Opinione scritta da C.U.B.
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La tua terra sarà lieve
Si aggrappa a una bellissima poesia di Emily Dickinson “I haven’t told my garden yet” Pia Pera per raccogliere i suoi pensieri sulla caducità della vita, che le sta sfuggendo.
Una malattia incurabile e degenerante la costringe a movimenti sempre più ridotti, ad una dipendenza sempre maggiore verso gli altri.
Parla di sé immersa nel giardino, in un rapporto di perfetta osmosi Pia si riconosce sempre più simile ai suoi arbusti con quel corpo rigido e impossibilitato a spostarsi. Eppure, liberatasi ormai dalla zavorra di un futuro su cui non può più permettersi di investire, si sente alleggerita nel vento, proprio come le foglie ed i fiori che fluttuano tra le stagioni.
Molto bello ed intenso per un certo verso, ci sono delle perplessità mie personalissime che hanno fatto sì che non lo abbia amato come avrei voluto. Questi racconti, scritti da persone che stanno affrontando una condizione di salute estremamente critica, di solito sono esperienze che rinvigoriscono il lettore.
È innato il nostro attaccamento alla vita e più ci si avvicina alla morte, più ci si afferra alla speranza. Più si allontana la possibilità di guarire e più crediamo a qualsiasi nuova cura.
In questo libro si affrontano medici e terapie, ma come fosse un atto dovuto e inutile, non ho letto della vita trattenuta coi denti.
Definito “dolente e luminoso”, ho sentito il dolore ma non ho visto la luce, seppur flebile.
Salviamo il salvabile
Quando una situazione di emergenza richiede una risoluzione d’emergenza, le creature della Terra si raccolgono in assemblea in un luogo impresso nella mente di ognuno, fin dalla nascita. L’uomo pure ne era al corrente finché, deciso a sganciarsi dal regno naturale per dominarlo, se ne dimenticò.
Così un corvo vola alto nel cielo e si unisce al gatto al topo all’elefante, che durante l’adunanza gli istinti si placano e regna la pace tra specie diverse. Il pianeta sta collassando a causa della condotta umana, è necessario un intervento drastico e immediato. Noi, ci troviamo catapultati in una situazione talmente inverosimile che ci sarebbe da non crederci, se non ci fosse successo realmente e pure a leggerne, col senno di poi, destabilizza.
Un romanzo breve e scorrevole, che unisce la fiaba ad un forte messaggio ecologista e a una ricerca della sensibilizzazione tra specie.
Sulle delle citazioni letterarie nascoste tra le righe e considerate caratteristica rilevante del testo, non posso che dissentire. Esse non vengono segnalate in alcun modo ma, arrivati alla fine del racconto, ci si ritrova con un lunghissimo spazio dedicato a fonti e commenti che ormai non serve più.
In conclusione, una lettura non particolarmente pregevole, ma a cui inevitabilmente ci si affeziona.
Tale padre, tale figlio
C’era una volta un burattino di nome Pinocchio, ma di lui sappiamo già tutto grazie a Collodi.
Questa è la vita di Geppetto il suo babbo, che come vuole il detto “tale padre, tale figlio” quanto si somigliano quei due, l’uno nato legno per diventare di carne grazie alla magia, l’altro nato carne e induritosi più del legno perché così va la vita, talvolta.
Lassù sulle montagne, in una casupola che è più una grotta, fredda come la neve e vuota come la povertà, un vecchietto dipinge sulla parete una pentola che bolle, poi si scalda col vapore disegnato. Convive con la solitudine ma ad essa non vuole arrendersi, pervicace il desiderio sempre più vivido di un amato figliolo con cui girare il mondo, sebbene non ci si possa permettere nemmeno una crosta di pane per rimpolpare le fessure tra le costole.
Un paesello che parrebbe un presepe non fosse che al posto di pastori, madonne e re magi esso è popolato di orchi; quanto realismo in questa non fiaba.
Geppetto vessato, isolato, percosso, il cuore buono di un falegname non smette di palpitare nella bella storia triste in cui non serve una fata per trasformare un uomo in un padre, un ciocco di legno in un bambino adorato.
Sfoglio le pagine e penso a mia madre che mi scrisse su un biglietto: “Se la felicità fosse cosa umana, ti direi sii felice. Ma siccome lo è solo il dolore, ti dico sii forte”.
Forte. Il fragile, affamato vecchio è solido più della roccia, l’amore per Pinocchio invariabile come la fiamma di una candela. Per quando si accorci e la cera si riduca a un millimetro, la fiamma arde con la stessa fluida e sublime intensità. Poi, quando non ci sarà più cera, stringeremo commossi la mano gentile di uno scrittore che sul nostro muro avrà disegnato, perenne, una candela accesa.
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SOLD OUT
Hanio, giovane in salute e benestante, alla fontanella della stazione ferroviaria tenta inutilmente il suicidio ingoiando sonniferi.
Opta quindi per una soluzione di morte anticonvenzionale: vendere la propria vita.
Pubblicato l’annuncio e affisso un cartello sulla porta di casa, l’impresa Vita in vendita riscuote un discreto successo. Col susseguirsi di una serie di bizzarri personaggi interessati all’acquisto per i loro spregevoli scopi, Hanio accumula un piccolo patrimonio, pervaso dalla piacevole indolenza di chi sta finalmente ottenendo il risultato tanto agognato. Ma ogni volta la morte si fa inspiegabilmente più impalpabile e il nostro protagonista si ritrova suo malgrado ad essere tutore della propria vita in vendita.
Stanco di morire, senza mai morire, finché da inseguitore dell’ultimo respiro non diviene l'inseguito.
Ritmo incalzante e trama psichedelica, profondamente nichilista, esso si basa sul concetto che la libertà assoluta si ottenga nel momento in cui ci si slega dalla necessità del vivere.
La strana sensazione ricorrente che ho avvertito durante la lettura è stata quella di avere di fronte non il racconto di un sogno, ma un romanzo scritto da un soggetto profondamente addormentato e immerso in una lunga parentesi onirica.
La produzione di Mishima è notoriamente suddivisa in un filone prestigioso, frutto di ricerca estetica e di contenuti articolati e di una produzione prettamente commerciale, di rapida pianificazione e immediatamente remunerativa. Chi conosce Mishima, già dalla sinossi avrà chiaro che questo bestseller postumo appartiene alla seconda categoria; quindi, non ci si aspetti la più pregevole narrativa del giapponese. Ciò chiarito, è comunque un libro fluido e sufficientemente criptico, in linea con la personalità del suo talentuoso e controverso autore.
A riveder le stelle
Dopo la (mirifica, indimenticabile) voragine infernale, lunga è ancora la strada verso il Paradiso. La seconda cantica della Divina Commedia continua il percorso attraverso il Purgatorio, un monte posizionato al centro dell’emisfero australe, dove le anime salve durante la salita espiano colpe minori praticando penitenza.
Sette P luminose incise sulla fronte del pellegrino da un angelo, una per ogni peccato capitale.
Luogo di commiato e di memorabile incontro, Dante si congederà dalla guida di Virgilio e incontrerà l’amata Beatrice.
Il volume è organizzato in una struttura lineare: un capitolo in prosa, dettagliatamente argomentato da Vittorio Sermonti, a seguire il rispettivo canto.
A differenza della cantica precedente, ho trovato la parafrasi di Sermonti molto più macchinosa e decisamente accademica, arrivando ai versi tanto affaticata che il linguaggio di Dante mi pareva una mentina balsamica. Forse il Purgatorio è semplicemente più complesso dell’Inferno e quindi inevitabile l’inasprirsi dell’analisi. In ogni modo, i frequenti allegorismi mitologici, gli onnipresenti rimandi astronomici, i numerosi calcoli matematici e gli arzigogolati approfondimenti storici hanno rallentato impietosamente la lettura, opprimente fardello sul mio IO esanime per mesi e mesi.
Sebbene fossi certa che la fatica patita mi avrebbe dissuaso da ogni intento verso la terza cantica (che qui si legge per piacere, non per dovere), mi son ritrovata a contraddirmi constatando quanto questa lettura mi abbia infine arricchita.
Sarà il risveglio della mia italianità latente o sarà che quando si dilatano i tempi su di un libro si tende a fraternizzare, avverto un forte senso di appartenenza ripensando al lavoro di Alighieri. Il quale, purificato dalle acque del Lete e dell’Eunoè, ce lo comunica chiaramente in chiusura che tornare indietro non si può, ma solo guardare innanzi:
“Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire le stelle”.
A salire le stelle. Benvenuta in Paradiso.
Un daiquiri per Coccola!
A dieci anni ciò che non manca ad un bambino è certamente la fantasia, eppure dubito che un decenne possa immaginare tanto. Patrick, perso il padre, viene affidato alla sconosciuta zia paterna: Mame Dennis.
Bella e ricchissima, ciò che più distingue la novella genitrice è senza dubbio l’eccentricità di questa bizzarra donna colta e cosmopolita.
Trasformista per antonomasia e radicata a New York, accoglie uno sbalordito nipote abbigliata da giapponese; lunghe unghie dorate, pareti scarlatte e pareti nere, l’elegante appartamento è popolato da un nutrito e gaio gruppo di ospiti chiassosi.
Cambiano i tempi, gli amanti o soltanto le correnti dei venti, zia Mame si ricopre di tweed come una vera irlandese oppure, cinta in un magnifico abito tradizionale, arringa il pulpito sulle recenti esperienze spirituali in terre d’India. Per nulla pigra durante gli anni del proibizionismo, abbandonata dalla sicurezza economica, la signora si butta a capofitto in imprese più umili, seppur senza grande successo, per mantenere la famiglia.
Penna scorrevole e raffinata, si distingue nettamente dalla narrativa scadente troppo spesso in circolazione. Il tono ilare, a tratti molto comico, incalza senza sosta il lettore sbigottito da questa esile ma inesauribile creatura vulcanica, mentre trascorrono gli anni e il nipote si fa uomo, educato alle buone maniere ma ebbro di esperienze, protetto ma continuamente sferzato dall’ala tumultuosa di zia Mame.
