Opinione scritta da Cristina72
229 risultati - visualizzati 1 - 50 | 1 2 3 4 5 |
I clown dal cuore spezzato
Romanzo spiazzante, dissacrante, politicamente scorretto, che si odia o si ama, ma che non lascia spazio per l’indifferenza. Prende già dalle prime pagine per l’ironia tagliente e i personaggi disagiati che popolano una squallida festa di nozze.
Tra simbolismi e ammiccamenti, l'autore alterna abilmente commedia, tragedia, farsa, esplorando i chiaroscuri del grottesco. Si parla di carne, e sarà carne stillante sangue senza misericordia, nonché lacrime e umori di ogni genere. Il dramma arriva di soppiatto, interrompendo, in una galleria (in realtà un po' affollata) di figure decadenti, una colonna sonora da operetta.
Si ride, sia per il linguaggio forbito alternato al triviale, asservito, si direbbe, alla descrizione di manie e perversioni, sia per le presunte competenze artistiche, filosofiche e psicoanalitiche sfoggiate dagli sgangherati protagonisti e messe inevitabilmente alla berlina. La prosa scorre animata e beffarda, e in ogni pagina si avverte l'urgenza del resoconto dettagliato, quasi si trattasse di una visione da rivelare - segno inequivocabile di una scrittura di qualità.
Non è sempre una lettura gradevole: a volte risulta urticante, scandalosa, persino oltraggiosa; è l'esistenza senza filtri, una melma del subcosciente che arriva a toccare la follia. E nella follia, si sa, non c'è logica, c'è solo verità. E' l'esaltazione smodata dei sensi o forse - parafrasando le parole del vescovo del borgo - “l'allegoria di un castigo biblico abbattutosi su una nuova Gomorra”?
Leggendo ci si sente, ad ogni modo, più inclini ad osservare che ad esprimere giudizi, un po' spettatori, un po' voyeur, e viene in mente un passo dal De Profundis di Oscar Wilde: "Tutto nella mia tragedia è stato orribile, mediocre, repellente, senza stile. Il nostro stesso abito ci rende grotteschi. Noi siamo i pagliacci del dolore. Siamo i clown dal cuore spezzato".
Indicazioni utili
Noir imperfetto
“In seguito Nicolas cercò a lungo, ancora oggi cerca, di ricordarsi le ultime parole che gli aveva rivolto suo padre”.
Incipit impeccabile per un romanzo che, sebbene definito “il più perfetto” di Carrère, a mio avviso è ben lungi dall’esserlo, sia per più di un’incongruenza e inverosimiglianza, sia perché lo svolgersi dei fatti non si rivela all’altezza delle aspettative.
Se è vero che la trama non perde mai quota, mantenendo abbastanza vivo l’interesse del lettore, non mancano però momenti noiosetti, quando ci si sofferma un po’ troppo su sogni, incubi e fantasie del bambino protagonista, a suon di periodi ipotetici tirati per le lunghe.
E poi, c’è l’elemento non poco disturbante di una sessualità infantile sviscerata nei suoi aspetti fisiologici e psicologici (un sogno innocente ma farcito di evidenti connotati erotici, svariati riferimenti al membro maschile), tanto che viene più volte da chiedersi se certi dettagli siano davvero così necessari.
Viene spontaneo il paragone con “Io non ho paura”: anche lì un bambino “tradito” dalle figure di accudimento, anche lì personaggi delineati a tutto tondo, ma la grazia del romanzo di Ammaniti latita in questo, se si escludono le ultime, struggenti pagine.
Un noir discreto, tutto sommato, a tratti emozionante, ma niente di più.
Indicazioni utili
I sogni di Rose
Quando si legge la Munro il pensiero va a tratti al romanzo sentimentale, al genere scritto “da una donna per le donne”. Un attimo dopo, però, ci si rende conto che si tratta di un giudizio ingeneroso, perché nei libri della scrittrice canadese c’è molto di più: c’è, innanzitutto, una schiettezza che non fa sconti, una capacità introspettiva quasi spudorata. E poi personaggi vivi, tratteggiati con indubbia abilità.
Rose, la protagonista, figura piuttosto sfuggente, ha molto dell’antieroina: vagamente irritante nel suo egoismo un po’ ipocrita (“perché la tenerezza delle donne è avida, la loro sensualità infida”), simpatica quando si rivela una perdente senza più illusioni antipatica a se stessa.
Si prendono sempre le distanze da personaggi del genere (dov’è il riscatto sociale che ci si aspetterebbe da una prima della classe? come si fa a tradire una persona cara?), salvo poi riconoscervi qualcosa che appartiene a tutti, il bisogno di approvazione, la costante e inconfessabile paura di fallire, il fallimento in sé: “Una pena priva di onore. Orgoglio offeso e sogni beffati”.
Di sogni, in effetti, Rose non ne ha mai avuti tanti se non a breve termine, cercando di adattare, per debolezza e forse un pizzico di opportunismo, le proprie ambizioni a circostanze non proprio esaltanti.
Sulla strada sdrucciolevole del compromesso sembra scivolare anche l’amore, mai del tutto appagante, aleatorio e troppo simile all’autoinganno: “…pensò a quanto l'amore allontani il mondo da noi, quando è felice non meno di quando non lo è”.
C’è qualcosa di incompiuto nella vita interiore di Rose non meno che nella sua esistenza, qualcosa di monco, ali tarpate che stentano a prendere il volo. Si intuisce, nell’ultima pagina, uno struggimento che riporta agli inizi, il desiderio di riprovarci.
“Chi ti credi di essere?”… Forse, sarebbe bastato il coraggio di essere se stessi.
Indicazioni utili
Il battito della vita
"Il sentimento della noia nasce in me da quello dell'assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza".
Si tratta di uno di quei romanzi che, come si suol dire, lasciano il segno, non tanto per la trama in sé quanto per il modo in cui si dipana: mordace, disincantato, a tratti farsesco.
E’ la storia di un amore tossico che trova terreno fertile in un animo refrattario a tutto ciò che può dare significato alla vita: quello di Dino, rampollo, suo malgrado, di una famiglia aristocratica romana.
Viene in mente “Un amore” di Dino Buzzati, pubblicato qualche anno dopo (curioso che il protagonista abbia lo stesso nome), per il lento scivolare in una dipendenza amorosa le cui insidie, all’inizio, si celano dietro un insignificante incontro sessuale.
E poi l’esistenzialismo di Sartre (“la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza”), e ovviamente Proust, che di amanti ambigue e sfuggenti scrisse a profusione.
Nel romanzo di Moravia troviamo la Roma dei salotti bene del dopoguerra, tratteggiata, si direbbe, con poche, sprezzanti pennellate, tanto che l’oggetto d’amore del protagonista, Cecilia, ragazza di umili origini dalla sessualità precoce e un po’ perversa, vi spicca per contrasto con una certa innocenza. Paradosso, questo, che sta alla base della passione di Dino, visto il suo rifiuto per il mondo opulento e frivolo a cui appartiene.
Cecilia, verace e vorace in una sua maniera quieta e indifferente, prende la vita come Dino non è capace di fare: con un distacco che non le impedisce di goderne appieno.
Il climax del romanzo sta tutto in questo contrasto, che si risolverà con un gesto estremo e necessario: cozzare contro la vita per risentirne, con sollievo, il battito.
Indicazioni utili
Il suono delle campane
Chi abbia ancora dubbi sulla maestria di Simenon non ha che da leggere questo romanzo, un viaggio intorno alla camera privata d’ospedale e ai pensieri di René Maugras, direttore responsabile di un importante quotidiano di Parigi, cinquantenne di umili origini ma ormai parte integrante del bel mondo.
Un colpo apoplettico paralizza metà del suo corpo inchiodandolo a un letto, in balìa di medici e infermieri. Situazione drammatica, si direbbe, non per Maugras però, che da quel letto inaspettatamente confortevole osserva la vita degli altri e la sua stessa esistenza da una prospettiva nuova, mentre ciò che prima aveva importanza non lo interessa più.
Lo interessa, piuttosto, rispondere ad alcuni interrogativi che i ritmi frenetici di prima non gli permettevano di ponderare, trovare il bandolo della matassa, il senso di qualcosa, ammesso che un senso qualcosa ce l’abbia (eccolo, forse, il punto).
La mezz’ora che passa da solo, “tendendo l'orecchio al suono delle campane e ai rumori dell'ospedale”, è il momento saliente della giornata, tra flashback e pensieri che si srotolano uno dopo l’altro senza connessione apparente. Ripercorre la sua vita, il rapporto fallimentare con la figlia e con la seconda moglie (“il disagio si manifestava con silenzi, o frasi banali così estranee ai loro rovelli da risultare più penose dell’assenza di parole”), il successo che è riuscito a raggiungere in campo giornalistico pur non possedendo un particolare talento per la scrittura, la sua sostanziale solitudine.
Sembra una sorta di catarsi, una rinuncia a tutto ciò che da necessario è diventato trascurabile, un attaccamento alla vita più teorico che reale, tanto è forte, per un po’, il senso di disincanto.
Il finale, sia pure precipitoso, è spiazzante, prevedibile e, come l’intero romanzo, vagamente beffardo.
Indicazioni utili
Poche miglia a sud di Soledad
Il contrasto tra la semplicità della trama, per molti versi prevedibile, e il modo in cui i fatti vengono raccontati, con una prosa asciutta e a tratti poetica (la traduzione di Cesare Pavese avrà forse dato il suo contributo) rende questo breve romanzo degno di essere letto.
E' l'unione di due solitudini, agli antipodi per temperamento e apparenza fisica ma legati da un affetto fraterno.
L'istinto di protezione di George nei confronti di Lennie, grande e grosso, con un ritardo mentale, finisce per apparire insensato di fronte a una società inaridita da una crisi economica che ha infranto i sogni di tutti.
