Opinione scritta da Lorenzo Roberto Quaglia

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    05 Giugno, 2014
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Mala Tempora

Da poche settimane è uscito il nuovo romanzo di Fabrizio Carcano, il giornalista scrittore da alcuni soprannominato il Dan Brown milanese, dal titolo “Mala Tempora”.

Ritroviamo subito i personaggi che abbiamo imparato ad amare nei due precedenti romanzi, Gli angeli di Lucifero e La tela dell’Eretico, il capo della Squadra Omicidi Bruno Ardigò e il giornalista, amico – rivale, Federico Malerba impegnati in una serie di delitti di giovani donne nella torrida estate milanese del 2013.

Nel romanzo sono presenti i temi cari all'autore che ce lo hanno fatto conoscere come il maestro del romanzo giallo a sfondo storico – esoterico. Caratteristica del Carcano è quella infatti di riuscire a creare un legame emotivamente forte tra le indagini su omicidi dei nostri tempi che rimandano, per qualche ragione che via via si palesa nel corso della lettura, ad altri delitti compiuti a Milano da personaggi vissuti in secoli precedenti. Il tutto avvolto da un alone di misteri e riti segreti che rendono ancora più intrigante la trama e la lettura.

Non riveleremo certo qui il finale della storia che, per inciso, si svelerà al lettore, come in ogni buon giallo, solo nelle ultime pagine, ma possiamo aggiungere un’ultima annotazione prima di lasciarvi alla lettura: l’amore dell’autore, vero e intenso che traspare in ogni pagina del libro, verso Milano, quella di oggi e quella di ieri.

La città è raccontata nei suoi angoli più conosciuti e nelle sue viuzze meno note. L'autore la rende più amabile di quello che appare agli stessi milanesi, come il sottoscritto, abituati ad usarla ogni mattina, a scivolarle accanto, a sfiorarla ma non ad osservarla con attenzione come meriterebbe nella realtà.

Nella recensione de La Tela dell’Eretico suggerivamo al Sindaco Pisapia la nomination di Carcano all’Ambrogino d’Oro. Ci pare di non essere stati ascoltati, ma noi ci riproviamo nuovamente, dopo aver letto questo nuovo intrigante romanzo giallo milanese!

Buona lettura a tutti in attesa della nuova avventura del duo Ardigò – Malerba.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    27 Agosto, 2013
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Giallo nostrano ruspante

Piergiorgio Pazzi è un trentenne medico genetista che si ritrova inviato per una ricerca medica in uno sperduto paesino toscano, Montesodi Marittimo. Qui trova Margherita Castelli, giovane ricercatrice storica che partecipa alla medesima ricerca scientifica: comprendere l'origine scientifica del perché gli abitanti nativi del piccolo paese mostrano una potenza e una forza muscolare molto superiore alla media nazionale.

Il giovane medico e la sua compagna, dopo una certa diffidenza iniziale, vengono ben accolti dai paesani ed iniziano la propria attività di ricerca.

Ma dopo circa una settimana accade un fatto inaspettato: l'anziana padrona di casa dove alloggia il Pazzi viene trovata morta sulla poltrona in salotto. All'inizio si pensa a morte naturale, ma il giovane medico fa un'altra diagnosi: la signora e' stata soffocata nel sonno.

Da qui è tutto un susseguirsi di pseudo indagini compiute dal maresciallo locale, a dir la verità poco avvezzo alle indagini, e da investigazioni parallele compiute da Pazzi con il fondamentale aiuto di Margherita.

Dopo alcuni giorni, rotto il velo di omertà che univa i compaesani, la verità verrà a galla e la ricerca scientifica potrà essere conclusa, non senza un finale inaspettato.

Un ruspante giallo nostrano scritto con grazia e sottile ironia.

Buona lettura.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    14 Agosto, 2013
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Martin Eden

Martin Eden e' un'opera della maturità artistica di Jack London.

Ho riletto in questi giorni il romanzo, nell'edizione degli Editori Riuniti del 1979, anno della mia precedente lettura dell'opera dello scrittore americano. Jack London nasce a S. Francisco nel 1876, novant'anni prima del mio anno di nascita e scrive il romanzo Martin Eden tra il 1907 e il 1908; la pubblicazione è del 1909, settant'anni avanti la mia prima lettura del romanzo.

Perché evidenzio queste date? Perché se ci pensiamo bene, non sono passati molti anni, solamente qualche decennio, e il mondo di Jack London, di Martin Eden non esiste più, è radicalmente mutata la realtà descritta nel romanzo, dal romanzo.

Le esperienze di vita compiute dallo scrittore (strillone agli angoli delle strade, segna punti in un bocciodromo, pescatore di ostriche nella baia, ubriacone nei bassifondi di S. Francisco e poi ancora marinaio su una baleniera, cercatore d'oro nel Klondike, militante socialista e infine autore sempre più apprezzato, ricco e famoso) non ci trasmettono più il significato profondo che aveva segnato così duramente la vita di London.

E ancora, i risultati di tutto il lavoro, della fatica bestiale compiuti in pochi anni da Martin Eden, la sua volontà di elevarsi dalla povertà culturale, ancor prima che sociale, in cui era nato, sono stati ottenuti da moltissimi uomini e donne, soprattutto da quelli che vivono nella parte superiore alla linea dell'equatore, grazie alla realizzazione di buona parte delle idee di uguaglianza, libertà, fraternità alle quali lo stesso Martin Eden si era avvicinato agli albori della gioventù e che professava forse più di quanto ne fosse consapevole.

Viceversa la critica aspra, a tratti feroce, che Eden compie alla classe borghese, è un dato del romanzo permanente nel tempo. La borghesia, come classe sociale, forse non è mai esistita, ma come concetto, la mentalità borghese esiste dalla notte dei tempi.Ogni epoca storica ha avuto le proprie idee borghesi e le persone che le incarnavano.

Al tempo dei primi cristiani, chi erano i cittadini romani che credevano nell'imperatore e nella sua discendenza divina se non dei borghesi? E al tempo di San Francesco d'Assisi, chi erano i vescovi e i ricchi prelati della curia romana se non dei borghesi?

E' stata questa la scoperta che ha più deluso il protagonista del romanzo. Martin era pronto a morire per Ruth, la dea borghese, all'inizio del loro rapporto. Ma più cresceva la consapevolezza di Martin grazie allo studio della scienza, della filosofia e alle esperienze di vita, e più ai suoi occhi diventava evidente la piccolezza del mondo borghese in cui Ruth era nata e viveva, trovandovi la sua felicità.

Il problema di Martin alla radice, era il problema esistenziale di ogni anima sensibile: trovare le ragioni della propria esistenza, del proprio amore e del proprio morire.

Eden non incontra nella sua vita la persona che può offrire alla fine del suo cammino, così carico di sofferenza, una speranza per il domani. Quello che uccide il giovane scrittore di successo, ricco e solo, è la fatica quotidiana del vivere senza uno scopo.

Nel 2013 come nel 1909 il suicidio di Martin Eden simboleggia lo sbocco lucido e disperato dell'uomo che ha preso sul serio le domande ultime sul proprio destino, ma non ha trovato un compagno di viaggio disposto a fargli compagnia, a condividere i momenti difficili e quelli gioiosi.

L'umanità di oggi, come quella del secolo scorso, ha sete di rapporti veri che superino le consuetudini e le abitudini borghesi che soffocano la libertà delle persone attraverso l'offerta di una vita semplice e spensierata e per questo scialba e triste, senza un orizzonte cui tendere.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    22 Luglio, 2013
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Egli canta ogni cosa

“Conoscere la verità è una grande avventura ed è anche un grande rischio. Potresti scoprire che devi cambiare idea su qualcosa. Potresti anche scoprire che devi cambiare vita”.

Jonah Lynch, dopo il successo de Il profumo dei limoni, torna in libreria con Egli canta ogni cosa, libro pensiero che, come scrive nella prefazione Paolo Cevoli, fa compagnia ai giovani d’oggi, invischiati nel problema dei problemi: cosa ne devo fare della mia vita, per che cosa, per chi vale la pena che venga spesa?

Il “giovane” sacerdote racconta ad un gruppo di studenti liceali la propria esperienza di vita e dalle circostanze concrete, dai fatti personali a lui accaduti, parte la risposta alle domande esistenziali dei ragazzi.

Ne esce un volumetto che si legge in un paio di ore, ma che può essere riletto per tutta la vita, soprattutto dai giovani di ogni generazione. La proposta di Lynch, sussurrata all’orecchio, sperimentata personalmente e verificata nel tempo, è quella di un approccio sperimentale alla fede cristiana.

Certo, il sacerdote Lynch non poteva proporre altro, direbbero gli scettici. E’ vero, ma il ragazzo Jonah Lynch, prima di diventare sacerdote, è stato un giovane che ha cercato le risposte alle medesime domande che i liceali ora rivolgono a lui.