Leggera ma non banale, travolgente e irriverente, dopo tante avventure insieme non mi resta altro che fissare gli occhi su quella figura sottile e stilosa, fasciata nella splendida seta di un sari.
Si allontana, le sue dita stringono quelle del bimbo coi capelli rossi che -nemmeno lo sa- sta imbarcandosi per un’avventura che per noi è invece giunta a destinazione.
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lagune medioevali
Corre l’anno 807, nelle acque che lambiscono le isole alla foce del Po viene ritrovato un sarcofago perfettamente sigillato.
Ben celato a occhi indiscreti tra spesse mura e uomini fidati, il contenuto della tomba è il corpo inviolato di una fanciulla, avvolto da un intenso profumo di fiori.
Strani accadimenti coinvolgono i presenti, difficile contenere gli spifferi da cui eludono voci che si diramano tra i canali profondi e silenziosi.
Miracolo o maledizione, le spoglie innescano uno scontro violento tra l’abate Smaragdo, che esorta alla prudenza verso quel corpo pagano ed il vescovo Vitale, che inneggia alla santità delle reliquie per richiamare fedeli e denaro.
Questo l’incipit del romanzo storico di Marcello Simoni, evento che apre le danze su personaggi secondari che si fanno poi protagonisti della vicenda tra misteri svelati, insidie, agguati e venti di guerra.
Il libro parte a rilento, per una buona metà si tratta di una narrazione logorroica che porta poca sostanza in tavola. Chi riuscisse a soprassedere alla noia sappia che arriverà una svolta a sancire il rianimarsi del libro, portando un discreto intreccio all’attenzione del lettore.
Buona la caratterizzazione medioevale degli ambienti, peccato non sia stata elaborata di più, rendendo i luoghi un elemento di forte impatto, possibili protagonisti capaci di sopperire alla catastrofica mancanza di spinta iniziale.
Penna scorrevole ma non indimenticabile, ci sono alcuni elementi apprezzabili, ma complessivamente un lungo romanzo evanescente.
Di battaglia e di poesia
Ambientato alla fine del 1400 nel bel mezzo di una cruenta guerra civile, lo shogun si scontra coi signori locali e con le frange più umili del popolo, intenzionate a cancellare il passato e ogni criterio che attribuisca cariche nobiliari.
Due sono le figure principali che emergono e spiccano, seppur mortali, in una caratterizzazione che li eleva ad un profilo spirituale, quasi potessero sfiorare l’immortalità, mentre la battaglia imperversa.
Una giovane donna si dice nata dai resti dei soldati ammucchiati sul greto del fiume, incarna un demone la bellissima Koma e si muove con il guizzo di un puledro, non ha paura del nemico incapace di afferrarla, non teme l’uomo incapace di non amarla.
Ikkiyu, il saggio monaco zen si incammina senza meta, muovendosi come lo scorrere dell’acqua o il vagare delle nuvole, laddove credeva di trovare i morti si imbatte invece nel fiore di un giovane e forte albero.
Oltre alla trama piacevole, seppur poco articolata, si apprezzi il connubio di prosa e versi poetici che richiama gli antichi scritti di corte. Ci si ritrova così, beatamente, a osservare due guerrieri che si fronteggiano con le lame, ma la cui vittoria in battaglia è sancita dalla composizione più propizia.
“Il gelo delle mie palpebre è tale che non riesco a vedere altro che la pioggia. Laddove si nasconde una furia omicida il colore dei fiori scarlatti scompare.”
Il romanzo di Ishikawa Jun è, nel suo genere, bellissimo.
Cose meravigliose
“…e quando Lord Carnarvon incapace di attendere oltre, mi chiese ansiosamente – Riuscite a vedere qualcosa? - fui solo capace di rispondere – Sì, cose meravigliose-. “
Era il 1922 quando Howard Carter, affiancato e finanziato da Lord Carnarvon, scoprì nella Valle dei Re la tomba di Tutankhamen, definita sul risvolto di copertina come non meglio potrei fare io: una delle avventure archeologiche più entusiasmante di tutti i tempi.
Carter, privo di titoli accademici ma archeologo di grande esperienza sul campo, non ottenne il riconoscimento dai colleghi dottori in archeologia e non pubblicò mai ricerche scientifiche. Eppure, il suo nome è ascritto nel firmamento degli egittologi.
Questo corposo saggio è frutto dell’unione di tre volumi con cui egli, assistito da personalità di spicco in campo letterario, raccontò dei dieci anni di scavi e recupero. Esemplare perfetto di divulgazione ai non addetti ai lavori, al lettore non richiede competenze specifiche, pur riportando una quantità di informazioni rese con la massima precisione. Personalmente, ritengo che l’allestimento sia fondamentale per l’emersione dei pezzi esposti in un museo, non posso quindi restare indifferente alla potenza sprigionata da questo scritto.
Carter, infatti, non ci scorta in un luogo asettico o incapace di esaltare contenuti, ci conduce direttamente nei primi decenni del 1900. Ci racconta di un Paese, di luoghi e di persone, di sudore e fatica, di tecnica e di storia.
Siamo in Egitto e negli occhi un abbaglio dell’impietoso sole di Luxor.
Poi l’oscurità, la discesa nel pulviscolo e l’aria rarefatta, attraverso un piccolo foro nella porta la luce flebile di una torcia, osserviamo in piena apnea respiratoria una camera inesplorata da millenni.
È scompenso emotivo, sono i brividi di un violento attacco di malaria.
Il racconto trasuda eccitazione, stupore, commozione, febbre in una baldoria di sensazioni che il cercatore di tesori non può più controllare, di fronte al tesoro ritrovato.
La tomba del giovane faraone.
Non esiste più il tempo, solo la meraviglia che spazza via la sabbia, la mortificazione degli anni improduttivi. La storia si sta rivelando.
Galvanizzante per oltre la metà del suo corso, dove la verve si accosta al romanzo più che al saggio, il libro tende a rallentare nella seconda parte quando lo impone la descrizione minuziosa dei manufatti rinvenuti.
Corredato di molte immagini purtroppo di pessima risoluzione, questa carenza contribuisce però a incalzare l’atmosfera vetusta. Immancabile per chi abbia visitato e perso la ragione di fronte al tesoro di Tutankhamen esposto al museo del Cairo, una lettura estremamente interessante e ricca di dati per chiunque ami l’antico Egitto.
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Nelle Antille
In un angolo di Guadalupa si adagia il paesino di Riviere au Sel, esotico quanto un frutto polposo di papaya color sole.
Lo straniero è morto lasciando pochi amici, molti nemici e tanti figli in dote alle ragazze del paese. Bello, irresistibile, carismatico e misterioso nessuno sa chi fosse di preciso e quale storia celasse.
Molti capitoli racchiudono altrettanti personaggi che, in un ininterrotto flusso di coscienza si raccontano e, tassello dopo tassello, ricompongono la storia di questa piccola comunità.
Palpabili le tensioni razziali che si leggono precipuamente sul colore della pelle, il machismo detta legge e le infiltrazioni soprannaturali si insinuano in ogni fessura.
Ma, soprattutto, questo libro è odore di terra umida, di fiori opulenti e foreste che oscurano il cielo avvolte da vapori color malva, tra il canto degli uccelli e lo sfolgorio di pappagalli colorati. E’ il ricordo di un Eden perduto, così come lo avremmo calpestato, se fossimo vissuti ai tempi della Creazione.
Scrittura scorrevole ma evanescente, la trama è fragile; eppure, c’è qualcosa che non passa inosservato. Forse l’amore per la propria terra e le origini in questo romanzo non galvanizzante, ma la cui autrice mi riprometto di approfondire.
strane creature
Apparsi nel 1978 per mano raffinata di Ueda Akinari, i nove racconti inseriti nel volume si sviluppano sulla figura di fantasmi, o comunque di soggetti ultraterreni.
Sono uomini e donne deceduti che riappaiono con le sembianze dei vivi e con essi interagiscono. Esseri mitologici come la ragazza serpente, che inganna l’uomo per amarlo. Sono spiriti saggi, come quello dell’oro che disquisisce con il suo interlocutore su karma e ricchezza.
Molti gli argomenti sviluppati, che richiamano la tradizione giapponese: vendetta, onore, fratellanza, fedeltà, rimpianto, abbandono, speranza, zen.
Ciò che colpisce è che non si tratti di un filone nero, volto ad incutere terrore nel lettore, ma che la presenza di questi esseri soprannaturali sia vissuta senza alcuno scalpore dai personaggi umani, seppur con qualche inquietudine.
Splendide le ambientazioni che esprimono il più classico folclore, la luna è protagonista illuminando notti che non raggiungono mai, oscura, l’eclissi. Grande o abbozzata, velata o abbracciata alle nubi, essa è malinconia, è serenità. Ne consegue una letteratura ubertosa di estetica, sia per la finezza della scrittura che per l’incanto dei luoghi proposti.
Un volumetto, aggraziata compagnia delle mie escursioni fra laghi popolati di carpe, fra immersioni in foglie traboccanti di acero rosso. Il tepore del tè che scorre nelle piccole tazze, mentre infreddolita contemplo il monastero ricoperto di erba e giunchi risplendere di rugiada, che cade come pioggia d’autunno.
“Ti dedico questa farfalla che si finge foglia”
Con questo bel volumetto dall’impostazione insolita e disordinata, Chandra Candiani ci propone una delicata lettura in placida rincorsa della semplicità, della serenità, dello stupore, della compassione.
Sono riflessioni, pensieri sparsi, citazioni e racconti dei saggi. È ambire al non sapere, inteso come l’apertura a un orizzonte sconosciuto da accogliere a braccia aperte.
