parlato ad altra gente, ne ho descritte le opere. William Wechsler è un personaggio carismatico, complesso e inclassificabile come solo le grandi menti possono essere. Chiunque entri in contatto con lui non può fare a meno di restarne colpito, di farsi in qualche modo influenzare. Lui non fa nulla per imporsi nella vita degli altri, ma questa peculiarità gli deriva dal fatto stesso di esistere e di essere in una determinata maniera. Tutti i personaggi del romanzo ruotano intorno a ciò che Bill ha costruito nella sua breve vita, a partire dalla voce narrante, lo storico dell’arte Leo Hertzberg. Ormai sessantenne, con gravi problemi di vista, racconta la vicenda che ha portato alla fusione dei loro due mondi. Leo s’imbatte in un dipinto di Wechsler, un “Autoritratto”: l’affascinante e carnale Violet, vestita solo di una t-shirt da uomo, tiene in mano un modellino di taxi giallo, effigie di uno dei tanti che sfrecciano per le strade di New York; una donna sta per uscire di scena, se ne intravedono i mocassini, dipinti con grande maestria; un’ombra si allunga sul dipinto, e Leo la scambia subito per la sua reale proiezione, prima di rendersi conto che è disegnata sulla tela. Il libro parte con la descrizione di questo quadro, che rappresenta l’enigmatica chiave per aprire tutte le porte della vita di Bill Wechsler. Leo ne rimane affascinato, compra il dipinto e vuole conoscere l’artista per arrivare a comprendere perché abbia eseguito un autoritratto raffigurandosi in un corpo del sesso opposto. Dalla conoscenza dei due scaturirà un’amicizia che durerà fino alla fine dei loro giorni, e che li porterà a intrecciare il loro destino attraverso la passione per l’arte e la condivisione della vita familiare.
Bill, durante una conversazione con Leo, dice che Marcel Duchamp ha rovinato l’arte che è venuta dopo di lui, aggiungendo subito dopo che lo adora. Tra queste due idee dell’arte, l’utilizzo del ready-made e la figurazione classica, si muove, infatti, il suo lavoro, utilizzando entrambe in complesse installazioni, scatole e porte che nascondono mondi, alla continua ricerca di quel qualcosa d’indefinibile e sfuggente che ogni artista percepisce e insegue. Una vena di pazzia attraversa la sua famiglia, dal fratello Dan al figlio Mark, e sembra che solo lui riesca a salvarsi, forse grazie proprio alla catarsi artistica. Mark entra a far parte di una compagnia di sbandati il cui leader, Teddy Giles, è il diretto antagonista di Bill. Giles, anche lui artista, è il furbo di turno, l’Hermann Nitsch della situazione, che non si limita però a simulare violenze ma ne fa uno stile di vita. Anche per lui, William Wechsler è il genio ammirato e odiato, il modello da emulare e la figura da distruggere. Alcune vicissitudini del romanzo mi hanno riportato alla memoria uno dei miei film preferiti, “Amadeus” di Milos Forman. In questo libro della Hustvedt Il Salieri di turno è impersonato ora dal buon Leo, che si porta a letto la moglie separata di Bill e tenta di concupirne anche la vedova, ora da Teddy Giles, che con la sua combriccola di disperati fa leva sull’unica debolezza di Bill, la preoccupazione per il figlio Mark, causando forse la fine prematura del rivale.
Un libro, questo della Hustvedt, pieno di citazioni e di richiami sia di psicologia sia di arte, un libro che nonostante l’alto tasso di cerebralità, trova le giuste leve per smuovere le emozioni più profonde, con un’analisi dettagliata dei sentimenti di ogni personaggio.
Degna di nota la traduzione di Gioia Guerzoni.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    22 Luglio, 2015
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Col corpo capisco, geniale a partire dal titolo

Shaul, ricercatore scientifico in crisi, a causa di una frattura chiede alla cognata Ester di fargli da autista. Tra i due non c’è mai stata molta simpatia, eppure il lungo tragitto, l’oscurità, l’intimità forzata della situazione, fanno in modo che l’uomo le apra il suo cuore, o meglio, la sua mente, perché tutto quello che racconta, è probabilmente frutto della sua fantasia. Il lettore avrà forti dubbi che il tradimento di Elisheva, l’adorata moglie, sia mai sia avvenuto realmente. Shaul, invece, ne ha l’assoluta certezza e indica nell’unica ora in cui la moglie si allontana da casa per andare in piscina, il tempo perfetto per il quotidiano tradimento con un certo Paul, un tale che dieci anni prima ha fatto irruzione nella loro cucina per questioni di lavoro e che da quel momento ha incarnato nella sua testa la figura dell’amante. Quando torna Elisheva ha ancora i capelli umidi, la sua pelle odora di cloro. Tutto questo, però, per Shaul è solo tecnica del nascondimento che si è affinata nel tempo.
Shaul ed Elisheva si ritrovano durante la notte in amplessi quasi inconsapevoli, quando i loro corpi, e le loro anime, liberi dal dominio della razionalità, posso finalmente esprimersi.
Ma la gelosia ossessiva del marito lo porta a vivere intensamente la relazione della moglie, a immaginarne i gesti, a provare sulla sua pelle le sensazioni dei due traditori. Il dettagliato racconto, durante il lungo viaggio che dovrebbe portarli a spiare la casa di vacanza di Elisheva (e quindi anche di Paul), tocca anche corde nascoste nella testa di Esti, la fa tornare a un rapporto mai dimenticato ma sommerso dalle incombenze quotidiane di moglie e di madre premurosa.
Ho trovato questo primo racconto geniale nell’impostazione ma un tantino prolisso, ripetitivo. Invece è solo assolutamente geniale il secondo racconto e il Il titolo, tratto da un brano, è già di suo un’invenzione straordinaria.
l sentimenti che accomunano i due racconti sono la gelosia e la consapevolezza che, in certe situazioni, attraverso la pura costruzione teorica, la mente e le sue le ombre prendono il sopravvento, facendo diventare reali i fantasmi che la abitano. Meglio affidarsi al corpo, ai sensi, che hanno una strada privilegiata per arrivare al nocciolo delle cose, alla conoscenza di sé e dell’altro.
La gelosia è anche, anzi sempre, desiderio di possesso. Un desiderio che forse è naturale in un figlio, biologicamente programmato per ricevere tutte le attenzioni di cui ha bisogno per crescere. Ma Nili è una donna che non si lascia racchiudere in un ruolo, è una donna che sente tantissimo e dà tantissimo, a tutte le persone con cui entra in contatto. La figlia Rotem questo non lo può accettare, e si arrocca sempre più nella sua solitudine, non si fa toccare dalla madre. A un certo punto della sua vita, quando finalmente si sente totalmente accolta da Melany, cerca di elaborare questo non-vissuto nei confronti della madre raccontando la storia dell’incontro tra Nili e Kobi, il quasi-sedicenne nei cui confronti Rotem ha sviluppato una gelosia ossessiva, così come lo immagina. Nili, malata terminale, riceve la visita della figlia che le legge questo racconto, la descrizione del rapporto tra il suo “rivale” e la madre. Cerca in lei conferme, ma Nili non le dà nessuna certezza. La madre sa che non è tanto importante l’elaborazione mentale che Rotem ha fatto di quella storia e la sua corrispondenza alla realtà, quanto il fatto che sia stata un mezzo per il loro riavvicinamento.
Kobi, narra Rotem, era stato affidato dal padre a Nili, insegnante di yoga, perché facesse di lui un uomo, forse pensando che lei fosse una specie di prostituta. Kobi, sedicenne flessuoso che ricorda “un principe egizio”, si avvicina alla disciplina come se avesse sempre fatto parte di lui, e Nili ne era rimasta affascinata. Aveva cercato di insegnargli a sciogliere attraverso gli esercizi i nodi e le tensioni muscolari che corrispondono sempre a un groviglio spirituale irrisolto, gli aveva trasmesso le sue conoscenze.
Nili ha qualche nozione teorica di yoga, ma è soprattutto all’intuito e al messaggio del corpo che si affida per la sua opera educativa.
“Io afferro le cose solo in modo intuitivo, …sono una sensitiva, non un’erudita…Sai, …a dire il vero non sono portata per le cose astratte, in generale lascio molto a desiderare sotto un profilo teorico. E anche sotto un profilo pratico –ammette con il solito sorrisetto- non riesco ad assimilare i fatti. Ecco, le cose stanno così. Poi tace, sbalordita. Ma per insegnar lo yoga, – domanda il ragazzo, sconcertato da quella confessione – non bisogna sapere queste cose? Queste massime? Sai, spiega lei con semplicità, quando eseguo un esercizio, capisco. Col corpo, capisco.”
Questo bellissimo personaggio ci insegna, se non lo sappiamo già, che di una persona si può conoscere molto più da una stretta di mano, da un abbraccio, da uno sguardo, da una notte d’amore, che non da mille incontri superficiali. Io lo credo davvero, e forse è proprio per la paura di scoprirci troppo che tendiamo a “mantenere le distanze” dalle persone che non ci piacciono, o che temiamo. Credo anche nel potere terribile della parola, ed è questo strumento che Grossman padroneggia magistralmente in questo racconto, immergendo il lettore nelle situazioni, nella palestra di yoga e di vita, e anche al capezzale di Nili. L’ultima parte, la descrizione del massaggio che l’insegnante pratica al ragazzo, è un incalzante crescendo di parole nell’avvicinamento tra i corpi dei due protagonisti ma anche del lettore verso l'essenza del libro, il centro del messaggio di Grossman. Alla fine della narrazione Grossman le fa dire a Rotem: “Sono così felice, …, che finalmente abbiamo parlato.”
Anche la parola è un pensiero che deve trasformarsi attraverso i sensi, con l’intervento del corpo, per poter arrivare agli altri.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    13 Luglio, 2015
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Grande è la tentazione di capire ciò che siamo sta

“I grandi abissi e le grandi vertigini li vivi da ragazzo, perché hai il tempo e lo spazio mentale per accoglierli.”
Raul Montanari ci racconta una storia di adolescenti immersa nell’estate dell’ottantadue, l’anno della vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio, ma prendendo le distanze. La racconta dal punto di vista del protagonista Demo diciotto anni dopo, il primo gennaio del 2000, quando si realizza la promessa dell’incontro con Ric Velardi, che dovrebbe chiarire molte cose rimaste in sospeso. Questa soluzione narrativa dà modo a Demo-Montanari di osservare con più obiettività i fatti avvenuti tanti anni prima, di descriverli alla luce dell’esperienza accumulata negli anni, di arricchire, in definitiva, il tessuto del racconto con il valore aggiunto di una maggiore consapevolezza. Frasi come:
“Avevo fatto la prima esperienza del potere che hanno le rogne quotidiane, le cose stupide capaci di schiacciare in un angolo quelle importanti.”
“Questo è stato uno dei guai della mia vita, perché non puoi accontentare sempre tutti e anche te stesso.”
“Come la conosco bene, oggi, questa nostalgia per un passato non vissuto, per la strada che non hai preso al bivio.”
rappresentano uno dei motivi che mi hanno fatto amare questo libro, e non sarebbero state credibili in bocca a un sedicenne. Il romanzo passa dal racconto di formazione a toni noir e infine di giallo, rendendo la narrazione coinvolgente e piacevole.
Il regno degli amici è una vecchia casa abbandonata lungo il naviglio della Martesana, trovata per caso da Demo e dall’inseparabile amico Fabiano in quel fatidico agosto dell’82, che vedeva il protagonista condannato a un’estate milanese per recuperare due materie a settembre. L’unico ammesso a varcare quella soglia è Elia, il Profeta, uno strano ragazzo che sembra vivere in una dimensione tutta sua. La casa si riempie di giornaletti porno, di bibite, di alcolici vari, di fumo proibito, e soprattutto di un Aiwa per ascoltare e mimare in santa pace tutti i pezzi musicali preferiti. Ricordo anch’io con chiarezza l’esigenza, tipica dell’adolescenza, di avere un porto franco, un piccolo spicchio di mondo da cui gli adulti siano esclusi, uno spazio anche fisico dove crescere assecondando le pulsioni più profonde, siano esse dell’anima o del corpo. Ad alterare gli equilibri di questo Paradiso proibito arriva Valli, la ninfa pescatrice. È una ragazzina di quattordici anni, dalla bellezza fragile e selvatica insieme, che catalizzerà le attenzioni dei ragazzi del regno, ma anche quelle di una banda di balordi che allungherà le mani sulla casa della Martesana. Tra i ragazzi di questa gang c’è però anche Ric Velardi, che sceglierà di inserirsi nel gruppo degli amici del regno, e anche lui rappresenterà una tappa dell’inevitabile distacco di Demo da Fabiano. Alla festa per i quattordici anni di Valli tutto precipita, e i fatti di violenza e di sangue che macchieranno quella notte separeranno per sempre gli elementi del gruppo. Ma le strade della vita sono a volte destinate a scorrere parallele, e i destini a incrociarsi di nuovo, quanto però tutto è mutato, e non si può immaginare l’esito degli incontri. “Che segno ha lasciato il tempo sulla parte immersa dell’iceberg che io e lei siamo, come tutti? Siamo ancora fragili e pazzi e innamorati del mondo come in quei giorni in cui il futuro era un orizzonte senza confini, o il nocciolo di ciò che eravamo si è ricoperto di una scorza dentro la quale bisognerebbe scavare, scavare scavare per ritrovarci?”.
Eppure la tentazione di ritrovarsi è grande, perché forse è grande la curiosità di capire meglio ciò che siamo stati, ciò che siamo diventati.

“Il regno degli amici, Einaudi Stile libero, fa parte della terna finalista del Premio Città di Vigevano 2015.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    22 Giugno, 2015
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In silenzio nel tuo cuore, diciassette anni e sent

Per avere diciassette anni è brava, molto brava. Sicuramente ha talento, e ha tutti i numeri per crescere.
Ma a questo punto mi sorge un dubbio: devo valutare questo libro tenendo conto che l'autrice ha diciassette anni o devo giudicarlo senza pregiudizio, cioè senza farmi influenzare dall’età? Opto per la seconda, mi sembra più equo e più rispettoso nei suoi confronti. Oltretutto, l’opinione che ho di Alice Ranucci in base all’età l’ho espressa fin dalle prime righe.
Quando si pubblica un libro, si accetta di confrontarsi con un panorama editoriale vasto e articolato, dove c’è una concorrenza spietata tra gli scrittori e tra le case editrici. Queste ultime hanno come scopo primario quello di fare soldi, e allora per vendere adottano adeguate strategie di marketing e scelgono non solo libri, ma anche, e soprattutto, personaggi interessanti da promuovere. Ho letto qua e là, nei blog di editor più o meno accreditati, che uno scrittore che supera i quarant’anni è ritenuto vecchio; peggio se è donna e ha figli. Non avrà né il tempo né le energie necessarie ad autopromuoversi, ad andare in giro per l’Italia a fare presentazioni. Quindi, se la vera discriminante nella scelta dei testi da pubblicare è il personaggio, che cosa ci può essere di meglio di una diciassettenne che ha il dono di saper scrivere fin da quanto ne ha sette? E allora, benvenuta, Alice Ranucci, nel club degli scrittori.
Quando si pubblica un libro, anche a diciassette anni, si accetta pure di mettersi in gioco, e di ricevere qualche critica da chiunque, magari da una blogger sconosciuta come me.
Ciò premesso, “In silenzio nel tuo cuore” è un libro piacevole da leggere, scritto decentemente, con una storia che sicuramente piacerà ai ragazzi di oggi, che vi si possono riconoscere. Insomma un romanzo alla Alessandro D'Avenia con qualche anno di meno. La narrazione si pregia anche di una piccola invenzione letteraria, che si svela alla fine del romanzo. Ma possiede anche tanti luoghi comuni, un linguaggio non abbastanza articolato e parecchie ingenuità. A cominciare dal nome che Alice ha scelto per il personaggio negativo, in un certo senso “antagonista”: Rodrigo. È chiaro che l’ha pescato direttamente nei Promessi sposi, e questa cosa mi ha fatto sorridere con una tenerezza quasi da ascendente parentale. Proseguo nell'elencazione delle pecche con il titolo, non so se scelto dall'autrice o dalla Casa editrice. Cuore, amore, anima, sono parole ormai abusate che in un titolo fanno tanto canzonetta. Non mancano in questo elenco l'amica grassa e l'onnipresente amico "giusto", ma purtroppo non corrisposto. Questa ingenuità non è una carenza colpevole; sarebbe stato strano il contrario, vista la sua verdissima età. Ci sono considerazioni, parole, pensieri, che possono arrivare solo dall'esperienza diretta, solo attraverso il sedimentarsi dei giorni di vita vissuta.