In questo libro Lynch propone agli studenti le medesime ragioni che hanno reso felice e degna di essere vissuta la sua vita. I capitoletti scivolano via velocemente, ma ci si accorge alla fine di ogni pagina che quello che si è letto equivale ad una sintesi di ore di preghiera e di riflessioni accompagnate, in sottofondo, dalla musica, elemento facilitante l’incontro con Dio.

Questo è un manoscritto che consiglio di leggere non solo a chi ha terminato gli studi universitari, ma soprattutto ai giovani maturati che si stanno apprestando a scegliere una facoltà universitaria, scelta che nel giro di alcuni anni li getterà nella mischia della vita quotidiana dentro la quale dovranno scegliere in che ruolo giocare, se essere spettatori o attori.

Termino questo invito alla lettura con la definizione di verginità che dà Lynch nel suo libro e che personalmente trovo di una liberazione sconvolgente dai rapporti a volte tormentati e opprimenti che abbiamo con parenti, amici e colleghi: “…la verginità è un atteggiamento che si può adottare di fronte ad ogni cosa: al lavoro, alle persone… Vuol dire lasciar vivere. Vuol dire godere del fatto che le cose e le persone abbiano una propria vita, una propria consistenza. Vuol dire gioire di questo, senza voler subito rapirle e farle proprie”.

Di fronte a persone che ti lanciano questi messaggi, si può anche pensare che forse dobbiamo iniziare nella nostra vita a cambiare idea su qualcosa.

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Narrativa per ragazzi
 
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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    10 Luglio, 2013
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Vango - un principe senza regno

Ho appena terminato la lettura della seconda parte delle avventure di Vango, misterioso eroe uscito dalla penna di Timothée de Fombelle.

Il secondo romanzo è, come il primo, avvincente sin dalle prime pagine, e l'autore rituffa il lettore nel mare impetuoso che segna l'esistenza di Vango e dei suoi amici in lotta contro misteriosi personaggi.


Poco per volta la trama si snoda e le vicende sembrano trovare una giusta collocazione, lasciando però il protagonista in attesa di una soluzione definitiva, sull’esito della ricerca delle proprie origini, sino al termine del romanzo.


La lettura è appassionante e fresca, come bere da una fonte alpina, e conduce il lettore sulle cime della fantasia e sulle vette dell'immaginazione.


La storia ha il suo lieto fine e ci svela il vero volto di Vango che, per come l'abbiamo conosciuto nelle pagine dei due romanzi, sembra talmente reale che non ci stupiremmo di poterlo incontrare in una locanda, seduto al tavolo vicino al nostro, a fare quattro chiacchiere con Ethel e La Talpa !


Un lettura più che piacevole, adatta a ragazzi e ad adulti che hanno mantenuto il piacere delle letture per ragazzi!

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    22 Giugno, 2013
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Il potere dei senza potere

Riproposto dalla Casa Editrice Itaca, ho letto con molto interesse “Il potere dei senza potere” di Vaclav Havel. Chi è stato Havel al giorno d’oggi lo sappiamo. Ma nel 1978, epoca in cui scrisse il manoscritto, lo conoscevano in pochi, almeno in Italia. Erano gli anni dei due blocchi contrapposti, Est e Ovest, Comunismo orientale e Consumismo occidentale. Il Muro divideva Berlino e i cuori degli europei, la Guerra era Fredda.

Havel, tra i fondatori di Charta 77 in Cecoslovacchia, scrive questo saggio in cui analizza il totalitarismo e la strumentalizzazione ideologica in cui consiste.

Per Havel il cambiamento dei regimi socialisti legati all’Unione Sovietica poteva avvenire solo partendo dal cambiamento del cuore dell’uomo, da un amore verso la verità di sé, non scendendo a compromessi o cedendo ad una falsa vita, forse anche comoda ma alla fine insoddisfacente. Coloro che vivono in questo modo e si comportano di conseguenza sono chiamati “dissidenti” dal regime. Ma chi sono i dissidenti, secondo Havel? Non sono una categoria sociologica, sono “persone comuni con preoccupazioni comuni e che si distinguono dagli altri solo perché dicono ad alta voce quello che gli altri non possono o non hanno il coraggio di dire” (pag. 81).

Il libro di Havel nel 1978 in Italia passò del tutto inosservato. Eppure quello che Havel denunciava riguardo il totalitarismo di matrice sovietica, valeva anche per l’ideologia del consumismo che si stava vivendo dall’altra parte della Cortina, in Occidente.

Scrive Havel: “Qualche volta è necessario toccare il fondo della miseria per poter capire la verità, così come dobbiamo spingerci fino al fondo del pozzo per riuscire a scorgere le stelle… Nelle società democratiche, in cui l’uomo non è così palesemente e così brutalmente violentato, questo cambiamento fondamentale della politica è ancora lontano, e forse quando le cose peggioreranno la politica ne scoprirà la necessità. Nel nostro mondo, proprio grazie alla miseria in cui ci troviamo, è come se la politica avesse già compiuto questa svolta: dal centro della sua attenzione e del suo beneplacito comincia a scomparire la visione astratta di un modello positivo, capace di salvarsi da sé …” Parole quasi profetiche, scritte nel 1978. La degenerazione del nostro sistema politico, fondato sull’egoismo di partito, di corrente, personale è sotto gli occhi di tutti ed è una della cause della crisi che stiamo vivendo.

Quello che cambia la storia è quello che cambia il cuore dell’uomo. Da qui dobbiamo partire. “Ci si domanda …se il futuro più luminoso sia sempre veramente e soltanto il problema di un lontano là. E se invece fosse qualcosa che è già qui da un pezzo e che solo la nostra cecità e fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi?”

Così chiude il saggio di Vaclav Havel, dissidente e primo Presidente eletto della Cecoslovacchia democratica.

L’attualità di questo saggio è evidente. Havel nel 1978 ha toccato il nocciolo della questione, dei rapporti tra libertà dell’individuo e potere dello Stato, tra potere dell’ideologia e potere della Verità.

“Non è detto che con l’introduzione di un sistema migliore sia garantita automaticamente una vita migliore, al contrario, solo con una vita migliore si può costruire anche un sistema migliore” scrive Havel.

Come non riflettere ancora oggi su quanto il profetico Havel ci ha lasciato scritto in questo saggio?

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    30 Mag, 2013
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Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia

Tra le innumerevoli novità editoriali presentate e tutti gli interessanti incontri che si sono svolti durante la XXVI edizione del salone del Libro di Torino, ci piace ricordare la presentazione, venerdì 17 maggio in Sala Gialla, del Dizionario Enciclopedico delle Mafie in Italia.

A presentare l’opera: il curatore Claudio Camarca, i magistrati Gian Carlo Caselli e Raffaele Cantone, Don Luigi Ciotti e il Responsabile editoriale della Casa editrice, Alessandro Zardetto.

Il Dizionario delle Mafie in Italia è un’opera importante, composta da 959 pagine, contiene 4.600 lemmi, 74 gli autori coinvolti nella stesura tra magistrati, giornalisti e saggisti. Le informazioni contenute sono aggiornate al 25 aprile 2013.

Diceva Paolo Borsellino: “parlate della mafia, parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.” Questo è lo scopo principe del Dizionario, come ha testimoniato il giudice Caselli: parlare della mafia, soprattutto alle giovani generazioni che rischiano di avere, sull’argomento, un’immagine distorta, sostenuta da certa stampa e certa pseudo cultura che propone l’immagine del mafioso come appetibile, accattivante, da imitare perché in fondo essere mafioso vuol dire avere potere, gestire potere, ricchezza, denaro.

Eravamo tutti commossi, noi seicento presenti in Sala Gialla, dopo che Don Ciotti ha parlato della sua esperienza in terra di mafia, raccontando di come sono soprattutto i giovani i più bisognosi di conoscere, di comprendere la storia recente del nostro Paese per capire i tempi attuali che sono pericolosamente sospesi in una cultura mafiosa che, anziché regredire, a causa della crisi economica sta aumentando il proprio spazio e il proprio raggio d’azione.

L’opera ha una valenza scientifica di prim’ordine; sfogliandone le pagine troviamo argomenti come: Addaura, (fallito attentato dell’ ), Calipari Nicola, mandamento, pizzino. Sono descritti i nomi dei carnefici e quelli delle vittime di mafia, i luoghi, i fatti storici e le verità giudiziarie vicine e lontane nel tempo come la strage di Portella della Ginestra.

La mafia non si combatte solo con le forze dell’ordine e con l’azione repressiva ma, come ci ha ricordato Don Ciotti, da un lato con la conoscenza, la diffusione della cultura, lottando contro l’abbandono scolastico e dall’altro con politiche che creano nuovi posti di lavoro, soprattutto per i giovani, soprattutto per il Sud del Paese.