Passeggiare nel presente nutrendosi della meraviglia di ogni piccola cosa bella che incontriamo sul nostro sentiero, assorbire l’energia e la tenacità della natura che si riproduce ogni stagione, nonostante gli attentati perpetrati dall’uomo a suo discapito.
Sono storie di animali e alberi, di rami e pettirossi, di una donna impaurita. È l’intersecarsi di specie diverse che anelano alla convivenza, invece che alla prevaricazione.
Sono conversazioni tra muti che sorridono, il rassicurante stringersi di creature prive di braccia.
Piccolo libro intenso da accarezzare lentamente, entrare in sintonia coi pensieri dell’autrice è come l’alba dopo una lunga notte buia. Ho palpato l’oscurità affondandoci le dita, ho temuto di non capirlo, di non apprezzarlo. Ho temuto di non sapere.
Poi è sorto il sole, e con lui la luce, in questo immenso non sapere da accogliere come un amico.
“Ti dedico questo merlo che prova la voce arrugginita dalla pioggia”.
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La palla al balzo
Cinque americani, prigionieri durante la guerra di secessione, colgono il pallone al volo e tentano una fuga aerea. Ma la fortuna che ha dotato di mongolfiera uno sparuto gruppo di personaggi composto da un ingegnere ed il suo schiavo affrancato, un giornalista, un marinaio, un ragazzo ed un cane sembra cessare al primo colpo di vento, nella tremenda tempesta che li costringe naufraghi su un’isola deserta.
Battezzata Lincoln, la nuova terra si rivela essere un approdo ricco di bellezze naturali e di mezzi di sussistenza. Il piccolo gruppo coeso non difetta di curiosità, ingegno, conoscenze, forza fisica e un provvidenziale aiuto dall’alto.
Se i consigli di lettura lo propongono a partire da dieci anni, io puntualizzo che non esiste limite di età per questo corposo e affascinante romanzo di avventura.
Salvo l’edizione inserita che sconsiglio a causa di numerosi refusi, il libro scorre velocemente con una trama ben costruita. Se ottima è la caratterizzazione dei personaggi, superlativa è la resa panoramica. I luoghi di quest’isola sono proposti con tratti tanto ridondanti di bellezza da renderla un vero porto di approdo per il lettore stesso. Facile è dissociarsi dalla realtà e continuare l’avventura in movimentate notti oniriche, lontano dalle pagine.
Risalente al 1875 ma per nulla vetusto, un libro che è un viaggio obbligato in un Paradiso sconosciuto alle rotte umane. Ogni alba è un nuovo capitolo di esplorazione, fatica e sorpresa alla ricerca di cibo, di minerali, di tutto ciò che l’invettiva richiede lottando per sopravvivere all’isola, sopravvivendo per amore dell’isola.
Finchè morte non li separi.
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pacatamente
Il volto celato da uno spesso velo nero, con eleganza si muove nel negozio raggiungendo il banco della gioielleria. Chiede alla commessa di esaminare alcuni preziosi, che scivolano poi fluidamente nella borsa della donna. La chiamano Orchidea Nera, ladra seriale e misteriosa. Si sarà macchiata anche di crimini peggiori?
Li trovano esanimi, nello chalet affittato per i loro incontri amorosi galeotti. La prima ipotesi è di omicidio-suicidio, mentre dai corpi esala un profumo nauseante di rose. Una giovane bellissima, il ventre arrotondato, si avvicina al cadavere dell’uomo, scossa dai singhiozzi gli bacia le labbra.
Il volumetto consta di due racconti ambientati nel dopoguerra, che sconsiglierei vivamente a chi è alla ricerca di un costrutto articolato.
Le azioni investigative sono infatti ridotte al minimo sindacale e la narrazione è priva di colpi di scena. Sorvolando in quota le promesse di eventi tendenti al soprannaturale di cui si ingozza la sinossi, il giallo è assolutamente basico e ogni avvenimento tanto palese quanto terreno.
La lettura, che scorre rapida e gradevole, potrebbe allietare il lettore amante di atmosfere giapponesi vintage, grazie anche alle piacevoli descrizioni ambientali. L’incedere pacato e rigoroso ed i drammi amorosi che si risolvono in maniera cruenta riportano inequivocabilmente alle tragedie del Giappone più classico.
AN
L’albero di ciliegio sta per fiorire, l’anziana Tokue si ferma ad osservare la bottega di dolciumi, potrebbe essere suo figlio l’uomo triste davanti alla piastra e al pan di spagna.
L’albero di ciliegio è nel pieno della fioritura di fronte al negozio di pasticcini, una donnina con le dita ricurve cucina una strepitosa confettura di an, i fagioli dolci.
L’albero di ciliegio è ormai spoglio, il suo fusto glabro ricorda le asperità della vita, di chi isolato e umiliato ha perso tutto. Anche la vita stessa, nemmeno una tomba a due passi da casa.
Inciampata in questo titolo durante la lettura di un saggio di Maria Teresa Orsi, è Imbarazzante e fuorviante la presentazione della casa editrice, che ne fa un esemplare di frivolezza. Invece…
Invece il morbo di Hansen, la lebbra, è una malattia debellata da molti decenni in Giappone, eppure esiste un crimine taciuto e sconosciuto ai più.
In seguito a una Legge del 1907, i malati vennero assoggettati a ricovero coatto in sanatori posti in località isolate di montagna o su isole remote, immensi conglomerati dove scarseggiavano cibo e cure, dove essi subirono trattamenti durissimi e lavori forzati. Gli uomini venivano sterilizzati e le donne costrette ad abortire, sebbene la lebbra non avesse carattere di ereditarietà. Cambiavano nome, in modo che i congiunti non fossero marchiati dall’onta di un familiare infetto. Dimenticati, sepolti vivi.
Sebbene negli anni Sessanta la medicina trovò una cura efficiente per la malattia, essa non sanò il morbo dell’emarginazione sociale, tanto che la reclusione di persone ormai guarite da molti anni si protrasse fino al 1994. Nel 2001 la politica di segregazione giapponese è stata giudicata anticostituzionale.
Nell’ossario di Nagashina sono sepolte 3600 persone, le cui spoglie non sono mai state reclamate.
Nel sanatorio di Nagashina vivono ancora 204 ultraottantenni perfettamente ristabiliti, “ospiti” di questo centro da più di sessanta anni, liberi di uscire ma senza altra sponda su cui approdare.
Consiglio la lettura del reportage di The Guardian risalente al 2016, prima affrontare di questo romanzo.
A Durian Sukegawa NON va il premio per avere ideato il miglior prontuario di Pinkpasticceria, ma siamogli grati di avere visitato luoghi di dolore, di avere raccolto testimonianze, di avere sofferto. Di avere sollevato e denunciato l’argomento con questo delicato, leggero e commovente romanzo, che si appoggia sì su una storia di amicizia e di ricette, ma che vuole arrivare oltre.
Scrittura lieve dal passo scorrevole ma non priva di intensità e poetica, ho seguito i petali di ciliegio volare liberi, sotto lo stesso cielo di una nonnina intenta ad ascoltare la voce dei suoi fagioli, finchè non sorgerà la luna.
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Sbagliando (forse) si impara
Io sono stato creato per asservire il pianeta e le sue creature. Io sono un uomo. Io sono il dominio.
Quali sono le radici di questa nostra essenza?
Interviene -per fortuna- in mio aiuto Jim Mason, con un corposo saggio frutto di lunghi studi e di un’ampissima bibliografia.
L’autore scava in profondità nella storia dell’umanità per mostrarci gli eventi ed i meccanismi che da popoli pacifici di raccoglitori ci trasformarono nei dominatori del mondo, in una deriva irrefrenabile.
Rivoluzione agricola, aumento della popolazione terrestre, incremento dell’accentramento della ricchezza, religioni antropocentriche e molti altri aspetti storici e sociali vengono sezionati ed argomentati. Sganciati completamente dal resto del regno animale costantemente svilito, Mason ci mostra come la progressiva perdita di empatia verso le altre specie viventi sia causa di molte pestilenze che colpiscono l’umanità stessa come la guerra, il colonialismo, la riduzione in schiavitù, le mutilazioni sessuali, l’abuso, la misoginia.
Scritto in maniera fluida e divulgativa, consta di molteplici micro-capitoli che snelliscono lo scorrere delle pagine rendendole piacevoli oltre che interessanti. Un rallentamento nella parte centrale, dove spesso tende a riprendere il filo del discorso riepilogando argomenti già assimilati, portiamo pazienza.
Libro razionale ma allo stesso tempo appassionato ed illuminante, dai contenuti forti che vengono esposti senza bulimica brutalità, il volume non è breve e richiede tempo sia per leggere che per elaborare. Soprattutto per elaborare.
È un invito genuino ed intelligente a riflettere e rivedere la propria posizione, che non dubito possa scuotere l’uomo che avverta un senso di colpa e disagio, l’uomo che con piglio lungimirante abbia la mente aperta ad un’analisi mirata ed argomentata.
Giaceva da anni nella mia libreria e nulla è più stupido di averlo tra le mani senza leggerlo.
Folgorante, vivamente consigliato.
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il maggiordomo
Sedimentata nell’immaginario di ognuno, la figura del maggiordomo rappresenta una professione concreta, eppure così distante dalla nostra realtà quotidiana da apparire come un mero elemento cinematografico.
Kazuo Ishiguro, col potere della letteratura, estrae dal romanzo il personaggio e lo rende un uomo vivo, più che mai verosimile. Lo fa con una potenza ed un realismo strabilianti.
Così, nell’Inghilterra dei facoltosi e dei potenti, ci è concesso di visitare Darlington Hall, una meravigliosa magione vittoriana appartenuta all’omonimo Lord inglese, entro le cui mura si discusse il futuro dell’Europa.
All’organizzazione di un cospicuo numero di persone di servizio, Mr. Stevens è il maggiordomo, un professionista di prestigio, appartenete alla vecchia scuola di stampo aristocratico.