Alice Ranucci ci catapulta tra i frequentatori di un liceo romano, un universo in cui i giovani cercano la propria identità omologandosi al comportamento del branco, che è una delle contraddizioni dell’adolescenza che dovrebbe portare all’accettazione sociale. Bisogna rompere con i codici familiari per crescere: pisciare scuola (non presentarsi alle lezioni), ubriacarsi, drogarsi, stare attaccati al cellulare per messaggiarsi nel raggio di qualche metro, usare lo slang del gruppo: “scialla”, ti sei sgravata”, eccetera. Se poi il branco ha una connotazione politica, in questo caso fascista, bisogna odiare gli immigrati, vestirsi figo, essere implacabili o addirittura violenti con i diversi.
Anche i genitori si identificheranno nel padre e soprattutto nella madre di Claudia, l’io narrante di questa storia. Questa madre e questo padre sono in preda alla disperazione, spiazzati davanti alle mutazioni ormonali e caratteriali della figlia, e non sanno quale strategia adottare per redimerla.
Purtroppo leggendo questo libro si potrebbe pensare che la tattica vincente non sta nel lasciar correre (assenza del padre), né nell’intervento a gamba tesa della madre (controllo delle compagnie frequentate, indirizzo della figlia verso forme di volontariato sociale), ma nel togliersi fisicamente dalla scena.
Il miracolo della maturazione di Claudia avviene dopo la morte della sua materna fustigatrice di costumi, e questo è davvero sconsolante: la mancanza di un genitore come unica via per crescere, per prendere il suo posto nella rassicurante scala di valori accettati universalmente dall’ordine costituito, dalla parte "sana" della società.

"Il silenzio nel tuo cuore" è quest'anno nella terna finalista del "Premio letterario Città di Vigevano".

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Gialli, Thriller, Horror
 
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    17 Giugno, 2015
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La nebbia avvolge un passato di morte

Valerio Varesi, fresco vincitore ex aequo con Antonio Manzini del premio letterario “La Provincia in giallo”, scrisse “Oro, incenso e polvere” nel 2007, ma questo giallo tratta una tematica ancora attualissima: l’integrazione degli stranieri, dei rumeni e dei rom in particolare.
Proprio vicino a un accampamento rom nei dintorni di Parma, in un giorno di nebbia fittissima, è rinvenuto un cadavere carbonizzato. Sul pullman che ritorna dalla Romania, un anziano muore nell’indifferenza generale. Il commissario Soneri sospetta che i due casi siano collegati, ma per il momento vi anticipo solo che potrà identificare la vittima dell’omicidio. Si tratta di Nina Iliescu, incinta al terzo mese, una ragazza dalle mille personalità e dagli altrettanti nomi; non una prostituta vera e propria, ma una ragazza che cerca di costruirsi una famiglia e un futuro, adattandosi come un camaleonte ai compagni che frequenta di volta in volta. Cambia nome, tipo di biancheria intima, atteggiamento mentale; ma non rinuncia alla sua indipendenza economica e continua a fare le pulizie, pur accettando volentieri generosi regali dagli amanti. E’ rimpianta da tutti coloro che l’hanno amata, eppure qualcuno ha deciso che era opportuno farla uscire di scena.
Valerio Varesi parla di rom e di immigrazione con la giusta distanza del cronista, descrivendo i fatti e il modo di vivere di questi stranieri senza schierarsi apertamente.
Un personaggio secondario per l’indagine ma molto azzeccato, è il nobile ormai decaduto Sbarazza, che si nutre degli avanzi che donne affascinanti lasciano sul tavolo nei ristoranti: un modo per sbarcare il lunario che gli dà anche l’illusione di entrare in intimità con le donne di cui ha appena ammirato la bellezza. Sbarazza è una fonte di saggezza infinita, come chi ha avuto tanto, ha perso tutto, ma non desidera niente di più di ciò che possiede in quel momento. Gli incontri con Sbarazza rendono più leggero al commissario Soneri il tormento in cui l’ha catapultato Angela, la compagna che sembra mettere in discussione il loro legame. E’ un’indagine difficile per Soneri, che proietta sulla figura di Nina il ricordo della moglie morta prematuramente e del figlio mai nato; un’indagine che riuscirà a risolvere anche grazie all’aiuto di quelle tecnologie che per lui rappresentano un mistero, appannaggio di una generazione cui il commissario non appartiene più. “Era quello l’invecchiare: il veder morire parti di sé e pezzi di vita condivisi”, dice Valerio Varesi ed è questa la sensazione che permea tutto il giallo, a prescindere dall’indagine. Soneri è un uomo che cerca disperatamente di sentirsi ancora vivo aggrappandosi al suo lavoro e alla nuova compagna, ma non riesce a staccarsi da un passato i cui testimoni sono ormai scomparsi, sprofondati nella nebbia che claustrofobicamente lo avvolge dalla prima all’ultima pagina.
Eppure, alla fine mi è dispiaciuto lasciarlo.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    30 Mag, 2015
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Il commesso di Malamud, il ladro e l'uomo probo

Nella dedica scritta per me, Marco Missiroli ha definito “il Commesso”, di cui ha curato la prefazione per Minimum fax, “il libro più bello di tutti i libri”.
Io non penso che sia il più bello in assoluto, ma che sia un grande libro non ci sono dubbi.
Con apparente semplicità stilistica Malamud ci introduce nel grigio scenario di una Brooklyn degli anni ’50, ma l’ambientazione è così claustrofobica che ci si dimentica di essere nella spaziosa America dalle mille possibilità.
Anche Morris Bober credeva di avere grandi occasioni, e altrettante ne aveva intraviste la moglie Ida. Ma il loro destino è segnato a partire dal cognome, Bober, che in yddish significa persona di poco valore. Una prima disgrazia li colpisce con la morte del figlio maschio, mentre gli affari vanno sempre peggio, tanto da impedire a Helen, la figlia, la prosecuzione degli studi. Anzi, la sopravvivenza della famiglia è addirittura affidata al suo magro stipendio. Tuttavia, la loro misera condizione non impedisce a Morris di conservarsi onesto e giusto, anzi addirittura generoso con chi ha meno di lui. Proprio questa generosità lo porterà ad assumere come commesso Frank Alpine, un italiano dalla dubbia moralità colto in flagrante nell’atto di rubargli pane e latte. E continuerà a rubare, tanto da costringere Morris a licenziarlo.
Ma a partire dal loro traumatico (per Morris) incontro, la sua sorte è ormai legata a quel negozio e a quella famiglia, tanto da divenire l’alter ego di Morris, incarnando tutte le pulsioni negative cui l’ebreo non dà sfogo per mantenersi nella sua rettitudine. Non è un caso che Frank cada sulla bara di Morris nella scena del funerale, come a sancire una continuazione anche corporea della sua vita.
Il rabbino dice a proposito di Bober “Quando un ebreo muore, chi si preoccupa di sapere se è veramente un ebreo? È un ebreo, non ci chiediamo altro. Ma ci sono molti modi di essere ebrei. Così, se viene da me uno e mi dice: “Rabbino, posso chiamare ebreo quel tale che è vissuto e ha lavorato tra i gentili, vendendo loro carne di porco, trayfe, robaccia che noi non mangiamo, uno che neanche una volta in vent’anni ha messo piede nella sinagoga; un uomo così è un ebreo, rabbino?” Io gli risponderei: “ Sì, per me Morris Bober era un autentico ebreo, perché viveva nell’esperienza ebraica, di cui custodiva il ricordo, e con cuore da ebreo”.
Allo stesso modo di Giobbe, l’uomo giusto Morris Bober si è comportato per tutta la vita come Dio gli ha chiesto, anche se per tutta la vita Dio ha disatteso le sue aspettative di un’esistenza migliore. Ma non insegue le risposte a questa ingiustizia, lui possiede quelle risposte per il fatto stesso di essere un vero ebreo.
Ed è là, nella Bibbia, che anche Frank Alpine cercherà il senso della sua vita, nella bottega di Bober, al posto di Bober. Sarà per quella famiglia il figlio maschio che ha perso, sarà come Morris stesso nel cercare di costruire per la sua Helen un futuro migliore.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    20 Mag, 2015
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L'estate senza uomini, per noi dai sentimenti cont




"Alcuni di noi sono destinati a vivere in una scatola da cui possono uscire solo temporaneamente. Noi dallo spirito dannato, dai sentimenti contorti, dai cuori bloccati, e dai pensieri repressi, noi che vorremmo esplodere, straripare in un fiume di rabbia o gioia o persino pazzia, ma non abbiamo dove andare, non abbiamo un luogo al mondo perché nessuno ci vuole come siamo, e non c'è niente da fare se non abbracciare i piaceri segreti delle nostre sublimazioni, l'arco di una frase, il bacio di una rima, l'immagine che si forma su carta o tela, la cantata interiore, il ricamo claustrale, l'oscuro e sognante merletto dal paradiso, dall'inferno, dal purgatorio o da nessuno dei tre, ma dobbiamo pur produrre qualche urlo e furore, qualche clangore di cembali nel vuoto."
Basterebbe questo brano per rendere consigliabile la lettura di questo libro, ma vi ho trovato anche frasi come queste:
"Mi resi conto che mia madre era un luogo, oltre che una persona."
"Solo gli anziani conoscono la brevità della vita."
"Tutti puzziamo di mortalità, è un odore che non si può lavare via. Non possiamo farci niente, se non, forse, metterci a cantare."
"Una commedia dipende dal fermare la storia al momento giusto."
Avrete già capito che mi è piaciuto tantissimo questo romanzo intenso, come piacciono i bei regali inaspettati.
Siri Hustvedt racconta la storia di Mia durante un'estate a Bonden, un paesino remoto del Minnesota, e lo fa rivolgendosi apertamente ai lettori, chiedendone la complicità.
La protagonista fugge da Booklyn e dal tradimento di Boris, suo marito da trent'anni, che le ha comunicato di aver bisogno di una "pausa". La Pausa è una giovane collega francese, e a Mia non rimane altro che cercare di ricostruire il suo Sé abbandonato e umiliato, cercando di separare i pezzi che ancora rimangono attaccati al marito, uno scollamento molto doloroso quando la condivisione è durata così a lungo.
A Bonden Mia ritrova la madre, inserita nel gruppo dei cinque Cigni dell'Istituto dov'è ospite, e organizza un laboratorio poetico per sette adolescenti.
Il romanzo si sviluppa quindi tra le tematiche di questi due estremi della vita, l'adolescenza e la vecchiaia, mentre Mia, dal suo punto intermedio più vicino ai Cigni che alle aspiranti poetesse, gioca un ruolo di catalizzatore che l'aiuta a porre una giusta distanza tra il momento presente e l'immediato, traumatico, passato coniugale.
Il tempo è il vero protagonista di questo libro, il tempo che trasforma il corpo di bambine in quello di giovani donne, e che quello stesso corpo renderà fragile e a volte inconsapevole con l'avanzare degli anni. E' sempre il tempo che aggiunge disegno a disegno, ricamo a ricamo, spesso componendo "divertimenti segreti" come fa Abigail, cui si riferisce il primo brano, uno dei cinque Cigni, dalle insospettabili trasgressioni dietro l'apparente eleganza formale del suo vecchio e fragile corpo.
Su tutto s’innestano conflitti e rapporti d'amore e d'amicizia, difficili da classificare e impossibili da sciogliere.
Il libro è arricchito qua e là da piccoli disegni che mi hanno ricordato il manoscritto Ovoniche, e come quello, dà l'impressione di contenere qualcosa di diverso da ciò che è palese, e che viene voglia di indagare.

Siri Usted è nata il 19 febbraio 1955 a Northfield, U.S.A., da genitori norvegesi. É sposata con Paul Auster, da cui ha avuto la figlia Sophie.
http://sirihustvedt.net/

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    08 Mag, 2015
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L'amica geniale, diventare grandi nella Napoli deg

L’amicizia non è fatta solo di intese, di affetto, di condivisione. È un sentimento complesso, dove trovano posto anche piccole invidie, antagonismi, la necessità di definire la propria identità attraverso la sensazione della propria superiorità o, al contrario, l’amarezza per una sconfitta; anche confrontandosi con le persone che scegliamo per amici, si cresce, si diventa donne, uomini.
Di questo racconta Elena Ferrante ne “L’amica geniale”, dell’amicizia forte e conflittuale tra Lila ed Elena (Lenù), la voce narrante. Le due ragazze si trovano a vivere in uno dei quartieri degradati della Napoli degli anni ’50, dove vige la legge della giungla, quella del più forte o del più ricco. Lina e Lenù decidono che diventeranno ricche scrivendo un libro e affrontano il progetto con grinta e determinazione, studiando e leggendo. Lila lo fa senza alcuno sforzo, la sua intelligenza pronta e intuitiva le permette di stare al passo dell’amica, anzi di esserle superiore, anche quando smetterà di andare a scuola, subito dopo le elementari; Elena con l’applicazione costante.
Intanto crescono, e la trasgressiva creatività di Lila la porterà a compiere una scelta diversa da quella di Lenù. Abbandona i libri per sposare appena diciassettenne un commerciante di qualche anno più vecchio di lei. A quel punto l’amica rivolge le sue attenzioni a Nino, che con la famiglia si è allontanato anni prima dal quartiere e che frequenta l’ultimo anno di liceo. Nino, impegnato socialmente, intellettuale, comincia a essere la pietra di paragone per la crescita professionale e umana di Lenù. Al matrimonio dell’amica sente di far parte della varia umanità del rione, tutta ben rappresentata, “la plebe” come l’aveva definita la maestra Oliviero. “La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari.” Ma Lenù sente anche di essere diversa: la cultura, i libri, l’hanno cambiata per sempre.
Sta proprio in queste insicurezze adolescenziali, nella continua ricerca della propria identità e del proprio destino, nella solitudine di una situazione intermedia, il sentirsi né carne né pesce, la bellezza del libro. Elena Ferrante mi ha conquistata anche con la sua scrittura fluida e piena, apparentemente mutuata dal parlato, esattamente come fa Lila nella lettera che invia a Lenù, in vacanza a Ischia: “…non lasciava traccia di innaturalezza, non si sentiva l’artificio della parola scritta. Leggevo e intanto vedevo, sentivo lei”. Sul finale l’autrice lascia in sospeso la questione di un paio di scarpe, che rivestono un ruolo importante nella storia. Magari riuscirò a leggere anche il resto della quadrilogia prima che con l’ultimo romanzo vinca lo Strega, sperando che intanto qualcuno scopra l’identità di questa misteriosissima scrittrice che si firma con uno pseudonimo. Qualcuno ha sospettato che si tratti della di Anita Raja, moglie di Domenico Starnone, o di Starnone stesso. Io non so; sono quasi certa, però, che si tratti di una donna, legata a Napoli, sui sessanta, e per il momento mi sentirei di escludere la Laurito.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    15 Aprile, 2015
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L'osceno è il tumulto privato che ognuno ha

Un libro da cinque stelle, se non fosse che c'è qualche riferimento letterario di troppo.
Per il resto è davvero eccezionale. Con un linguaggio molto più ricercato rispetto a "Il senso dell'elefante", Marco Missiroli ci fa entrare nel corpo e nella psicologia di Libero, un personaggio in crescita tra la Parigi degli anni '70 e la Milano dei '90.
Parla con sincerità del modo di vivere la sessualità dal punto di vista maschile, una sessualità che è uno degli step da salire per maturare, per diventare uomini. Soprattutto nel periodo che dalla preadolescenza va all'età adulta, Missiroli racconta lo stravolgimento ormonale che guida il corpo, che in quel periodo fa diventare prevalente l'interesse verso il corpo rispetto a tutto il resto. Riesce a non essere mai volgare, neanche quando descrive esattamente un rapporto sessuale o una pratica masturbatoria. Un po' come la copertina, che pur essendo esplicita, è elegantemente stilizzata, tanto che a una prima occhiata avevo scambiato l'immagine per l'imbottitura di un divano. Ebbene sì, confesso la mia miopia.
Attraverso un'intervista a Missiroli ho scoperto che si tratta di una foto di Erwin Blumenfeld, scattata negli anni '70 a una modella, in modo che non si capisse il sesso.
"L'osceno è il tumulto privato che ognuno ha, e che i liberi vivono.Si chiama esistere, e a volte diventa sentimento" dice Missiroli, e forse in queste parole c'è racchiusa l'idea da cui è nato il libro, e la scelta del nome del protagonista.
Oltre al sesso, in questo libro c'è tutto il resto che fa, o ha fatto parte, della vita di ognuno di noi: l'amicizia, la famiglia, l'amore maturo, la morte che riesce a destabilizzare sempre il faticoso equilibrio appena raggiunto. E poi c'è la letteratura, tanta buona letteratura, a volte consolatoria, a volte progetto. Perché Libero è molto Missiroli, e forse qui c'è l'unico limite di questo libro; ma è anche il suo pregio più grande, altrimenti mai avrebbe potuto rivelarsi così autentico e sincero.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    15 Marzo, 2015
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Sette brevi lezioni di fisica