Quest’opera quindi è fondamentale per far conoscere la realtà mafiosa alle nuove generazioni e dovrebbe ricevere il massimo della divulgazione nelle scuole, nei centri aggregativi, negli oratori, in tutti quei luoghi dove vengono proposti modelli e stili di vita ai giovani di oggi.

In questo senso, la politica di prezzo praticata dall’Editore (Castelvecchi editore -http://rx.castelvecchieditore.com ) che pone in vendita l’opera ad un prezzo sicuramente accessibile a molti, va elogiata.

In fine: tutti i relatori, nel presentare l’opera, hanno ricordato il compianto Roberto Morrione che fu tra i primi ideatori dell’opera e anche noi ci uniamo al ricordo e alla memoria di questo grande del giornalismo italiano, scomparso nel 2011.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    25 Aprile, 2013
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L'ultimo libro

Consigliatomi da mia moglie, ho letto il romanzo di Zoran Zivkovic, L'ultimo libro. L'autore, nato nel 1948 a Belgrado, vi risiede ancora con la famiglia. Ha pubblicato una ventina di romanzi e dal 2007 tiene corsi di scrittura creativa.

L'ultimo libro e' un piacevole thriller ambientato in una cittadina che potrebbe essere la stessa Belgrado o comunque di quelle zone. La scena dei crimini e' una piccola libreria gestita da due amiche dove, all'improvviso, iniziano a morire, sembra per cause naturali, i clienti che la frequentano.

L'ispettore Dejan Lukic è incaricato delle indagini che avanzano di pari passo con la relazione sentimentale del poliziotto con Vera, una delle due proprietarie de Il Papiro. Il principale indagato per i delitti sembra essere un misterioso oggetto...l'ultimo libro!

Il finale a sorpresa rivela la fantasia dello scrittore che conduce tutta la trama con una scrittura elegante, sobria, senza dilungarsi in descrizioni superflue che annoiano il lettore di un giallo.

Per concludere una lettura piacevole che tiene compagnia in quelle giornate uggiose invernali e ti fa sentire in sintonia con i protagonisti del romanzo.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    15 Aprile, 2013
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Il Paradiso alla porta

Risulta difficile sintetizzare nelle quaranta righe di una pagina word (lo spazio che mi sono imposto per ogni recensione che pubblico sul blog) il contenuto dell’ultimo saggio del filosofo francese Fabrice Hadjadj, Il Paradiso alla porta, edito in Italia da Lindau.

A chi si rivolge il filosofo? A tutti noi, pellegrini erranti su questa terra. Chi, almeno una volta nella vita, non si è mai chiesto che fine farà dopo la morte? La domanda è una di quelle classiche sulla quale i filosofi sono al lavoro da millenni.

Ebbene, Hadjadj propone la risposta cristiana, il Paradiso, e ne descrive, per quello che un essere umano può descrivere, gli elementi costitutivi, il contenuto, lo spazio e i confini utilizzando i riferimenti dell’arte, della poesia, della musica, della letteratura e chiaramente della filosofia.

E’ un’opera che mostra la maturità raggiunta dal pensiero di questo ancor giovane filosofo convertitosi al cristianesimo in età adulta e per questo, forse, ancor più entusiasta della novità, della buona novella che lo ha raggiunto per grazia e lo ha convertito affascinando la ragione e il cuore.

Gioia, tempo ritrovato, consolazione, eternità, relazione, canto sono solo alcune delle parole che troviamo nel saggio e che contribuiscono a disegnare il Paradiso ai nostri occhi e alle nostre orecchie. La prima parte dell’opera è dedicata a coloro che, nella storia, hanno pensato di portare il Paradiso sulla terra senza comprendere che il Paradiso esiste, consiste in un’altra dimensione. Il tentativo di attuare il Paradiso sulla terra ha generato unicamente orrori e dolori ai popoli che lo hanno dovuto subire.

Le considerazioni sul Paradiso che ci propone Hadjadj sono rivoluzionarie così come è stata rivoluzionaria la venuta di Cristo sulla terra. Il popolo aspettava la venuta di un re che lo liberasse dal dominio di Roma ed è arrivato il Figlio di Dio che si è lasciato mettere in croce per la salvezza di tutto il creato. Commoventi le pagine in cui il filosofo descrive e commenta l’episodio di Disma il buon malfattore, che chiede sulla croce: Gesù ricordati di me… e Gesù che gli risponde: “Oggi, TU sarai con ME in Paradiso”. Paradiso, luogo di relazione, TU con ME.

Nell’ultima parte dell’opera Hadjadj pone le basi di quella che chiama la fisica eucaristica. Sono considerazioni personali che meritano una riflessione attenta e suscitano sicuramente interesse e meraviglia.

Il Paradiso alla Porta, saggio su una gioia scomoda, come sottotitola lo stesso autore, è un’opera complessa, che pone al centro il Paradiso visto, scrive l’autore: “come un orizzonte di fecondità traboccante e non un sogno sterilizzatore”. Di questa fecondità traboccante l’opera è colma.

Quello che colpisce il lettore, a volte perso nei riferimenti letterari e filosofici proposti dall’autore, è la bellezza che rimane come fosse realtà concreta dopo aver terminato la lettura della singola pagina e del capitolo intero. Ma forse questa bellezza permane perché scopriamo che è il Paradiso ad essere attraente.

In conclusione, come scrisse Don Luigi Giussani: “Gesù si rivolge a noi, si fa incontro per noi chiedendoci una sola cosa: non “cosa hai fatto?” , ma “mi ami?”.

Dell’amore di Cristo è ricolmo il Paradiso descritto da Hadjadj nel suo saggio.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    06 Marzo, 2013
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Cyberteologia

Nel mese di marzo 2012 è uscito il nuovo lavoro di Antonio Spadaro: Cyberteologia, sottotitolo: pensare il cristianesimo al tempo della rete. Con quest’opera Spadaro si conferma tra i principali studiosi italiani dei rapporti tra il w.w.w. e la religione cristiana, tra la rete e la teologia cattolica, cioè universale, come la rete.

In poco più di centotrenta pagine il gesuita direttore de “La Civiltà Cattolica” analizza i cambiamenti che inevitabilmente sono intervenuti nel nostro modo di pensare e di agire dall’affermarsi della rete.

“La rete” scrive Spadaro nell’introduzione, “non è uno strumento, ma un ambiente nel quale noi viviamo”. …”E se abbiamo uno smartphone acceso in tasca siamo sempre dentro la rete”.
La domanda quindi è, se la rete cambia il nostro modo di pensare, cambierà , o è già cambiato, anche il nostro modo di vivere la fede? Da questo incipit prende avvio l’analisi profonda, acuta e originale dell’autore. Vengono declinati i “paradigmi” che caratterizzano la rete e che, al momento, ne determinano lo sviluppo: i motori di ricerca, la visione shuffle, il sistema push e quello pull, le applicazioni Instapaper e così via.

Ciò che a Spadaro interessa mettere in luce è che “la sfida dunque non deve essere come usare bene la rete, come spesso si crede, ma come vivere bene al tempo della rete. In questo senso la rete non è un nuovo mezzo di evangelizzazione, ma innanzi tutto un contesto in cui la fede è chiamata ad esprimersi non per una mera volontà di presenza, ma per una connaturalità del cristianesimo con la vita degli uomini”” (pag. 22).

Che tipo di Chiesa è presente in rete? Una Chiesa liquida, senza autorità, una Chiesa hub? Spadaro, pur sensibile alle novità che la rete porta con sé, rimane in comunione a ciò che la Chiesa da sempre insegna agli uomini e cioè che è impossibile che la realtà virtuale sostituisca l’esperienza reale di una comunità cristiana visibile e storica, così come non è possibile sperimentare in rete i sacramenti e le celebrazioni liturgiche. Nel libro sono molteplici i riferimenti a documenti vaticani che testimoniano ciò.

Quello che emerge dalle pagine del libro è l’amore che la Chiesa porta al creato, creato da Dio, e il desiderio che nulla rimanga inesplorato e dimenticato. Ne consegue che il cristiano è chiamato a testimoniare anche nella rete la gloria di Dio e la risposta vivente ai bisogni dell’uomo che è Cristo. In questo senso il concetto di “testimone” e “testimonianza” nella rete merita una seria riflessione da parte di ogni cristiano che naviga nel web.

Per concludere: “La cultura digitale pone nuove sfide alla nostra capacità di parlare e di ascoltare un linguaggio simbolico che parli della trascendenza. Gesù stesso nell’annuncio del Regno ha saputo utilizzare elementi della cultura e dell’ambiente del suo tempo: il gregge, i campi, il banchetto, i semi e così via. Oggi siamo chiamati a scoprire, anche nella cultura digitale, simboli e metafore significative per le persone che possono essere di aiuto nel parlare del Regno di Dio all’uomo contemporaneo”.