Non quelli di George e Lennie però, emarginati sì, ma fieri di esserlo, mentre si tengono strette le loro ingenue ambizioni:
“Per noi è diverso. Noi abbiamo un avvenire. Noi abbiamo qualcuno a cui parlare, a cui importa qualcosa di noi”.
Un refrain pittoresco, il racconto delle loro fantasticherie, il miraggio di un posto in cui poter finalmente porre fine al vagabondaggio per vivere del “grasso della terra”.
Ma per gente come loro la terra è arida in California, poche miglia a sud di Soledad, almeno quanto il cuore degli uomini. Quanto vale una vita laggiù? Più o meno quanto quella di un topo, se non si riesce a cavarne qualcosa.
Il romanzo parla di amicizia e tradimento, di sentimenti puri calpestati, della necessità di dimostrarsi uomini, forse, ma non più esseri umani.
Struggente, il finale, con rapide successioni di immagini e parole degne della migliore arte cinematografica:
“Dimmi come sarà un giorno”.
Indicazioni utili
Vera ma non troppo
Liberamente tratto da una storia vera, questo romanzo non raggiunge mai del tutto l'obiettivo, che è - in maniera fin troppo evidente - quello di emozionare il lettore.
L'abbondanza di luoghi comuni e di sentimentalismi non aiuta: una generazione di donne irrisolte, le colpe delle madri che ricadono sulle figlie, un amore tanto eterno quanto non corrisposto (ma forse sì), una figura matriarcale, Vera, che troneggia coriacea e benevola su tutti.
Quest'ultima, in particolare, si osserva senza particolare trasporto, malgrado lo scrittore ce la metta tutta per farla entrare nelle grazie del lettore, fino a diventare irritante.
Le parti più interessanti sono quelle scritte in corsivo: spoglie (finalmente) di qualsiasi patetismo, ci raccontano la terribile realtà dei gulag nella Jugoslavia di Tito.
Lasciare più spazio alla forza dei fatti e meno a fritte e rifritte considerazioni su traumi infantili e drammi esistenziali avrebbe di sicuro giovato, tanto più che pagine più riuscite non mancano e certi personaggi, a tratti, riescono a diventare veri anche sulla pagina, oltre che in una realtà da cui pare che Grossman abbia tratto ispirazione:
“Quella sua strana, indefinibile peculiarità. E' come se fosse qui e non ci fosse. La vediamo, ma al tempo stesso ci portiamo dentro il ricordo di lei”.
Indicazioni utili
- sì
- no
Buio e oro
A chi può interessare la vita di un cretino?
Di sicuro, quella di Carmelo Hayez, ventinovenne cagliaritano, ribattezzato a torto o a ragione “Cretinhayez” dai suoi concittadini, attira subito l’attenzione di chi si appresta a leggerla.
L' ironia, che già dalle prime battute trasforma in farsa una serie di drammi, ne alleggerisce la portata e dà una marcia in più ad una prosa schietta ed efficace.
Quella di Carmelo è l’esistenza di un giovane depresso e sovrappeso, carico, si direbbe, di promesse non mantenute: calciatore fallito, eterno laureando, cinefilo con vaghe ambizioni di regista e sceneggiatore.
Tra echi kafkiani e camusiani (la sua stanza, gabbia-rifugio, la città invasa da topi, scarafaggi e virus intestinali), Hayez si muove in un ambiente familiare claustrofobico e condiscendente, costellato di buone intenzioni e miseri risultati. Una miseria, la sua, che pulsa di energia andata a male, di sensualità che degenera in dipendenza - dalla pornografia prima, dall’eroina poi - in balìa di “pensieri circolari” e di due amanti nevrotiche. Queste ultime, detentrici di verità crude e necessarie, saranno pietre miliari nella sua educazione sentimentale, mentre gli amici – figure maschili piuttosto ambigue, ma solide – aiuteranno Carmelo a rimettersi in piedi.
Seguire il percorso accidentato di un perdente è sempre in qualche modo catartico nella misura in cui il lettore simpatizza col personaggio: una volta toccato il fondo, accade a volte di scorgere una qualche possibilità di redenzione, screziature luminose che punteggiano il buio, imperscrutabili disegni che svelano un senso di profondità mai immaginato, all'insegna di un nuovo ordine spazio-temporale.
Come nella Via Lattea, o nei quadri di un pittore d’avanguardia, o nel Portoro, marmo scuro venato d'oro:
"Se il cielo degli uomini era iniziato nella notte fra i pianeti, il Portoro lo avrebbe raccontato, anche nel percorso a ritroso di chi muore: non lapide, ma finestra aperta".
Portoro è un romanzo a più strati, semplice e sofisticato per contenuti e linguaggio, come i personaggi che lo popolano.
Respingente in certi passaggi, ma mai volgare, decisamente romantico in altri, ma mai stucchevole, è uno spaccato di vita portata avanti alla meno peggio, che si finisce per osservare sospendendo ogni giudizio.
Indicazioni utili
Quando una luce si spegne
Romanzo introspettivo, narrato in prima e in terza persona in un crescendo drammatico che somiglia a un urlo silenzioso. Evidente la satira contro l’ipocrita società statunitense alle soglie degli anni Sessanta, caratterizzati dalla scalata senza scrupoli al potere e dalla venerazione del dio denaro.
Ma ciò che spicca è la solitudine di Ethan Hawley, uomo dall’intelligenza acuta e stravagante, dall’indole malinconica, marito e padre esemplare.
Commesso nel negozio che un tempo apparteneva alla sua famiglia, stritolato socialmente ed economicamente da un sistema corrotto, finirà per rivalersi diventandone il carnefice.
Dolcissimi i dialoghi vagamente demenziali con la moglie, nei confronti della quale nutre un amore profondo, benché venato di condiscendenza.
Questo sentimento puro e la stessa figura idealizzata della consorte, insieme all’intero nucleo familiare che pressa per la sua scalata sociale, verranno messi in discussione dallo sviluppo degli eventi:
"... ascoltavo la mia casa. Pulsava come un cuore, e forse era il mio cuore e una vecchia casa frusciante".
Definire questo libro solo una satira sociale sarebbe riduttivo, perché è molto di più: è, innanzitutto, il racconto di un dramma umano.
Dietro il sorriso sempre più amaro del protagonista, mentre si fanno strada in lui slealtà e cinismo, c'è la perdita dell'innocenza, un velo di illusioni squarciato e un pianto sommesso:
"È tanto più buio quando una luce si spegne, più buio che se non fosse mai stata accesa".
Indicazioni utili
“Teniamo il fuoco acceso”
Romanzo ben scritto, ma decisamente al di sotto delle aspettative, poco verosimile, non privo di fastidiosi accenti nazionalistici e ormai piuttosto datato.
Nella prima parte, le descrizioni particolareggiate di un'isola, in cui un gruppo non meglio identificato di ragazzini inglesi si ritrova dopo un incidente aereo, appesantiscono una trama già di per sé soporifera, con i toni un po' ridontanti della commedia.
Per contro, la spiegazione delle strategie di sopravvivenza adottate dai ragazzi in questione è liquidata il più delle volte con un generico accenno a scorpacciate di frutta e a certi “rifugi” tirati su alla bell'e meglio.
Il fuoco, che nel corso della narrazione diventerà simbolo di civiltà contro il buio della ragione (“Teniamo il fuoco acceso”), lo accendono in quattro e quattr'otto col riflesso del sole attraverso un paio di occhiali, più efficaci di un lanciafiamme.
Andando avanti, il ritmo incalza ma la retorica si spreca con i buoni – pochi – da una parte e i cattivi dall'altra, la democrazia letteralmente in fumo da una parte e i soprusi di una dittatura selvaggia dall'altra. Dittatura appoggiata dalla stragrande maggioranza, vuoi per debolezza vuoi per la natura fondamentalmente brutale dell'essere umano.
Cosa resta? Di sicuro, non abbastanza per parlare di capolavoro letterario: una discreta capacità introspettiva dei personaggi e un finale emozionante e paradossale.
Indicazioni utili
- sì
- no
Lucy senza più luce
Romanzo spiazzante, semplice e complesso al tempo stesso.
Semplice, perché la storia è lineare e incalzante, complesso perché la descrizione dei rapporti umani e delle variegate, sfuggenti sfumature della personalità di ognuno si presta a molteplici piani di lettura.
Non è un'esagerazione definirla una fra le opere migliori di Philip Roth, e non a caso lo scrittore sceglie di anticipare dalle prime pagine - gettando con un salto in avanti una malinconica luce invernale sui giorni futuri - la notizia della morte prematura di Lucy, personaggio principale, consapevole che svelare il finale acuirà l'interesse del lettore per un libro che ha ben altro da raccontare, al di là della trama.
“Oh, se la ricorda ancora la bambina minuscola, vivace, dai capelli dorati che era stata Lucy: briosa e dolce e intelligente”.
Si fa fatica a riconoscere questa bambina raggiante nella ragazza coriacea e diffidente di qualche anno dopo, schietta fino alla crudeltà, fragile fino alla nevrosi. Resterà sempre una bambina ferita a morte, Lucy, dolorante e rabbiosa, inadatta al mondo.
Eppure, non è a lei che vanno le simpatie del lettore, ma a quelli che cercheranno invano di trasmetterle amore, e persino, in ultima analisi, a coloro che le hanno funestato l'esistenza.
Grazie al sapiente tratteggio psicologico dei personaggi, i ruoli di vittima e carnefice in qualche modo si ribaltano ed emerge chiaro il fatto che chi non si piega almeno all'indulgenza, se non al perdono, è destinato a non trovare pace e a soccombere.
E' forse questo il prezzo da pagare quando si respingono i compromessi che il vivere sociale impone?