Colto, misurato, instancabile, elegante e di umorismo algido come solo un gentleman inglese.
Una vita intera votata al suo signore, nella piena convinzione che supportare l’uomo di potere che voglia migliorare il mondo non possa essere che l’unico strumento per elevare chi ha scelto il suo impiego.
Dignità, per Mr. Stevens significa non mostrarsi in pubblico diversamente da ciò che impone il proprio ruolo.
Il primo viaggio dopo anni di servizio, qualche giorno in Cornovaglia a bordo di una Ford d’epoca, un salto nel passato, messaggi non colti e opportunità glissate.
E’ stata dunque la mansione scelta da Stevens a orientare il senso della sua vita? A cosa ha rinunciato, quanto ha tralasciato, evitato, disprezzato per onorare la professione? Ne è valsa la pena?
La risposta, forse, nei silenzi timidi e brevi, nei rimpianti abbozzati e nella malinconia malcelata.
Un corposo percorso introspettivo tratto da una narrativa capace e dal tratto elegante, deciso ma non ridondante, in un’Inghilterra che ci offre panoramiche ambientali suggestive.
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Gli Olteni son partiti
Un paese ricco governato malamente, le genti affamate implorano.
Pure Dio infierisce, fulminando con calamità le terre così il popolo arranca, sempre più cencioso, mentre i magazzini dei ricchi sono ogni giorno più colmi.
Dio, che poi indulgente dona raccolti abbondanti e stagioni prolifiche ma il popolo agonizza, sempre più indolenzito, mentre i depositi dei potenti accumulano derrate su derrate.
Ci sono stomaci che non hanno il permesso di riempirsi, ci sono occhi di uomini che non devono appoggiarsi sulla Costituzione.
I cardi corrono e corrono spinti dal vento su lande desolate, mentre i bambini ricoperti di stracci, tanto assuefatti al dolore da non provare più nulla, li inseguono senza briglie. Satolli di quell’orribile libertà di chi ha perso qualsiasi legame e qualsiasi risorsa.
Attraverso la voce di un ragazzino errabondo Istrati parla di una Romania di inizio Novecento, sono poche pagine intense e disperate. Raccontano di un Paese e di un popolo. Di dolore, di oppressione, di rivoluzione. Piacevole lettura, colma di folclore ed empatia su personaggi ben delineati e ambientazioni tracciate con precisione, nonostante la brevità del romanzo e l’essenzialità della penna.
Indicazioni utili
Yahoo !
Medico di bordo e appassionato di viaggi per mare, il dottor Gulliver vivrà avventure portentose in questo romanzo scritto da Jonathan Swift.
Da un primo naufragio sull’isola di Lilliput dove il novello gigante esplorerà una terra abitata da creature minuscole, verremo catapultati a Brobdingnan dove invece vivono uomini e animali enormi e Gulliver diverrà grande attrazione per la sua piccolezza.
Incontrerà individui immortali e popoli che perorano la scienza e la sperimentazione, anche quando queste sono evidentemente portatrici di povertà e malessere.
Approderà infine nella terra dei cavalli parlanti, esemplari unici di saggezza ed onestà che lo sproneranno ad essere un buon cavallo, piuttosto che un cattivo uomo.
La vicenda fantasiosa è in realtà un pessimo travestimento per una critica spietata all’Inghilterra del 1700 e agli usi e costumi dei suoi contemporanei, toccando molti frangenti.
Un romanzo piacevole per un critico agguerrito, lo stile adottato del rendiconto di viaggio -coniugato al passato e privo di una qualsiasi forma di discorso diretto- non mi ha particolarmente entusiasmata.
Resta comunque un classico per adulti che val la pena di annoverare tra i libri letti.
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HABEMUS MALLEUM ANIMI
È solito lasciare delle mele fresche nel salottino, cosicché i pazienti possano mangiarne mentre attendono. Si infila il Barbour per rincasare. Un lungo filo blu penzola da un ago infilzato nel frutto.
I cani non rispondono al richiamo, invisibili nel fitto del bosco, li sente ululare e latrare disperatamente. Come quando hanno paura.
Nell’anticamera lo psicoterapeuta ha installato un bottone, in modo che i piccoli pazienti possano attivare una luce rossa nello studio solo quando si sentono pronti per il colloquio. Da tempo la sala è vuota e la porta chiusa a chiave, ma nella stanza del dottor Gerber il segnale scarlatto lampeggia. Inesorabilmente.
Normalmente, viviamo nell’oscurità per dieci interi anni della nostra vita, gli occhi chiusi quattro secondi ogni minuto. Lui non sbatte le palpebre.
Ricordati di questo ciclo: isolamento, controllo, incertezza, reiterazione, rieducazione.
Se affermassero che le pratiche ipnotiche ed i risultati descritti in questo romanzo fossero un mero frutto della fantasia dell’autore, potremmo opporre resistenza e dire che l’invenzione non fagociti entusiasmi. Invece, il libro si basa su ricerche e percorsi di psicoterapia reale, quindi l’opera è decisamente accattivante.
La penna fluida di Carrisi è gravida di colpi di scena ed i brevi capitoli impongono voracità al lettore in corsa, che ogni tanto si perde e poi si ritrova. Un’equazione complessa, incredibilmente inverosimile, eppure lezione dopo lezione ci vengono forniti gli elementi per risolverla in questo esuberante thriller dove si scava nella psiche manipolata, si rivanga nel passato, si riflette sul presente.
Buona caratterizzazione dei personaggi, Carrisi rende bene il profilo psicologico così come quello visivo e pure la localizzazione tra Firenze e i boschi del Mugello è ben concretizzata.
Ma tu, sei veramente dove credi di essere? Per scoprirlo dovresti morire. Solo la morte spezza l’illusione.
Buona lettura.
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Me oi
"Me oi"
Grida la bambina, quando quell’uomo colpisce la donna ripetutamente, mentre si accascia a terra ormai stremata dalla fame. Era solo una pannocchia, qualche chicco di grano per sua figlia, il puntino giallo di un sole per la sopravvivenza.
“Me oi”
Chiama la bambina, risvegliandosi esausta nella foresta, legata a un albero con corde strette ai polsi. Poi in un angolo la vede, i lunghi capelli neri adagiati sul corpo inerme.
Me oi è una parola bellissima in vietnamita, vuole dire Mamma.
Da generazioni di madri è avvinto questo libro, saga di donne coraggiose, coriacee, aggrappate alla vita per amore dei figli e della famiglia.
Una nonna racconta alla nipote le vicende che nei decenni colpirono i loro antenati, nel Vietnam martoriato dal nemico straniero e da guerre intestine.
Il Novecento, un secolo che mise a dura prova la popolazione con la grande carestia del 1945. Le succedette poi la riforma agraria, con le violenze e le ingiustizie perpetrate nei confronti dei proprietari terrieri e dei commercianti. La terribile guerra contro gli americani del napalm e dell’agente arancio, quindi il violento conflitto fratricida tra nord e sud.
La scrittura è semplice ed asciutta, priva di eleganza e virtuosismi. Di primo impatto valutata acerba poi, però, procedendo nella lettura che scorre fluidamente nonostante l’intreccio temporale, ho rivalutato il libro nella sua interezza. I contenuti sono talmente forti e toccanti che la penna spoglia da fragile diviene delicata e timidamente poetica. Frasi in lingua originale e proverbi della tradizione popolare animano le pagine. I luoghi emergono copiosi, raccontandoci di usi e costumi.
Non c’è volontà di stupire con le parole – nell’amore o nell’orrore – ma eloquenti sono il flusso storico degli eventi e le vicende delle genti vietnamite. Dal microcosmo di un nucleo familiare si dischiude la prospettiva ampissima di una nazione intera.
Un libro complessivamente potente, in cui anche le frasi più essenziali -su cui siamo soliti scorrere senza interesse- sanno essere evocative, se ci fermiamo ad ascoltare con attenzione il loro significato:
“Piangemmo e ridemmo. Poi ridemmo e piangemmo.”
Mentre, finalmente, potevo abbracciare di nuovo mia madre.
Me oi.
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Calati juncu, ca passa la china
Frutto di una serie di interviste con il giudice Falcone, la giornalista Marcelle Padovani propone un testo lineare, privandolo delle inevitabili interruzione di domanda e risposta. Ne consegue un trattato esaustivo, interessante e di facile fruizione per ogni platea e, benché siano passati molti anni dagli incontri del 1991, resta un elaborato di estrema importanza di uno dei più grandi conoscitori e oppositori del fenomeno mafioso.
Nel volume si argomenta della violenza di Cosa Nostra, del sistema di scambio dei messaggi, dell’intrecciarsi di mafia e società siciliana, della struttura organizzativa, del profitto e della patologia del potere anche attraverso gli interrogatori di pentiti e indagati.
Ce ne parla un “servitore dello Stato in terra infidelium”: uomo lucido, intelligente, pignolo, estremamente preparato e ben consapevole dei rischi della sua professione. Un magistrato che aveva il suo incarico lo aveva scelto, che credeva nello Stato, che anelava ad uno Stato forte, a un’entità collettiva che avrebbe potuto difendere i suoi singoli membri, perché è facile uccidere un uomo solo ma è complesso estirpare un organismo collettivo.
“Chi rappresenta l’autorità dello Stato in territorio nemico, ha il dovere di essere invulnerabile. Almeno nei limiti della prevedibilità e della fattibilità.”
Sebbene ai tempi del maxiprocesso di Palermo fossi una bambina, ho un ricordo nitido della famiglia raccolta a tavola in silenzio, mentre il piccolo televisore in bianco e nero inquadrava l’aula bunker. Si era di fronte ad un evento colossale e, pur comprendendo poco dei contenuti, in casa la tensione era tangibile. Oggi, senziente, rileggendo questo flusso di pensieri e informazioni convergo nel rispettoso, ieratico stupore degli adulti di quei giorni, verso gli uomini di Legge onesti, impegnati, tenaci, efficaci. Che poi la vita la persero, davvero.