Questo libro è un’esaltazione, nel senso di valorizzazione, degli aspetti positivi che si trovano nella rete ed è scritto con tanta passione per l’ingegno dell’uomo che ha creato il w.w.w. , nuova frontiera, nuova terra di missione per il cristiano del ventunesimo secolo.

Completa l’opera una ricca Bibliografia che testimonia ulteriormente, se mai ce ne fosse bisogno, l’importanza di quest’opera che porta seco anche il dono della sintesi.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    27 Febbraio, 2013
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Farcela con la morte

Ho conosciuto il filosofo (detective del quotidiano come si definisce) Fabrice Hadjadj durante l'edizione 2011 del Meeting per l'amicizia tra i popoli di Rimini. In quell'occasione tenne un incontro con a tema il titolo del Meeting (E l'esistenza diventa una immensa certezza) che è tra l'altro possibile rivedere e riascoltare oltre che sul canale YouTube del Meeting di Rimini anche sul mio blog Aldebaran

Hadjadj, certamente noto agli "addetti ai lavori" nonostante la sua giovane età ( è nato a Nanterre nel 1971) merita di essere maggiormente conosciuto perché offre spunti di riflessione sulla vita molto interessanti per l'uomo contemporaneo. E non è una presa in giro. Nel manuale "Farcela con la morte", scritto nel 2005 e vincitore nel 2006 del prestigioso Grand Prix Catholique de littérature, Hadjadj affronta il tema della morte offrendo riflessioni che ci aiutano a vivere la vita senza censurare l'argomento che è di una inevitabile certezza, per tutti.

L'opera è divisa in capitoli che possono essere letti anche separatamente e offrono spunti per riflettere su diverse tematiche che emergono dai titoli dei capitoli stessi: Speranza di vita, La grazia della paura, Sul suicidio e l'eutanasia, Sull'omicidio legale e il terrorismo, La morte di Dio, Il martirio a portata di tutti, In my end is my beginning.

Scrive Hadjadj: " la nostra epoca piena di rumore e di furore è veramente attesa di un liberatore, e questo spiega la facilità con cui un intero popolo si precipita a seguire un tiranno pieno di promesse o l'utopia alla moda".

Ognuno di noi desidera la felicità, ma la nostra morte e la nostra impotenza dimostrano che non riusciamo a procurarcela da soli, dobbiamo sperare che provenga da altro, ma altro non può essere un uomo, limitato e fallibile come noi. La morte pertanto è il termine di paragone con cui dobbiamo, volenti o nolenti, consapevolmente o meno, confrontarci per tutta la vita. La risposta che ci diamo nei confronti di questo limite condiziona tutta l'esistenza. Hadjadj ci offre le sue riflessioni e le sue risposte che trovano nella religione cattolica il proprio fondamento. La morte di Cristo sulla croce è il fulcro della visione cristiana della vita e quindi anche della morte. Non sono pagine mistiche o spirituali quelle che si leggono nel manuale, sono pagine che aiutano a riflettere l'uomo di oggi, immerso in una società che fa dell' eternamente giovane e bello e sano e felice la sua finta colonna sonora. E non manca l'ironia.

Scrive Hadjadj: "D'altronde, come si può imparare a morire? Chamfort riporta l'obiezione di una ragazza: - perché questa frase, imparare a morire? Mi sembra che ci si riesca bene già la prima volta!"

In effetti a noi interessa imparare a vivere bene, non a morire bene.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    10 Febbraio, 2013
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Il bambino senza nome

Il bambino senza nome di Mark Kurzem racconta una storia vera: quella del padre dell'autore, scampato bambino a morte certa e "adottato" da un'unita' militare lettone filo nazista.

Siamo nei primi anni della seconda guerra mondiale in Bielorussia.

Un bambino ebreo di 5 - 6 anni riesce a sfuggire allo sterminio della popolazione ebrea del suo villaggio e dopo diverse peripezie viene catturato da un plotone di soldati lettoni che inspiegabilmente gli salvano la vita.

Solo un militare, il sergente Kulis, conosce la verità ma, pur sapendo di trovarsi di fronte ad un bambino ebreo, lo risparmia. In breve diventa la mascotte del reggimento che seguirà sino alla fine della guerra.

Questo bambino salvato e' il padre dell'autore del libro.

Tutta l'opera narra il percorso di questo bambino, divenuto poi adulto e padre di famiglia. Ad un certo punto egli sente dentro di se' l'urgenza di fare chiarezza nei ricordi di quel bambino e di conoscere la verita' sulle proprie origini. Inizia cosi', aiutato dal figlio, un viaggio a ritroso nel passato remoto della propria vita.

Il racconto si sviluppa su due piani, da un lato la ricerca storica che, con fatica, portera' il padre a ricevere le risposte a buona parte delle domande aperte da decenni. Dall'altra, mano a mano che la ricerca avanza, cresce e si approfondisce il rapporto padre - figlio.

Quale figlio conosce veramente suo padre? Questa e' la domanda provocatoria che inseriamo nel salvadanaio della nostra memoria dopo aver letto il libro.

Un'opera interessante da leggere e far leggere soprattutto alle giovani generazioni che non hanno, per loro fortuna, avuto a che fare con quei tempi cupi e non hanno piu', per loro sfortuna, un nonno o uno zio che possa raccontare loro quel periodo.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    03 Febbraio, 2013
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Il sasso dentro

Il sasso dentro è il primo romanzo di Ivan della Mea, pubblicato per la prima volta nel 1990. Della Mea, nato a Lucca nel 1940 ma milanese d’adozione e di vita vissuta, è personaggio poco noto al grande pubblico.

Chi lo ha conosciuto, probabilmente lo ha apprezzato per la sua attività di cantautore e cantastorie e per essere stato tra i fondatori del Nuovo Canzoniere italiano. E’ stato sicuramente un personaggio impegnato politicamente nel partito comunista italiano, ma credo di poter affermare senza timore di essere smentito che abbia sempre visto e vissuto l’impegno politico non come mezzo per arrivare al potere fine a se stesso, ma come strumento per realizzare il bene comune. E questo modo di concepire la politica lo ha nel tempo relegato ai margini del partito, dei partiti, intesi come “organizzazione”, ma non ai margini delle persone che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, lo hanno sostenuto e seguito nella sua attività culturale e di spettacolo come cantautore.

Certamente Ivan Della Mea era un grande narratore di storie.

Ne Il sasso dentro, il mistero della morte di una giovane donna benestante trovata massacrata in una discarica alla periferia di Milano si intreccia subito con la storia personale di due fratelli, uno poliziotto e l’altro tossico dipendente e spacciatore. Le pagine scorrono veloci con un ritmo narrativo sempre vivace e carico di tensione. Sullo sfondo la Milano di fine anni ’80 con le sue luci (poche) e le sue ombre (tante).
Il filo rosso che percorre tutto il romanzo ad un certo punto si spezza e improvvisamente la storia ha l’epilogo che il lettore inconsciamente si aspetta, ma che forse non avrebbe voluto leggere.
Nonostante alcune pagine a tinte forti, del resto parliamo di un romanzo noir, traspare l’anima poetica dell’autore nelle descrizioni dei luoghi e dei personaggi che vivono il presente, a volte povero e disperato, ma con lo sguardo rivolto al futuro, luogo dell’avvenire, che deve, per forza, essere migliore.

Il sasso dentro l’abbiamo tutti, piccolo o grande che sia, nascosto o sul comodino. Questo forse era il messaggio di Ivan Della Mea, personaggio poco noto al grande pubblico. Siamo sempre in tempo a rimediare.

Ivan Della Mea muore inaspettatamente a Milano il 14 giugno 2009. Su YouTube è possibile trovare ampia offerta di filmati e di canzoni cantate dall’autore e merita di essere visto il filmato girato il giorno della sua commemorazione funebre al circolo ARCI del Corvetto ([ ... ]) . Ivan non mancherà di accompagnarci con la sua chitarra…
Buona lettura.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    20 Gennaio, 2013
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Le favole di ieri cresceranno ma non moriranno mai

Ci sono tutti gli amori della sua giovane vita nel primo romanzo di Matteo Pianforini, Le favole di ieri cresceranno ma non moriranno mai, edito da Neftasia editore: la sua terra d’origine, Torrechiara ad una manciata di chilometri a sud di Parma, il suo gruppo rock preferito, i magici Queen; l’amore per il vino e il suo mondo e i suoi amici di sempre con i quali ha condiviso tutte le esperienze della gioventù.

Un romanzo semplice, una storia della provincia italiana dei nostri giorni che Pianforini ci propone come ricetta, come modello per cercare di vivere con più semplicità la nostra esistenza.