L'amore, in ogni caso, sembra essere l'ultima, estrema risposta in un finale drammatico, reso impeccabile dal tono distaccato della cronaca.
Indicazioni utili
Simenon a stelle e strisce
Piuttosto complesso, anche se lineare nella trama, questo thriller psicologico sembra uscito dalla penna di scrittori statunitensi come Yates o Carver.
Dietro, invece, c’è sempre l’eclettico Simenon, che scrive di Steve, buon padre di famiglia nell’America anni Cinquanta, innamorato della moglie, legato ai figli, profondamente stufo.
L’alcol sembra offrirgli una via di fuga in un giorno di festa ad alto tasso di stress, tirando fuori dal subconscio frustrazioni e rimpianti, insieme alla speranza di riscattarsi da un lavoro da impiegato che gli sta stretto e da una moglie in carriera che guadagna probabilmente più di lui.
Se amore c’è ancora, è di sicuro sopraffatto da un risentimento che chiede soddisfazione, in un modo o nell’altro. La trova, alla fine, nella svolta tragica degli eventi, e al lettore più attento non sfuggirà, anche dietro ai momenti di maggiore intensità emotiva, il gradevole, inconfessabile retrogusto del dramma, che il protagonista assaporerà come un whisky di ottima annata.
Indicazioni utili
Arte senza fuoco
Non è fra i migliori romanzi di Simenon ma avrebbe potuto esserlo, considerata la potenza descrittiva di ambienti e personaggi, fra vividi scorci di vita parigina nei quartieri operai e piccolo borghesi dei primi del Novecento, rappresentati sì impeccabilmente, ma con una meticolosità che alla lunga annoia.
Colpisce il realismo dei personaggi, ma le loro azioni non sono ben messe a fuoco e restano come in fase di abbozzo, lasciando chi legge nell’attesa di qualche avvenimento che segni una svolta.
Gli eventi si susseguono sotto lo sguardo pacato, attento e indifferente al contempo, di Louis, “l’angioletto”, pittore diverso dagli altri, i “maledetti”, consumati di solito dal sacro fuoco dell’Arte.
La sua è un’esistenza che procede senza sobbalzi (così, almeno, la percepisce il suo animo quieto) e che si srotola placida dall’infanzia alla vecchiaia. La narrazione manca di mordente, procede con lentezza, non annoia né avvince particolarmente, e il lettore arriva all’ultima pagina come un passeggero distratto a destinazione.
Indicazioni utili
- sì
- no
"Perché mi hai abbandonato?”
Non ci si immerge con leggerezza nell’opera di un autore che, per quanto giovane, scrive con mano ferma e uno stile in cui si alternano e si mescolano la crudezza del romanzo moderno e la prosa poetica della metrica classica.
Il libro, un corale gioco di specchi, racconta sensazioni più che eventi, e scorre fluido insieme alle generazioni che in esso si susseguono, gettando una luce fosca su una realtà costellata dalle riserve mentali di infanzie irrisolte, sogni spezzati, desideri frustrati.
Arrivati all’ultima pagina si avverte l’esigenza di tornare su certi passaggi, non soltanto per riassaporare un ritmo che non di rado rasenta il lirismo, ma per i diversi piani di lettura a cui si prestano.
La narrazione, in buona parte sotto forma di monologo – un po’ monocorde, a volte, ma sempre schietto – verso la fine lascia il posto ad un dialogo semiserio dal sapore kafkiano tra Io e Super-io, si direbbe, imputato e giudice.
Assolvere se stessi è essenziale, nel processo che porta all’accettazione – se non al perdono – delle colpe di chi ci ha messo al mondo finendo poi per distruggere la nostra fiducia nel mondo:
“… il perdono è sopravvalutato: le persone non tornano bianche se le lavi col perdono”.
Filo conduttore è il dolore, rimosso, negato, riconosciuto, abbracciato, inconveniente della vita, forse, di sicuro parte integrante, fino all’ultimo respiro.
E’ la morte, infatti, a dissolverlo, o meglio, a diluirlo nella sua essenza più congeniale, dandogli un significato in extremis.
Accanto ad intenti suicidari espliciti o latenti c’è sempre però, struggente, un anelito di vita:
“Sa che solo Lui può salvarsi, ma anche che nessuno sopravvive da solo”.
I pronomi personali dei protagonisti, scritti in maiuscolo, suggeriscono un accostamento a quel Dio che creò i Suoi figli a Sua immagine e somiglianza, eppure liberi di affrancarsi affermando la propria identità, per quanto imperfetti, fragili, disorientati:
“Mi viene solo da dire: perché mi hai abbandonato?”.
Indicazioni utili
Hanna mi chiamava ragazzo
Romanzo ricco di contrasti, caratterizzato da un timbro asciutto e struggente, da una prosa erudita e schietta. E’ uno di quei libri che restano attaccati addosso e continuano a parlarti anche dopo averne sospeso la lettura, e i molteplici interrogativi di respiro universale che apre ne fanno un’opera vicina al capolavoro.
Si tratta di questioni che non hanno una risposta definitiva, a meno di non trincerarsi dietro dogmi religiosi o principi etici, ponendo un netto confine tra ciò che è moralmente (e socialmente) accettabile e ciò che non lo è.
Quel dolore sordo e costante, quel senso inesorabile di perdita che da un certo punto in poi pervade il romanzo si trasmette al lettore in tutta la sua potenza, tanto più forte quanto più l’autore cerca di razionalizzarne l’essenza. Ma la ragione ha poco a che fare con gli eventi narrati, mentre è la passione ad avere un ruolo chiave. Passione cieca, si direbbe, persino degenerata secondo il punto di vista di alcuni, ma autentica come la gioia più pura, come il dolore più profondo.
“Hanna mi chiamava ragazzo”: Hanna, trentaseienne che seduce il quindicenne Michael, plagiandolo, forse, di sicuro marchiandolo a vita.
Hanna dal passato oscuro, ex criminale nazista, Hanna dal buon profumo di fresco, suo unico, vero, tormentato amore.
Sospendiamo il giudizio, ignoriamo i preconcetti, cerchiamo di comprendere: perché a volte la sofferenza redime, ed è l’amore ad aprire la strada.
Indicazioni utili
Emozioni tra le righe
Palahniuk non è per tutti i palati: troppo forte, persino stucchevole, ma il retrogusto dei suoi romanzi non si dimentica. Parlare di una dipendenza – sessuale, nel caso specifico – dosando alla perfezione dramma e ironia è una sfida che lo scrittore americano accetta spesso e volentieri, in barba al buon gusto, a volte, e ai benpensanti, sempre.
Del politicamente corretto Palahniuk non sa proprio che farsene, dei buoni sentimenti men che meno: le emozioni autentiche, quelle che inumidiscono gli occhi, con lui si leggono tra le righe, sono però scritte a lettere cubitali.
Ed è così che ci sorprendiamo a provare empatia per la sorte del protagonista e di altri personaggi estremi, fino ad immedesimarci con il loro sentire e a ritrovarci dall’altra parte dello steccato, tra la feccia della società, i “depravati”, che ti porgono perle di saggezza con mani sudicie:
« È patetico come non siamo capaci di convivere con ciò che non comprendiamo. Come abbiamo bisogno di etichettare e spiegare e dissezionare tutto quanto. Persino le cose inspiegabili per definizione. Persino Dio».
Cos'è in fondo una dipendenza se non un modo per mettere un argine all'imprevedibiltà dell'esistenza, scegliendo la fine che più ci aggrada? Considerazione paradossale, certo, ma arrivando all'ultima pagina viene da pensare che c'è sempre un po' di logica nella follia:
«“Libertà” non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente».
Indicazioni utili
Hai segnato l'Oriente finché c'è stata un'aurora..
Una storia che procede a ritroso reca in sé il senso della fine, qualcosa di già fatalmente vissuto che si racconta con un certo disincanto; e mentre nel disincanto l'amore soccombe, la morte, invece, trionfa.
Questo romanzo parla di vinti allo stesso modo in cui parla di sentimenti: la sfida, per il lettore, è raccogliere i vari pezzi disseminati - o forse persi - lungo un percorso che guarda al passato, cercando di ricostruire, comprendere le ragioni, risolvere interrogativi.
Davvero l'amore è la risposta, o è solo un'ulteriore domanda?
C'è Orlando, imbalsamatore carismatico inadatto al mondo, circondato dal muro di infelicità che ha eretto, geloso, si direbbe, dei suoi stessi fantasmi interiori. Un muro che l'amore intaccherà senza riuscire ad abbattere, puntellato com'è di fragilità inespugnabili.
C'è Clelia, l'utopista, la donna della sua vita, che inanella a testa alta fallimenti grazie ad un talento speciale per le cause perse.
Ci sono figli, coniugi, genitori, amici, amanti, personaggi delineati con pochi, efficaci tratti, stralci di esistenze raccontate tra flashback e salti in avanti.
E c'è, in filigrana, la passione controversa che lega Clelia e Orlando. Il loro sogno, invece, è chiaro: un appuntamento fissato in una terra senza tempo, sotto il candore di un mandorlo in fiore, in un passato dove ritrovarsi, se dovesse svanire la speranza di un futuro:
“Hai segnato l'Oriente finché c'è stata un'aurora...”.
Cronaca e fatti storici fanno da contrappunto ad una narrazione che procede al ritmo di un canto dolce come la promessa di un ritorno, amaro come un addio:
“T'assicuro c'ha tie solu bramo
Ca t'amo forte, t'amo, t'amo, t'amo”.