“In Sicilia la mafia uccide i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
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Autoritratto
Romanzo autobiografico, il volume spazia dall’infanzia toscana di Maraini all’età adulta costellata di viaggi ed esperienze lontane.
Chi fosse attratto dal vagabondare dell’uomo cosmopolita e dall’affermato orientalista, sappia che ben metà di questo corposo volume tratta dalla fanciullezza alla prima adolescenza, in una cornice prettamente italiana.
Poi si spazia su paesi esotici, non raggiungendo mai però il livello espositivo cui auspicavo. Si evince che si tratti del lavoro di un erudito, eppure i frequenti discorsi diretti sono enunciati con tanta semplicità da renderli banali.
Il troppo soffermarsi su particolari insignificanti al fine della narrazione ed il frequente divagare dall’argomento principe implicano un continuo distrarre il lettore dal focus, il romanzo perde appetibilità affluendo in uno noia stagnante.
Concordo con molti altri lettori nel ravvisare un forte egocentrismo dell’autore, distribuito a macchia d’olio tra le pagine. Più che una raccolta di esperienze, di luoghi e popoli, di profumi e colori, di emozione e scoperta, egli si avventura in una marcata autocelebrazione di se stesso. Come se un pittore prestigioso dei tempi trascorsi, dopo essersi visto schiudere le porte dei regni più ammalianti ed avere ritratto volti di sovrani e cortigiani ai più inavvicinabili, ci esponesse in una mostra i suoi soli autoritratti e sullo sfondo un alone dell’altrove.
Infine, ho trovato urticante la scelta di utilizzare un alter ego per la narrazione. Ne risulta una scrittura poco personale, delegata a un soggetto diverso il cui nome, Clè, credo venga ripetuto almeno un milione di volte.
Ci contavo moltissimo, ma evidentemente le molte doti di Fosco Maraini non confluiscono nell’arte della scrittura.
Un giorno No
La cerimonia del tè è un rituale zen che segue un codice molto preciso, richiede anni di studio ed esercizio per essere svolto correttamente.
Pratica molto diffusa nell’antichità, nel Giappone moderno ha assunto un ruolo di nicchia, pur sempre molto rappresentativo della tradizione del Paese.
Su consiglio della madre una giovanissima e svogliata Morishita Noriko intraprese le prime lezioni, inconsapevole che l’avrebbero accompagnata per tutta la vita fino a promuovere lei stessa maestra di cerimonia.
Le premesse sono invitanti, la sinossi accattivante e la copertina di questo volume è efficiente: cattura.
Il romanzo presenta però molti difetti che mi impongono una bocciatura, dopo tante pagine perse ad annoiarmi. Per prima cosa, l’approccio della protagonista alla Via del Tè avviene senza molta convinzione e ugualmente procede negli anni. La narrazione si concentra più sul lagnarsi della difficoltà di imparare il rituale che nelle soddisfazioni cui il percorso conduce. Pure, l’aspetto filosofico sull’approccio alla vita ha uno sviluppo blando, nel testo.
I passaggi, i gesti, gli oggetti utilizzati sono descritti con dovizia di particolari e io capisco la necessità di utilizzare termini giapponesi. Sarebbe però utile proporre un vocabolario di facile fruizione, cosa che non avviene se posto alla fine del libro. Salvo parli un giapponese fluente, il lettore si trova dinanzi a un dilemma: distogliere in continuazione lo sguardo alla ricerca del significato e perdere il filo della narrazione, o procedere linearmente capendo poco o nulla dei vari movimenti?
Provate entrambe le strade con risultati scadenti, Ogni giorno sarà pure un buon giorno, ma questo libro è un mio mattino iniziato a ruzzoloni.
Garlaschelli feat Miller
Si lamentano della mia pelle fredda, per forza ripeto.
Un tempo ero di pietra.
Osservano che sono terribilmente pallida, certamente asserisco ogni volta.
Un tempo ero di pietra.
Lasciatemi libera, portatemi al sole. Il sole scalda la pietra.
Rivisitazione in chiave moderna del Mito di Galatea e Pigmalione, è un racconto che vorrebbe parlare di un amore controverso. Di esercizio del potere e di sottomissione, di solitudine, umiliazione e sofferenza, di candore e coraggio. Di bellezza, di maschilismo, di una ragazza dalla pelle algida, della dolcezza di una madre. Di un uomo in carne e ossa con un cuore di marmo e di una donna di pietra, con un cuore pulsante.
Vorrebbe, scrivo obbligata al condizionale, poiché buono sarebbe il potenziale se il contenuto fosse sviluppato opportunamente.
Il nome di Miller come autrice permeava di una certa sicurezza il lettore inconsapevole che è in me. Ebbene, dimenticativi della penna voluttuosa e corposa della scrittrice di Circe -che avevo divorato- questo è un raccontino appena schizzato e nemmeno troppo bene, purtroppo.
Breve e con una penna poco curata, da solo non avrebbe potuto essere pubblicato ed infatti il volume è accompagnato dalle belle illustrazioni di Ambra Garlaschelli, specializzata in arti visive.
Chiamiamo le cose col loro nome, più che un embrione di Madeline Miller corredato delle immagini dell’italiana, lo definirei un piacevole albo di Garlaschelli, argomentato da un cenno letterario di Miller.
Consiglio vivamente di sfogliarlo in libreria, piuttosto che acquistarlo on line. Credo sia il modo migliore per valutare se possa essere un libro adatto ai propri gusti o meno, non avendo nulla a che vedere con la produzione precedente dell’americana. Diversamente, se amate la grafica, sono immagini molto belle, appassionate ed evocative.
North
Di origini danesi ma trapiantata a Londra, Aurell Bronte lasciò il suo Paese alla scoperta del mondo e nel confrontarsi con luoghi lontani si ritrovò a rivalutare le proprie tradizioni.
Se gli esteti fossero obnubilati dalla bruttezza della proposta editoriale italiana, consiglio vivamente l’edizione inglese che oltre al più sobrio ed azzeccato titolo NORTH, propone una copertina che val bene il prezzo del volume.
Il libro, corredato di magnifiche immagini, propone un viaggio curioso negli usi e costumi scandinavi.
Non un vero proprio saggio ma nemmeno un libercolo meramente fotografico, si bilancia in un prodotto leggero, divertente e sufficientemente elaborato.
In viaggio attraverso Svezia, Norvegia e Danimarca approfondiremo molti argomenti, entrando nelle case e sbirciando nelle stanze, tra gli scaffali, nella vita domestica ma anche lavorativa di questi popoli. Immancabile il capitolo dedicato al design nordico, sfilano poi le infinite piste ciclabili e la cultura della bicicletta. I lunghi inverni bui e la profusione di dolci tipici per addolcire le giornate, alberi di Natale abbigliati di candele vere mentre la famiglia compie un veloce girotondo.
I pic nic all’aperto non temono intemperie, non esiste un luogo freddo ma un abbigliamento sbagliato.
Un bagno gelato e una sauna bollente, poi avvolgersi in un caldo maglione di spessa lana intrecciata a mano. Arriva l’agognata primavera e le casette di legno tra laghi, spiagge e boschi riaprono i battenti. Gnomi ed elfi, vichinghi e guerriere spopolano tra le pagine mentre gli scandinavi in carne ed ossa pagano tasse salate, ricevendo però in cambio un sistema di welfare tra i più efficienti al mondo.
Ampio spettro per un libro da salotto elegante, amabile e che ho molto amato.
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Hai voluto la bicicletta?=
Tre regole fondamentali legiferano sul mondo della robotica, sono imprescindibili a tutela della vita umana. Ma, fatta la legge, non esiste forse un modo per aggirarla?
Sembra questo il messaggio di allerta che trapela dai racconti di Asimov, dove che si tratti di manomissione, di disobbedienza o di tilt, quella dei robot non è una sottomissione scontata.
Si insinua inevitabilmente nel lettore il dubbio che l’alta tecnologia possa prendere il sopravvento. Esperti ingegneri collaudatori e una psicologa specializzata in robotica lavorano strenuamente per arginare i danni dovuti al malfunzionamento delle macchine pensanti, cercando di celare all’opinione pubblica avversa le disfunzioni più pericolose.
Antologia di fantascienza scritta negli anni Cinquanta e ambientata nel futuro, ad eccezione del primo capitolo i racconti, seppur indipendenti tra loro, vedono ricomparire gli stessi personaggi, dando un senso di continuità alla narrazione.
Il libro scorre fluido e piacevole e gli anni che si sono accumulati sulle sue pagine non pesano, anche se non eccelle nella forma o nel contenuto. Francamente pensavo in una lettura più avvincente, quindi promosso ma con riserva.
forza e coraggio
Bambina testarda, sopporta ciò che deve, sola nella famiglia che non la ama e non la vuole.
Le dicono cattiva, sono menzogne, sono meschinità, sono il tormento sulla pelle tenera di un’innocente.
Se lo stomaco pieno non riempie i vuoti di una carenza emotiva, lo stomaco vuoto mortifica e tormenta ma perlomeno, nel rigido collegio dove l’hanno confinata, ci si nutre del calore di qualche buona amicizia.
Quel che l’infanzia svilisce, il trascorrere degli anni rinvigorisce: una piccola, giovane donna colta piena di energia e capacità. Sincera, caparbia e onesta, intelligente emancipata ed indipendente, quanta saggezza e quanto coraggio in una ragazza che scopre l’intensità dell’amore il giorno in cui le dita annodate del destino e del passato hanno già mosso la pedina dei posteri.
Un romanzo che ha i suoi anni e non li cela, tradito dai vetusti dialoghi, eppure non potrebbe essere altrimenti, che ne sarebbe del popolo di Jane Eyre se non parlasse come il popolo di Jane Eyre?