Non che il giovane protagonista, Beppe, non attraversi i suoi problemi e le sue preoccupazioni per raggiungere l’obiettivo che si era prefissato, diventare produttore di un vino unico, speciale, non comune, un moscato rosato mai prodotto sino ad ora nella sua terra, ma solo in Trentino. Beppe lascia per questo sogno un posto fisso pubblico e contro il parere dei suoi genitori, all’inizio dubbiosi, ma con l’aiuto dell’amico Ovidio, si lancia nell’avventura riuscendo poco per volta con il suo entusiasmo a coinvolgere tutti, genitori e compagni di viaggio.

Il sottofondo musicale, presente in quasi ogni pagina del romanzo e che accompagna tutti i momenti, quelli belli e quelli brutti della vita di Beppe, è assicurato dalle canzoni dei Queen che evidentemente l’autore dimostra di conoscere ed amare tanto quanto il protagonista del libro.
C’è anche l’amore, quello verso una coetanea, Sonia, che si inserisce, con alterne fortune, nelle pagine del romanzo. La fine della storia la lasciamo scoprire al lettore…

Un romanzo fresco, che sprizza sapore di gioventù da tutte le pagine, scritto bene da un autore alla sua prima esperienza come scrittore che offre un’immagine positiva dei giovani di oggi, un po’ diversa forse da quello che sono i luoghi comuni e il pensiero di qualche Ministro o ex Ministro…

Da non lasciarselo sfuggire.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    09 Gennaio, 2013
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La congiura delle torri

Questa estate mi sono imbattuto sui banchi di una libreria ne La congiura delle torri, romanzo storico e opera prima del giovane scrittore, insegnante di professione, Francesco Fadigati.
Romanzo storico e ambientazione medievale: questo binomio da solo rischia di produrre nei più l’idea di un’opera di difficile e lenta lettura (per usare un eufemismo). E, come spesso accade, i più si sbaglierebbero.

Viene narrata la vita di un giovane orfano, Folco dei Lamberti che dalla campagna si reca a Bergamo per tentare la sorte e cercare di diventare milite e poi, a Dio piacendo, cavaliere. Siamo nel anno domini 1133 e Bergamo è dilaniata da una guerra intestina tra opposte nobili famiglie bergamasche per ragioni di potere ed interessi economici (il tempo sembra essere trascorso invano per il cuore dell’uomo). Folco trova a Bergamo molto più di quello che si aspettava, scopre la sua vocazione. Trova un gruppo di amici con cui cresce e matura, sperimenta l’amore , cortese, con Madonna Adeleita, promessa sposa ad un nobile pari grado. Incontra Belfiore, giovane donna di origini similari e misteriose e se ne innamora ma, il giuramento prestato al Capitano Mangano e insieme a lui al Vescovo Gregorio, gli impediscono di proseguire il corteggiamento.

Romanzo storico, ricco di storie, di azioni, di amore e di sangue, di lotte intestine. Insieme a Folco, che trova poco per volta la ragione per cui spendere la sua vita, l’altro protagonista del romanzo è il Vescovo Gregorio, abate di un piccolo monastero che viene chiamato dai nobili bergamaschi delle opposte fazioni a diventare Vescovo della città credendo che fosse facilmente “gestibile” in quanto interessato più alla vita monastica e alla preghiera e meno al potere temporale. I nobili si dovranno ricredere.

Leggere il romanzo, scritto con vena poetica inaspettata per un romanzo storico è ritrovarsi immersi nella realtà medievale e vedere, respirare, ascoltare il mondo con gli occhi di una persona di novecento anni fa. Non ci sono giudizi preconcetti sul periodo storico, piuttosto dalla narrazione traspare, emerge sempre il rapporto vero, immediato, reale tra i protagonisti che diventa rapporto con l’esperienza personale del lettore. Abbiamo di fronte una bella storia da leggere e da “vivere” con gli occhi di Folco dei Lamberti, giovane milite del XII secolo. A me è piaciuta.

Dopo Alessandro D’Avenia, un altro giovane insegnante, Francesco Fadigati si presenta nel panorama italiano dei giovani scrittori con le carte in regola per lasciare il proprio segno sulla lavagna.

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Religione e spiritualità
 
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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    07 Gennaio, 2013
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Il profumo dei limoni

Scorrendo i titoli dei libri in vendita tra gli scaffali di una libreria, mi sono imbattuto, per caso (?) nell'interessante volume di Jonah Lynch, il profumo dei limoni , sottotitolo: tecnologia e rapporti umani nell'era di Facebook.
Chi è Lynch? E' un giovane sacerdote, nato nel 1978, dopo essersi laureato in Fisica alla McGill University di Montréal, entra in seminario. Ha studiato filosofia e teologia all'Università Lateranense. E' sacerdote dal 2006. A Lynch, sin da piccolo deve essere sempre piaciuto il profumo dei limoni, ma cosa c'entrano i limoni con la tecnologia, si chiede l'autore? Leggiamo: 'Un limone colto dall'albero ha la scorza ruvida. Più curato è l'albero, più ruvida è la scorza. Se la si schiaccia un poco ne esce un olio profumato e d'improvviso la superficie diventa liscia. E poi c'è quel succo asprigno, così buono sulla cotoletta e con le ostriche, nei drink estivi e nel tè caldo. Tatto, olfatto e gusto. Tre dei cinque sensi non possono essere trasmessi attraverso la tecnologia. Tre quinti della realtà, il sessanta per cento. Questo libro è un invito a farci caso'.
Lynch innanzi tutto sente l'urgenza di affrontare questi argomenti ora, prima che scompaia l'esperienza diretta del mondo prima di Internet. Non si tratta di essere critici per forza verso le nuove tecnologie o di sostenerle a spada tratta dicendone solo bene, non è questo che Lynch si pone. Lynch semplicemente sostiene che i nativi digitali, quelli nati nell'era di Internet, non potranno essere maestri di se stessi.
L'autore vuole offrire il punto di vista di un cristiano. Che differenza c'è tra una risata fatta in compagnia o attraverso una chat? Perché negli USA le ragazze adolescenti inviano (in media) 4050 sms al mese e i ragazzi solo 2539? Che tipo di comunicazione può avvenire nei 160 caratteri ammessi da Twitter? Che cosa ne rimane fuori?
Per capire fino in fondo quest'opera occorre però aver preso coscienza dei problemi prima sollevati. Lynch ha compreso l'esistenza del problema quando gli è stato chiesto di curare gli alberi da frutto del giardino del seminario. Scrive: 'mi sono accorto che avevo una premura irragionevole: volevo che le piante crescessero più in fretta, facessero albicocche a novembre e limoni a maggio'. A qualcuno viene in mente qualche 'gioco' o 'attività' on line offerta da qualche social network?
Siamo tutti diventati vittime, il più delle volte inconsapevoli, di questa mentalità efficientista, dove solo il risultato conta. Ma per il risultato, insegnano le piante, ci vuole tempo.
Lynch chiude con questa interessante riflessione: 'mi sembra altamente significativo che per incarnarsi Dio abbia scelto un momento della storia in cui non esistevano le comunicazioni di massa. E per di più, non ha scritto nulla. Ha voluto affidare l'intero futuro della Sua Chiesa alla testimonianza da persona a persona. Non si è sottratto al rischio della mediazione, al fatto che il suo messaggio dovesse passare per bocca altrui'. E questo, sicuramente non è un caso.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    02 Gennaio, 2013
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La tela dell'eretico

Fabrizio Carcano raddoppia: dopo “Gli angeli di Lucifero” pubblicato nel 2011, è uscito da pochi mesi nelle librerie il secondo romanzo “La tela dell’eretico” edito sempre da Mursia.

Il lettore ormai affezionato a questo ancor giovane scrittore, nato nel 1973, ritrova in quest’opera tutti gli ingredienti che caratterizzano il suo mondo narrativo. Innanzitutto la trama è quella di un giallo ambientato nella Milano contemporanea dove nel giro di qualche giorno una serie di omicidi apparentemente non collegati tra di loro irrompono nella vita del Vice Questore nonché Capo della Squadra Omicidi di Milano, Bruno Ardigò.

Quasi senza accorgersene però, il lettore viene accompagnato dall’ autore in una Milano di cinquecento anni prima, nella Milano leonardesca di fine Quattrocento. Gli omicidi infatti sembrano collegati ad una misteriosa setta segreta che si rifaceva al movimento religioso dei Catari, ancora presenti in Italia a fine Quattrocento a cui sembra che anche Leonardo da Vinci avesse segretamente aderito, movimento però considerato eretico dalla Chiesa cattolica.

E qui troviamo il secondo tema caro a Fabrizio Carcano: quel mix di storia tardo medievale – rinascimentale velata da richiami esoterici e misteriose confraternite che erano di moda in quei tempi e che portano il lettore di oggi a fantasticare di chissà quali misteri ancora irrisolti. Per tutto il romanzo il lettore è dondolato tra la Milano del 2011 e la Milano di Leonardo e del suo cenacolo.