Indicazioni utili
Sentimenti e risentimenti
Interessante scoperta, Domenico Starnone, che con questo breve romanzo tratteggia senza retorica una situazione familiare tipica, attraverso le voci di tre personaggi e varie tappe: scappatella del marito, che abbandona moglie e figli per una giovane donna, ritorno al tetto coniugale, non senza aver prima inflitto dolore e seminato danni irreversibili, ménage domestico in equilibrio instabile tra malcelati conflitti e tregue armate. I due coniugi, che riconciliati continuano a farsi larvatamente del male (lui sottomesso pro bono pacis e fedifrago seriale, lei dominante e nevrotica) comprometteranno la felicità presente e futura della prole, fallendo, di fatto, come genitori. Spetta al lettore, osservando i fatti dai diversi punti di vista narrati, trarre le conclusioni e arrivare a una certa verità estrapolata da ciò che l’uno rivela e l’altro tace. Ma districare la matassa di sentimenti e risentimenti che ribollono in una famiglia disfunzionale è compito tutt’altro che facile: se il dovere di un marito finisce quando inizia quello inalienabile di un essere umano alla libertà e all’amore, che dire di quello di un padre? Starnone affronta l’argomento spaziando con mano sicura tra passato e presente, con uno stile che varia abilmente secondo la personalità e il background culturale dell’io narrante: prima la moglie tradita, poi il marito, infine la figlia ormai adulta, che chiude il cerchio con un giudizio inappellabile e un piccolo colpo di scena.
Indicazioni utili
Viaggio interiore
Il primo Premio Strega della storia è un romanzo scritto magistralmente, un viaggio interiore, innanzitutto, attraverso una variegata galleria di personaggi, e poi boschi minacciosi, sentieri interminabili, forre e dirupi.
L'accostamento con Kafka è inevitabile se si pensa all'angoscia onirica che percorre tutta la narrazione e che arriva al lettore con una pressione ferma e costante a cui non si può sfuggire.
Ci si chiede più volte se il protagonista sia ancora vivo o già inconsapevolmente passato oltre, vagante in un limbo o nella valle oscura di biblica memoria, attraverso una terra sorda ad ogni primavera.
Così è, per molti versi, perché questa è la storia di una rinascita, dove la clemenza di chi scrive, a differenza di quanto avviene con Kafka, finisce per assolvere i suoi antieroi, l'umanità intera e non ultimo chi legge.
Emoziona nel profondo, questo libro, amaro come una buona medicina.
Imperdibile.
Indicazioni utili
Chissà
Filo conduttore del romanzo è il tema dell'abbandono, che all'inizio la scrittrice dipana con una certa abilità. Si intuiscono emozioni realmente vissute, vecchie pagine di diario riprese, episodi autobiografici rielaborati.
La prima parte è densa di realismo e i segni che la miseria lascia nell'anima e nel corpo dei personaggi arrivano senza filtri, così come le sensazioni controverse che suscitano.
Poi le tinte forti si attenuano, o per meglio dire si annacquano, la trama accusa qualche forzatura, risente di un certo sentimentalismo e diventa un tantino autoreferenziale.
Più di un lettore apprezzerà la svolta buonista, ma di fatto la narrazione perde in mordente e qualità.
Perché virare su contenuti da fiction televisiva quando con un po' di coraggio si poteva realizzare un'opera letteraria di spessore? Esigenze commerciali o talento limitato? Chissà.
Indicazioni utili
- sì
- no
Come Venere e Giove
Perfetto è ciò che scaturisce dal caso e si distingue dal caos cosmico, in uno stato di grazia destinato a non durare, ma che si rievoca sempre con nostalgia.
Perfetto può essere a volte il rapporto tra due esseri umani, un uomo e una donna, distanti come due pianeti diversi tra loro per velocità, densità e rotazione, eppure in qualche modo affini, perché la loro congiunzione li fa splendere magnificamente.
Come Venere e Giove, e come Eleonora e Marco, che si incontrano e si riconoscono malgrado background familiari agli antipodi: l’infanzia irrisolta di lei, senza amici e con una madre ipercritica, e quella di lui, cresciuto in una “sana” famiglia meridionale guidata da una figura paterna solida e rassicurante.
“L’aria profuma di fiori, ma il cielo è coperto da nuvole spesse”: ciò che li avvicina – un senso recondito di perdita inesorabile fra l’indifferenza delle cose – finirà paradossalmente per allontanarli nel corso degli anni, creando un buco nero di ostile incomunicabilità dove vanno a finire tutte le buone intenzioni.
In mezzo a un’umanità infelice e tragicomica come le marionette generate dall’estro creativo di Eleonora – figura femminile intensa tratteggiata a tinte tenui – si dipana una storia d’amore che sembra essere giunta al capolinea, ammorbata dal “veleno a piccole dosi” della quotidianità.
Ma forse si tratta solo di una sosta, che porterà a sciogliere certi nodi del passato per giungere ad una nuova, catartica consapevolezza: vale sempre la pena lottare per superare le divergenze e tornare a brillare come stelle, tenendosi per mano.
Indicazioni utili
Miluzza
Il basso di Nofi è un luogo dove si mescolano istinti primordiali e fede religiosa, lezzo di escrementi e profumo di fiori e di cibo.
Miluzza, la giovane protagonista, è un prodotto di questa terra sacra e profana: gli occhi cerchiati e la voce profonda denunciano una natura viziosa e alcuni tratti delicati della sua bellezza selvatica ricordano uno dei tanti amanti della madre, un principe siciliano decaduto.
Questo romanzo è un quadro dalle tinte forti dove Eros e Thanatos danzano avvinghiati, offendendo, di primo acchito, vista e olfatto; ma sono pagine che trasudano ispirazione e schiettezza, ed esprimere un giudizio morale al riguardo diventa persino superfluo.
D'obbligo, invece, è apprezzarne la fattura, il ritmo che non accusa mai cali di tensione, la grazia di uno stile popolano, la forza magnetica di una terra a volte brutta, spesso bella, autentica sempre.
Come Miluzza, che candidamente “a certe cose del piacere dava il valore di sfizi” e che avrebbe fatto una brutta fine se lo stesso autore non ne fosse rimasto impietosito, o forse, come tutti, semplicemente ammaliato.
Indicazioni utili
Promette e non mantiene
Il romanzo parte bene, forse con qualche tecnicismo di troppo ma con ingredienti letterari sapientemente dosati che danno colore e spessore ad una trama abbastanza originale, farcita di espressioni idiomatiche regionali dal sapore arcaico.
A un certo punto, però, qualcosa si sgonfia e la banalità prende il sopravvento: frasi trite come “lo guardò stupita” e considerazioni della stessa scrittrice, che alla fine di un capitolo tira in modo dilettantesco le somme guidando il lettore verso riflessioni che dovrebbero sorgere spontaneamente, guastano tutto il buono della narrazione.
Di alcuni capitoli, poi, che non si amalgamano bene al resto della trama, si sarebbe potuto anche fare a meno.
E mentre non si è più tanto sicuri che certe frasi un po’ arzigogolate significhino realmente qualcosa, prevale la sensazione di leggere un romanzo d’appendice con morale e buoni sentimenti annessi.
Il potenziale politicamente scorretto, che avrebbe fatto la differenza, resta sostanzialmente inespresso, la ribelle sensualità della protagonista rientra nei ranghi e la verve delle prime pagine sparisce.
Indicazioni utili
- sì
- no
Essere se stessi con tutte le proprie forze
Calvino dipinge fiabe, situazioni paradossali che strizzano l'occhio al reale, personaggi sopra le righe, mondi paralleli; lo fa con estro creativo e umorismo, utilizzando un linguaggio fiorito che allieta lo spirito.
Questo romanzo sembra narrato dalla voce del vento: del Libeccio ha la vivacità, dello Scirocco la follia, del Maestrale l'audacia – proprio come Cosimo, il protagonista, che un giorno sceglie di trascorrere la sua vita sugli alberi senza mai più mettere piede in terra, per osservare il mondo da una prospettiva autentica, sua e di nessun altro.
Una scelta che come una vocazione comporta nuove scoperte ma non poche rinunce, e a cui Cosimo non può in nessun caso sottrarsi senza perdere la parte più importante di sé, la linfa vitale che sembra assorbire dagli alberi, saltando di ramo in ramo come un passero, imparando il gorgheggio dei pennuti, libero come loro e in complicità con la Natura.
Leggendo le sue avventure scopriamo che la vita può diventare un'opera d'arte per chi abbia il coraggio di avventurarsi fuori dagli schemi, uscendo dalla gabbia di categorie prestabilite anche (ed è questa l'impresa più ardua) a costo di perdere chi si ama, perché “non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie forze”.
Indicazioni utili
Una giovane Oriana
Il fatto che sia ormai piuttosto datato è solo l'ultimo inconveniente di un libro sul viaggio in giro per il pianeta di una giovane Oriana Fallaci e di un fotografo, inviati dal giornale per cui lavorano a documentare la condizione femminile a varie latitudini.
Se non si snocciolassero tante statistiche e numeri che ricordano il più noioso manuale di geografia la lettura sarebbe tutto sommato interessante, con alcune pagine ben riuscite: India, Cina e Giappone, per esempio, sono osservati da un punto di vista inedito, con ironia e onestà intellettuale.
Soprattutto nella parte finale la noia la fa però da padrona, e quando si chiude il cerchio parlando del “potere” delle donne occidentali – nella fattispecie newyorkesi – sempre più competitive e sole (“La donna americana è un uomo”), a fronte di uomini sempre più svantaggiati e frustrati, sorge inevitabile qualche perplessità.
Non si avverte, infatti, la stessa amarezza quando la scrittrice racconta di certe matriarche orientali, che degli uomini non sanno che farsene o quasi, né emergono preoccupazioni di alcun genere riguardo a un'isola dell'arcipelago hawaiano chiusa ai visitatori e impossibile da lasciare per quelli che ci vivono, pena il divieto di tornarci.
Quello, anzi, appare romanticamente un luogo “lontano dalle insidie della vita moderna” che “aveva tutta l'aria di essere l'isola più felice del mondo” (si scopre poi con delusione che anche lì la modernità ci ha messo il suo zampino, con donne che addirittura chiedono il parto indolore).