Mai avrei pensato che “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, Adelphi edizioni, mi avrebbe appassionata tanto. Non è sicuramente uno di quei libri che metti da parte per il fine settimana, o per rilassarti dopo una giornata stressante. Sono pagine che richiedono attenzione: da capire, da memorizzare.
Per una come me che di fisica sa solo quel poco che ha imparato a scuola, non è stato facile immergersi nei misteri delle forze che tengono in equilibrio l’universo da sempre; eppure sono state scoperte solo nel corso del ventesimo secolo, a partire da Einstein e dalla sua teoria della relatività e da Planck con la meccanica quantistica.
Due teorie che sembrano diverse e contraddittorie ma le cui equazioni si rivelano vere entrambe, tanto da lasciare aperta la grande sfida alla loro comprensione ancora oggi.
L’immagine della Terra che si muove grazie alla curvatura dello spazio come una pallina in un imbuto, l’invecchiamento a due velocità a seconda del punto dello spazio in cui ci troviamo e la triste fine delle stelle che implodono creando i buchi neri non si cancelleranno facilmente dalla mia povera testa, ma quello che di questo libro mi è rimasto a livello profondo è la teoria di Heisemberg. Credo di aver capito che un elettrone si palesa solo se entra in contatto con qualcos’altro, e lo fa con salti quantici irregolari, cosa che sembrerebbe inconciliabile con la necessità di schemi rigidi che ha la ricerca scientifica. Il Caso e la probabilità irrompono nella Scienza. “E’ come se Dio non avesse disegnato la realtà con una linea pesante, ma si fosse limitato a un tratteggio lieve.”, dice Rovelli, che in questo testo riesce a essere scientifico e poetico nello stesso tempo.
Questo mi fa pensare che nessuno di noi esiste veramente se non entra in contatto con gli altri; nemmeno noi, come l’elettrone solitario, possiamo palesarci se non siamo “visti” dagli altri. Il Caso fa incontrare le cariche elettromagnetiche che ci portiamo addosso, e a volte sono davvero scintille: d’attrazione o di repulsione, a volte cariche di stesso segno che rimangono neutrali e indifferenti. Una teoria di strettissima attualità nella mia vita e nel mio ultimo libro, dove è evidente l’interconnessione tra gli esseri umani e il ruolo che il caso ha nella loro storia.
Ho comprato “Sette lezioni di fisica” all’Esselunga, insieme allo yogurt di soia e a “Non è stagione” di Manzini, che è decisamente più nelle mie corde; neanch’io sapevo perché mi ero lasciata attrarre dal primo, che nulla apparentemente ha a che vedere con i miei interessi.
Una prova in più che non sei tu a scegliere i libri, ma sono loro che ti cercano.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    12 Dicembre, 2014
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La bellezza è negli occhi di chi guarda

Uno scrittore lascia sempre una traccia sulla chiave del suo romanzo. Spesso il motivo per cui decide di scrivere proprio quella storia risiede nel cercare di risolvere alcuni suoi conflitti, o di condividere qualche ossessione. Questa motivazione forte può apparentemente essere persa di vista, nella compulsiva necessità di riempire pagine e pagine (511 nel nostro caso) con migliaia di parole. Sta al lettore individuarla, perché non esiste libro senza motivazione, come non esiste il delitto perfetto.
Nel libro di Zadie Smith, mi sembra di aver raccolto questi indizi:
- Il titolo: “Della bellezza”. E’ chiaro che, apparentemente, l’autrice vuol parlarci della bellezza e del peso che ha la bellezza nella storia di ognuno dei suoi personaggi, e quindi, nella storia di ognuno.
-La suddivisione in queste tre parti:
“ Kipps e Belsey
Ciascuno rifiuta di essere l’altro (H.J.Blackham.)
La Lezione di anatomia
Un possibile errore consiste nel fraintendere, o anche soltanto sottovalutare il rapporto fra università e bellezza. L’università è fra le cose più preziose che possono andare distrutte. (ELAINE SCARRY)
Della bellezza e dell’errore
Quando dico che odio il tempo, Paul dice
come potremmo altrimenti trovare profondità di carattere, o lasciarci crescere l’anima?
(Mark Doty) ”
-L’argomento di cui si occupano i due studiosi d’arte, Howard Belsey e Monty Kipps, ovvero Rembrandt.
I due antagonisti cercano di trasmettere le loro conoscenze agli studenti, e in questo tentativo di passaggio della conoscenza da una generazione matura alla nuova generazione, impegnata a costruire il proprio futuro, sta uno dei primi significati della bellezza secondo Zadie Smith.
Howard e Monty, rivali e nemici, non sono poi così diversi, nonostante si rifiutino di ammetterlo e, anzi, disprezzino l’altrui visione della vita. Entrambi ottimi padri di famiglia, WASP e progressista il primo, nero e conservatore il secondo, entrambi di mezza età, soccombono davanti alla bellezza fisica e alla giovinezza delle loro studentesse. Nessuno dei due vede più la bellezza della propria moglie, che è ormai la bellezza delle anime cresciute, ma è nascosta sotto chili di grasso per Kiki, la moglie di Howard, o dentro la fragilità della malattia per Carlene, la consorte dell’altro.
Bella è l’amicizia tra queste due donne, così diverse, che hanno il coraggio di trovare una ricchezza la diversità dell’altra.
Il quadro che porterà Howard a capire cos’è davvero la bellezza è “Giovane che si bagna in un ruscello” di Rembrandt. “una graziosa ragazza olandese piuttosto bene in carne, con indosso una semplice sottoveste bianca, sguazza in un ruscello con l’acqua a metà polpaccio…
Howard guardò Kiki. Nel suo viso, la propria vita.”
La bellezza è negli occhi di chi guarda, nell’amore sincero, nella semplicità delle piccole cose come il bianco abbagliante di una camiciola, nella condivisione di un percorso. Questo Rembrandt aveva capito, dipingendo Hendrickje.
Zadie Smith con grande talento crea personaggi che ti rimangono attaccati, e possiede la capacità di riuscire a far percepire, attraverso le parole, i loro pensieri.
Lungo tutto il libro, ho creduto di intuire quella che deve essere una delle ossessioni dell’autrice, ovvero la sua “trasversalità” razziale, il conflitto tra il colore della sua pelle e la sua cultura.
Un conflitto che, nella testa di chi legge, si trasforma in bellezza.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    01 Dicembre, 2014
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Il magma mutevole delle parole

Ho finito di leggere "Kafka sulla spiaggia" già da qualche mese, e da allora rimando e rimando il momento di parlarne.
Ma Haruki Murakami, da buon maratoneta, dà il meglio sulla lunga distanza. Non è che, non parlandone, non ci abbia pensato. Il maturo adolescente Kafka e il vecchio bambino Nakata non mi hanno più lasciata del tutto, e ancora vagano nella mia testa che non sa bene dove collocarli, se nel bosco della morte da cui Kafka ha fatto ritorno o nell'appartamento isolato dove Nakata ha concluso il suo percorso terreno.
Il tempo trascorso dalla fine della lettura mi fa però dubitare. Davvero sono piovuti dei pesci dal cielo? Veramente Nakata conosceva il linguaggio dei gatti? E Kafka, ha fatto sul serio l'amore con la madre e ha ucciso suo padre secondo la profezia che lo perseguita?
Non è la soluzione a queste domande quello che importa, come non è essenziale la destinazione finale dei personaggi. Quello che conta è il viaggio, e il percorso che abbiamo fatto con Murakami, attraverso il magma mutevole delle parole che ribollono e di continuo si, e ci, trasformano.
"Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l'andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra con il dio della morte prima dell'alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l'unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia. Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato".

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    03 Settembre, 2014
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Secondo Natura

“…Se dico che la Natura è dura, intendo dire che è il contrario di tenera…Perché noi ragioniamo scioccamente sempre e soltanto dal punto di vista nostro egoistico.”
Questa è la grande lezione che Silvio Marengo, veterinario e scrittore, ha dovuto imparare in tanti anni di mestiere a contatto con gli animali e con le imprescindibili priorità della Natura, e questo è ciò che ci trasmette nel suo ultimo libro. Il veterinario non può far altro che assecondarne le leggi, intervenendo con la propria esperienza là dove l’ingegno umano ha escogitato un qualche sistema per agevolare il corso naturale delle cose. Ma spesso deve arrendersi, e non lo vive come una sconfitta, perché, come ha detto l’autore, “la morte fa parte della vita.”
Questo diario è dedicato prevalentemente al momento della nascita nelle varie specie del mondo animale, e si rivela poetico a dispetto delle crude verità che racconta. L’affacciarsi di una nuova vita è sempre un momento magico, perché ci tocca tutti e riguarda ognuno di noi. Un esserino si affaccia alla “porta del mondo”, come Silvio Marengo definisce spesso quella che per Courbet era “L’origine du monde”, ed è inevitabile che vada a interferire con gli equilibri del suo microcosmo, e attraverso i collegamenti esterni che ha ogni componente di esso, con il mondo intero.
Lo stile è sobrio, una parlata appena più raffinata, come è giusto che sia, come è “naturale”.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    21 Luglio, 2014
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Marina Bellezza, ma la grande bellezza è altrove

La copertina mi è subito sembrata brutta, banale, anacronistica, con colori innaturali e discordanti, e immagini da fotoromanzo. Il titolo, insopportabile.
Quando, oltretutto, ho scoperto che la protagonista è bella, e fa della bellezza uno dei suoi punti di forza, mi sono detta: no, Bellezza come cognome non ci può proprio stare.
Mi chiedo come abbia fatto una grande casa editrice come Rizzoli a sfornare la suddetta copertina, e come abbia potuto avallare il cognome che ha scelto la Avallone (scusate il bisticcio di parole). Qualcuno glielo dica che non siamo più ai tempi di Marcellino pane e vino, please!
Va beh, fin qui ho elencato le pecche dell’editore, di cui l’autrice potrebbe non avere alcuna responsabilità,
ma del contenuto è sicuramente corresponsabile, la prima responsabile direi.
Il racconto comincia bene, in maniera originale, con la morte di un cervo, investito da tre amici tra le montagne del biellese. Ed è anche ben scritto, tanto che all’inizio mi sono detta “ha talento, la ragazza” e mi sono rammaricata di non aver ancora letto Acciaio, il suo primo, pluripremiato, libro.
Proseguendo la lettura mi sono però accorta di qualche ripetizione di troppo nella descrizione del paesaggio e nel tratteggio del carattere dei personaggi, di stereotipi a ripetizione, di una certa ingenuità ed eccessiva semplificazione nella genesi dei problemi caratteriali dei protagonisti, e comunque un buon lavoro di limatura potrebbe snellire il libro di un centinaio di pagine, senza che la trama ne abbia a soffrire.
Volendo semplificare la storia, tutto ruota intorno all’amore tra due ragazzi, e alla loro crescita umana e professionale ai tempi della grande crisi: quella del nostro tempo, purtroppo.
Sono queste le strade che Avallone indica nel libro come via d’uscita dal difficile momento economico, o perlomeno queste sono le scelte dei suoi protagonisti:
-il ritorno al buon selvaggio secondo Rousseau, ovvero il riappropriarsi delle terre abbandonate dai padri (Andrea);
-la scalata allo sfavillante mondo dello spettacolo in qualità di cantante, con tanto di esibizione canora in bikini per mettere in mostra un fisico da paura, possibilmente dopo aver abbandonato gli studi (Marina);
-l’emigrazione intellettuale (Ermanno);
-l’entrata in politica (Elsa).
Tralasciamo pure le considerazioni sociologiche su queste e altre opportunità, che sarebbe troppo complicato, anzi, impossibile, trattare qui e forse anche altrove, ma voglio comunque dire due parole sui rapporti tra genitori e figli. Non possono essere semplificati come fa l’autrice: da una parte i cattivi, i genitori naturalmente, che parteggiano spudoratamente per uno dei due figli o bevono, o giocano d’azzardo e, a un certo punto, si permettono pure di “abbandonare” i figli alla tenera età di ventidue e ventisette anni, lasciandoli soli ad affrontare un mondo prosciugato di qualsiasi risorsa, che tra l’altro è stata dilapidata proprio da loro.
Capisco la rabbia generazionale per il momento storico che stiamo vivendo, ma sinceramente tutto questo mi sembra un po’ troppo superficiale, e poi è molto comodo addossare tutta la colpa delle proprie scelte agli altri, qualsiasi cosa abbiano fatto.
Alcuni episodi di questo romanzo mi hanno abbastanza sconcertata, essendo incomprensibili alla luce di quanto sappiamo del modo di agire dei protagonisti, ma forse non ho capito io le ragioni per cui la Avallone se li è inventata.
A un certo punto, verso la fine della storia, Andrea va a Tucson, U.S.A, con Marina, per cercare di sciogliere i nodi del suo rapporto conflittuale con il fratello Ermanno.
Quando arrivano a destinazione lascia la moglie a grande distanza dalla casa del fratello, perché “ era una cosa che doveva fare da solo”(?!), poi , quando lo vede, dapprima si nasconde, infine lo chiama per nome, e, dopo essersi guardati a lungo senza muovere un passo l’uno in direzione dell’altro , Ermanno gli risponde. Andrea, a questo punto, che fa? Se la dà a gambe levate, tornando indietro senza neanche salutarlo.
E Marina Bellezza? Marina, dopo aver capito che la fama, il successo, non servono a niente, torna dal suo amato, lo sposa, va con lui in America, scorrazzano d’amore e d’accordo su un suv che è un transatlantico, e, nel capitolo successivo, di punto in bianco si trova al bar del paese, chiama il suo improbabile agente Donatello, e pensa di correre immediatamente da lui per riprendere la scalata alla classifica discografica, senza una frase di ripensamento verso ciò che lascerà, forse per sempre.
Ho però apprezzato, nella parte finale, l’immagine del cervo che, come Marina, fugge lontano. Perché è vero, non si possono addomesticare i lupi e le volpi, e neanche i cervi. E Marina è una figlia di quella natura bellissima e selvaggia, proprio come quel cervo.
Questa immagine chiude il cerchio con quell’altro cervide, quello involontariamente ucciso da Andrea e compagni all’inizio del libro.
Perché l’ho letto, vi chiederete a questo punto, e soprattutto: perché ho speso diciotto euro e cinquanta? Perché è nella terna dei finalisti al premio Città di Vigevano 2014, e l’ho acquistato presumendo che il candidato a un premio letterario abbia comunque qualcosa di buono.
Beh, sì, la trovata del cervo mi è proprio piaciuta. Anche il personaggio di Andrea non è male, nel complesso, e qualche frase, qua e là.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    07 Luglio, 2014
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Uccide più la lingua

A volte un dettaglio ininfluente, un gesto non necessario, possono modificare il corso degli eventi. E’ qui che entra in gioco il caso, al servizio del Fato, a imprimere alla nostra vita una svolta insospettata e spesso indesiderata, obbligandoci a seguire una direzione necessaria, ma incomprensibile ai nostri occhi.
Nel libro di Camilla Baresani l’uscita da casa di Giada, alla ricerca del sale rosa dell’Himalaya che dovrebbe rendere più raffinata la tavola per una cena importante per la sua carriera, è il fattore scatenante degli eventi che ci vengono narrati.
E’ un libro ben scritto, duro ed esplicito quanto basta, che tuttavia non indulge in facili particolari da letteratura pulp.
La vicenda coinvolge, si tende a identificarsi con la protagonista, sequestrata e violentata. Specie noi donne siamo portate a pensare che quello che è successo a Giada potrebbe capitare anche a noi, come purtroppo succede quotidianamente a tante donne stuprate o ammazzate.
La parte più interessante del libro, a mio parere, consiste tuttavia nello smembramento dell’identità della protagonista da parte dei suoi conoscenti, che approfittano dei riflettori dei mezzi di comunicazione puntati sulla scomparsa della ragazza per avere i famosi dieci minuti di popolarità. Parlano e sparlano della sua personalità; la vittima tende ad assumere pian piano i connotati di una che tutto sommato se l’è cercata.
L’ambizione diventa arrivismo, i piccoli escamotage per emergere assumono i contorni di azioni moralmente riprovevoli, se non vere e proprie truffe a danno di altri.
Quasi nessuno di questi presunti amici o colleghi, alla fine, spererebbe in una soluzione favorevole alla ragazza scomparsa.
A conclusione della vicenda c’è invece il colpo di scena di un fato finalmente favorevole, unita a una scelta radicale che cambierà per sempre la vita della protagonista e che ribalterà i valori in cui ha sempre creduto.
E’ un finale a cui invece io credo poco. E’ vero che le persone cambiano dopo un evento particolarmente traumatico, ma non cambiamo mai così tanto da rinnegare tutta la vita precedente.
Anche il comportamento di Giada durante il sequestro mi desta qualche perplessità. Camilla Baresani descrive un comportamento condiscendente che rasenta la sindrome di Stoccolma, anche questo poco credibile in una personalità come quella che ci viene presentata all’inizio del libro.
Poi, si sa che in certe situazioni bisognerebbe trovarsi, e io spero di non dovermici trovare mai.
Nonostante le perplessità appena descritte, è un libro che consiglio di leggere, e che non lascia indifferenti.