Terza costante dell’autore: Milano. Milano è raccontata nei minimi particolari tanto che sembra di avere sullo sfondo , leggendo il romanzo, la piantina di un Tom Tom. L’amore di Carcano per Milano trasuda da ogni pagina del romanzo, spesso per bocca dei due protagonisti , Ardigò e Malerba, altre volte lo si intuisce dalle minuziose ricostruzioni storiche di zone o quartieri milanesi poste all’inizio di un capitolo o di un paragrafo.

Ad aiutare il Commissario Ardigò in questi pellegrinaggi interviene l’amico / rivale di sempre, il giornalista Federico Malerba, compagno di studi e di avventure del Commissario. Malerba imbastisce, con l’aiuto di una figlia di una delle vittime, una sua indagine parallela ed alla fine della storia i due amici scopriranno di essere stati entrambi vicini alla soluzione del caso sin dall’inizio.

Dopo la lettura di questo secondo romanzo, non possiamo non confermare il nostro plauso a questo scrittore che di professione fa il giornalista e invitarlo a proseguire su questa strada. Francamente ci aspettiamo anche di poterci recare al cinema tra qualche mese per poter seguire le vicende di Ardigò e Malerba sul grande schermo. I due romanzi di Carcano, questo e il precedente, sembrano infatti già pronti per la sceneggiature di un film che a nostro giudizio avrebbe grande successo non solo in Italia perché il respiro di queste opere è un respiro universale.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    01 Gennaio, 2013
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Se ti abbraccio non aver paura

Mi piace la teoria di Barnard, il medico di famiglia, con cui l''autore inizia il diario di viaggio di Franco e Andrea: ' "Funziona che la vita sta tutta sotto una grande curva a campana, con al centro disturbi comuni e ai lati stravaganze d'ogni sorta. La vita è diluita nel mezzo e troppo densa ai lati"'. Questo diario racconta la densità delle vite di Andrea, ragazzo autistico dall'età di tre anni e di suo papà Franco il quale nel 2010 parte con Andrea per un viaggio apparentemente senza meta che li porterà ad attraversare i due continenti americani. Dal racconto di quei giorni, l'autore, Fulvio Ervas ha scritto: 'Se ti abbraccio non aver paura'.

E'' un libro che mette a nudo il tuo essere lettore - spettatore che pensi, leggendo di Andrea e Franco, per fortuna che i miei figli non sono nati autistici. Però leggendolo, mi viene da pensare che forse mi sono perso qualcosa. Non è il fatto che io personalmente non ho mai compiuto un viaggio avventuroso come quello che hanno vissuto Franco e Andrea. E' che forse il rapporto con i miei figli non ha mai raggiunto un livello di ascolto reciproco, di densità relazionale come quello che percepisco esserci tra Franco e Andrea.

Certo non è facile mantenere costantemente, per tutta la vita, questa attenzione. E' un lavoro sovrumano, che va oltre le forze fisiche di cui dispongono un uomo e una donna, un padre e una madre. Nel diario papà Franco ad un certo punto lo dice chiaramente: 'Impreco, ma lo amo. Non so di cosa sia fatto questo amore. Credo che nessun genitore possa rispondere facilmente a questa domanda'. Un figlio autistico, in questo senso, è una grande occasione per andare all'origine di questo amore. Certo, potendo, un genitore ne avrebbe preferita un'altra di occasione, ma qui si ritorna alla teoria di Barnard, sulla densità ecc. ecc.

Da quando ho terminato di leggere il diario penso ad Andrea ed a suo papà Franco come compagni di viaggio in questa vita e li vedo uniti dall'elastico dell'amore che ogni giorno si tende al massimo, ma non si spezza mai. Come penso spesso al mio amico Ugo e alla sua famiglia, la moglie Silvia e i suoi due figli Riccardo di 5 e Letizia di 3 anni. Ugo da tre anni vive in compagnia della SLA e da un anno mi parla solo muovendo le pupille sullo schermo di un computer che poi traduce con voce metallica il suo pensiero. Tutto il resto del corpo di Ugo è immobile su una sedia a rotelle. Si, decisamente anche la vita di Ugo è molto densa' eppure quando vado a trovarlo e gli chiedo come stai, mi risponde: 'a parte la SLA, benissimo'!

Non si conoscono le ragioni della SLA come le cause dell'autismo, ma del resto di quante cose non si conoscono le ragioni eppure accadono? E' la vita che le fa accadere, ma non a caso. C'è sempre una ragione perché le cose accadono. Bisogna vivere la quotidianità di ogni giorno chiedendo di avere sempre un compagno di viaggio che ti faccia compagnia e ti aiuti a comprendere queste ragioni. Franco intuisce forse ad un certo punto del cammino questo fattore e infatti ammette: '"cercando di portare Andrea nel mio mondo, forse sono solo riuscito a fare un piccolo passo nel suo''"...

Come scrive S. Paolo nella prima Lettera ai Corinzi, Dio non manda mai prove (tentazioni per San Paolo) che non siamo in grado di sopportare. Non siamo mai lasciati soli, basta guardarsi intorno, basta riprendere in mano i ricordi di Franco e Andrea. Consiglio veramente a tutti la lettura di questo libro, dai quindici ai cent'anni, perché non è mai tardi per leggere queste pagine e cercare d'imparare ad amare l'altro, il diverso da te, tuo figlio.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    31 Dicembre, 2012
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Non odierò

Nell’opera l’autore si racconta. Izzeldin Abuelaish è un medico, specializzato in ginecologia. Si è laureato in medicina all’Università del Cairo e successivamente ha lavorato in ospedali e seguito corsi di specializzazione in Arabia Saudita, Italia, Belgio, Stati Uniti, Afganistan, Israele. La sua specializzazione è nello studio dei casi di infertilità delle coppie. Che abbia lavorato in Israele è veramente un evento speciale, perché il Dr. Abuelaish è uno dei pochissimi palestinesi tutt’ora ammessi a lavorare in un ospedale israeliano.
L’autore è nato infatti nel 1955 a Gaza, dove la sua famiglia si era rifugiata dal 1948 quando i soldati israeliani avevano confiscato tutte le terre e i possedimenti degli Abuelaish nel paese di origine, Houg, vicino a Sderot, nella parte meridionale di Israele. Nel libro il medico racconta per filo e per segno i molteplici episodi della sua infanzia, fatta solo di miseria e assenza di beni materiali ma ricca di amore da parte dei suoi genitori e dei suoi tanti fratelli.
Grazie ad una forza di volontà non comune, sostenuta da una sincera fede in Dio e nella bontà dell’animo umano, Abuelaish con fatiche inimmaginabili per i nostri figli, riesce a diplomarsi e ad ottenere una borsa di studio per frequentare la facoltà di medicina al Cairo. Il sogno della sua gioventù si sta avverando.
Sullo sfondo del racconto ci sono oltre quarant’anni di conflitto medio orientale e la storia di un popolo, quello palestinese, di fatto abbandonato ad un destino che sembra non interessare a nessuno.
Dopo la laurea in medicina, l’autore inizia un percorso fortunato di carriera che lo porta a lavorare in diverse parti del mondo. A casa, a Gaza, rimane sempre la moglie Nadia che nel tempo arricchisce la famiglia con otto figli.
Il desiderio di Abuelaish è duplice: da un lato quello di migliorare le condizioni sanitarie del popolo palestinese che a Gaza vive in condizioni igienico sanitarie disperate. Dall’altro cercare tramite la medicina e la scienza di tendere un ponte con l’altra parte, gli israeliani, soprattutto medici e uomini di cultura che Abuelaish ha nel tempo conosciuto e apprezzato ricevendone stima reciproca.
Tutto sembrava andare nella giusta direzione anche se vivere a Gaza rimaneva molto difficoltoso soprattutto per la sua famiglia sino a quando nel giro di pochi mesi accadono due eventi che segnano la vita dell’autore: il 16 settembre 2008 muore di leucemia fulminante la moglie Nadia. Infine il 16 gennaio 2009, in pieno attacco Israeliano – operazione Piombo Fuso – un carro armato israeliano spara per errore un colpo di cannone contro la casa del medico uccidendo contemporaneamente le prime tre figlie oltre ad una nipotina. Altri figli e familiari rimasero gravemente feriti. Abuelaish praticamente non venne colpito neanche da una scheggia. Perché? Si chiede da allora l’autore a me niente e alle mie figlie la morte?
Dopo quell’episodio Abuelaish scrisse il libro: Non odierò. Cito a pag. 218: “La vendetta, una malattia endemica in Medio Oriente, non me le restituirà (le figlie, n.d.r.). E’ importante provare rabbia dopo eventi del genere, rabbia che segnala che non accetti quello che è accaduto, che ti incita a fare la differenza. Ma bisogna stare attenti a non cadere nell’odio. Il desiderio di vendetta e di inimicizia servono solo ad allontanare il buon senso, accrescere sofferenze e prolungare il conflitto. “ E verso la fine del libro ancora l’autore: “Ho perso tre splendide figlie ma ho la fortuna di avere altri cinque figli e possiedo il futuro. Credo che Einstein avesse ragione quando diceva che la vita è come andare in bicicletta: per restare in equilibrio bisogna continuare a pedalare. Io continuerò a pedalare ma ho bisogno che voi vi uniate a me in questo lungo viaggio.”
Non conoscevo la storia del Dr. Abuelaish, ma quando l’ho ascoltato raccontarla di persona e poi ho visto su YouTube i video dell’attentato alle figlie, sono rimasto veramente commosso dall’ umanità di quest’uomo che merita di essere conosciuto in tutto il mondo. Il libro vale una lettura attenta e meditata e sicuramente ci aiuterà a meglio comprendere il mondo nel quale viviamo.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    27 Dicembre, 2011
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Una nuova coppia di sbirri