Sesso inutile, dunque, è anche quello delle cosiddette donne evolute, che perdono se stesse in nome di progresso ed emancipazione: “...ero tornata in ogni senso al medesimo punto da cui ero partita. E in quel girare avevo seguito la marcia delle donne intorno a una cupa, stupidissima infelicità”.
La Fallaci - mi sembra superfluo aggiungerlo - ha scritto di meglio.
Indicazioni utili
- sì
- no
Dimmi come sarebbe...
Romanzo mirabilmente introspettivo che si percepisce autobiografico soprattutto dal punto di vista delle sensazioni, fra ricordi emersi e rimossi.
Leitmotiv è un senso di disillusione che sconfina nel mal di vivere per quel che riguarda il presente (gli anni del boom economico in Italia), mentre i conti con le speranze disattese e le aspettative della prima giovinezza non tornano.
La trama si dipana attraverso due filoni: quello di un uomo irrisolto e inadatto al mondo, per quanto professionalmente realizzato, e quello dello stesso protagonista non ancora adolescente, sullo sfondo delle colline piemontesi dove sta la casa del nonno materno, impregnata di atmosfere gattopardiane.
Sono, quelli del passato, gli anni della guerra, dell'umiliazione di una nazione in ginocchio e dalla parte sbagliata dopo la caduta del Fascismo, della ricerca di riscatto attraverso la Resistenza.
C'è il rapporto col padre, colonnello meridionale integerrimo e spezzato dagli eventi, quello con la sua donna, non meno tormentato e fallimentare, malgrado l'adorazione incondizionata di lei, e quello con l'amico d'infanzia, compagno tra le file dei partigiani, figura salvifica, che con le parole schiette di uno “che non ha studiato” riuscirà ad aprire uno spiraglio di speranza, prendendo pacatamente atto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato:
“Noi: spenti come fiammiferi, anche se ci guardiamo bene dal riconoscerlo, anche se romperemmo il muso a chi osasse dircelo... Non abbiamo saputo far giustizia, e ormai nessuno ce la può regalare. Quindi: pace ai popoli”.
Lo stile di Arpino è magnetico e la scrittura intreccia con maestria la voce densa, vagamente sensuale e a tratti ermetica dell'adulto con quella fresca e ingenua del ragazzino.
Le pagine più alte sono affreschi impeccabili di luoghi e personaggi, quelle più intense sembrano scritte con occhi lucidi, cariche come sono di un'emozione filtrata che diventa quasi poesia:
“La bambina, la bambina, parlane!, parla di lei... Non stare zitto così... Dimmi come sarebbe se fosse estate, se fosse qui...”.
Indicazioni utili
Un calore di vita e un'immagine di morte
Sempre più di rado mi capita di chiudere un libro con un senso di nostalgia per situazioni e personaggi; con questo romanzo è successo, e tanto più inaspettatamente in quanto si è trattato di lasciare gli abitanti di una città appestata.
La causa più verosimile è da ricercarsi nel senso profondo di umanità che emanano le pagine, un'umanità laica e santa, cocciuta quanto può esserlo la forza della vita.
L'inizio è carico di un'ironia sottile e amara che si avvicina molto al sarcasmo e strappa qualche sorriso, come se l'autore, muovendo le fila degli eventi che precipitano, si prendesse gioco delle illusioni a cui i personaggi si aggrappano per non cedere al panico.
Ma quando la farsa lascia il posto alla tragedia sembrano essere le diverse anime dello scrittore a parlare attraverso un vasto campionario di individui: eroi per caso, antieroi, cinici spettatori, sommersi e salvati. Personaggi commoventi, per molti versi, così lontani dalla perfezione, così perfettamente delineati.
La prosa resta asciutta, ma si fa strada un senso profondo di compassione, unito a ideali come lealtà e amicizia che più dell'amore risplendono tra le ombre della pestilenza, mentre la narrazione raggiunge il punto più alto con l'interrogativo cruciale: è il caso di rifugiarsi nella fede, accettando supinamente la volontà divina, o sarebbe meglio rinunciare a credere, e combattere con ogni mezzo il morbo?
“Non ne so niente”, risponderebbe il dottor Bernard Rieux, protagonista del romanzo.
Eppure, se c'è una cosa che i flagelli insegnano, è che vale sempre la pena lottare per la salvezza degli esseri umani, essendoci in essi più cose da ammirare che da disprezzare.
E non a caso le due opzioni - fede o scienza - finiscono per mescolarsi nella strenua ricerca della pace a servizio degli uomini:
“Un calore di vita e un'immagine di morte: era questa la conoscenza”.
Indicazioni utili
Claustrofobico
La sperimentazione del postmoderno in letteratura, ostica e un tantino snob, non è probabilmente adatta al palato di tutti i lettori. Certamente, non a quello della sottoscritta, che ha faticato a finire il romanzo in questione, per quanto breve.
Pregevoli alcuni passaggi, con frasi interessanti e ben cesellate, raffinata e non priva di humour la prosa, dotti i numerosi riferimenti letterari, ma al di là di tutto ciò la noia incombe.
Noia, e persino un senso di claustrofobia mai sperimentato prima, per l'ambientazione surreale, certo, ma soprattutto perché le pagine sembrano infinite e non si fa altro che buttare un occhio al numero di quelle ancora restanti.
E' la seconda opera di Calvino che mi capita di leggere dopo Il sentiero dei nidi di ragno, che non mi ha entusiasmato, sia pure per motivi diversi.
Riproverò con qualcos'altro, riconoscendo comunque allo scrittore un talento di fondo che sarebbe forse opportuno approfondire, e seguirò - parafrasando una delle frasi del libro - “la via della sapienza, che richiede di pensarci su e imparare a poco a poco”.
Indicazioni utili
Auster in vena di chiacchiere
Non è un libro all'altezza della fama dello scrittore statunitense, e soprattutto all'inizio si ha la sgradevole sensazione di leggere un lavoro da dilettanti, farcito com'è di clichè letterari.
La narrazione, tra alti e bassi, non decolla e si rivela qualcosa di raffazzonato, con un racconto senza capo né coda inserito nel romanzo che finisce com'era iniziato, nonché varie digressioni scritte, si direbbe, sotto la spinta della noia più che dell'ispirazione, da un Paul Auster in vena di chiacchiere oziose.
Una buona dose di sentimentalismo si aggiunge poi al quadro già fosco di un pessimismo esistenziale che è notoriamente l'altra faccia del sogno americano.
Di buono c'è, giusto nelle ultime pagine, qualche passaggio toccante nel confronto tra due generazioni, nel dialogo affettuoso tra due anime ugualmente ferite; troppo poco per considerare il romanzo degno di essere letto.
Indicazioni utili
Yvette
La trama non è delle più originali e in certi passaggi la si tira un po' per le lunghe, il che non fa di questo romanzo uno dei migliori di Simenon; non mancano però passaggi degni di nota, soprattutto nelle pagine finali.
Fulcro della narrazione è l'autoanalisi, e il coraggio di essere sinceri con se stessi attenendosi rigorosamente ai fatti.
Lo sa bene il protagonista, avvocato di successo e senza scrupoli che redige una sorta di diario/dossier passando al setaccio la sua passione per Yvette, giovane non bella, corrotta nel corpo e nello spirito, e magnetica, per qualche ragione.
La ragione, all'inizio, ha a che fare con una sorta di sfida: perché non concedersi lo sfizio di rotolarsi un po' nel fango, dopo aver raggiunto l'apice della carriera?
Ma le cose col passare dei mesi mutano e un'ulteriore spiegazione sembrano fornirla queste righe:
“Per me Yvette, come la maggior parte delle ragazze che non significano niente, personifica la femmina, con la sua debolezza, la sua codardia, e anche quell'istinto di aggrapparsi al maschio e fare di sé la sua schiava”.
Lui, che non ha mai amato la moglie, donna forte e volitiva che lo ha aiutato nella scalata sociale, ancor meno parla d'amore per Yvette: semplicemente, senza di lei gli risulta impossibile continuare a vivere.
E' interessante osservare la sua graduale perdita di controllo, lo spettacolo patetico di un uomo che sprofonda inesorabilmente nelle sabbie mobili della dipendenza amorosa concedendo tutto e lasciando sparsi qua e là, con noncuranza, brandelli di dignità.
Tra un ménage à trois e l'altro (la sessualità prorompente di Yvette ha le sue esigenze) qualcuno finisce per lasciarci la pelle, come nella migliore tradizione simenoniana, mentre la frase conclusiva del romanzo con poche ciniche parole sembra chiudere il cerchio.
Indicazioni utili
Fango e cognac
Poco rilevante dal punto di vista strettamente letterario (con qualche ripetizione e una sintassi non sempre perfetta) questo romanzo autobiografico racconta però uno spaccato alternativo della Grande Guerra, fatta di uomini più che di eroi, in una trincea che puzza di sangue, fango e cognac, mentre la ragione vacilla:
“Sentivo delle ondate di follia avvicinarsi e sparire. A tratti, sentivo il cervello sciaguattare nella scatola cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia”.
La guerra, programmata a tavolino da speculatori che non scendono in campo e coordinata da generali capricciosi e incapaci, appare farsesca, oltre che tragica:
“Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra”.
L'altra parte è quella degli austriaci, che sparano e sparano, e poi cessano il fuoco per permettere agli italiani di raccogliere morti e feriti.
Chi è il vero nemico?
Emerge, dalle pagine migliori, un senso alto di umanità (vedere un proprio simile nel nemico, e non sparargli addosso) che niente ha a che vedere con l'attribuzione di medaglie e che si colloca agli antipodi dei valori monarchici e patriottici osannati in quel periodo.