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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    24 Giugno, 2014
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Il prezzo della libertà

Un libro per buona parte sopravvalutato, molto noioso nella prima parte, che si riscatta solo nelle ultime venti pagine, quando l’autrice con un colpo di coda geniale riesce a inquadrare in una prospettiva diversa tutto il racconto precedente.
Grande merito ha la Chevalier per la ricerca storica che sottende la trama, tutta ambientata nel diciassettesimo secolo, precisamente al tempo del pittore olandese Vermeer Vermeer , (Delft, 1632 – Delft, 15 dicembre 1675 ) e, in particolare, per lo studio delle tecniche pittoriche usate dallo stesso e dei metodi di preparazione dei colori.
Detto questo, la prima parte del libro parla della vita quotidiana di Griet, un’adolescente andata a servizio dai Vermeer quando la sua famiglia d’origine ha difficoltà economiche.
E’ una quotidianità fatta di bucati interminabili, aiuto in cucina, spesa al mercato, in un ambiente ostile dove la rivalità fra donne si manifesta in grandi e piccoli dispetti.
La svolta arriva quando Vermeer sceglie Griet per la preparazione dei colori. La ragazza, dotata di un innato senso artistico, si sente finalmente realizzata, e la vicinanza scatena un’attrazione morbosa e proibita verso il maestro.
Mentre i sentimenti della ragazza sono ben descritti e analizzati, quelli del pittore sono molto vaghi e non sufficientemente approfonditi.
Griet gli farà da modella per il quadro da cui prende il titolo il libro, e questo scatena l’ostilità della figlia e della moglie di Vermeer
Dopo l’allontanamento di Griet, accusata ingiustamente di furto, inizia la seconda vita della protagonista, sposata al figlio del macellaio che forniva la carne ai Vermeer.
L’orecchino di perla con cui aveva posato per il ritratto, ereditato alla morte del pittore, servirà ad affrancare la protagonista da qualsiasi sudditanza materiale e psicologica, anche nei confronti del nuovo marito.
Ecco, sta proprio in questo, secondo me, la genialità dell’ultima parte del libro. La Chevalier riesce a trasformare questo particolare da mero attributo estetico a emblema stesso della libertà.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    12 Giugno, 2014
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La vita non è che una sequenza infinita di "Slidin

Devo ammettere che l’incipit del romanzo, con l’uso insistito di segmenti nominali, separati spessissimo dal punto, mi aveva innervosito. Mi aveva dato l’impressione di essere di fronte a un espediente letterario per attirare l’attenzione, senza che ve ne fosse una vera necessità, e questo mi era dispiaciuto. Avevo provato simpatia per Raffaella Silvestri, guardando Masterpiece, il primo talent letterario che l’ha vista finalista. Potrei addirittura dire che avevo sviluppato una certa empatia, cresciuta di pari passo con l’antipatia di quasi tutti gli altri concorrenti e di parte del pubblico. E’ la stessa antipatia che il primo della classe, il saputello, suscita nel resto della scolaresca. E’ che, a volte, il primo della classe è anche una persona molto sensibile, con il suo bagaglio di sofferenze e di fragilità di cui non riesce a far partecipi gli altri, attirando altra malevolenza. E capita, allora, che reagisca con aggressività, e con determinazione insegua i suoi obiettivi. Era scattata una sorta di identificazione, insomma, al di là del gap generazionale, o forse proprio per questo.
Come un genitore putativo avrei voluto che Raffaella realizzasse le sue aspirazioni, cosa in cui io ho fallito per incapacità o per scelte di vita diverse.
Continuando a leggere, questo stile volutamente frammentato si è un poco ammorbidito, pur rimanendo incisivo e fortemente evocativo, e allora mi sono lasciata trasportare nella storia. Fondamentalmente è un romanzo di formazione, e l’autrice accompagna, affianca mi verrebbe da dire, Viola e Kimi, i due protagonisti, attraverso l’adolescenza e la piena maturità, oltre i trent’anni: il tempo delle scelte, il momento della svolta verso una o l’altra direzione.
Sono due persone particolari, Viola e, soprattutto, Kimi. Italiana lei, di Helsinki lui, entrambi hanno perso precocemente la madre, entrambi si sentono “diversi”, come forse la maggior parte degli adolescenti crede di essere. Ma che sia un comune sentire lo si capisce solo molto tempo dopo. Il tempo delle mele è spesso segnato dalla sensazione dell’isolamento dal compatto gruppo degli “altri”. In Kimi, però, tutto è amplificato da una forma particolare di autismo, che lo fa sentire in sintonia con la propria anima solo a contatto con la musica, la “sua” musica, dove il corpo, quel corpo in cui si sente isolato, diventa, attraverso le mani sulla tastiera, un ponte con cui comunica il proprio universo interiore: “…invece lui è lì che non si vergogna, che ha con il pianoforte quel rapporto diretto ed esclusivo, ed è lì che lui può esprimere tutto, tutte quelle emozioni, tutte quelle espressioni del volto che lo rendono vero e vivo e umano, e che lontano, nella vita di tutti i giorni, non esistono più.”
La definizione di Viola è un po’ più sfuggente, si intuisce comunque un contrasto tra il suo voler essere assolutamente “ normale” e la sua attrazione verso tutto ciò che “ rende la gente non figa, non giusta”. E’ chiaro che due persone così non potranno mai incontrarsi davvero, unire le loro vite per far nascere un’entità nuova. Troppo diversi eppure troppo uguali, ma il vero ostacolo è la paura di Kimi, il limite invalicabile che lui pone tra se stesso e gli altri. Questo libro mi ha ricordato molto “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, e come quel libro anche questo, alla fine, mi è piaciuto tanto. Mi ha commossa, mi ha fatto pensare, sono stata trattenuta sulle pagine nella speranza, inutile, di un lieto fine che era giusto non ci fosse.
Raffaella Silvestri è riuscita a raccontare la difficoltà di scegliere la strada giusta, di avere il coraggio di imboccare una delle tante porte. Alla fine la vita non è che una sequenza infinita di “Sliding doors” attraverso cui destreggiarsi.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    20 Mag, 2014
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Unamolecola indvisibile

Chiusa l’ultima pagina, riposto il libro, ho avuto l’impressione di avere avuto tra le mani una preziosa tovaglia rotonda lavorata a tombolo.
Fragile e ricercata, dove neppure un punto, una parola, erano in eccesso, né mancavano. Eppure robusta e flessibile, in grado di adattarsi alla storia che viene raccontata.
Giuseppe Munforte tira le fila del racconto con misurata attenzione, con poetico realismo fa convivere l’universo interiore del protagonista, che parla in prima persona, con la cruda realtà del paesaggio suburbano.
Un paesaggio squallido nella sua artificiosità di quartiere dormitorio eppure molto amato, vissuto come un naturale prolungamento del nido, della sua casa di vetro.
Non è una casa qualsiasi, la casa di Davide. In inglese il termine home definisce meglio come lui vive le sue quattro mura, i piccoli locali dotati di grandi vetrate che mettono in comunicazione con l’esterno anche visivamente.
Davide osserva il ritmo delle giornate altrui, e dei propri cari, con partecipata attenzione, assaporando qualsiasi dettaglio, per transitorio che sia, per poterlo fissare nel suo diario, con la magia della parola che rende incancellabile qualsiasi cosa.
Un’attenzione alla vita che è, in realtà, un’irresistibile pulsione verso la morte, anzi: è già un sentirsi come morti.
Davide vive davvero solamente nei ritagli di tempo che sono concessi, a lui e alla sua compagna, dal lavoro, vissuto come una maledizione biblica. “Con il sudore della fronte mangerai il pane” dice Dio nella Genesi, e dunque il lavoro diventa un male necessario alla sopravvivenza.
Ciò che aspetta per tutto il giorno è poter tornare, la sera, a osservare i gesti, le espressioni di Elena, di Sara e Andreas: della sua famiglia che vorrebbe proteggere a ogni costo, e mantenere unita come una molecola indivisibile.
Questo senso di protezione, questo osservare con partecipata attenzione, si dilaterà oltre ogni limite razionale, oltre il possibile.
Tocca ai capitoli in corsivo, alle gocce di futuro che Munforte semina qua e là nel libro, riportarci alla dura realtà della disgregazione familiare, alle scelte diverse e ai destini che dividono irrimediabilmente.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    13 Mag, 2014
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Luce alla Luce

IL CALORE DEL SANGUE di Irene Nemirowsky

Ho scelto di parlare di questo libro semplicemente citando i passi che più mi hanno coinvolta emotivamente.
Irene Nemirowsky (Kiev, 1903 –Auschwitz 1942) è un classico, sebbene la sua riscoperta sia recente e la casa editrice Adelphi abbia cominciato a pubblicare i suoi romanzi solo a partire dal 2005.
Ogni volta che li rileggo mi rendo conto che il nazismo, oltre ad aver falciato le vite di milioni di persone, è stata una macchina formidabile che ha tentato di azzerare ogni manifestazione di cultura libera.
Peccato (per chi ha creduto in quella nefasta ideologia) che le cose dello spirito non sono destinate a tornare alla polvere. Spesso tornano a brillare alla luce, perché dalla Luce arrivano.

“A vent’anni qualcuno fa irruzione nelle nostre vite. Sì, uno sconosciuto, esuberante e alato, radioso, che ci accende il sangue, ci devasta la vita e se ne va.”
“Un gruppo di persone in età matura emana un senso di imperturbabilità: i loro organismi danno l’impressione di aver digerito tutte le portate pesanti, amare o piccanti della vita, eliminato tutti i veleni, e per dieci o quindici anni essi si trovano in uno stato di equilibrio perfetto, di invidiabile salute morale. Sono soddisfatti di sé. Il faticoso e vano lavorio con cui la giovinezza tenta di adattare il mondo ai propri desideri l’ hanno già compiuto. Hanno fallito, e ora si riposano.
” 'La carne ci vuol poco a soddisfarla. E' il cuore a essere insaziabile, il cuore che ha bisogno di amare, di disperarsi, di ardere di un fuoco qualunque ... '
"A vent’anni, invece, come ardevo!... Come mai dentro di noi si accende un fuoco simile? Una fiammata che travolge ogni cosa nel giro di pochi mesi, pochi giorni, a volte poche ore; poi si spegne. E non resta che fare il conto dei danni
"Esiste un momento perfetto, quando tutte le promesse giungono a maturazione e finalmente cadono i bei frutti, un momento che la natura tocca verso la fine dell'estate, supera presto, e poi iniziano le piogge dell'autunno. Lo stesso vale per le persone."

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    30 Aprile, 2014
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Commedia all'italiana

“La commedia all'italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all'italiana da tutte le altre commedie...”
La definizione di Mario Monicelli ben si addice al divertente, riflessivo con brio, romanzo di Piersandro Pallavicini, ed. Feltrinelli.
D’altronde, proprio due film di Monicelli mi ha fatto tornare alla memoria questo libro: Parenti serpenti, del 1992, e Amici miei Atto III, del 1985. Per la verità quest’ultimo è stato diretto da Nanny Loy, ma seguendo un canovaccio già imbastito da Monicelli anni prima.
Con la sua ormai collaudata capacità narrativa, Pallavicini riesce tuttavia a dare personalità e freschezza al racconto, facendolo vivere di vita propria.
Carla Pampaloni Scotti, cinquantenne professoressa di chimica, voce narrante, viene convocata insieme al fratello Edo dal padre, Alfredo Pampaloni, a Solària, presso la storica casa di vacanza. Vi si reca con il figlio Max e la collega e amica di sempre, Paola Ottolina.
Il fratello è accompagnato dalla famelica moglie inglese e dai terribili gemelli biondi.
L’ anziano padre, sapendo di essere ormai arrivato al capolinea, lascia ufficialmente il sessanta per cento al primogenito maschio, suscitando le ire della sorella cui spetta solo il quaranta. Le cose, in seguito, si riveleranno leggermente diverse…
Monicelliana la figura di Alfredo Pampaloni, ex industriale caseario specializzato in “formaggi molli o eventualmente erborinati”, con una insana passione per la produzione cinematografica, dai leggendari e nebulosi trascorsi in Cosa Azzurra. E’ incline agli scherzi (le zingarate), testardo quanto basta per non cedere alle pressioni di chi vorrebbe mettere le mani sulla sua “ casa a scomparsa”.
Attira così su di sé le ire di alcuni valligiani, che metteranno la famiglia Pampaloni al centro di una serie di attentati che Erica Daldosso, vice ispettore, dovrebbe sventare.
Coinvolgente e ben costruito il personaggio dell’ Ottolina, ironica, arguta e senza nessun tipo di complesso, nonostante Made Natura l’ abbia dotata dell’attrezzatura minima per sopravvivere come femmina.
Si sorride, non si ride sguaiatamente; e quando non si ride, si riflette sulle cose della vita o si ricorda un certo periodo storico irripetibile, e su una generazione, i cinquantenni, che hanno ancora molto da dare. E da dire.
Se dovessi paragonare questo romanzo a un formaggio, tanto per stare in tema, lo definirei un Santi: gorgonzola dolce ma saporito, leggermente…erborinato.




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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    27 Aprile, 2014
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La vita dell'Uomo è amore, carne e destino. Poi, r

Ci sono storie che si possono riassumere con poche, essenziali parole. E poi ci sono altre storie.
"La casa degli spiriti" fa parte, senza ombra di dubbio, della seconda categoria.
E' l'affresco, o meglio, il murales, perché del murales ha i colori vivi, della società cilena, raccontata
attraverso tre generazioni della famiglia Trueba-Del Valle, lungo i primi anni del Novecento fino ad arrivare al
dopo-Pinochet, il cui colpo di stato avvenne l' 11 settembre 1973.
I due personaggi-cardine della vicenda sono Clara del Valle, eterea, magica creatura di luce che avvolge nel
suo amore incondizionato tutti gli esseri che vengono in contatto con lei, ed Esteban Trueba, colui che Clara
ha scelto come marito fin da quando, lei ancora bambina, ne aveva sposato la bellissima sorella Rosa, destinata a una morte precoce.
Trueba amerà Clara di un amore appassionato che durerà tutta la vita, ben oltre la morte della moglie.
Cercherà però invano di possederla, perché per sua stessa natura lei risulta inafferrabile, così vicina nella
carne nel talamo, ma altrettanto persa in un monto tutto suo, dove gli spiriti che abitano la casa hanno la
stessa consistenza delle persone reali.
Arriverà a usare la violenza contro di lei, cosa che gli costerà il silenzio della moglie per il resto dei suoi giorni.
Clara sapeva che Esteban era incapace di opporsi alla violenza che periodicamente lo abitava, “ma non poteva farci niente”. Così, più o meno, la Allende descrive questo passaggio del libro, fornendoci la chiave di lettura di questi indimenticabili personaggi.
Clara la compassionevole, Clara la bella, Clara la chiaroveggente; Esteban l'uomo che si è fatto da sé, duro
e chiuso nei propri preconcetti di classe, l'uomo violento che sarà a sua volta sopraffatto dalla crudeltà di un
regime che la Destra reazionaria, di cui Trueba è un illustre senatore, aveva contribuito a instaurare e che lo colpirà nell’unico affetto che gli sia rimasto, la nipote Alba.
E’ attraverso la lettura di Alba dei diari della nonna e dei ricordi del nonno che la storia prende forma.
Esteban è l’unico personaggio a cui Isabel Allende dà la possibilità di esprimersi in prima persona. Non lo fa a capitoli alterni: la sua testimonianza irrompe all’improvviso nella narrazione in terza persona, ma come se l’autrice non potesse esimersi dal riportare un racconto che qualcuno le sussurra all’orecchio con impellente bisogno.
Forse è un omaggio postumo al proprio nonno Augustin, a cui il personaggio Esteban si ispira. Il libro nasce infatti da una lunga lettera che la Allende cominciò a scrivergli nel momento della sua agonia.
Trueba attraversa tutta la narrazione, costretto a modificare se stesso e a farsi forgiare, suo malgrado, dall’amore. Prima dall’amore di Clara, poi da quello della figlia Blanca per Pedro terzo Garcia, il figlio ribelle del suo uomo-tuttofare che l’ha fedelmente affiancato nella sua ascesa da latifondista, infine dall’amore di Alba, che sceglie un altro rivoluzionario come compagno della vita.
Pedro primo, il nonno Garcia, aveva salvato la vita di Esteban, mentre Pedro terzo lo renderà nonno a sua volta. La Allende vuole evidenziare come siano artificiosi gli steccati di classe, perché la carne dell’Uomo è di una sola pasta, e quando è farcita d’amore le famiglie sono costrette a fondersi, le storie dei poveri e quelle dei ricchi diventano un’unica storia, dove il denaro, la classe sociale, non sono che dettagli ininfluenti dal punto di vista della continuazione della specie.
Altra potente immagine della circolarità e della potenza del destino, della carne e dell’amore, anche quello imposto con la violenza, è la figura di Esteban Garcia, il nipote illegittimo di una contadina che Trueba aveva stuprato e fatto sua per qualche tempo in gioventù.
“La casa degli spiriti” è diventato il primo capitolo, ma l’ultimo cronologicamente parlando, di una trilogia di ci fanno parte “ La figlia della fortuna” e “Ritratto in seppia”.
Pur essendo il romanzo d’esordio, contiene buona parte delle tematiche della Allende, per lo meno del filone definito “realismo magico”, di cui Gabriel Garcia Marquez, che ci appena lasciati, era forse il rappresentante più noto.
Ho dovuto rileggere questo libro recentemente, ma non mi sono per niente annoiata, nonostante conoscessi già tutte le risposte.
La macchina narrativa della Allende è ben oliata e ti trascina nei suoi ingranaggi, ti trasporta nella storia, ti fafamiliarizzare con i personaggi che entreranno per sempre nel tuo universo fantastico, diventando così parte, nell’affastellarsi continuo di lettori, generazione dopo generazione, (il libro è uscito nel 1982) dell’immaginario collettivo.
Un grande contributo alla formazione dell’immagine dei personaggi l’ha data il film omonimo del 1993 di Bille August, con l’indimenticabile interpretazione di Jeremy Irons nel ruolo di Esteban e di Meryl Streep in quello di Clara. Grandissima anche l’interpretazione di Glenn Close nella parte di Férula, la sorella Trueba.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    21 Aprile, 2014
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Viva la vida siempre!