Un’autrice, Charlotte Bronte, di una potenza suggestiva nel sezionare l’animo delle sue creature e nel descrivere vividamente ogni luogo, ogni spazio, ogni angolo, ogni sensazione.
Avrete fame, molta fame, quando lei non avrà nulla da inghiottire e sarà un tripudio dei sensi quando stringerete finalmente tra le dita quella fetta sottile di pane nero imburrato.
Morirete, morirete di freddo, quando si avvinghierà alla sua compagna di collegio sotto alle coperte, mentre l’acqua sul comodino ghiaccia ed il vento tagliente si insinua impietoso nel dormitorio.
Tira il mantello sopra il lungo abito di raso nero e sale i gradini della diligenza, seguire dopo una lunga notte un sogno, la voce, il richiamo della vita.
Jane Eyre è di nuovo in viaggio, temeraria fronteggia il suo destino.
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Un destino segnato
Hanno banchettato sul suo bel corpo di prostituta, l’hanno amata furiosamente, si sono battuti per possederla.
Ma qualunque forma di amore si sia posato su Keyla la rossa, qualunque accenno di tenerezza, qualunque gesto di amicizia e fratellanza - anche quando addenterà la redenzione, quando sfamerà se stessa ed il suo compagno vendendo ceste di panini bianchi per strada - non smetterà mai di essere per ognuno di loro Keyla la puttana. Lo scrivo così, col termine più ingiurioso, perché ciò che sfregia il suo profilo algido è sempre e solo disprezzo. Disprezzo verso una creatura che cela candore, emersa dalle oscure profondità di ben tre bordelli.
Tutti, chi più chi meno, la vogliono usare, la vogliono abusare in un romanzo che è un tiro alla fune tra la corsa al riscatto di una donna semplice e piagata e una sfilza di uomini che la ingozzano di melma per appesantirla, affondarla di nuovo. Implora salvezza, ma non c’è pietà, non c’è pietà per Keyla.
Compito del lettore amarla un poco, come nessuno l’ha amata mai.
Nel ghetto ebraico, tra Varsavia e New York, Singer ci parla dei vizi dei suoi tempi, di depravazione e disprezzo, di povertà e fatica. Di splendide pennellate e realismo sono dipinte le ambientazioni, potente è la profilatura dei personaggi (odiosi) che raggiunge il suo apice di fulgore con la protagonista.
Appiattito e rallentato nella parte centrale mi ha un po' annoiata, resta comunque un libro di grande impatto.
A ognuno la sua croce
Amore scoccato con un colpo di fulmine, amore coltivato nel tempo, amore procacciato, amore subdolo.
Henry è un ultrasessantenne che dell’amore ha fatto la sua ragione di vita, ma più come business che come canzone di sentimenti. Cresciuto con la passione per i libri ma destinato a seguire le orme del padre giardiniere rinunciando all’istruzione, la lettura compulsiva lo accompagna per tutta la vita tanto da essere supporto anche nella sua attività di seduttore. Studia le donne per carpirne i segreti e sfruttarli nelle arti di adescatore, con un discreto successo.
Daisy, sua coetanea, non solo legge ma scrive testi teatrali come drammaturga. Donna eterea, elegante e sola, rincorre una stabilità nella solitudine che purtroppo non riesce a raggiungere, un viaggio in Messico o l’acquisto di un bello chalet in campagna non le riempiono la vita ma ne evidenziano i vuoti.
Ad ogni giardino dismesso, il suo giardiniere.
Romanzo (inspiegabilmente) appagante per una moltitudine di lettori, io con uno sforzo ne salvo la copertina. Tremendamente prolisso per i contenuti trattati, capitoli su capitoli che ripetono stesse scene e concetti. Si approfondiscono i due protagonisti con molte pagine, ma il taglio psicologico è vacuo, scarno l’impatto emotivo, la vicenda è prevedibile e non brilla nemmeno per un capoverso.
Seguire i maneggi di Henry alla ricerca di una sposa è stato snervante e più lo osservavo più mi pareva poco maschile, macchinoso e molto inverosimile il suo atteggiamento. Come se invece di creare un personaggio compiuto, la Howard fosse solo riuscita a proiettare l’idea femminile di quel tipo di maschio.
Trascinandomi con estrema fatica e un gran bagaglio di noia sulle spalle, un guizzo di originalità giusto nell’ultima pagina.
Ma forse ero solo felice perché finalmente era tempo di sbarazzarmi di questo libro insignificante.
I quattro desideri
Chiedono ciò che hanno perduto o che mai han posseduto, chiedono di ritrovare la propria casa, un cervello, un cuore, il coraggio.
Quattro desideri che legano altrettante creature quanto più dissimili: una bimba, uno spaventapasseri, un omino di latta ed un leone alla ricerca di un incantesimo che li renda finalmente felici.
Casa, cervello, cuore, coraggio. Non sono i desideri più belli di cui abbiate mai letto?
L’incontro con il mago è l’ultima delle avventure che i nostri amici vivranno girovagando nel Regno di Oz, tra fate buone e malvagie scarpette d’argento scimmie volanti torrenti limpidi frutti succosi mucche e damine di porcellana. Noi, nel frattempo, col nostro animo bambino -insabbiato da una duna di età adulta- ci godiamo la narrazione che profuma di buono come quel pezzo di pagnotta che Dorothy si porta nel cestino, attentamente avvolto in un candido panno.
Tra paesaggi incantevoli e creature fantastiche, sorrido sfogliando queste pagine leggere e veloci di una favola semplice e bella, che ha la freschezza e la leggerezza di una colomba bianca, in tempo di pace.
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il settimo ponte
Esiste un luogo, esiste un tempo in cui due estranei si incontrano e nell’intersezione, gli piaccia o meno, hanno la certezza che il futuro non potrà essere altrimenti.
Francesca Johnson lasciò che i suoi sogni di ragazza venissero assorbiti e smorzati dalla vita monotona di campagna, con i figli da crescere e un buon marito da affiancare seppur senza passione, senza poesia, senza magia. Non scelse di coltivarli, ma di reciderli. Poteva essere bellissima, se solo avesse avuto un motivo per splendere.
Robert Kincaid è un fotografo, è uno spirito libero e gentile, è il leopardo che si muove flessuoso.
E’la strofa di una canzone jazz, la passione in un sospiro, spazi infiniti senza confini.
Il settimo ponte si chiama Roseman Bridge, se non fosse stato così complicato individuarlo lui non avrebbe imboccato il viale della fattoria, ma invece successe. Accadde con una forza inaudita, irrefrenabile, irrinunciabile come solo certi amori che travalicano il mero sentimento e divengono un legame trascendentale, spirituale.
Sciamani e vestali, dei e vagabondi, poetesse e lupi grigi, cowboy e autostrade.
Potrei scrivere che questo libro non è eccezionale nella forma e neppure innovativo nel contenuto.
Lo farei se fossi un critico e dovessi concretizzare un parere tecnico, se fossi un editore e dovessi soddisfare un preciso segmento di mercato. Ma sono un lettore e so bene che oltre la forma c’è l’impatto emotivo, la potenza e l’incantesimo.
Allora sfiorate questo romanzo senza aspettative, come quando non avete un ombrello e vi chiedete spiando attraverso la porta se il tempo sia piovoso o soleggiato, poi vada come vada.
Siate l’ape che si nutre innocua nel nettare, siate il filo d’erba che dondola ignaro nel vento.
Io aspetterò che il tempo asciughi queste lacrime che sono scese copiose, lacrime che possono essere raccontate solo dal suono di un sassofono. Come nessun libro più riusciva a sollecitare da tanto tempo, sebbene i volumi si impilino in questa stanza ancora e ancora e ancora.
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Vivere...e sorridere dei guai
Shantaram è il nome indiano che gli hanno attribuito, uomo di pace, significa.
Eppure, avvinghiandoci alla lunga avventura che è la vita dell’australiano più indiano mai esistito, non pace ma tormento scopriamo scorrere nelle sue vene. Il supplizio di colpe mai sanate, di rimpianti mai sopiti, di efferate umiliazioni mai superate, sofferenze mai cicatrizzate e una fame atavica di redenzione. La forza di Linbaba si riversa nella sua lealtà e nel coraggio di donarsi ai più deboli. E scelte sbagliate per il motivo giusto.
In un racconto di eventi, ma anche di afrori e di colori, di sentimenti e di passioni, l’India di Roberts si pressa fra i denti, e stringendo il morso non sono solo parole che si spremono dalle sue carni.
E’un paese di corruzione e violenza, di fame e sporcizia, di odori nauseabondi e profumi esotici, di concretezza e spiritualità, ma soprattutto nucleo della bellezza del vivere indefesso.
Lo vedi quel sorriso irresistibile di Prabaker, nonostante le difficoltà di una vita nello slum, nonostante la brutalità di un destino avverso?
Sorriso indomabile che una volta scomparso ci fa capire che non dobbiamo temere di perdere l’amore in sua presenza, piuttosto della nostra incapacità di smettere di amare nell’assenza eterna, quando la morte ci strapperà l’oggetto del nostro affetto, fino a toglierci il fiato. Poveri o ricchi, in ogni luogo del mondo,
“Fino a quando il destino CE LO CONSENTE, continuiamo a vivere. Che Dio ci aiuti. Che Dio ci perdoni. Continuiamo a vivere.”
Da Bombay con le sue immani contraddizioni fino ai monti dell’Afghanistan dove si compie la brutale guerra santa, dall’amore sulla sabbia di Goa baciata dal tramonto a un lurido buco dove ci si ammazza lentamente di eroina, il voluminoso numero di pagine non spaventi chi legge libri di esile corporatura, perché le vicende avvincenti e la fluidità di scrittura lo classificano come un lunghissimo libro breve.