E' il popolo - fa dire l'autore ad un intrepido tenente - che deve ribellarsi ai soprusi dei capi, con una rivoluzione in cui lo spargimento di sangue, forse necessario, sicuramente non vano, conferisca autentica dignità a chi combatte:
“Hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore”.
Indicazioni utili
Ma non è Proust
Reazione tiepida a questo romanzo di Yukio Mishima, scrittore affrontato per la prima volta.
Si parte dall'infanzia dell'io narrante, con pagine che raccontano la sensibilità morbosa di un bambino cagionevole che manifesta già segretamente tendenze omosessuali.
Tra fantasie erotiche sadiche e voglia di “normalità”, il protagonista è affascinato dalla morte ma non rinuncia alla vita, preda di laceranti contraddizioni che lo inducono a scindere i sentimenti platonici e intermittenti verso una donna e il desiderio sessuale che gli ispirano da sempre i corpi maschili.
Potente, per quanto mortifero, quest'ultimo, con tutta la forza che deriva dall'autenticità, destabilizzante il primo, carico com'è di sentimenti forse costruiti a tavolino (non è dato sapere fino a che punto) e di una frustrazione che mina alle fondamenta la sua pace mentale:
“...certo, io sono incapace di amare una donna”.
Il tutto è raccontato con frasi involute e un po' verbose che ricordano e probabilmente emulano lo stile di Proust, senza però essere alleggerite dal brio e dallo charme tipici dello scrittore francese, che riusciva ad universalizzare le sue sensazioni e quelle altrui con uno sguardo acuto verso uomini e cose; sguardo che in Mishima, troppo concentrato su se stesso, resta a un livello superficiale.
Indicazioni utili
- sì
- no
“Il mio pianto è un coltello..."
Racconta di donne, Alice Munro, e questo è ormai notorio.
Quello che non tutti sanno è quanto nella sua scrittura si eviti accuratamente ogni forma di sentimentalismo fino a spingersi, soprattutto in questi otto racconti, a non parlare mai d'amore se non in termini distaccati che rasentano il cinismo.
Degno di nota il primo racconto, “Una donna di cuore”, un crudo spaccato di provincia tinto di giallo con qualche sfumatura rosa nel finale, un rosa, però, che ricorda il colore del sangue.
C'è il sesso, poi, motore di ogni decisione, e sogni erotici turpi e inconfessabili quanto può esserlo il lato oscuro di ogni buona azione.
Ed è così che i tentacoli della perversione possono impaurire ed attrarre mentre la linea di confine tra bene e male, come spesso succede, si assottiglia fino a sparire.
I racconti della Munro si leggono con interesse non soltanto perché scritti con quell'attenzione ai dettagli propria degli scrittori di razza, ma anche perché lasciano dei sedimenti, degli spunti di riflessione che somigliano ad indizi su cui il pensiero si sofferma dopo la lettura.
L'ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, analizza due aspetti estremi, un istinto materno isterico e uno pressoché inesistente.
Il primo travolge pateticamente una zitella, il secondo caratterizza una giovane madre assorbita dalla passione per la musica ed esasperata dagli strilli continui della figlia neonata:
“Il mio pianto è un coltello che taglia dalla sua vita tutto quello che non è utile. A me”.
Con stile asciutto si dipana la storia di una calda giornata estiva che per un po' assume i colori candidi della neve:
“... prese ad amarmi, perché l'alternativa era disastrosa”.
Indicazioni utili
Anni Sessanta
“Com’era triste, o eccitante, o strano essere vivi negli anni Sessanta”.
La descrizione di una New York “vintage”, tra eccessi e tradizione, è il tratto più notevole di un romanzo che non aggiunge nulla, letterariamente parlando, a quanto scritto da altri autori (Proust, Maugham, o anche Buzzati) in tema di amori malati e ossessioni amorose.
L’io narrante, una volta divenuto consapevole dell’infermità mentale della donna che ama (disturbo borderline, verosimilmente), tiene tutto sommato la rotta.
Questo suo “non perdersi” - unito al fatto che Sylvia è un personaggio più irritante che carismatico - fa perdere punti alla storia, che ha comunque il pregio della chiarezza e persino una certa utilità sociale: quando l’amore comincia a costare più del suo effettivo valore è il caso di darci un taglio.
Deduzione, quest’ultima, che si fa strada quasi tra le righe, ma solida, malgrado il dramma finale e la cronaca nostalgica dei momenti felici strappati all’inferno quotidiano:
“La naturalezza del nostro essere insieme in quel momento mi fece riflettere: E’ questo l’amore?”.
Indicazioni utili
“Un pretesto per le cattive maniere!"
Il romanzo, nei suoi momenti migliori, sta in delizioso equilibrio tra tecnica e cuore.
Tecnica, con i giusti ritmi narrativi, con dramma e ironia sapientemente dosati e con una capacità di introspezione che rende da subito vivi i personaggi.
Cuore, perché a nulla varrebbe il talento dello scrittore senza il suo amore per l'Austria e la nostalgia dei fasti di un glorioso passato imperiale.
Il guaio è quando l'aspetto sentimentale prevale su quello razionale, rendendo la narrazione un po' romanzata e, nella parte finale, troppo evidente il punto di vista di chi scrive, con lunghi soliloqui messi in bocca ad uno dei protagonisti.
Un limite di cui Lothar era evidentemente consapevole, non facendo mistero della sua intenzione di scrivere “un romanzo in cui si specchiasse un tragico destino che si fa beffe dell'inverosimiglianza”.
Ma non si renderebbe giustizia a quest'opera se si parlasse solo dei suoi limiti ignorandone i notevoli pregi: è un gustoso excursus su un periodo storico di grandi travolgimenti per l'intera Europa, dietro le quinte di un Impero, quello austro-ungarico, che passò da cinquantacinque milioni di sudditi a sette milioni di abitanti di una Repubblica che nacque da una sconfitta, umiliando gli ideali alto borghesi e aristocratici: “La democrazia non è altro che un pretesto per le cattive maniere!”
Sconfitti sono, in definitiva, i personaggi del romanzo, repressi nella loro gioia di vivere dalle convenzioni sociali o infiacchiti dagli eventi, tragici, alteri e deboli, nel senso più umano del termine.
Indicazioni utili
A tempo perso
Nella postfazione si parla di “una delle prime prose veramente moderne della letteratura ebraica”, ed è probabilmente questa l'unica caratteristica degna di nota di un racconto abbastanza piatto. La descrizione della riviera francese nel pieno della stagione balneare è ben scritta ma un po' ripetitiva, i personaggi secondari sono tutti presentati in una delle prime pagine e, ad eccezione di una donna pelosa di rara bellezza, non destano alcun interesse. I due protagonisti sembrano marionette di cui lo scrittore non sa bene cosa fare, il richiamo dei sensi resta pudicamente sullo sfondo, appena tratteggiato, e tra spiagge assolate e barche che veleggiano sul mare azzurro la noia, anche quella del lettore, è sempre in agguato mentre si aspetta che qualcosa accada. La scena che dovrebbe in qualche modo segnare un punto di rottura è tratteggiata in maniera troppo approssimativa per risultare coinvolgente e credibile. L'impianto narrativo è tutto sommato solido, ma con pochi contenuti; un racconto scritto a tempo perso da un poeta, forse.
Indicazioni utili
Atmosfere cupe e risvolti horror
E' un bel romanzo, questo di Simenon, un'immersione totale in atmosfere cupe e in animi non meno oscuri.
Lo scrittore entra nella mente di Michel Maudet, giovane squattrinato, ambizioso e opportunista, scandaglia ogni sua più riposta sensazione (di veri e propri sentimenti, nel caso specifico, è difficile parlare), e riesce persino a destare la comprensione, se non l'empatia, del lettore nei confronti del protagonista con certe riflessioni buttate giù candidamente:
“Non era lui che se ne andava, che abbandonava sua moglie o un luogo familiare; erano le cose a staccarsi bruscamente da lui. E lo facevano assumendo all'improvviso, nel momento più inaspettato, un volto indifferente”.
A chi dare la colpa se le cose, dopo “il tempo necessario ad assorbirne in qualche modo la sostanza”, assumono l'inconsistenza del ricordo?
Eppure la rinuncia alle persone che crede di amare sembra a Michel, spinto in avanti da un richiamo interiore, un imperativo a cui non si può sottrarre. E sarebbe da ottusi, secondo il suo punto di vista, definirlo egoista e senza cuore.
Analoga sorte toccherà a Dieudonné Ferchaux, l'uomo della svolta, figura carismatica, almeno nella prima parte, pervasa da quel disincanto tipico “di chi ha visto tutto e tutto conosciuto”.
La parabola discendente del rapporto tra i due, spiriti affini che si riconoscono, rappresenta il fulcro del romanzo ed è tratteggiata con realismo e acutezza psicologica.
Proprio come avviene in certi rapporti amorosi, soccomberà chi dei due si lascerà trascinare dall'irrazionalità dei sentimenti.
Degni di nota alcuni personaggi secondari, resi con pochi significativi tratti attraverso episodi, frasi, immagini di straordinaria efficacia evocativa.
La narrazione procede spedita, seppure talvolta un tantino prolissa, e nella parte finale assume risvolti horror che ricordano le migliori pagine di Edgar Allan Poe, mentre ogni cosa sembra seguire il suo inesorabile corso, già scritta, già decisa dalle forze inconsce che muovono le azioni umane.
Indicazioni utili
Il declino ghiandolare
Romanzo onesto, a suo modo, ma che non riesce a suscitare empatia, non soltanto per la specificità dell'argomento trattato (un po' datato visti i progressi della scienza sul campo) ma anche perché adopera il cliché usurato “uomo ricco e maturo/giovane brasiliana (sia pure ereditiera)” che rende inefficace e un tantino stucchevole qualsiasi scena o frase d'amore, per quanto ben scritta.