Stavo cercando un libro che contenesse frasi di Frida Kahlo da inserire in un video e ho trovato, anche, uno Scrittore.
Alcune frasi autentiche di Frida ci sono, ma sono dilatate, contestualizzate nel racconto della vita straordinaria di questa pittrice messicana di cui quest’anno ricorre il sessantenario della morte.
Anzi, mi correggo: Cacucci non racconta tanto la vita di Frida, quanto i paesaggi interiori che corrispondono alla serie di avvenimenti incredibilmente dolorosi di cui questa donna è stata vittima, più che protagonista.
Qualcuno dice che il destino non è altro che la somma delle scelte di ogni individuo, ma come si può pensare che la poliomielite infantile (o spina bifida occulta che fosse) e il devastante incidente di autobus che la violenterà massacrandole per sempre il corpo e l’anima siano dipesi dalla sua, magari inconscia, volontà?
A Frida non è rimasto altro che chiamare a raccolta la sua inesauribile vitalità, la sua ironia, il senso di appartenenza al suo popolo, le sue capacità artistiche, per rintuzzare giorno dopo giorno, un istante dietro l’altro, gli attacchi micidiali della Pelona, la morte, più volte evocata nel libro di Cacucci: “Ma era la mia faccia in quello specchio? O era la Pelona che si incarnava in me, che mi entrava dentro fino a fondersi per sciogliersi in questa eterna stagione delle piogge che è la mia vita?"
Frida Kahlo è un personaggio, anzi una pittrice, meglio: una donna, che è entrata a far parte della mia vita, che in qualche modo da tempo mi accompagna nel mio percorso artistico e personale. Ma mi sono accorta che fa parte dell’immaginario di molti, come se quel suo incredibile attaccamento alla vita avesse finito per contagiare chiunque, dopo la vittoria della Pelona sulla fragile, fortissima Frida, abbia avuto la voglia, e la sensibilità, di raccogliere il suo messaggio. E Cacucci ne ha tanta, di sensibilità.
Mai, nemmeno una volta, durante la lettura di questo piccolo libro, un monologo presente anche come audiolibro, mi ha sfiorata l’idea che a scrivere fosse un uomo. E, in questo caso, è un grande complimento. La profonda conoscenza del soggetto e della cultura messicana, la totale immersione nei meandri cerebrali di Frida, degne della lezione di Stanislavskij, fanno sì che Frida stessa parli. Ho avuto la sensazione, nel pomeriggio di full immersion nelle pagine di “Viva la vida” di essere con lei, di ascoltarla mettersi a nudo senza pudori davanti a me. Senza falsi pudori, così come ha vissuto, con la leggerezza delle farfalle che ha disegnato sui suoi busti di gesso e con la profondità dei suoi occhi che hanno sedotto e catturato qualsiasi sguardo vi sia incappato, in vita e anche oltre.
Per assurdo l’ho ritrovata più autentica in questo libro che non nell’autografo “Lettere appassionate” , di cui ho già scritto in precedenza.
Pino Cacucci è stato definito da Fellini “ un artigiano, un costruttore di trame, di atmosfere e di personaggi”, ma io mi permetto di dissentire dal grande Federico.
Solo un artista, un artista percettivo e capace può entrare nell’anima di una donna come fa lui in questo libro. Con la capacità artigianale che gli deriva da una professionalità consolidata (suo Puerto Escondido, da cui Salvatores trasse l’omonimo film, tanto per citare uno dei suoi numerosi lavori), ma con quel quid in più che non è possibile acquisire con l’esperienza.

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A chi ama Frida Kahlo
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    14 Aprile, 2014
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Mordidas, tango di parole tutto da gustare


MORDIDAS
Tango di parole anche da gustare
di Gabriella Maldifassi e Godart

“La mordida è un passo del tango argentino che parte in genere con un parada, quindi si
Arresta un passo, l’uomo propone una fermata, una pausa alla donna”, il passo successivo dell’uomo lo porta dal lato opposto rispetto a quello di partenza rispetto alla donna, chiudendo con i propri piedi quello della donna che aveva sfidato con la parada.” (www.tangopusher.it)
Così è questo libro, scritto a quattro mani da Gabriella Maldifiassi e un fantomatico, non meglio identificato ma identificabile, Godart.
Un passo doppio letterario, dunque, che descrive diverse situazioni dai due punti di vista, il maschile e il femminile.
Parte da Eridania De Lollis (protagonista di un altro libro della Maldifassi, Consommé), passa da una Penelope stanca di aspettare Ulisse,
“…Troppi anni di corpo mortificato,
di cuore sospeso.
Non posso negar fremiti, quando Antinoo si avvicina.
L’odore del maschio,
troppo assente dal mio naso, m’invade…”
attraversa altre anonime coppie e giunge infine a Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, la cui vicenda è vissuta però, per una volta, da Giangiotto, il fratello assassino, e Madonna Orabile, la cognata cornificata.
Ogni situazione è “condita”, è il caso di dirlo, da una ricetta in tema, che apre e preannuncia l’atmosfera dei brevi racconti.
Nella testimonianza di Giangiotto e Madonna Orabile, per esempio, gli autori ci propongono una ricetta quanto mai truculenta, perfettamente consona alla carneficina di cui andremo a leggere la memoria.
Lo stile dei due narratori si mescola e si integra, pur con le impercettibili ma inevitabili differenze stilistiche. La leggerezza, la raffinata ironia e la profondità insieme delle parole, scelte con cura, rendono piacevole ma non superficiale questo breve testo.
Belle (e buone) le ricette proposte, raffinato l’uso della lingua e brillante l’idea da cui nasce questo libro.
Gabriella Maldifassi, portatrice sana di una laurea in giurisprudenza, come lei si definisce, ha pubblicato anche Symbolario (1992); Sulla punta della lingua.Dolci sapori e divagazione fantastiche (1997), articoli di gastronomia storica e sfhrt stories, Consommé (2011).
Dell’altro autore, Godart, si sa solo che ha scritto Quaderno sportivo. Memorie, progetti, mitologie (2004), Help!The Beatles (2005).

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    19 Gennaio, 2014
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I miei 31 punti sul caso Harry Quebert

31) E’ vero, Marcus Goldman, che in un libro è importantissimo l’ultimo capitolo, ma in questo caso l’ho trovato un tantino posticipato rispetto a quello che si aspetta il lettore. A un certo punto, il mio ipotetico lettore avrebbe voluto spegnere l’abat-jour e andarsene a dormire perché il caso è ormai risolto, e invece…
30) L’unica cosa che ho trovato davvero interessante è il periodico riproporsi dei consigli che Harry Quebert ha dato a suo tempo a Marcus Goldman per diventare un vero scrittore, uno scrittore di successo. Questi flashback di tipo educativo dovrebbero giustificare la caparbietà con cui Marcus cerca di scagionare il suo maestro. Più o meno sono le stesse indicazioni che danno i blog di letteratura e Masterpiece, quindi devo presumere che siano azzeccati. Essendo pure quelli che ha seguito anche Joel Dicker, con il risultato di vendere milioni di copie in tutto il mondo, bisognerà che incornici questo vademecum per il mio prossimo libro.
29) Incornicerò questa guida alla scrittura e la metterò accanto a tutte le altre, per cercare di disattenderle tutte, queste benedette regole. Tanto, a me non interessa vendere, mi interessa scrivere solo di ciò che mi interessa. E scusate il bisticcio di parole.
28) Sono gli anni di questo scrittore, e nel libro si sentono tutti. Si sentono le serate passate davanti alle sit-com di stampo americano, con lo stereotipo delle mamme che dominano consenzienti mariti-zerbino, apprensive fino allo sfinimento nei confronti dei loro rampolli.
Però macchiette simpatiche.
Comunque, tanto di cappello a un autore che alla sua verde età ha già raggiunto obiettivi di tutto rispetto. La stoffa dello scrittore c’è, la grinta e la furbizia pure. Quando potrà attingere anche alla sua esperienza di vita, probabilmente diventerà lo scrittore che oggi ho visto in embrione.
7) Davvero improbabile che un’assassina alla Erika, piromane per giunta, passi dapprima per indemoniata agli occhi di due pastori protestanti ( di cui uno è il padre alla De Nardo), e diventi poi una dolcissima, bellissima, innocentissima mangiatrice di uomini suo malgrado…
6) Ammesso e non concesso quanto sopra, non quadrano parecchi riferimenti alla fantomatica madre assente-presente.
3) Un altro punto interessante del libro è la scoperta che il capolavoro scritto da Harry Quebert è, in verità, il frutto del plagio nei confronti di un oscuro scribacchino di lettere d’amore mai arrivato al successo.
2) Forse il tributo allo Scrittore Ignoto è stato inserito da Joel Dicker per placare il senso di colpa che prova nell’aver saccheggiato alcune serie americane, da Twin Peaks a Gold Case ( con farcitura dell’american pie di qualche film dove i colpevoli sono sempre i buoni).
1) Tutto sommato, comunque, un libro avvincente, con qualche difettuccio come sopra descritto. Sempre meglio un romanzo avvincente che inviti alla lettura che un mattone scritto benissimo, ma che si fa fatica a tenere aperto.
0) Se avete l’impressione che abbia saltato qualche punto, è solo perché sto per spegnere l’abat-jour.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    03 Dicembre, 2013
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Come un vento gelido

Non mi soffermerò a lungo sulla descrizione del complicato rapporto tra i gemelli Lucas e Claus ( anche i nomi sono anagrammi l’uno dell’altro), morbosamente simbiotico e nello stesso tempo conflittuale, né sui loro esercizi di sopravvivenza, elaborati dal “noi” narrante per affrontare e superare il dolore, la sopraffazione, la guerra, la solitudine, la morte.
Lo scenario della narrazione, specialmente ne “Il grande quaderno” è cupo e angoscioso, da favola noir (persino la nonna è detta “la strega”. La città in cui si svolge la vicenda è occupata da un esercito straniero, la prevaricazione e la violenza sono realtà quotidiane per i due fratellini.
Nel secondo libro della trilogia, “La prova” Lucas tenta di sopravvivere alla partenza del fratello, che ha deciso di attraversare la frontiera, reinventandosi come libraio, e tenta di ricostruire una famiglia. Accoglie una giovane donna con il suo bambino, frutto d’incesto, che porta la traccia del peccato nella propria deformità; ama un’altra donna, instaura un forte legame affettivo con il bambino, che crescerà come se fosse suo .
Fin qui il percorso narrativo sembra essere lineare, siamo sicuri che il protagonista è uno dei due gemelli che abbiamo imparato a conoscere nel primo libro.
Agota Kristof (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011) invece, ne “La terza menzogna”, il terzo libro, si diverte a spiazzarci, a suggerire percorsi alternativi e letture diverse della vicenda che ci ha appena narrato.
I nomi dei protagonisti e dei fratelli sono sempre quelli, ma la storie sono leggermente diverse, i personaggi subiscono traversie che non ricordavamo. Alcuni piccoli, ma fondamentali particolari, non collimano.
Il lettore si chiede se sta sbagliando a ricordare, se ha interpretato male la precedente narrazione. Sentendosi in parte in colpa per non aver prestato la dovuta attenzione ai dettagli, in parte preso in giro dall’autrice, si sforza di darsi delle spiegazioni.
Forse i gemelli erano una persona sola, forse uno era solo il proprio doppio elaborato dall’altro, forse non sono nemmeno mai esistiti.
Ecco, credo che sia proprio qui la chiave: quei personaggi non sono mai davvero esistiti. Essi sono solo una proiezione dell’autrice che ne fa ciò che vuole, ne manipola la storia, cambiando impercettibilmente la trama.
“La terza menzogna” è la letteratura, rappresentata proprio da quel misterioso quaderno manoscritto che attraversa il libro senza svelarsi mai del tutto.
Penso che, al di là del dolore per l’esilio impostole dal marito al momento dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, che la Kristof esprime con una prosa secca e affilata come un’arma da taglio, all’autrice interessi riflettere sul valore della scrittura in sé, sulla capacità generatrice delle parole. Così come inventano per il lettore un mondo, nello stesso modo sono in grado di distruggerlo subito dopo.
“Sono convinto, Lucas, che ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia. (Victor, p. 210 ed.Einaudi)
Un libro per cui Victor arriverà a uccidere la sorella perché la sua presenza gli impediva di scriverlo, un “grande quaderno” che passerà come un testimone da un protagonista all’altro della trilogia.
E’ un libro duro, un libro che come un vento gelido si insinua sotto i vestiti, a contatto con la pelle, e non ti lascia. Devi metabolizzarlo per qualche giorno, aspettare che torni il sereno, prima di poterne parlare.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    17 Novembre, 2013
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Lezione di nuoto e d'amore


Valentina Fortichiari ha collaborato con diverse case editrici soprattutto come saggista, approfondendo in particolare Guido Morselli e Zavattini. Ultimamente ha diretto l’ufficio stampa di Longanesi, lasciato pochi mesi fa per dedicarsi completamente agli studi e alla scrittura.
La sua prima opera narrativa è il romanzo “Lezione di nuoto”, ed. Guanda, a metà tra la biografia della scrittrice francese Colette (Saint-Sauveur-en-Puisaye, 28.1.1873- Parigi, 3.8.1954) e l’invenzione narrativa.
Più in particolare l’autrice racconta di una vacanza estiva nella casa di Rozven, in Bretagna, dove Colette ha riunito alcuni amici, artisti e intellettuali che trascorreranno la fredda estate bretone con lei, la segretaria Hèlene, la figlia Colette Bel-Gazou e Bertrand, figlio sedicenne del suo secondo marito.
Colette si occupa della cucina, del lavoro con l’amico Leopold, della vivacissima figlia (poco), e di scuotere più o meno affettuosamente l’infelice Hèlene, che scrive poesie e si strugge nell’infelice amore per Francis, lì presente con la legittima moglie.
Soprattutto si prende cura di Bertrand, organizza la sua educazione letteraria, gli dà lezioni di nuoto (disciplina in cui Colette eccelle, come d’altronde l’autrice) e soprattutto lo inizia all’amore con una relazione quasi incestuosa e “scandalosa” per la differenza d’età.
La prosa è raffinatissima e pulita, il tratteggio dei personaggi efficace. Ottimo il lavoro di cesello e limatura, ma, a volte, la troppa pulizia nuoce all’amore.
Alla presentazione del libro l’autrice ha tenuto a sottolineare che ha cercato di descrivere le scene d’amore senza scadere nella volgarità e devo dire che ci è riuscita fin troppo bene.
Colette nella realtà è stato un personaggio talmente disinibito e individualista da andare oltre la liberazione femminile e il femminismo, che è passato da relazioni eterosessuali e tre mariti a rapporti omosessuali (famoso quella con la contessa “Missy” che le donò la tenuta di Rozven, dove si svolge la vicenda narrata) ed effettivamente non si è fatta mancare la perla della relazione con un minorenne, come ci narra la Fortichiari. Questa relazione durò ben cinque anni e si risolse quando Bertrand si innamorò di una ragazza della sua età.
Qualche approfondimento dei sentimenti, per forza di cosa contrastanti e conflittuali, di un rapporto tanto anomalo ed eventualmente qualche cenno di sano ed esplicito erotismo avrebbero potuto delineare meglio il carattere di questa affascinante donna molto sopra le righe. Tanto che, alla fine del libro, che peraltro si chiude con un piccolo colpo di scena, rimaniamo con un certo senso di incompiutezza,…come se ci fossimo fermati al petting.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    31 Ottobre, 2013
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Sesso, ebraismo, senso di colpa.