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Bell'idea
Maria Teresa Orsi, professore emerito a La Sapienza di Roma nonché curatrice di moltissime edizioni italiane di letteratura giapponese e Fabio Sebastiano Tana, giornalista, decidono di unire le loro esperienze per scrivere in ventotto tappe un viaggio attraverso il Giappone.
Il parametro temporale è libero, ci si muove tra un capitolo adagiato nel Medioevo e un altro in tempi contemporanei con un intento ben preciso: partire da un soggetto letterario per poi raccontare di un luogo, effettivamente esistente, effettivamente visitato dai nostri autori. L’idea è stimolante, ritengo eccitante visitare i panorami delle nostre letture e, quando non possiamo farlo noi stessi, per interposta persona possiamo viaggiare comunque lontano, nello spazio e nella letteratura.
Dal candore di Yuzawa nell’indimenticabile incipit de Il paese delle nevi di Kawabata alle infinite fioriture dei ciliegi di Yoshino con Tanizaki, dalle terribili cicatrici di Hiroshima con Tamiki al ponte dei sogni a Uji di Murasaki Shikibu, lo sguardo si estende ampio. Talvolta sono esperienze già vissute da molti di noi, talaltra sono buono spunto per conoscere nuovi autori.
Non ci si lasci ingannare dalla bella copertina patinata, prima di scegliere il volume si calibri lo spessore dei due autori. Non si tratta di una lettura leggera o di mero intrattenimento ma di vera e propria saggistica. Pur riconoscendo il valore dei contenuti, non nascondo la mia delusione verso l’opera.
Il grande bagaglio culturale di Orsi è qui esposto in maniera molto tecnica e precisa, ma manca una modulazione appassionante.
Non ho percepito alcuna enucleazione dell’entusiasmo e dell’amore verso queste magnifiche escursioni. L’impatto emozionale è stato nullo e per chi legge saggistica per piacere – non per dovere – solo se una penna avvincente stringe la mano alla conoscenza, l’opera diviene trascinante.
Cento teste, cento cappelli
Trasse da una tasca un piccolo volume di Omero, lesse e rilesse alcune frasi dell’Odissea, quindi se ne stette per qualche tempo così. Immobile nei suoi fremiti, gioioso e felice di vivere.
Ambientato agli albori del 1900, il romanzo narra del francese Michel scampato alla morte dopo una grave forma di tubercolosi. Come rinato, egli rivaluta la sua posizione e la vita stessa. Il matrimonio senza amore con una donna docile e remissiva, gli anni di studi e ricerche storiche che non lo appassionano più, la logica delle formalità e dell’etica a cui è stato educato e a cui non è saputo sfuggire.
Il flusso di coscienza si alterna a un viaggio verso Tunisi e indietro in Europa, tra l’ozio e la riorganizzazione delle proprietà di famiglia. Poi ancora in Africa nonostante la debolezza di Marceline, le parti invertite ma l’epilogo non sempre, vittima del conformismo che sciogliendo le catene si arma di egoismo e deflagra silenziosamente assassina.
L’apparenza indossata da Michel è oppressione della vera essenza umana che gli appartiene, pulsioni che può negare a chiunque, ma non a se stesso.
“Sapersi liberare non è niente, il difficile è saper essere liberi”
Romanzo breve e profondo, introspettivo, a suo modo crudele e a suo modo liberatorio attraverso una magnifica scrittura che, priva di lirismo formale, sprigiona poesia da ciò che lambisce.
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Situ sempio?
Correva l’anno 1519 quando da Siviglia cinque navi partirono con le stive colme di alimenti e merce di scambio, al loro comando Ferdinando Magellano, che intendeva compiere il giro del mondo per raggiungere le isole Molucche attraverso lo stretto -mai individuato prima- per l’Oceano Pacifico.
A bordo, il vicentino Antonio Pigafetta, che verrà individuato dal comandante supremo come incaricato di redigere un dettagliato resoconto della lunga vicenda.
Il diario autografo di Pigafetta non è mai stato ritrovato, ma una copia del 1500 giudicata attendibile è il documento da cui nasce questo lavoro di Giliberto e Piovan, in cui si ricostruisce con un linguaggio contemporaneo l’intera vicenda.
Il contenuto è ricchissimo e di estremo fascino, benchè la forma non abbia affatto raggiunto il livello di godibilità che auspicavo. Ritengo sia carente di estro narrativo, impedendo alle emozioni di sprigionarsi dalle pagine. Non basta dire “sono felice”, per esternare il sentimento della felicità irradiandone il lettore… Ne risulta un elaborato fitto di dettagli ma privo di anima, piuttosto piatto e noioso come un lungo elenco di avvenimenti che denunciano sì minuziosamente i fatti, ma non rendono tattilmente la disperazione, la sofferenza, lo sconcerto ed il giubilo di un’incredibile avventura durata ben tre anni.
tempo di viaggiare
Il vecchio siede a terra, davanti a sé espone la mercanzia in vendita. Un limone, uno soltanto – sarà succoso oppure no, è di un giallo così intenso che io lo comprerei a distanza di miglia, a distanza di decenni-.
Nella piazza del pane sono in fila donne velate, la cesta coperta e una pagnotta appoggiata sul telo. La espongono agli avventori, come fosse un pezzo di quel loro corpo ben celato. La sollevano delicate tra le mani, ne tastano la morbidezza, la lanciano e io ne sento il profumo – a distanza di miglia, a distanza di decenni-.
Il sole è alto ma dalla stanza al secondo piano affiora solo l’oscurità. Dietro una grata il bell’ovale di una ragazza col capo scoperto, blatera una litania incomprensibile e dolce, come se gli tenesse la testa accoccolata fra le mani – sarà pazza o forse no, sento i polpastrelli sul cuoio capelluto a distanza di miglia, a distanza di decenni-.
Il mendicante cieco raccoglie la moneta e la mastica a lungo, poi è saliva e metallo, non ha valore e non importa. Dispensa buoni sortilegi, circondato da un’aura di santità egli aleggia verso lo zenit dei sensi – ti darei due monete e pagherei il piccolo prezzo della tua benedizione con gli occhi chiusi come te, a distanza di miglia, a distanza di decenni-.
Case, povere o semplici, dimore che si susseguono senza finestre sull’esterno, un invito ad accogliere e permettere ai curiosi di spiare in quei focolai domestici di vite distanti, di vite diverse – trova un angolo anche per me, che questo si chiama viaggiare e io mi sveglierò di nuovo viaggiando a distanza di miglia, a distanza di decenni-.
Correva l’anno 1954 quando Elias Canetti si recò a Marrakech per un viaggio di piacere, questo volumetto racchiude le sue impressioni e le sue esperienze tra le mura e le genti della città marocchina. Prosa scorrevole, elegante e piacevolmente descrittiva con sensibilità e umanità l’autore profila il racconto arricchendolo di emozioni. Tra gioie, stupore, pene e disappunto l’ampiezza del campo oculare di Canetti è vastissima. Non tanto perché copra orizzonti infiniti, ma perché sa cogliere i dettagli più insignificanti che si fanno portavoce di uno scenario tanto verace quanto suggestivo.
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novembre
Henry Kitteridge compie con ritualità il suo lavoro nella farmacia su due piani. Immerso tra scaffali di flaconi, borse dell’acqua calda e bende accontenta clienti che conosce come il palmo della sua mano.
Accanto a lui Denise, la nuova aiutante efficiente ed intelligente, ventidue anni, una laurea, un marito e una roulotte come casa.
Olive la moglie del farmacista, un tempo rigida insegnante ancora ben impressa nei ricordi degli alunni ormai cresciuti, robusta, energica, caustica e polemica si occupa della casa e del figlio.
Olive si sbaglia ma non lo ammette mai.
Ambientato in un villaggio affacciato sull’Oceano Atlantico, il romanzo si dipana tra le molte personalità che lo popolano, mentre non di particolare rilevanza è la panoramica dei luoghi. Regna sovrana per tutta la narrazione una sorta di musica malinconica, sulle note di un irreversibile fallimento. A Crosby non ho incontrato un giorno felice o un episodio gioioso, pure il dolore mi è parso assopito, nulla ha spinto verso il cielo o il centro della terra le corde della mia altalena emozionale. Un lungo progetto infausto che lascia presagire l’imminente insuccesso.
Non ho avuto il piacere di conoscere l’indimenticabile personaggio di Olive Kitteridge tanto conclamato da critici e colleghi lettori, ma piuttosto una donna burbera, tetra ed insopportabile.
Dal ritmo piatto, lo ho terminato faticando, annoiandomi pagina dopo pagina.
Se questo libro fosse un mese lo chiamerei novembre. Un novembre grigio lungo un anno intero e una pioggia fine come la nebbia, mentre inutilmente mi riparo sotto ad un alberello spoglio.
Del go e di altri luoghi ameni
“Io non gioco per vincere, io gioco a go”
La tradizione orientale nemmeno lo considera un gioco, piuttosto un’arte, con una filosofia ben precisa a caratterizzarlo. Lo scopo non è quello di uccidere l’avversario, ma di occupare il maggiore spazio possibile e renderlo inviolabile. La nobiltà dell’Oriente confluisce nei ritmi lenti e nel fitto protocollo, come la cerimonia del tè il go affonda le radici nella raffinata tradizione classica giapponese.
L’anziano maestro siede con le ginocchia appoggiate sul tatami che profuma di nuovo, il mezzo busto rigido nella concentrazione ma allo stesso tempo leggero, in pace. Sta disputando l’ultima partita, l’ultimo confronto nell’inevitabile successione tra il vecchio e il nuovo.
Mentre cumuli di ore trascorrono immobili in attesa che l’avversario scelga la sua mossa, il maestro realizza quanto il Go abbia ormai perso la sua grandezza e si sia ridotto a un infinito elenco di regole. I sassi del fiume rumoreggiano nelle acque ingrossate, le terme attendono di immergere il prossimo bagnante, il temporale estivo infuria. Il maestro vuota l’ennesima tazza di tè.