Il “declino ghiandolare” del cinquantanovenne Jacques Rainier, fonte inesauribile d'angoscia sviscerata in tutte le sue forme, interessa a livello puramente accademico ma non coinvolge, almeno fino alla seconda parte, quando entra in scena la “cloaca dell'anima”, vale a dire le fantasie a cui il protagonista fa segretamente appello per rinvigorire una virilità messa a dura prova dagli anni, a beneficio della tenera amante e del suo Ego (quest'ultimo fa continuamente, fastidiosamente capolino).
Ma forse è mancato il coraggio di andare fino in fondo e profanare una storia d'amore troppo limpida, con un personaggio femminile troppo sublimato per non suscitare nel lettore la voglia di vederlo un po' infangato: la caratura della narrazione, di sicuro, ci avrebbe guadagnato.
Invece Rainier inizia a corteggiare la morte sfidando la vita e i suoi doni beffardi, per amore ed orgoglio (“Le stai rifilando un pacchetto di valori che tra qualche anno non varranno più niente: te stesso”) e il romanzo si appiattisce inesorabilmente, deprimente ed egocentrico.
Indicazioni utili
- sì
- no
Il buonismo di Simenon
Un Simenon in tono minore, con un romanzo che sembra scritto in due tempi: nella prima parte si riconosce l'impronta tipica dello scrittore belga (sempre impeccabile la descrizione dei villaggi normanni di pescatori), nella seconda gli eventi prendono un'insolita piega ironico/buonista e a farne le spese è la qualità della narrazione, che perde quota e diventa puro intrattenimento.
L'impressione è quella di un improvviso cambio di rotta, una specie di frettoloso ripiego dovuto forse a sopravvenute esigenze editoriali o semplicemente a mancanza di ispirazione.
La storia d'amore, con contorno di strenuo corteggiamento e schermaglie, è tutto sommato ben tratteggiata, ma nelle ultime pagine si indugia un po' troppo sul rosa (lei appesa al braccio muscoloso di lui, mentre entrambi bruciano di passione) con un prevedibile e un tantino sciocco lieto fine.
Indicazioni utili
- sì
- no
Hans Schnier
Come carta di identità ha scelto una mattonella di carbone con su stampato, sottolineato con gesso rosso, Schnier, il nome della sua famiglia.
Famiglia di industriali del carbone, spilorci ma pur sempre milionari, con una figlia morta adolescente per servire il Terzo Reich, un figlio convertito al cattolicesimo per farsi prete e un altro clown professionista in declino, “colpevole della più grave colpa per un clown: suscitare pietà”.
Con la biacca un po' incrostata che gli ricopre il viso, gli occhi azzurri “come un cielo di pietra” e i capelli scuri che per contrasto sembrano una parrucca, Hans Schnier mostra al mondo la sua faccia più vera, quella di un uomo senza un soldo in tasca e col cuore spezzato.
Paga il prezzo della sua coerenza in una società di marionette che “si toccano mille volte il colletto ma non riescono mai a scoprire il filo che le fa muovere”, paga il suo amore per Maria, che lo ha abbandonato per sposare un cattolico e condurre una vita “perbene”.
Monogamo e miscredente, canta le litanie lauretane con l'entusiasmo di chi cattolico non è, e soffre la perdita e il tradimento della sua unica donna.
Quello che osserviamo attraverso i suoi occhi è un mondo che si sgretola senza più certezze e a cui lui rifiuta disgustato di adattarsi, mentre scorrono i flashback di una storia d'amore pura e profana, e poi attimi di vita che un clown non può e non deve dimenticare.
La narrazione, a tratti, sembra lo sfogo un po' monotono e deprimente di un uomo caduto in disgrazia, ma tra sarcasmo, dolore, smanie autodistruttive e speranze disperate ha il pregio della schiettezza. E se le argomentazioni di un clown ci appaiono alla fine più oneste e affidabili di quelle della variegata umanità che lo circonda una ragione ci sarà.
Indicazioni utili
Le piume di egretta
Raramente Maugham delude, e in questa raccolta di racconti vagamente autobiografici (nei primi il protagonista è un agente dei servizi segreti, attività che lo scrittore svolse per un certo periodo) il suo umorismo British si colora talvolta di uno spassoso cinismo che stempera anche gli eventi più drammatici.
“La maggior parte di quell'attività si basava proprio su delle congetture; si doveva ricostruire l'animale partendo dalla mandibola”.
La combinazione di emozioni vere e fatti falsi (o viceversa), il tono di una voce, l'espressione di un viso, il guardarsi alle spalle anche in presenza del più cordiale compagno di viaggio, la noia di giorni passati in solitaria attesa e l'adrenalina di qualche ora, l'imprevedibilità della natura umana: tutto questo è raccontato con un tono che non perde mai una certa leggerezza di fondo, come se si trattasse dell'osservazione di un particolare tipo di insetti da parte di un entomologo.
Allo scrittore britannico, che sostiene forse per vezzo letterario di non saper scrivere gialli mentre racconta il delitto perfetto, riesce particolarmente bene lasciare intendere l'opposto di quel che scrive e prendersi gioco dei personaggi con uscite confezionate ad arte.
E se salvare le apparenze è tutto ciò che richiedono le regole non scritte della buona società, può essere addirittura divertente spingere questa necessità fino al virtuosismo, rasentando il grottesco:
“L'idea di avere sul cappello, proprio in quel momento, le piume di egretta regalatele dal povero Harold le dava una strana sensazione”.
Indicazioni utili
Bertha
Un giovane Maugham che si cimenta nella realizzazione di un romanzo sulle orme dei maestri dell'Ottocento, con un talento che fa già indubbiamente capolino, è un pezzo di letteratura da non perdere. Il nome della protagonista, Bertha, non è stato stato forse scelto a caso: più volte la sua passionalità frustrata fa venire in mente il personaggio di Madame Bovary, che aveva scelto proprio questo nome per la figlia.
Bertha è più intelligente e più bella, il che non le impedisce di bruciare di passione per un uomo mediocre e freddo che dimostra di saper stare al mondo meglio di lei.
La parabola discendente di un amore totalizzante è analizzata minuziosamente, sviscerata fino al suo ultimo palpito, con un realismo che risultò scandaloso per i lettori di quel periodo.
Il vento umido che spazza per molti mesi dell'anno la contea del Kent e lo spirito di una Londra che sembra ormai una cartolina d'epoca fanno da sfondo ad una galleria di personaggi descritti con precisione arguta, gentiluomini di campagna, vicari, zitelle e piccola aristocrazia di provincia.
E poi, c'è l'animo di Bertha, il suo bisogno d'amore inappagato, le speranze, i rimpianti, le illusioni perdute:
“Tutta la mia vita è così. Mangiare montone freddo e patate, in abito da sera e con tutti i gioielli addosso”.
Indicazioni utili
Iperproteico
Leggendo questo romanzo viene da chiedersi se la Némirovsky non sia stata un tantino sopravvalutata negli ultimi anni, anche dalla sottoscritta. Di sicuro, questa non è fra le sue opere più riuscite.
Parte lenta, tanto da risultare quasi noiosa, poi accelera e viene caricata fino all'enfasi, con concetti del tipo “giovinezza”, “fuoco nel sangue” e “vento di passione” sempre ribaditi per chiosare un colpo di scena, non tanto difficile da prevedere, del resto, dopo che vengono esaltate ad ogni piè sospinto le virtù al di sopra di ogni sospetto di una madre di famiglia quasi santa e un amore coniugale a prova di fuoco (fuoco dei sensi, nel caso specifico).
Ci si chiede con un certo rimpianto cosa avrebbe fatto con la metà degli ingredienti un autore come Simenon, visto che di mezzo c'è anche un giallo.
Una frase finale dell'io narrante dovrebbe risultare d'impatto ma è piuttosto contraddittoria.
Nient'altro da rilevare.
Indicazioni utili
E' qui che comincia il deserto
“Sono tornata analfabeta. Io, che sapevo già leggere a quattro anni”.
Per apprezzare al meglio questo racconto autobiografico occorre aver letto almeno un'opera della scrittrice ungherese, in modo che, scorrendo le pagine, sia possibile riconoscere personaggi (anzi, persone), situazioni, percezioni, fonte della sua prosa così originale, carica di tormento, nostalgia e un filo di follia.
La Kristof, profuga approdata in Svizzera dopo l'invasione russa dell'Ungheria, è un'anima smarrita destinata a vagare per strade sconosciute, ma a testa alta, con una fierezza priva di gioia di vivere, ma solida.
Dapprima figlia, sorella, nipote, poi, con uno strappo inesorabile, allieva in un collegio per ragazze povere, poi madre e moglie (non una parola di affetto nei confronti del marito) e operaia in una fabbrica, conoscerà l'esistenza piatta e senza speranza di una donna che ha perduto l'appartenenza ad un popolo: “E' qui che comincia il deserto”.
Sceglie per sfida di scrivere in francese, lingua “nemica” appresa in età adulta, che non sentirà mai del tutto sua e che d'altro canto, giorno per giorno, insidia, “uccide” la sua lingua madre.
Rimpiangerà sempre il fatto di aver lasciato il suo paese, vagheggiando una vita povera, dura, ma autentica, “forse felice”.
E' una scrittura sintetica e amara, quella della Kristof, distillato della sua disperazione, ma lascia un'impronta preziosa nella memoria del lettore che riesca a captarne tutto il magnetismo.
Indicazioni utili
Noia spaziale
Il sottile senso di noia che ha accompagnato quasi ininterrottamente la lettura di questo romanzo, definito dai più uno fra i migliori di Asimov, deve pur significare qualcosa.