Sesso, rapporto non risolto con la madre, conflittualità tra ebraismo e società americana, e poi ancora rapporti orali e autoerotismo, onanismo, e poi ancora sesso: di questo Il paziente Alexander Portnoy parla al dottor Spielvogel, cercando di porre rimedio a una (temporanea) impotenza sessuale.
La cosa strana è che questo disturbo l’ha colpito proprio durante una vacanza nella terra dei Padri, Israele, interagendo con le donne ebree, così diverse dalle donne americane che Portnoy ha incontrato in America.
Nella terra avita, dove il suo sentirsi “diverso” dovrebbe finalmente scomparire e fargli superare ogni conflitto, incredibilmente il suo corpo si ribella, mettendolo completamente in crisi.
Portnoy usa il sesso come la via per ribellarsi al percorso già tracciato nella famiglia ebraica tradizionale, rappresentata dai suoi, che prevede un’ordinata successione di studio, lavoro, matrimonio, figli.
Il problema è che la trasgressione, lungi dal rasserenarlo, gli crea continui sensi di colpa e lo porta a scegliere le donne più “sbagliate”. La compagna di studi Wasp (White-Anglo Saxon- Protestant) che con leggerezza rifiuta di convertirsi, o la modella stratosferica, da Portnoy soprannominata “Scimmia” per un evidente trasporto della medesima per la banana, che ha più di qualche difficoltà di scrittura.
Non posso dire che questo romanzo, uscito nel 1967 con grande clamore, non mi sia piaciuto. Certo, dall’autore di Pastorale americana mi aspettavo qualcosa di diverso, anche se, a ben pensarci, ho ritrovato anche qui la centralità del tema caro a Roth, ossia il complicato rapporto tra ebraismo e cultura americana.
Il linguaggio del “Lamento” è però completamente diverso: pirotecnico, esplicito, spesso scurrile, colto e riflessivo solo a tratti e più nell’ultima parte, quando ormai disperavo di trovare qualcosa di completamente diverso da un diario intimo di Rocco Siffredi.
Philiph Roth si conferma qui grande scrittore, ma è un po’poco per dare il massimo punteggio a tutto il resto del libro.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    19 Agosto, 2013
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Nessuno è perfetto

Seymour Levov è un ragazzo perfetto: bello, biondo e atletico, educato e affidabile. Il figlio che tutte le mamme americane vorrebbero avere. E’ l’idolo giovanile di Nathan Zuckerman, e quando molti anni dopo Nathan, diventato ormai un affermato scrittore, riceve una lettera da Levov “Lo Svedese” che gli chiede un incontro per parlargli di suo padre, Lou Levov, accetta con entusiasmo, immaginando che “Lo Svedese” voglia rendere onore alla memoria del suo vecchio attraverso i suoi scritti.
Ma niente di tutto questo gli viene alfine richiesto e, dopo esser venuto a conoscenza della morte di Seymour e di altri terribili segreti di famiglia dal fratello Jerry, durante la quarantacinquesima riunione dei compagni di liceo, Nathan Zuckerman, alter ego di Philip Roth (Newark, 1933), decide di scrivere un libro che lo vedrà protagonista.
Pastorale Americana (premio Pulitzer 1998) è un libro che non ti lascia nessuna illusione sul limitato potere dell’uomo di influenzare il proprio destino. Seymour ha tutte le doti necessarie per essere un vincente nella vita, anzi ha anche un piccolo handicap rispetto alla classe media WASP: la sua origine ebrea è uno stimolo in più per emergere ed essere ammesso nel gotha della piccola borghesia della sua città. Lo svedese è un uomo che non si è risparmiato, impegnandosi nelle discipline sportive in cui eccelle, abbandonando poi l’agonismo per diventare il perfetto uomo d’affari, imprenditore nella produzione di guanti, nella carriera che il padre Lou ha già tracciato per lui. I guanti sono il feticcio attorno a cui si è sviluppata tutta la loro vita e non ho trovato affatto fuori luogo le lunghe pagine dedicate alla descrizione di guanti e pellami, perché è una metafora dell’assoluta ricerca di perfezione a cui i Levov, escluso Jerry, tendono, curando ogni più piccolo particolare per la riuscita finale.
Lo Svedese è marito innamorato e fedele della bellissima moglie e padre felice e tollerante, tutto sembra davvero perfetto nonostante un piccolo difetto della figlia Merry, la balbuzie, e un sottile sospetto di desiderio d’incesto che Roth è abilissimo a insinuare nel racconto.
Eppure tutto ciò non basta a impedire che la figlia diventi una spietata terrorista. Dopo l’attentato che la vede protagonista e la successiva fuga, tutto cambierà, fino alla cena finale, dove Seymour scoprirà le falsità e i tradimenti della moglie e degli amici, e sarà dolorosamente consapevole anche dei suoi errori.
Non gli basterà cambiare moglie e avere altri figli “perfetti” per dimenticare la sua vecchia vita. L’inadeguatezza agli standard da “pastorale americana” di cui sua figlia è stata la prima portatrice lo avrà già minato così profondamente da fargli desiderare la morte.
Scritto magistralmente, con lunghi e complicati periodi di cui riesce tuttavia a tirare sempre le fila, è un libro duro da digerire per l’analisi spietata dei comportamenti dei vari personaggi in cui chiunque può facilmente identificarsi, fortemente inquadrato nel periodo che vide gli USA partecipare alla guerra in Vietnam, ma la dinamica genitori adeguati-figli degeneri è uno spunto di riflessione applicabile a tutti i periodi storici, con relative riflessioni sule interazioni inprevedibili che dna, ambiente, carenze affettive e sessualità hanno su uno sviluppo armonico della personalità e l’inserimento sociale.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    24 Luglio, 2013
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L'oscurità degli angeli

“Ciascun uomo ha pienezza di bene come pienezza di male in sé”, diceva Madre Teresa di Calcutta, e io non posso che condividere.
Ci sono coni d’ombra ed esplosioni di luce dietro l’apparente “normalità” del vivere la condizione umana, ed entrambi possono rivelarsi all’improvviso, magari sollecitati da un evento che potrebbe sembrare irrilevante, ma che muove in chi lo sta vivendo energie fortissime rimaste a lungo sopite nell’inconscio ( o nell’anima).
Questa è la riflessione che sono portata a fare subito dopo la lettura di questi nove racconti di Bianca Garavelli pubblicati da Ladolfi Editore con il bellissimo titolo “L’oscurità degli angeli”. Il più lungo, “L’amico di Arianna”, ha atmosfere da thriller che sfociano nel noir, senza peraltro metterci in condizione di assumere quella consolatoria distanza che si tende a prendere dall’assassino durante la lettura di questi generi.
Qui si rimane spiazzati davanti alla degenerazione del carattere di una dolce fanciulla, un angelo a cui abbiamo imparato a voler bene dalle prime pagine, quando il acconto del grande evento luttuoso che l’ha colpita ci viene servito come prologo dall’autrice.
Altrettanto inquietante è il secondo racconto “ Qui tollis peccata mundi”, in cui ho avuto la sensazione che il prete protagonista di un enigmatico incontro non sia del tutto innocente. La sua sbandierata, incrollabile fede viene messa in discussione dalla visione di un paio di occhi verdi che gli ricordano Anita, l’amore della gioventù per cui non ha avuto il coraggio di fare una scelta radicale, e gli occhi di tutti gli animali ai quali ha scelto di donare il suo bene . Ma ora gli occhi di quello stesso verde tanto amato sembrano assumere la connotazione del Male assoluto.
Altri due racconti mi hanno colpito tantissimo, e sono “Amnesia” e “Treni”.
Nel primo si legge, enfatizzata dalla momentanea perdita di memoria, l’esperienza che tutti abbiamo provato nell’imminenza della perdita di una persona cara, che ha fatto parte del nostro quotidiano e che sembra impossibile non avere più al proprio fianco.
In “Treni”, un racconto brevissimo, la scrittrice riesce a sintetizzare splendidamente la certezza che non siamo mai condannati a una condizione immutabile, che il treno di un futuro diverso non è mai definitivamente perso, anche quando passa in una stazione piuttosto squallida e fatiscente, una metafora della vita di molti.
Trovo che la prosa di Bianca Garavelli, critico e dantista oltre che scrittrice, guadagni in qualità nella sintesi del racconto e che riesca a stimolare riflessioni e pensieri latenti sul rapporto tra genitori e figli, sulla morte, sull’essenza stessa del nostro essere uomini.
Un libro che mi sento senz’altro di consigliare.


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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    21 Luglio, 2013
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Forse Dio comanda

Una squallida cittadina di provincia , nell’ inospitale e fredda pianura invernale, è l’habitat dove tre disperati, senza soldi e senza speranza, cercano di cambiare il corso della loro esistenza progettando un colpo al bancomat.
L’improbabile trio è il riferimento affettivo di Cristiano Zena, un adolescente combattuto tra l’amore e la fedeltà ai parametri culturali del padre, nazista e alcoolizzato, e il desiderio di omologarsi ai coetanei, di possedere un telefonino e la moto.
L’educazione che Rino Zena gli impartisce è orientata alla sopraffazione sui più deboli, alla supremazia fisica da superuomini. Ma suo padre rappresenta anche un porto sicuro dove rifugiarsi, dove trovare amore incondizionato.
Il libro ci serve subito l’iniziazione di Cristiano che deve sparare un colpo di pistola a un cane, colpevole di aver disturbato la loro quiete nella silente piana innevata.
Prosegue con le disavventure di Quattro Formaggi, di Danilo e di Rino Zena alle prese con la mancanza di lavoro e l’emarginazione sociale.
La notte che dovrebbe segnare la svolta, quella del colpo al bancomat, sarà invece il tragico epilogo delle vite del trio e di quella di Fabiana Ponticelli, la bellissima ragazza che Cristiano deve limitarsi a desiderare da lontano.
Quella notte da lupi sarà sconvolta dalla tempesta e dal fango, dall’acqua e dalla violenza.
La moralità sembra non essere un valore, eppure tutti i protagonisti invocano Dio.
Quattro Formaggi crede addirittura di seguirne le indicazioni quando rincorre e violenta Fabiana, Danilo vive come un miracolo del Signore il ritrovamento delle chiavi che gli serviranno per lanciare l’auto contro la banca.
Anche Giuseppe, l’assistente sociale che ha in consegna il destino familiare degli Zena, fa voto a Dio affinché “resusciti” un uomo che ha investito, di ritorno dall’incontro amoroso con la moglie del suo migliore amico.
E Dio sembra esaudire tutti questi strani desideri, eppure si ha la sensazione che sia il Grande Assente, un contenitore assolutamente vuoto di valori che viene riempito secondo chi lo usa dai desideri più biechi.
Dopo disavventure anche divertenti, descritte realisticamente da una prosa a volte anche molto cruda ed esplicita, che mi ha ricordato Bukowski, resta solo l’amarezza di vite segnate, di destini già tracciati che niente può cambiare.
Ammanniti (Roma, 1966), che ha vinto il premio Strega nel 2007 proprio con questo libro, ha la capacità di incatenarci al racconto capitolo dopo capitolo. Ci spinge a tifare per Cristiano, a rincorrere la speranza che il padre Rino riemerga dal coma per continuare quella squallida esistenza fatta di frigo vuoti, di sporco e di disordine, ma piena di quell’amore reciproco che porta entrambi a superare i propri limiti per proteggere l’altro.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    15 Luglio, 2013
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L'umorismo, irriducibile espressione dell'etica

Di Pennac avevo letto solo qualche brano nelle antologie per studenti delle scuole superiori, e ne avevo ricavato l’impressione di un bravo scrittore di libri per ragazzi, ma niente di più.
Ho deciso di leggere qualcosa di suo in occasione del premio alla carriera internazionale che gli sarà assegnato tra qualche mese a Vigevano, e grande è stata la mia sorpresa nell’imbattermi in una prosa che a tratti sfiora il genere splatter, sempre ammorbidito però dal tono leggero e quasi comico, che fa passare in secondo piano il fatto che si sta parlando di persone dilaniate e interiora sparse ovunque dalle deflagrazioni di bombe nei Grandi Magazzino dove Benjamin Malaussène fa di professione il capro espiatorio.
Ben mantiene i suoi fratelli di madre comune e padri incerti e diversi proprio perché la genitrice, sempre persa in nuovi innamoramenti e sempre incinta, non se ne occupa molto.
Therèse la sensitiva, Clara la sorella amata al limite dell’incesto, alle prime armi come fotografa, il piccolo dagli occhiali rosa verso cui Ben nutre tenerezza infinita e Jérémy il bombarolo in erba, formano con il protagonista una squadra divertente e quanto mai improbabile.
Daniel Pennacchioni (Casablanca, 1944) usa l’umorismo come arma irriducibile contro il grande capitalismo e le sette pseudo-sataniche, quindi contro la rigidità del pensiero e il conformismo che aleggia in una Parigi natalizia e consumistica.
“Il paradiso degli orchi” è un libro giallo-noir-rosa-verde che diverte e si legge con piacere, scritto per una scommessa sulla sua capacità di scrivere un thriller che Pennac ha vinto alla grande, creando il primo libro di una famosa saga. Non ho trovato prevalente la trama del mistero rispetto alla felicissima descrizione dei personaggi della famiglia Malaussène. Ma non è detto che sia un disvalore, anzi.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    30 Giugno, 2013
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Anche l'amore è uno splendido inganno

Un giallo decisamente atipico, dove non ci sono crimini né inutili spargimenti di sangue.
Andrea Fazioli pone l’accento sul labile confine tra l’onestà e il suo contrario. Con pochi, azzeccati personaggi ci fa capire quanto sia facile in determinate circostanze passare dall’altra parte della barricata, quella della truffa, dell’inganno.
Guido Moretti, contabile cinquantanovenne di un distributore di benzina nel Canton Ticino, assiste alla rapina che gli svelerà la doppia natura di un collega e segnerà in qualche modo l’inizio di un ripensamento sulla sua vita. Vedovo, due figlie ormai adulte, decide di andare in pensione e subito dopo incontra apparentemente per caso Karin-Vanessa, bella donna di vent’anni più giovane, che gli svelerà i trucchi e i retroscena di una truffatrice di professione.
I due inaspettatamente si innamorano e questo complicherà non poco il piano della grande “operazione” che Vanessa e i suoi complici hanno escogitato. Il lettore è spinto ad andare avanti nella lettura fino al disvelamento finale, ai risvolti inaspettati della truffa di cui ha creduto di capire i meccanismi.
Interessante la teoria delle strategie truffaldine: nella maggior parte dei casi il professionista sfrutta proprio la latente propensione alla disonestà del truffato per portare avanti la sua azione, oppure fa leva sulle debolezze del malcapitato per condurlo dove gli fa comodo.
Peter Muller, genero di Guido, sgomita per entrare nel club più esclusivo dei ricchi zurighesi, di cui fa parte
Thomas Kopf e cerca di imitarlo collezionando opere d’arte di grande valore. E’ proprio sfruttando la sua ambizione e l’illusione di credersi più furbo degli altri che Vanessa e i suoi soci riescono ad ordine ai suoi danni la grande truffa.
Lo svolgersi della vicenda “gialla” non impedisce a Fazioli di delineare con grandissima intelligenza e sensibilità il mondo interiore di Guido, colto proprio nel delicato momento in cui si è consapevoli che non saranno ancora molti gli anni da poter vivere intensamente. Trovo eccezionale che uno scrittore giovane come Fazioli (classe 1978) sia riuscito a entrare perfettamente nei meccanismi cerebrali di un quasi-sessantenne.
Belli anche i personaggi di Stella, ricercatrice di erbe officinali e amica di Guido, con l’ossessione per il mare che però non ha mai visto, e quelli delle figlie di Moretti, Susanna e Angela.
Appena più stereotipato il personaggio di Vanessa, ma forse, visto il ruolo, non poteva essere diverso.
Fazioli ha una scrittura molto bella e scorrevole, descrittiva ed evocativa nello stesso tempo, coinvolgente.
E' un autore che mi riprometto di approfondire, già vincitore di alcuni importanti premi di narrativa ( questo “Splendido inganno” è finalista al premio Nebbiagialla 2013). Sono sicura che ne varrà la pena.

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Carofiglio e i gialli intelligenti
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    06 Giugno, 2013
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LETTERE APPASSIONATE

Questo non è un romanzo, non ha niente di letterario.
Questo libro, “Lettere appassionate” di Frida Kahlo, ed. Abscondita, è una raccolta di lettere che Frida ha scritto a partire dall’incidente in cui, appena diciottenne, il corrimano di un autoubus le trapassò il bacino fuoriuscendo dalla vagina. Si fratturò anche due vertebre lombari, il femore e il piede destro, già problematico a causa della poliomielite contratta in età infantile e che le sarà amputato poco prima di morire.
Sono lettere indirizzate all’amatissimo Alejandro Gomez Arias che, forse per assecondare i genitori contrari al suo legame con Frida, andrà in Europa a perfezionare i suoi studi, agli amici , e una a Diego Rivera che sarà l’uomo della sua vita.
Sono un ininterrotto grido di dolore che Frida ( che all’inizio si firmava Frieda) lancia addosso ai suoi interlocutori, velandole appena di quell’ironia che rivolge soprattutto a se stessa, e nello stesso tempo sono un inno alla vita, alla bellezza della vita, alla forza delle passioni, siano esse politiche, artistiche o sentimentali.
Frida è una donna che ama appassionatamente, liberamente, senza ostacoli di natura morale che ritiene borghesi, arrivando a intensificare rapporti con le donne quando la sua condizione fisica non le permetterà più di averne con gli uomini . Non accetterà mai, però, il tradimento di Diego Rivera con l’amata sorella Cristina e da quel momento in poi, oltre a essere malata nel corpo, lo sarà anche nell’anima. Divorzierà e poi risposerà Diego Rivera, ma gli imporrà l’astensione dai rapporti sessuali con lei.
La storia di Frida Kahlo, come donna e come artista è anche la storia del suo corpo: ferito, martoriato, imperfetto, incapace di portare a termine tre gravidanze per l’incidente subito.
Proprio questo corpo Frida dipingerà incessantemente, in una serie di autoritratti in cui è spietata con se stessa, quella se stessa fisica che vede riflessa nello specchio spesso appeso sopra il suo letto nelle lunghe convalescenze, ma in cui riconosce qualcosa di altro da Sé. Si raffigura senza alcuna condiscendenza, accentuando l’unione della scure sopracciglia, non tralasciando la peluria che le copre il labbro superiore. Arriva a ritrarsi sdoppiandosi nel quadro “Le due Frida”, o abbandonata sul letto d’ospedale dopo l’ennesimo aborto. Un tema, quello del doppio, che svilupperà in molte altre forme nella sua pittura.
E’ il suo corpo il vero nemico da battere, l’antagonista di quell’anima appassionata e fiera che chiede solo di vivere e di godere dei piaceri della vita.
Oggettiva nei quadri l’odio-amore per quel corpo che la tradirà per tutta la vita, curandolo nello stesso tempo in maniera altrettanto ossessiva e costruendosi un’immagine personalissima, etnica e nello stesso tempo sofisticata, con le lunghe gonne tradizionali Tehuana e monili di pietra, che le “gringos” americane le copieranno cercando di somigliarle invano.
Uomini come Lev Trovsky e il fotografo Nickolas Muray perderanno la testa per lei, proprio per quel suo essere se stessa, diversa da tutte le donne, uguale a nessun altra.
Le lettere però non dicono quello che invece i suoi quadri e le foto rivelano palesemente. Frida non sorride mai all’obiettivo, altera e alternativa sembra non curarsi di chi la guarderà in quelle immagini. Eppure i suoi occhi trapassano il piano orizzontale arrivando dritti al cuore, facendoti venire un nodo in gola formato da un groviglio di lacrime di compassione e di rabbia che non riesce a sciogliersi nemmeno alla fine del libro, e ti porterà a riguardare ancora una volta i suoi quadri, fino alla visione dell’ ultimo , una natura morta dai colori accesi che a pochi giorni dalla morte intitolerà “Viva la vida”.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    25 Mag, 2013
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Un titolo e un libro a metà tra "Cent'anni di soli