In queste sere d’inverno ho terminato di leggere Gli Angeli di Lucifero, opera prima di Fabrizio Carcano.
Il topos del romanzo è la Milano di oggi che l’autore dimostra di conoscere molto bene e che descrive con sapienza e particolarità nei suoi aspetti architettonici tanto da indurre il milanese doc a fare un sopraluogo nella tal via o nella tal piazza perché proprio quel particolare non l’aveva mai notato! Ma non solo: nel romanzo si respira anche la Milano frenetica che pensa come prima cosa al lavoro, attraverso le professioni delle prime tre vittime, un pubblicitario, un immobiliarista trafficone ed un medico e si apre uno squarcio su tre diversi mondi milanesi che vengono descritti ciascuno con i propri chiaroscuri e i propri rituali.
Giorno dopo giorno, dal 7 giugno all’8 luglio 2009, l’autore racconta la storia di un’indagine molto complessa e senza un apparente movente, condotta dal Vice Questore e Capo della Mobile di Milano, Bruno Ardigò. I tre iniziali efferati omicidi sono ricondotti nell’ambito delle sette esoteriche e sataniche e grazie anche al secondo eroe che appare da subito nella storia, il giornalista amico di Ardigò, Federico Malerba, le indagini proseguono tra mille difficoltà e arrivano alla fine a far luce non solo sugli omicidi di oggi, che nel frattempo sono diventati cinque, ma anche a svelare i retroscena, i mandanti e i colpevoli di casi di omicidi rimasti irrisolti negli anni settanta e novanta.
La lettura del romanzo, composto da 718 pagine, scorre rapida e veloce. Il lettore è avvolto e precipitato sempre più nella trama che ha come sfondo il mondo delle sette sataniche. Il tema del satanismo tuttavia non disturba la lettura ed è sempre trattato unicamente in funzione allo sviluppo dell’intreccio e all’utilità delle indagini.
Il Capo della Mobile Ardigò e il giornalista Malerba formano una coppia ben riuscita di investigatori, ciascuno con il proprio carattere e temperamento e ciascuno nel rispetto del proprio ruolo istituzionale, contribuiscono allo sviluppo nitido e pulito della storia, ricca di colpi di scena.
I due uomini sotto certi aspetti ricordano un’altra coppia di investigatori resi celebri da una serie di telefilm, Ellery Queen: un ispettore di polizia, Richard Queen, e suo figlio, scrittore, collaborando in via non ufficiale risolvevano casi di omicidi nella New York degli anni trenta e quaranta.
Ci piacerebbe che l’autore di questo romanzo pensasse ad un seguito, ad una nuova avventura: il Capo della Mobile Ardigò, aiutato dal compagno di studi Malerba, ancora una volta impegnati in una difficile indagine milanese.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    14 Dicembre, 2011
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Generazione Facebook

Qualche settimana fa una mamma mia amica mi raccontava della figlia quattordicenne che si è profilata su Facebook a sua insaputa (ma poi glielo ha confessato) e di come fosse rimasta “spiazzata” perché non se lo aspettava e la figlia le ha risposto: ma mamma, su Facebook ci sono tutti i miei compagni, se non creavo il mio profilo, rimanevo esclusa dal giro…
Situazioni del genere credo siano capitate a tutti noi genitori di figli adolescenti (e forse anche di peggio).
Dal “vecchio” mondo della carta stampata mi è venuto in aiuto il “manuale” del Prof. Giuseppe Pelosi :”Aiuto! Ho un cyberfiglio!”; più che un manuale, la testimonianza di un professore / genitore che ha visto nascere e crescere la web generation e che cerca ogni giorno di comprenderla per poter continuare a svolgere il proprio compito educativo , cioè far emergere il buono che è sempre presente nei nostri ragazzi anche attraverso l’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione.
Nel libro troviamo il significato di parole come website, blog, social network, podcasting e così via. Ma soprattutto troviamo analizzata, spiegata, studiata e raccontata la rete, internet, quella “selva oscura” in cui i nostri ragazzi possono incamminarsi inconsapevolmente e perdersi, ma che ci ha cambiato la vita senza possibilità di tornare indietro. Il Prof. Pelosi offre interessanti spunti di riflessione sul tema anche grazie al racconto di alcune “situazioni” immaginarie che potrebbero realmente verificarsi nelle nostre famiglie. Il pensiero che prevale tra le pagine della guida è sicuramente a favore dell’utilizzo di questi nuovi strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, ma a noi genitori / educatori rimangono due compiti: primo, conoscere questi nuovi strumenti (perché i nostri figli li conoscono dalla nascita e noi no) e secondo, saper cogliere quei segnali di “dipendenza” da computer, internet, chat e altro che sono segno di un “malessere” interiore dei nostri figli la cui causa va però, secondo Pelosi, cercata altrove … non tutto è colpa di internet e del computer!
Alla fine del libro ci si ritrova sicuramente più preparati ad affrontare i nostri figli che sino ad ora hanno sempre giocato “in casa” l’Internet Champions League (magari sulla PS3) e più consapevoli di quello che le nuove tecnologie possono offrire anche a noi (classe 1966 tanto per intenderci), generazione 0.0 dell’era informatica (io per esempio ho deciso di creare il mio profilo su Facebook…)

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    10 Dicembre, 2011
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Cose che nessuno sa

Siamo onesti: le aspettative sul secondo romanzo del Professor D’Avenia erano alte, dopo il successo straordinario e inaspettato del suo romanzo d’esordio. Ebbene, non siamo stati delusi. Il secondo lavoro, Cose che nessuno sa , è un romanzo di ampio respiro, dove le storie dei protagonisti si intrecciano con le storie personali del lettore e la storia della nostra letteratura, cioè della nostra vita, si diverte con esse. Cose che nessuno sa è un grande romanzo d’amore e quindi di vita e di morte. Amore presente, amore assente, amore perduto, amore mai conosciuto, amore filiale, amore coniugale, amore per la letteratura, amore ideale, amore carnale.
Ognuno dei protagonisti principali compie all’interno della storia il proprio cammino per ritrovarsi alla fine cambiato, migliorato. Margherita, la figlia adolescente, elabora il dolore dell’abbandono del padre grazie all’aiuto inconsapevole del suo Professore di Italiano e Latino, il Professore di Italiano e Latino elabora il suo amore per Stella grazie al dolore di Margherita che gli trasmette, inconsapevole, il coraggio di Telemaco che parte alla ricerca del padre. E poi c’è Giulio, un adolescente in crisi come Margherita: insieme i due compiranno il cammino che porta alla maturità. E poi c’è la madre di Margherita che elabora i motivi della crisi del suo matrimonio e con l’aiuto della nonna Teresa e grazie al sacrificio di Margherita, trova il perdono. E infine c’è nonna Teresa, punto di riferimento per Margherita. Il colpo di scena finale rende la sua figura ancora più speciale, cerniera tra il passato e la vita nuova che attende Margherita.
A differenza di Bianca come il latte e rossa come il sangue, questo secondo romanzo è rivolto più ad un pubblico adulto, i temi trattati sono impegnativi e richiedono per essere elaborati, forse, più esperienza di vita di quella che possiede un adolescente. Stilisticamente, l’uso della lingua siciliana che nonna Teresa porta nel romanzo è qualcosa di veramente bello e ci riporta con la musicalità delle parole ad un tempo che fu, all’arché manifesto.
Chiudo con le ultime parole di D’Avenia, nei ringraziamenti: “Proprio te ringrazio, lettore, che hai accostato l’orecchio a questa storia, come si fa con una conchiglia. E spero che tu abbia provato nel leggerla ciò che ho sentito io nello scriverla: un po’ più di amore per la vita e un po’ più di misericordia per l’uomo”.
Il resto sono cose che nessuno sa.