E' vero che la fantascienza non è decisamente nelle mie corde e che certi concetti di fisica rendono alcune pagine poco masticabili ai profani, ma qualche difetto oggettivamente rilevabile, a ben vedere, non manca.
C'è, innanzitutto, una narrazione che ad un certo punto assume connotati vagamente fumettistici e sempre meno verosimili, e un generale appiattimento dei personaggi (quelli femminili sono invariabilmente attraenti e intelligenti, che siano essenze extraterresti o combinazioni di cellule umane).
C'è quella fissazione che fa tanto anni Settanta verso Terra e Universo, con contorno di tute spaziali e tramonti terrestri, e un paesaggio lunare descritto troppo sommariamente (definire la Luna un pianeta, poi, è uno strafalcione davvero strano in mezzo a tanti complicati concetti di astrofisica).
C'è, infine, una deriva sentimentale che finisce di guastare l'insieme già abbastanza raccogliticcio.
Il linguaggio, almeno nella traduzione italiana, è ben articolato, i dialoghi scorrevoli e la parte centrale piuttosto originale (l'erotismo fra triadi “paraumane” merita senz'altro una menzione), ma tutto questo non mi ha impedito di controllare spesso il numero di pagine mancanti alla fine e di arrivare con sollievo all'ultima.
Indicazioni utili
“Nessun ebreo è innocente in uno stato corrotto”
Di recente ho letto una raccolta dei racconti di Malamud, e ne ricordo solo uno.
Ho voluto riprovarci con il celebre pluripremiato romanzo, letto in inglese vista la possibilità di scaricarlo gratis, e sono giunta alla conclusione che la sua prosa non è nelle mie corde, complice forse anche la fatica di affrontarlo in lingua originale.
Basato su una storia realmente accaduta (raccontata in un altro libro meno noto) il romanzo è abbastanza interessante e ben scritto fino a metà percorso.
Notevole, per esempio, l'immagine del protagonista a cavallo di un ronzino, in cerca di una vita migliore col suo sacco degli attrezzi in spalla, il simbolo della sua dignità di uomo.
Ripara ogni genere di cose, Yakov Bok, ha voglia di conoscere il mondo e legge Spinoza, “...ma in tutta la mia vita ho più distrutto che aggiustato”.
Raggiunto l'acme del dramma, vale a dire l'accusa di omicidio, la narrazione si appesantisce: personaggi stereotipati, concetti ripetuti fino allo sfinimento, qualche esagerazione (ho dato un'occhiata alla storia vera).
Il libro ha certamente il merito di aver messo in luce le ingiustizie e i soprusi subiti dagli ebrei durante il periodo zarista in Russia, l'odio antisemita che arrivava fino ai piani alti di una società malsana (“Nessun ebreo è innocente in uno stato corrotto”), e non mancano pagine toccanti, ma sono arrivata sbuffando alle ultime, caratterizzate tra l'altro da tutta una tirata sulle colpe e le negligenze dello Zar Nicola II sotto forma di dialogo immaginario.
Insomma, nessun argomento, per quanto di grande interesse, tiene desta l'attenzione se tirato troppo per le lunghe, e sulla tragedia del popolo ebraico e le origini dell'antisemitismo si può leggere a mio avviso di meglio.
Indicazioni utili
Che cosa vuole?
I personaggi dei grandi scrittori russi, preda di rimuginamenti ossessivi, spesso con qualche linea di febbre di origine nervosa, si riconoscono subito per il linguaggio stravagante e per quei tratti caratteriali tormentati che rasentano il delirio.
Vel'caninov, il protagonista di questo romanzo, incarna alla perfezione il tipo suddetto, in piena crisi esistenziale per l'età che avanza (si trova alle soglie dei quarant'anni) e per le lungaggini di un processo su un possedimento di cui non riesce a venire a capo.
Ed ecco, direttamente dal passato, l'imprevisto: un certo Pavel Pavlovic, marito di una sua ex amante e vecchio “amico”, si rifà vivo. Che cosa vuole?
C'è un conto rimasto in sospeso, innanzitutto, una bambina che nella vicenda sembra fare da agnello sacrificale, e poi Pavel Pavlovic vuole per qualche ragione accostarsi alla vita di Vel'caninov, ai suoi successi con le donne, al fascino un po' libertino che in lui ha sempre ammirato.
Tra i fumi dell'alcol, scarica nell'animo già esacerbato del malcapitato le sue inquietudini, la sua sofferenza di eterno marito inesorabilmente cornuto.
Ci riesce quel tanto che basta a sconvolgerlo per qualche settimana, e l'incontro-scontro tra i due, drammatico per certi versi ma sempre stemperato da una sottile ironia, mette magistralmente in luce tutta la poliedricità che l'essere umano ha sviluppato nel tempo per barcamenarsi tra gli alti e i bassi dell'esistenza.
Interessante, per chi voglia osservare i meccanismi psicologici che stanno alla base di certi comportamenti contraddittori e il peso che ha il caso sugli stessi.
Osservare, beninteso, senza capire fino in fondo, giudicando, forse, o giustificando, a seconda del grado di empatia che ciascun personaggio suscita in chi legge.
Indicazioni utili
“Perché non confessa, signor Hire?”
Questo breve romanzo, a ben vedere, parla di due omicidi.
Il primo è quello di una prostituta uccisa e derubata in una zona della periferia parigina, il secondo avviene per mano della collettività, con modalità che ricordano un'altra breve storia, “Il cappotto” di Gogol.
A quest'ultimo Simenon sembra ispirarsi per due analogie fondamentali: il suo protagonista indossa sempre un cappotto nero col collo di velluto e, soprattutto, è profondamente solo, di quella solitudine che può risultare fatale.
Qualche dubbio sulla sua colpevolezza, all'inizio, viene insinuato anche nel lettore, per una certa ambigua pinguetudine che caratterizza il signor Hire, per la sua andatura saltellante, per il suo voyeurismo:
“Poteva fissarti molto a lungo, così, senza curiosità e senza tradire alcun sentimento, come si fissa un muro o un cielo”.
Lo sguardo di un sociopatico, si direbbe, se non fosse che a tratti diventa quello di un cane bastonato che chiede umilmente ragione della crudeltà umana.
Il lettore assiste pagina dopo pagina al triste spettacolo di un uomo con un anelito non ancora spento d'amore e di gioia di vivere in fondo al cuore, risucchiato in un gorgo a spirale a velocità sempre più sostenuta:
“Perché non confessa, signor Hire?”.
Una camicia a righe e un paio di bretelle, intraviste attraverso un cappotto aperto in una giornata fredda e uggiosa, è l'ultima immagine che abbiamo di lui e dei suoi sogni romantici spezzati.
Indicazioni utili
Ore bruciate, tempo perduto
La penna intinta nel fiele di Lucio Mastronardi riflette lo stato di frustrazione di un perdente che finisce per sconfinare quasi nell’alienazione mentale.
E’ la cronaca della quotidianità logorante di un maestro di provincia vessato dal dispotismo saccente dei superiori, disprezzato dalla moglie per la sua inerzia, soffocato dal “catrame” , uno spesso strato di paura che di fatto paralizza ogni iniziativa.
Eppure, pagina dopo pagina, sorge il dubbio che la meschinità di certi personaggi non sia peggiore di quella dello stesso protagonista, anima in pena abbrutita dalle pastoie dell’abitudine:
“Mi accorgo che la mia vita è tutto un seguito di ore bruciate, di tempo perduto”.
Il ghigno che scorge sul viso della moglie non dev’essere così diverso dal suo, che vagheggia una vita diversa ma intanto sembra crogiolarsi nelle umiliazioni che subisce a casa e al lavoro e nella mediocrità delle chiacchiere tra colleghi a scuola e al bar.
Nessun riscatto nemmeno sul versante dell’affetto che prova per il figlio, sentimento superficiale che poco ha a che vedere con un autentico amore paterno e molto con la vanità personale.
La narrazione “sonora” sembra trasmettere la voce pacata e monocorde dell’io narrante, da cui ci si aspetta un gesto irrevocabile da un momento all’altro. Alla fine lo compie, a modo suo, sputando rabbiosamente sulla tomba della consorte e vedendo riflesso nello sputo, emblematicamente, il suo stesso volto.
Il romanzo, che per acutezza psicologica - o meglio psicoanalitica – ricorda Camus e Svevo, suscita profonda insofferenza, tanto che si arriva all’ultima, beffarda pagina con un senso di sollievo.
Indicazioni utili
L'oca e la bambina
E' un romanzo ben lungi dall'essere perfetto, non privo di incongruenze e con qualche deriva sentimentalistica, dalla prosa delicata, passabile ma non certo eccelsa, eppure l'empatia verso i personaggi - verso Signorina soprattutto, la protagonista - è immediata, mentre le pagine scorrono veloci e centrano in pieno l'obiettivo: il cuore del lettore.
Lo scrittore, una volta imbastita la trama iniziale, preme i tasti giusti lasciando di volta in volta impressi in chi legge gioie, dolori, immagini tenere e nostalgiche: i ricordi graffianti di chi, nella narrazione, quelle scene le vive in prima persona.
E poco importa se un lieto fine potrebbe andare un po' a discapito della verosimiglianza, è a quello che nei momenti più tragici si anela, invocando il miracolo, implorando mentalmente la pietà di chi scrive nei confronti delle sue “creature”.
C'è rinuncia e abnegazione, nel libro, affetto incondizionato e ricambiato adeguatamente solo da un animale, un'oca dal verso sgraziato compagna di giochi, confidente e consigliera, che dopo la sua morte diventa quasi, nell'immaginario di Signorina, uno spirito guida.
I toni apparentemente leggeri raccontano una verità amara e paradossale, fulcro dell'intera narrazione: la felicità non passa mai indenne attraverso l'amore.
Indicazioni utili
229 risultati - visualizzati 1 - 50 | 1 2 3 4 5 |