“ Candida parlava e faceva andare l'uncinetto senza nemmeno guardare le maglie, perché ormai non vedeva quasi più e aveva le mani deformate dall'artrosi. Solo l'esperienza suppliva a tutto.
Fin dalla mattina, quando entrava nella camera di Gioia, iniziava a raccontare, come quella volta che da piccola le avevano tolto le tonsille. Lo zio Mimmo e le parolacce che aveva detto sull'altare, la nonna Concetta e quant'era buona coi poveri, quella signora di Milano, i barili di don Francesco ... Storie che Gioia aveva sentito migliaia di volte, ma in quegli anni non ci aveva più pensato. Adesso, riascoltandole, le sembrava che si mettessero tutte insieme, come i disegni di quei centrini che all'inizio erano solo maglie piene e vuote, archi di catenelle, rombi e colonnine, ma poi a lavoro ultimato formavano un disegno più grande che non significava proprio niente, se non tutto il tempo e l'amore che erano stati messi per farlo”.
E’ racchiuso in queste poche frasi il senso del romanzo di Mariolina Venezia, classe 1961, che nel 2007 ha vinto il premio Campiello: Mille anni che sto qui, ed. Einaudi.
Nessuno può prescindere dalla propria famiglia, che come un grande, unico organismo, vive attraverso i singoli componenti, fa circolare il sangue di generazione in generazione mutando predisposizioni individuali attraverso evoluzioni e ripensamenti, ritrovandosi unito nelle tragedie e nelle feste memorabili.
Amore, vita, morte, tradimenti, alterne fortune economiche, rancori e ribellioni che sembrano non seguire un filo logico, ma alla fine si ricompongono in un unico, epico disegno.
Mi ha fatto venire in mente la teoria delle Costellazioni familiari di Bert Hellinger, secondo la quale eventi come malattie o fobie altrimenti inspiegabili possono essere ricollegati al destino di chi ci ha preceduto.
Ognuno dei componenti di questa saga familiare di cinque generazioni sembra essere diverso dagli altri, eppure i riferimenti culturali sono sempre collegati agli avi, alle tradizioni e ai paesaggi lucani che la scrittrice sa descrivere così bene, utilizzando spesso il dialetto.
Forse lei stessa, scrittrice e sceneggiatrice nata e Matera, trasferitasi a Roma presumibilmente per lavoro, ha sentito a un certo punto il bisogno di riappropriarsi della sua identità più profonda, scavando nei propri ricordi e nei luoghi che l’hanno vista nascere.
Ho visto Mariolina Venezia alla presentazione del suo ultimo libro e i suoi occhi scuri e antichi, di una mobilità esasperata, vagavano incessantemente sul pubblico costituito prevalentemente dai membri di un’associazione culturale lucana. Tutti davano l’impressione di avere un fortissimo senso di appartenenza, e, indifferenti alla sua ultima fatica letteraria, insistevano per conoscere nuovi particolari riguardanti “Mille anni che sto qui”.
Lei rispondeva, esauriente e collaborativa, consapevole di essere “una di loro”.
Certo questo libro non è “Cent’anni di solitudine”,ma può essere considerato un buon surrogato nostrano. Ho fatto fatica ad affezionarmi ai personaggi, e a volte mi sono persa nei passaggi generazionali, ma alla fine questa soria mi ha toccato qualche corda, e mi trovo qui a scriverne.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    22 Aprile, 2013
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Il brutto anatroccolo della vita accanto

Alla domanda di Bruno Elpis ( http://www.brunoelpis.it/le-interviste/172-intervista-a-mariapia-veladiano) su quale sia la dote umana che apprezza di più, Mariapia Veladiano ha risposto: “La capacità di accogliere senza giudicare.”
Ecco, mi pare questa la chiave di lettura del romanzo di esordio di questa brava autrice, “La vita accanto”, vincitore del premio Calvino 2010.
Rebecca è la protagonista, una bambina brutta, di una bruttezza mai veramente svelata ma sempre presente, che diventerà donna in un ambiente familiare chiuso e carico di misteri. La madre, persa nella propria depressione di cui si capirà solo alla fine l’origine , l’ama di un amore sofferto e non dimostrato, che Rebecca capirà solo dopo la sua morte, attraverso il diario che ha lasciato. La splendente zia Erminia ama troppo se stessa per occuparsi veramente di lei, ma tuttavia le fornirà lo strumento di salvezza attraverso l’unica cosa bella che Rebecca ha, le mani, che faranno di lei un’apprezzata pianista. Il padre sembra prendersene cura, ma la nasconde al mondo apparentemente per risparmiarle il dolore del giudizio altrui, che in realtà è il proprio.
Fa parte di un cliché d’uomo che ho ritrovato nell’altro romanzo della Veladiano, “Il tempo è un dio breve”. Si tratta di persone che fanno fatica ad assumersi le proprie responsabilità, uomini bellissimi e tormentati, fragili al punto che alla fine trovano una soluzione ai problemi solo fuggendo dalla realtà che li opprime.
Nessuna delle figure parentali sembra capace di accettarsi e accettare pienamente, e fanno in modo che la piccola, nella quale vedono orrendamente coagulate tutte le loro frustrazioni, cresca lasciandosi la vita accanto.
Nel piccolo universo familiare di Rebecca c’è per fortuna la tata Maddalena, l’unica ad accettarla davvero, che ha il solo difetto della lacrima facile.
Il rapporto che l’aiuterà nel percorso di acquisizione della consapevolezza sarà quello con la maestra di musica De Lellis, che sembra sapere molte più cose di quanto non sembri sulla famiglia dell’allieva, mentre il suo aggancio con il mondo esterno sarà l’amicizia della grassa Lucilla, loquace quanto Rebecca è silente.
Nel romanzo della Veladiano la bruttezza diventa metafora della diversità, sia essa fisica, sia psicologica.
Ci tocca tutti, perché tutti siamo e ci sentiamo “diversi”, a volte non accettati, spesso poco amati, emarginati dagli “altri”, che nella nostra testa formano una compatta entità astratta e ostile, ma altro non sono che tante monadi ognuna a suo modo peculiare.
Lo stile della Veladiano in questo primo libro è preciso e leggero nello stesso tempo, funzionale al racconto che è quasi una favola a metà tra Cenerentola e il brutto anatroccolo, dove però il goffo pulcino peloso non dispiegherà mai completamente le ali.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    15 Aprile, 2013
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L'ora incerta tra il cane e il lupo

A volte l’incontro con l’autore cambia almeno parzialmente l’idea che ci eravamo fatti di lui leggendone un libro.
E’ quello che mi è successo ieri con Hans Tuzzi, pseudonimo di Adriano Bon, che ha presentato in anteprima il suo nuovo lavoro “Un enigma dal passato”.
Se avessi dovuto fare qualche considerazione su “L’ora incerta tra il cane e il lupo”, letto una settimana fa, avrei detto che , da scrittrice principiante, ammiro la sua immensa cultura e varietà di termini, ma, da lettrice, che quando un romanzo giallo è zeppo di richiami storico-culturali , quando una miriade di citazioni di autori e di gaddiane digressioni dialettali non sono strettamente funzionali alla storia è troppo, e quando è troppo...è fastidioso e può sembrare inutile sfoggio della propria preparazione culturale.
Anche prima di sentire l’autore avrei detto che, invece, non mi è invece dispiaciuta qualche riflessione di tipo esistenziale sparsa qua e là nell'intreccio giallo, la cui soluzione non è tuttavia travolgente e inaspettata.
Ieri l’ho ascoltato.
E, come succede spesso nei rapporti umani, quando le parole sono accompagnate da un sorriso, da un gesticolare composto delle mani bianchissime che non vedono mai il sole, dallo sguardo sicuro oltre cui mi è parso di intuire un’antica timidezza che lo fa sentire più a suo agio nel chiuso di una biblioteca piuttosto che con i propri simili, ho in buona parte cambiato idea. Anche la sincera confessione di essere portato a una certa forma di depressione non mi ha lasciato indifferente.
Ho capito che le sue non sono solo citazioni professorali, dotte disquisizioni semantiche fini a se stesse, ma fanno parte di ciò che chi scrive è, sono connaturate alla sua essenza più profonda, vogliamo chiamarla anima?
Voglio fare anch’io una citazione, ma non mi ricordo il nome di chi l’ha detto - perdonami Adriano-Hans, non sono preparata come te- :la differenza tra un libro e un buon libro è quando capisci che il secondo ha aggiunto qualcosa a ciò che eri prima di leggerlo.
Di sicuro tornerò più volentieri agli amati Carofiglio e Camilleri, ma ora so con certezza che Hans Tuzzi e il suo libro mi hanno lasciato una traccia.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    26 Marzo, 2013
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Mi sono innamorata di Guerrieri

E’ il secondo libro di Carofiglio che leggo e non sarà certamente l’ultimo. Ha tutte le caratteristiche della letteratura contemporanea che amo, ben scritta ma non aulica, coinvolgente ma non troppo leggera.
Come nel precedente libro da me letto, “Le perfezioni provvisorie” si tratta di un giallo “legale”, molto ma molto intimistico per certi aspetti.
L’avvocato Guerrieri è alle prese con un caso di violenza sulle donne, e il fatto che l’uomo violento sia figlio di un pezzo grosso della Magistratura barese non gli facilita affatto le cose.
Tratteggia stupendamente tre figure femminili che non si dimenticano facilmente: la compagna Margherita, intelligente e sarcastica, indipendente e protettiva; la vittima della violenza, fragile ma non per questo meno determinata ad avere giustizia; la suora che l’aiuta, figura complessa, misteriosa e per certi versi sorprendente.
E poi c’è lui, l’avvocato Guerrieri. Malinconico e ironico, determinato a puntare alla vittoria finale pur considerando l’incarico quasi un autogol per la propria carriera, sempre attento all’essenza delle persone con cui viene in contatto per lavoro. Ma più di tutto, l’avvocato Guerrieri lotta contro il suo nemico number 1, il tempo che inesorabilmente passa e con il nemico numero due, la monotonia del vivere, che combatte con l’ascolto di buona musica, con la lettura, con un po’ di boxe in compagnia di Mister Sacco.
E, sarà perché sono molto vicina a lui con l’età, sarà che mi immedesimo molto in questo personaggio, sono proprio queste le annotazioni che mi fanno amare Carofiglio, al di là della piacevolezza delle storie e della scrittura che scorre fluida tenendomi incollata alle pagine fino a che non ho finito il libro. E finisce sempre troppo presto, un paio di serate al massimo.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    11 Gennaio, 2013
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Del denaro o della gloria, eterno dilemma

All’inizio del Cinquecento a Venezia ferve l’attività di stampa di testi classici greci e latini, e di nuove pubblicazioni di libri, come “Il Cortegiano” di Baldassar Castiglione, destinati a loro volta a diventare best- sellers.
Gli stampatori-editori di spicco sono Aldo Manuzio e i suoi eredi, i Torresani, alla cui casata Manuzio si era imparentato con il matrimonio.
La filosofia del capostipite è quella di privilegiare la qualità delle stampe a scapito dei costi, scegliendo quindi la gloria anziché il vil denaro.
Il motto delle edizioni aldine, le prime che utilizzeranno il corsivo, è “festina lente”, affrettati con calma, e un’ancora con il delfino è Il logo che Manuzio aveva ricavato da una moneta romana ricevuta in dono dal cardinal Pietro Bembo, scrittore che ritroveremo più volte nel racconto, insieme ad altri umanisti che contrassegnarono quel tempo cruciale in cui si cercava di passare definitivamente a una lingua più moderna, l’italiano, mutuato dall’uso che ne fecero gli scrittori toscani del trecento, in primissimo luogo Dante e Petrarca.
In quell’ humus culturale si consolida la figura dell’editor, il correttore di bozze, categoria professionale di cui l’autrice Laura Lepri è una importante rappresentante contemporanea. Ho potuto apprezzarne la grandissima professionalità di persona durante un’importante rassegna letteraria .
Mi sono fatta l’idea che il libro nasca soprattutto per indagare le vicende di Giovan Francesco Valier, l’editor ante litteram incaricato di correggere e “sistemare” per la pubblicazione proprio Il Cortigiano, che sia insomma una specie di omaggio al primo collega dell’autrice.
E’ da molto tempo che non mi imbattevo in un italiano così perfetto, aulico ma non scevro da una sottile vena di ironia, vera scuola di stile per chi ambisce a scrivere o per chiunque ami una certa eleganza formale.
Purtroppo la struttura del libro è una via di mezzo tra il saggio e il romanzo, senza mai decidersi per un genere o l’altro e questa impostazione non mi ha del tutto convinta.
Dettagliatissimo nel resoconto dell’epoca, fin troppo se non dovesse essere considerato saggistica, ha sicuramente richiesto una preparazione di tutto rispetto dell’immensa documentazione necessaria e l’autrice ha tutta la mia ammirazione.
Devo però concludere che non è riuscita a coinvolgermi dal punto di vista emotivo, salvo qualche pagina qua e là, quando il testo si fa più romanzato e Laura Lepri si lascia andare, riuscendo perfettamente a suggerire le atmosfere, a qualche piccola invenzione letteraria.


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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    06 Gennaio, 2013
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Odysseo, Ulisse, Nessuno.

Odysseo, re della rocciosa Itaca, generato da Laerte e dalla regina Anticlea, cui è stato imposto il nome dal nonno Autolykos che in certe notti di luna piena si dice si trasformi in lupo, si racconta in questo libro intenso.
Odysseo, colui che odia o colui che è odiato, ma io l’ho amato dalla prima all’ultima pagina. L’ho amato quando sceglie la saggia Penelope nonostante la bellezza sfolgorante di Elena, perchè ”Lei è d’oro, tu sei…” “Di legno, atta. Il legno delle nostre querce sul Nerito, che solo il fulmine di Zeus può schiantare. Il legno che galleggia sempre mentre l’oro va a fondo.”
Ho gioito con lui quando costruisce il talamo nuziale intorno ad un vecchio ulivo, quando nasce il figlio Telemaco, quando riesce a evitare la guerra tra i pretendenti della donna più bella del mondo.
Ma ho amato anche l’umanissima codardia di Nessuno che sfugge all’ infuriare della battaglia a Troia e piange lacrime disperate nascosto nella sua nave, ne ho condiviso la viltà con cui tradisce il colossale Aias, la creatività con cui subdolamente fa capitolare un’intera città.
V.M. Manfredi fa dire a Odysseo, il re dal pensiero complesso: “L’uomo non è fatto solo di muscoli e di tendini, la mente è la parte sua più alta e nobile, quella che lo rende simile agli dei. La mente è l’arma più potente.”
Ulisse , protetto dalla dea Athena dallo sguardo verde-azzurro, è colui che compirà nella città di Priamo ciò che il destino ha stabilito. Nessuno può andare contro il Fato, e anche gli dei devono inchinarsi ad esso. Gli abitanti dell’Olimpo possono allungare a loro piacimento la durata della guerra, far prevalere a fasi alterne i due eserciti schierati, ma non possono cambiarne l’epilogo.
Anche noi, nel nostro piccolo, in questo caso sappiamo come andrà a finire, eppure Manfredi compie il miracolo di tenerci incollati alle pagine con la sua capacità di usare le parole, una vera e propria macchina da guerra narrativa, tanto per restare in tema.
Con l’escamotage del racconto in prima persona l’autore riesce a coinvolgerci come se noi fossimo là, nell’antica Grecia, oppure a Troia, durante la prova difficilissima della battaglia corpo a corpo: “Finché si combatteva sembrava di vivere in un altro mondo, in un altro luogo, non si sentiva la paura né il dolore, si era invasi da un’ebbrezza delirante simile a quella che danno il vino, la febbre e l’amore insieme. E la vicinanza della morte.”
L’Odysseo di Manfredi, fedele al personaggio omerico, non è invincibile come altri eroi fisicamente più dotati, Achille, Ettore, Aiace. Ma è colui che sa usare al meglio il pensiero, e quella rara capacità che hanno solo alcuni di essere veggente, cioè di vedere oltre, di non lasciarsi impastoiare in una visione scontata della realtà.
Il sequel di “Il Giuramento” dovrebbe uscire tra qualche mese e non me lo perderò sicuramente. Nel frattempo, mi è venuta voglia di tornare a leggere i versi originali da cui con grande maestria V.M.Manfredi ha tratto ispirazione per riproporci la storia “dell’uom di multiforme ingegno … che molto errò”.