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    09 Dicembre, 2011
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Il Maritain del XXI secolo

- La terra strada del cielo - è stato scritto da Fabrice Hadjadj nel 2002, pochi anni dopo la sua conversione al cattolicesimo, avvenuta in Francia nel 1998. Il sottotitolo dice: manuale dell’avventuriero dell’esistenza. Il filosofo è nato a Nanterre nel 1971 da genitori ebrei di origini tunisine. Suo padre, diplomatico, ha lavorato per molti anni in Africa dove Hadjadj trascorre la sua gioventù.

Hadjadj ha partecipato alla XXXII edizione del Meeting di Rimini come relatore di un incontro dal titolo: l’inevitabile certezza: riflessione sulla modernità. “La certezza è solidità – ha spiegato Hadjadj – ma non la solidità della pietrificazione bensì quella del nostro cammino”. Ciò che non fa vivere, per il filosofo francese, non è la certezza ma il dubbio. “Se voi non foste certi che io non sia un terrorista norvegese pronto a spararvi – ha esemplificato – non potremmo andare avanti nella nostra riflessione. Lo stesso Aristotele associa il dubbio a ciò che incatena e la certezza a ciò che libera”. Per questo motivo gli scettici, nella vita quotidiana, finiscono per essere sempre conformisti: siccome non c’è alcuna certezza, non cambiano niente.

- La terra strada del cielo - è l’opera fondante il pensiero di Hadjadj. Con essa il filosofo pone le basi della sua riflessione metafisica che parte dalla riscoperta del valore della terra. Cit. :” la crisi dell’ambiente non è un problema di carattere materiale, ma spirituale”. Ripercorrendo il pensiero filosofico degli ultimi secoli, Hadjadj individua tre mali contemporanei, tre “tentazioni” che ci allontanano dalla Verità: manicheismo, panteismo e agnosticismo. Nella seconda parte dell’opera, composta nella traduzione italiana di centoventitre pagine, il filosofo parte dalla terra per arrivare al cielo, la vera terra promessa. Cit.: “Risvegliando in noi il desiderio del Cielo, [la Grazia] rende più profondo il nostro legame con la terra; elevando il nostro spirito verso le cose di lassù, rende più ampio il nostro rapporto con la carne così bassa, ma chiamata alla resurrezione.”

Durante la lezione tenuta al Meeting di Rimini, Hadjadj terminava: “La certezza è apocalittica, non nel senso oggi comune di catastrofica, ma nel suo significato di ‘rivelazione’. Dopo il crollo delle ideologie e oltre le incertezze della post modernità, ci resta un’immensa ed inevitabile certezza di apocalisse, un’esistenza feconda che manifesta la gloria attraverso la croce, che porta una rivelazione fin nel cuore della catastrofe”.

In conclusione: un autore contemporaneo che invito a meglio conoscere e meditare: propone riflessioni profonde, non comuni e che lasciano il segno nella nostra anima sempre assetata di Verità. Che sia il nuovo Maritain?

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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    06 Dicembre, 2011
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Oscar e la dama in rosa

Una preghiera a Dio scritta da un ragazzino di dieci anni negli ultimi dieci giorni di vita.
Grazie alla misteriosa presenza della Dama in rosa, la Madre spirituale che intercede per lui nei confronti della Vita, Oscar vede compiersi il proprio tempo, nonostante la malattia, attraverso la malattia, in dieci giorni.
Oscar, tenuto per mano dalla Dama in rosa, attraversa il mondo dei sentimenti, delle esperienze, della vita, da una camera di ospedale (un giorno uguale a dieci anni) in compagnia dei suoi amici malati, dei suoi genitori disarmati, del medico scienziato che non sa accettare di aver fallito la cura e tutto alla fine trova la giusta collocazione sul palcoscenico dell’esistenza.
Oscar si rivolge a noi genitori, che copriamo di regali i nostri figli anziché donare loro cinque minuti del nostro tempo. Dice Oscar: “Quando mi sono svegliato, ho visto che, naturalmente, mi avevano portato dei regali. Da quando sono ricoverato in permanenza all’ospedale, i miei genitori hanno qualche difficoltà con la conversazione; allora mi portano dei regali e trascorrono dei pomeriggi schifosi a leggere le regole del gioco e le istruzioni per l’uso. Mio padre si accanisce nello studio dei foglietti illustrativi: anche quando sono in turco o in giapponese, non si scoraggia. E’ campione del mondo del pomeriggio domenicale sciupato.”
Oscar si rivolge a Dio, che all’inizio della storia non conosce (i suoi genitori credono a Babbo Natale) e in dieci giorni arriva a scriverGli: “Grazie, Dio, di aver fatto questo per me. Avevo l’impressione che mi prendessi per mano e che mi conducessi nel cuore del mistero a contemplarlo. Grazie. A domani, baci, Oscar”.
Schmitt in fondo scrive all’uomo di oggi, sia esso sano o malato (ma non siamo tutti malati d’infinito?), medico o paziente (ma non siamo tutti bisognosi d’amore?), genitore o figlio (ma non siamo stati tutti figli una volta?) e a quest’uomo vecchio di duemila anni che sembra aver smarrito la propria identità sussurra con la voce di un ragazzino di dieci anni: “Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta, questo regalo: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo. Io che ho cent’anni, so di che cosa parlo.”
E noi lo sappiamo?
Un romanzo da tenere sul comodino per tutta la vita.



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Narrativa per ragazzi
 
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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    05 Dicembre, 2011
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Un nuovo eroe: Vango

Segnalatomi da un amico, ho letto in queste giornate il nuovo romanzo di Timothée de Fombelle, Vango.
de Fombelle è conosciuto in Italia per il romanzo Tobia, un millimetro e mezzo di coraggio che lo ha reso famoso al grande pubblico.
Con questo nuovo romanzo “per ragazzi”, l’autore ci propone un personaggio, Vango appunto, dal passato misterioso e dal presente invischiato in mille situazioni, mille pericoli, mille colpi di scena.
La narrazione è ambientata negli anni tra la fine della prima e l’inizio della seconda Guerra Mondiale e si passa con disinvolta semplicità dalle isole Eolie a Parigi, da Londra ad una dacia della campagna russa e il lettore quasi non si accorge delle migliaia di chilometri che la penna di de Fombelle gli fa percorrere, pagina dopo pagina, con il solo aiuto della fantasia.
Vango in questo peregrinare per mezzo mondo è un ragazzo solo e il mistero della sua nascita non lo abbandonerà mai fino alla fine. Tuttavia diversi sono gli incontri che Vango compie, alcuni con persone che lo sostengono e lo aiutano, altri invece da cui deve fuggire.
La storia è ricca di colpi di scena e il finale giunge inaspettato, non previsto né sperato dal lettore …
Chi è allora Vango? Vango non era un orfano come gli altri. Era l’erede di un mondo inghiottito.
Un romanzo scritto bene, che vola alto, leggero come una piuma e che tiene compagnia piacevolmente sia ad un adolescente che ad un ragazzo di quasi mezzo secolo…


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Lorenzo Roberto Quaglia Opinione inserita da Lorenzo Roberto Quaglia    05 Dicembre, 2011
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Il bambino di Noé

Bruxelles 1942, Joseph, un bambino ebreo di quasi otto anni, viene separato dalla sua famiglia a causa della stupidità degli uomini che pensano di risolvere i conflitti con l’uso della forza.
Le vicende narrate portano il bambino ad incontrare Padre Pons, un sacerdote cattolico che lo ospita, insieme ad altri bambini ebrei, in un collegio e così facendo gli salva la vita.
In questi due anni trascorsi con Padre Pons e gli altri ospiti del collegio, Joseph si apre alla vita e al mondo e mentre oltre le mura del parco che circonda il collegio sembra che la Terra tutta sprofondi nel baratro, il mondo di Joseph prende forma, tassello dopo tassello. Joseph prende coscienza di sè, di cosa significhi avere un amico, ma anche cosa siano la paura, il terrore e la disperazione.
Ma più di tutto, Joseph, attraverso l’amicizia con Padre Pons, intuisce la grandezza di Dio, cosa vuol dire essere ebreo ed essere cristiano, intuisce il valore della parola libertà. Dice Padre Pons al ragazzo che voleva convertirsi al cristianesimo: “Oggi come oggi è essenziale che tu accetti di essere ebreo. E’ una cosa che non ha niente a che vedere con la convinzione religiosa. In seguito, se continui a volerlo, potrai diventare un ebreo convertito”.
L’incontro finale con i genitori ritrovati riporta Joseph sulla terra e lo introduce nel mondo degli adulti. L’età della fanciullezza è alle spalle, ma Padre Pons lo accompagnerà sempre nel cammino della vita sino alla morte e gli passerà, con dolcezza e senza imposizioni, il testimone.
Un’opera da leggere per meglio comprendere quanto bene l’uomo può fare nel mondo rispettando e amando di più il proprio vicino di casa, in qualsiasi Paese quella casa abbia le fondamenta.

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