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Storia e biografie
 
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    06 Dicembre, 2012
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Suerte Traidora

Non c’ è posto per l’etica nell’esistenza di Ilan Fernàndez, conosciuto come Pedro nell’ambiente del narcotraffico.
La linea che separa il confine tra la vita e la morte è affidata all’istinto dell’animale selvatico, pronto a difendersi o a prevenire attaccando chiunque minacci la sua incolumità o il suo benessere.
Un istinto guidato da un’intelligenza fuori dal comune, che lo porterà a diventare il più importante narcos del continente europeo e il brillante creativo del marchio di moda giovanile DeputaMadre69.
Non si fida di nessuno, Ilan-Pedro Fernàndez. E’ costretto ad atomizzare le lucrose attività tra i suoi soldati per non correre il rischio di essere tradito: affidare troppi segreti a una singola persona sarebbe troppo pericoloso.
Come un felino si muove all’improvviso, fa credere di essere sparito in una città lontana e ricompare all’improvviso disorientando i sottoposti, finge di essere il numero due di un fantomatico capo supremo e comanda con l’autorità del leader indiscusso.
Eppure è un uomo, Ilan Fernàndez. Un uomo che ha sofferto un’infanzia negata e che ha scelto di non sottomettersi al miserabile destino dell’orfano nei ghetti di Cali.
E’ pur sempre un uomo, quindi un animale sociale. E ha bisogno di condividere, di avere qualcuno che goda con lui le gioie del sesso a pagamento e l’euforia di qualche pista di coca.
E’ questa necessità il suo tallone d’Achille, questo il machete che separerà la dura noce di cocco che è la sua vita: prima il narcotraffico, poi la galera e infine il suo “riciclarsi” nel traffico internazionale della moda.
Quel machete ha il volto di Pedrito, un poliziotto infiltrato che Pedro sceglie come secondo, attirato dalla sua diversità e apparente sincerità. Proprio lo sbirro italiano sarà colui che lo incastrerà; d’altronde non è un caso che già in un’altra storia proprio chi mangia nel tuo stesso piatto abbia in tasca i trenta denari del tradimento.
Il problema, come direbbe nonno Jack, ma non l’ha detto, è che tutti abbiamo bisogno di un testimone che racconti la nostra vita. E’ per questo che ci si sposa e per lo stesso motivo si affida a un bravo scrittore come Giulio Laurenti il canovaccio di una vita.
“Suerte” è un libro che coinvolge e diverte, dove si racconta e non si giudica. Ilan parla in prima persona, con un linguaggio semplice mutuato dalla quotidianità; con pochi interventi “dell’amico scrittore” ci fa entrare nel suo mondo inquieto e crudele stando comodamente seduti sul nostro divano pagato a rate con il nostro stipendio da commessi.
E a un certo punto ci sentiamo “un individuo limitato, che manca delle necessaria propensione a una visione complessiva di ciò che lo circonda”. Poi il libro finisce, e tutto sommato siamo contenti che Cali sia un posto lontano.





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Scienze umane
 
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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    24 Novembre, 2012
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Tra amiche, spesso funziona

Un libro divertente, e divertito, scritto da una donna per le donne. Alessandra De Vizzi scrive di quello che ci frulla per la testa tutti i giorni: delle scelte non sempre azzeccate per il guardaroba, della difficoltà di mantenerci giovani e in forma, dell’amore e dintorni, delle serie televisive che tutte quante abbiamo visto almeno una volta (Sex and the city sembra essere la bussola che indica il nord del glamour per la voce narrante).
Ma parla anche dei problemi che possono darci i figli, il lavoro; insomma di tutte le quotidiane preoccupazioni di noi povere mortali. E chi ci può soccorrere in questi turbinosi flutti?
Le amiche, naturalmente: per ogni emergenza c’è la persona giusta, quella che ci aiuterà a risolvere il problema, o ce lo farà capire in anticipo con la sincerità che solo chi ci vuol bene davvero può permettersi.
L’autrice traccia i contorni del complesso mondo femminile con la leggerezza che la contraddistingue e ci consegna un libro ben scritto, privo di qualsiasi sbavatura stilistica, piacevole e rilassante.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    16 Novembre, 2012
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I confini leciti della scienza

“Le terzine perdute di Dante” è un romanzo che unisce alla piacevolezza del giallo- thriller i riferimenti colti dell’universo dantesco, con la Divina Commedia in primissimo piano.
Si svolge su due livelli temporali.
Nel primo troviamo Dante a Parigi, inseguito dagli uomini di un misterioso ordine che vuole eliminarlo perché è il prescelto, colui che dovrà tramandare ai posteri un terribile segreto, di cui è venuto a conoscenza durante una visione.
La mistica Marguerite Porete e il contrapposto ordine, di cui lei fa parte, cercano invece di proteggerlo.
Ai nostri giorni, Riccardo Donati ritrova nel “Roman de la Rose” quelle che sembrano terzine dantesche non ancora conosciute e se ne appropria. A causa di questi versi misteriosi l’oscuro filologo medievale sembra dover rivivere la stessa persecuzione di cui è stato vittima Dante a suo tempo, ma fortunatamente ha al suo fianco Agostina, una “Beatrice” pronta a tutto pur di difendere la sua incolumità.
La trama è avvincente e verosimile, ben scritta. Non poteva essere altrimenti, visto che l’autrice è un’esperta dantista, nonché scrittrice e critico letterario.
Spero solo che gli eventi paventati nella finzione narrativa (in seguito alla creazione di un gigantesco buco nero creato dal Lhc, l’acceleratore del Cern di Ginevra) non rappresentino un’intuizione, come a volte è successo in letteratura.
Se non ricordo male, Dan Brown parlava dell’antimateria nel suo “Angeli e demoni” e dopo un anno circa dall’uscita del libro il Cern annunciava di aver prodotto 38 atomi di anti-idrogeno, per fortuna con esiti ben diversi da quelli descritti nel famoso romanzo.
Bianca Garavelli ha dovuto rimaneggiare parte del libro perché durante la stesura era arrivato l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, la cosiddetta particella di Dio, e mi auguro vivamente che le coincidenze tra finzione narrativa e realtà si fermino qui!
Mi pare che il romanzo affronti la questione della ricerca scientifica dal punto di vista cristiano, che sembrerebbe essere quello della voce narrante e comunque è quello di Dante, quindi l’umanità deve fare attenzione a non oltrepassare i limiti leciti della conoscenza: “ Mosè allora si coprì il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Es.3,1 -12)
La scienza è nella condizione di capire quando è il caso di fermarsi davanti ai misteri della creazione? Siamo in grado di controllare eventuali “effetti collaterali “ non previsti?
Io so solo che quando tentiamo di stravolgere o violentare la natura, espressione terrena del volto di Dio per i credenti e madre primigenia per tutti, la natura prima o poi si vendica. L’uomo può cercare di capirne le leggi e usarle a proprio vantaggio, ma non può modificarle sostituendosi a chi le ha create.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    25 Ottobre, 2012
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Il confine tra normalità e pazzia

Io non conosco il confine tra la normalità e la pazzia. A volte la normalità è permeata di sensibilità esasperata, è un sentire che va oltre le apparenze, fino a spingersi avanti nel tempo, a prevedere eventi non ancora accaduti. In alcuni casi la cosiddetta normalità sfiora la pazzia, la anticipa con comportamenti
che non tengono conto della realtà, ma si rivolgono prevalentemente al proprio mondo interiore.
Noi siamo ciò che pensiamo di essere o la nostra essenza è definita da come gli altri ci vedono, ossia: sono gli altri che ci attribuiscono una determinata caratteristica della mente, come può essere la pazzia o questa è una condizione oggettiva?
Tanti sono gli interrogativi che ci si pone dopo la lettura di questo libro, finalista al premio Campiello. Sinceramente all’inizio mi sono chiesta cos’avesse di particolare questo romanzo per essere inserito in una rosa di selezionati tanto prestigiosa.
E’ una lunga, dettagliatissima lettera, che nella prima parte risulta a volte anche un po’noiosa nel suo lirismo puritano di stampo tardo-ottocentesco, che Teresa scrive a Vincent Van Gogh , ospite per qualche giorno della stessa famiglia di Gheel “il paese dei matti”, Giallo in italiano, dove Teresa è stata accolta.
Teresa è figlia di una pazza morta mentre la metteva al mondo e il dottore che l’ha in cura, per non rinchiuderla in un orfanotrofio, la fa passare ufficialmente per matta affinché possa avere un vitalizio e possa essere accolta come da tradizione da una famiglia del posto.
Teresa si innamora di Van Gogh e intuisce in lui le potenzialità del grande artista. A Montanaro piace immaginare che sia proprio lei a regalargli i primi colori.
Poi c’è una seconda parte, dove la vicenda di questa orfanella, alla prese con il primo e immaginario amore, si trasforma in un incubo kafkiano.
La burocrazia , grazie alla quale Teresa Senzasogni ha usufruito di un assegno che avrebbe dovuto servirle a raggranellare la dote, si vendica rinchiudendola in manicomio, dove subirà ogni genere di esperimento e di tortura, con un epilogo decisamente inaspettato.
Quindi, alla fine mi sono dovuta ricredere e ribaltare le mie prime impressioni. E’ un romanzo tutt’altro che banale, non facile forse, ma tocca alcuni dei temi che mi sono più cari: il peso del destino (della nascita in determinate circostanze con tanto di DNA a reclamare il suo peso ) nella nostra vita, la riflessione sul rapporto tra normalità e creatività.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    13 Ottobre, 2012
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Può l'istinto paterno andare oltre la comune moral

Due racconti si intrecciano, si sovrappongono, si rimandano per ricongiungersi solo alla fine del libro, in una spirale di segreti che si svela a poco a poco, raggiungendo l’apice nel testamento spirituale contenuto in una misteriosa lettera in carta di riso che si ripresenta spesso nel romanzo.
Una storia racconta il passato di Pietro, un prete giovane che ha cercato di colmare l’assenza del padre entrando a far parte della famiglia di Dio, senza riuscire ad amarlo mai veramente, neanche “di un amore minimo”.
Troverà invece sul suo cammino l’amore della “strega”, una ragazza che ha abortito il figlio del proprio padre.
Questi frammenti del passato interrompono e spiegano l’evolversi degli avvenimenti più recenti, che vedono Pietro sempre protagonista, ma stavolta calato nelle vesti di portinaio di uno stabile milanese, avendo definitivamente abbandonato la nativa Rimini e l’abito talare.
Il libro si richiama al senso di protezione che i padri, naturali o putativi che siano, provano per i figli, tutti coloro che potrebbero essere figli: è lo stesso sentimento che gli elefanti maschi sviluppano nei confronti dei piccoli del branco. Un istinto di paternità che può spingersi fino al sacrificio della propria vita, se necessario.
Missiroli struttura le frasi con una costruzione personale, non sempre eterodossa, ma coinvolgente e veloce,
a volte anche poetica.
Tratteggia con poche parole i suoi personaggi, tanto che alla fine del libro li conosciamo talmente bene che ci sentiamo condomini di Poppi l’avvocato, Viola la moglie fedifraga, Luca il dottore, Sara la figlia, Fernando il ragazzone con qualche problema psichico, la madre di Fernando , e naturalmente, di Pietro.
Missiroli non prende posizione di fronte alle grandi questioni etiche che investono i suoi personaggi. Essi attraversano l’aborto, l’eutanasia, la morte, la malattia, l’infedeltà coniugale, il rapporto con Dio, il suicidio, l’omicidio, semplicemente vivendo. L’autore si limita a raccontare le loro traversie come se tutto questo facesse parte della normalità, e in un certo senso anche nella nostra vita ci imbattiamo spesso, quotidianamente direi, in qualcuna di queste storie.
E’ bravissimo a farci sospendere il giudizio morale, se giudizio ci sentiamo di dare, fino alla fine; leggendo ci interessa solo andare avanti, scoprire come va a finire.
Marco Missiroli, classe 1981, con “Il senso dell’elefante” è stato finalista del premio Campiello e ora fa parte della terna selezionata dal Premio “Città di Vigevano”.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    10 Ottobre, 2012
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Un libro che fa riflettere

Rispetto al passato e alle persone che abbiamo amato ci possono essere due sentimenti a volte contrastanti, altre complementari: il rimorso e il rimpianto.
Credo che nel libro di Albinati prevalga il rimorso, anzi sono convinta che abbia sentito l’esigenza di scrivere questo libro perché non è mai riuscito a vivere con pienezza il rapporto con il padre.
Il senso di colpa per aver deciso di fuggire spesso, provando un gran senso di sollievo per la distanza posta tra il problema della malattia paterna e se stesso, ha fatto il resto.
L’ultimo addio è descritto come un intralcio agli impegni quotidiani dei figli, che non trovano di meglio che guardare l’orologio , ansiosi di tornare al lavoro.
Tutto questo gli ha dettato un libro scritto benissimo, d’altronde al capezzale paterno pensava giusto alle parole che avrebbe potuto usare per descrivere quell’esperienza.
E questo, mi dispiace, non glielo posso proprio perdonare.
La vita non è la letteratura, la vita si vive con le lacerazioni e il dolore, poi al limite, a freddo, si elaborano le esperienze e le si racconta .
Ho provato un senso di disagio estremo nel ruolo di lettrice, come se, da estranea, fossi stata al capezzale di quest’uomo morente a spiarne gli spasimi per mancanza d’aria, le meschinità corporee che la malattia porta con sé.
Se fosse stato il personaggio di un romanzo forse sarebbe stato diverso, ma quest’uomo morente aveva un nome e un cognome, era il padre di colui che portava avanti il racconto. E questo fa la differenza.
Io ho amato tantissimo la figura di questo Ingegnere, imprenditore dedito al proprio lavoro che non ha mai dimenticato il ruolo che gli operai hanno avuto nella costruzione del proprio benessere economico; abile e intelligente con la giusta dose di ironia e autoironia che non lo abbandonerà mai, neppure negli istanti che precedono il precipitare ultimo della malattia.
Solo la morte avrà ragione di lui, la morte che è “ oscena e semplice, un sibilo”.
Mi sono talmente affezionata a questo padre da sperare assurdamente, contro ogni logica, che la fine del libro fosse diversa, ho infantilmente auspicato un miracolo che già dal titolo gli era stato negato.
Quindi Edoardo Albinati è abilissimo a tratteggiarne il carattere e se devo limitarmi a giudicare il libro come opera letteraria dovrei dargli il massimo punteggio.
Ma se questa è un’autobiografia, e lo è, e la letteratura ha anche un ruolo sociale, non posso che muovergli delle critiche.
La sanità che ci descrive è molto diversa da quella che io ho provato sulla mia pelle.
Forse gli Albinati, essendo gente facoltosa, si sono rivolti a strutture private e questo ha contribuito a far diventare il paziente “un prosciutto, da spolpare fino all’osso”, con conseguenti esami inutili e tardivi, un accanimento terapeutico che, ben lungi dal mirare al bene del paziente, tende a rimpolpare le casse dell’istituto di cura. Forse sta qui, la differenza tra la loro esperienza e la mia.
Il discredito che getta sull’intera classe medica è appena affievolito da quell’ultima figura di dottore-amico che assiste l’Ingegnere nel trapasso finale.
Anche questo, mi dispiace, non glielo posso perdonare.
Ho incontrato nella mia vita tanti medici, alcuni molto capaci, altri meno. Qualcuno ha commesso, in buona fede, gravi errori, altri mi hanno salvato la vita. Ma mai ho avuto la sensazione di essere un prosciutto nelle loro mani.
Sicuramente è un libro che fa riflettere, e questo è il risultato della mia riflessione.

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giuse 1754 Opinione inserita da giuse 1754    07 Ottobre, 2012
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Lettura sconsigliata ai maggiori di ...nta anni

E’ il libro ideale per far riflettere con leggerezza gli adolescenti su alcuni argomenti ostici, come ad
esempio la malattia e la morte.
D'Avenia ci parla, nel linguaggio dei ragazzi di oggi un tantino edulcorato, delle emozioni che il primo "vero" amore suscita in loro, dei forti legami d'amicizia e familiari che proprio in questo periodo della vita costituiscono il nucleo intorno a cui si va sviluppando la personalità in formazione.
Poi c'è la scuola, e un professore, "Il Sognatore", che li stimola ad avere un approccio diverso con la storia, ma soprattutto a seguire la strada che si sente di dover percorrere, a custodire il proprio sogno come un tesoro.
Mi è piaciuto tantissimo questo riferimento alla novella del tesoro tratta da "Le mille e una notte".
Peccato che Il Sognatore ricordi tantissimo il prof. Keating di "L'attimo fuggente" ...
Leo è il protagonista, innamorato della rossa e pallida Beatrice, "bianca come il latte", perché è affetta dalla leucemia; lo condurrà lungo gli impervi sentieri della consapevolezza, fino a fargli capire che il suo vero amore non è lei, bensì l'onnipresente e rassicurante Silvia, l'amica di una vita.
Beatrice non è un nome a caso: il professor D'Avenia probabilmente vuol ricordarci la Beatrice, guida di Dante nella Commedia che ben conosciamo: sarà un po’ scontato?.
Ho poi trovato abbastanza stucchevole il continuo riproporre la trovata dei colori, "bianco come .. rosso
come ... ecc.", forse troppo infantile anche per l'adolescente Teo.
Stupende le poesie citate, di cui D’Avenia avrebbe fatto bene a menzionare l'autore: sarò grata a chiunque lo conosca e voglia suggerirmelo, perché penso che valga la pena di approfondirlo.
La trama, pur non essendo una perla di originalità, tiene bene e fa venir voglia di proseguire la lettura.
Come ho già detto all’inizio, tutto sommato un libro è piacevole e piuttosto ben scritto, che è piaciuto e piacerà tanto ai giovani e a chi si sente ancora romanticamente giovane.
Peccato che io i sedici anni li abbia superati da un bel pezzo.


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