Incantevoli le scenografie che Kawabata ci dona in ogni suo romanzo, si noti la grazia con cui riesce a narrare di un gioco distante dagli Occidentali, di una lentezza esasperante per noi elementi esogeni.
C’è qualcosa di eccezionale nella penna di questo autore, bisogna abbattere gli argini e lasciarsi cogliere dal suo talento.
Dopo il romanzo una breve guida sulle regole del go non vi renderà degni di un torneo agonistico, ma un’infarinatura semplificherà decisamente la lettura.
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Nel luogo di grandi sorgenti
Era una bambina e nel compito in classe a tema “Io, tra vent’anni” scrisse dell’Africa e della sua vita futura in quel luogo esotico. Ottenne un brutto voto, perché ogni contenuto era fuori traccia e si chiedeva concretezza. Vent’anni dopo, dall’Africa, Kuki spedì una cartolina alla sua maestra.
Memoir e autobiografia, Gallman racconta di vita e di luoghi, di poesia e profumi, di natura e animali attraverso la grande passione che è per lei la terra africana. Trasferitasi col secondo marito, i due si insediarono in una immensa proprietà alle porte di Nairobi. Spalmato il racconto in un ampio arco temporale, osserviamo insidiarsi l’élite bianca dei grandi proprietari terrieri. Furono i safari per il diletto dei ricchi occidentali e fu il bracconaggio, poi in epilogo lo sforzo per la conservazione: l’uomo tendenzialmente distrugge e poi cerca di rimediare.
La savana un tempo gremita di fiere, mobilitazione per salvaguardare le specie in via di estinzione, fuga degli indigeni verso gli insediamenti metropolitani, la perdita del compagno amato e la forza di ricominciare fendendo la sofferenza, una corazza di coraggio.
Tramonti infuocati alle spalle delle acacie dove li seppellì, brucia eterno un fuoco in loro memoria. Rifioriscono opulente le orchidee, gli elefanti brucano i germogli teneri, il cobra striscia avvolto in una pelle nuova, nella notte un ghepardo si muove furtivo e temibile. Dopo l’arsura arrivano le piogge e la terra ricomincia l’ennesimo ciclo vitale, fragile e bellissimo.
Scrittura scorrevole e romantica, Sognanvo l’Africa è prosa d’affetto e rispetto di una donna e per il suo Kenya. Sigillo sull’amore e sul dolore, promessa di resistenza per custodire nel tempo uno spicchio di terra fertile dai molteplici pericoli che vorrebbero annientarla.
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REQUIEM
Mark Behrendt, due vite disgiunte da un grave trauma: lo stimato psichiatra del prima, l’alcolizzato privato del suo titolo del dopo.
Lara Baumann, due personalità scisse da una tragica perdita: la quasi più giovane primaria della Waldklinik del prima, la commessa del planetario del dopo.
Il ragazzo riposa in stato di shock, viene svegliato da un rumore insolito per quel reparto silenzioso. Vede muoversi qualcosa sotto il letto vuoto accanto al suo. I piedini frusciano, lentamente una bambina carponi scivola allo scoperto, sembra stia cercando qualcosa…poi si gira.
A casa di Doreen, acqua fredda in bottiglia ed antipasti italiani. Il campanello, il vuoto, un dolore pungente al collo, poi buio.
Due giorni. Nove ore. Ventitré minuti.
Questo è il tempo che hai a disposizione per trovare qualcuno, non sai chi e non sai dove, una chiave in tasca. Uccidilo, altrimenti lei morirà.
Wulf Dorn riesce in un’impresa veramente incredibile, scrivere un perfetto requiem dei colpi di scena. Li stermina con un accanimento sbalorditivo, che il Dio del thriller abbia pietà di lui.
Badate, non deve essere stato facile, perché la trama è fitta ed i soggetti interessanti, ma senza suspense questo genere non sfonda.
La lettura è stata noiosa e a tratti mortificante perché ogni tasto si rivela a corde scoperte, ci si ritrova a sapere cosa succederà senza nemmeno leggere, in questa maledettissima scelta di prevedibilità. Un colpo di coda sul finale schiaffeggia brioso il lettore dormiente, ma darne un giudizio è complicatissimo. Ci sono contenuti di pregio, ma il razzo non decolla e verso Wulf Dorn io sono pretenziosa.
Benino ma non benissimo.
Faber est suae quisque fortunae
Eva, Norvegia, 2064
Una donna e la figlia adolescente, una fattoria decadente, la gente in fuga alla ricerca della salvezza in un mondo ormai sfiatato. Annegato di piogge ininterrotte, bruciato di infinite siccità, brutalizzato dalla brutalità dell’uomo. La fame e la sete, il timore di ferirsi o ammalarsi che non esistono ormai più cibo, acqua, farmaci.
Resilienza, per te e per lei. Pietà, verso una creatura sola e sperduta. Speranza: il travaglio di un neonato nel pianeta sbagliato. Due cavalli, forse gli ultimi due rimasti sulla Terra, un gesto di umanità e il cerchio si chiude.
Racconto del mio viaggio in Mongolia, 1882
Sua madre lo avrebbe voluto vedere maritato a una bella ragazza, i nipotini a rincorrersi tra le sottane. Lui sceglie la solitudine, l’avventura, una lunga spedizione in Mongolia alla ricerca di una razza di cavalli che si riteneva estinta. Non siamo padroni di quello che proviamo, siamo padroni di quello che facciamo.
Karin, Mongolia, 1992
A cinquantasei anni rischia tutto. Denaro, lavoro, casa. Un ambizioso progetto per reintrodurre una specie nel suo habitat. Quel suo ragazzo bello e dannato, le notti nei palazzi fatiscenti di Berlino alla ricerca di un figlio cullato da una maledetta siringa di eroina. Una veterinaria, la sua missione è negli orizzonti infiniti delle steppe asiatiche.
Il cavallo di Przewalski è un esemplare selvatico originario della Mongolia, che sfiorò l’estinzione a causa della caccia. Alcuni animali vennero tuttavia avvistati alla fine dell’Ottocento e, dopo la cattura, trasferiti nei giardini zoologici europei con l’intento di ripopolare la specie. Nel 1992 un branco di 16 elementi venne finalmente reintrodotto in Mongolia, oggi ne conta più di 2000, in parte allo stato brado.
Una bella storia vera è la fonte di ispirazione di questo romanzo di Maja Lunde, che alterna tre diversi livelli temporali: il passato più remoto, il passato più recente e il futuro. Il presente spetta al lettore, che coinvolto dallo stimolo ecologista onnipresente nella narrativa di Lunde, assiste al teatro dell’uomo che prima distrugge e poi si danna per ricreare.
Romanzo scorrevole, una volta entrati nella storia diviene avvolgente fino alla commozione.
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AMICI PER LA PELLE
A Westerley si studiano coltivazioni molto particolari: cadaveri.
I corpi, donati dai parenti o lasciati con testamento per fini scientifici, vengono ubicati in diverse aree della fattoria ed in particolari condizioni ambientali per studiare il contributo degli insetti nella decomposizione. Sono tombe mappate e numerate, rigorosamente controllate da un sistema di sorveglianza capillare.
I morti non procreano.
Quando giovani donne vengono trovate esanimi, l’unica spiegazione è quella di un serial killer. Ma perché abbandonarle proprio lì, il volto massacrato dalle percorse e la bocca riempita di terra, correndo non pochi rischi?
Cosa lega le vittime, l’assassino ed il centro di ricerca?
Dondolando su tacchi altissimi, la caustica giornalista Tracy Frost si scopre vulnerabile. Fino a scomparire.
Sempre apprezzabili i gialli di Angela Marson, qui si parte un po’ meno frizzanti del solito ma poi la trama si infittisce e non manca di incuriosire. Naturalmente a mio agio col detective Kim Stone che si rivela un’ottima compagnia con la sua efficienza, il suo duro passato, la sua introversione, le sue paure.
E’ un filone di narrativa proposto in volumi molto economici e, anche nelle prove meno brillanti, l’autrice britannica non delude.
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Shayo
Da Shayo “la gente del sole calante“, titolo originale del romanzo, deriva il termine giapponese che indica l’aristocrazia in declino, di cui Osamu Dazai ci narra in questo libro.
Egli stesso nacque in una ricca famiglia aristocratica e l’appartenenza per diritto di sangue a una classe privilegiata fu la matrice dei sensi di colpa che lo flagellarono per tutta la vita.
Kazuko ci racconta della madre, le cui nobili origini non si traducono nei titoli posseduti ma nelle movenze innate di una creatura naturalmente elitaria, che nemmeno uno strato sociale molto inferiore potrà strapparle. Proprio il crepuscolo di questa donna, lento inesorabile tacito e dignitoso è il fulcro del libro, sebbene celato dal franare più esplicito e dozzinale dei figli e del Paese intero.
Kazuko ci descrive il tormento di un fratello schiacciato dal suo declino, straziato dalla droga e dall’alcool e aggrappato alla vita da un fragile lembo, nell’amore della madre.
Kazuko ci narra di se stessa, una donna giovane alla ricerca di equilibrio nel trapasso tra la società tradizionale e l’evoluzione dei tempi.
Dice in postfazione Maria Teresa Orsi che il successo di questo romanzo in Giappone si debba precipuamente alla particolare qualità di scrittura di Dazai e puntualizza quanto sia complicato renderne l’effetto in traduzione. Effettivamente, il racconto non mi ha affatto colpita, pallida ed insipida la scrittura che – nonostante la drammaticità dei contenuti – non mi ha emozionato e che nemmeno formalmente ho trovato di particolare attrattiva. Salva l’esito della lettura la figura della madre, resa con particolare efficacia, ma complessivamente un’esperienza non memorabile.
Non dire mai...
Maria è bambina, graziata dalla giovinezza che le concede di non piegarsi al peso delle parole altrui.
Così, abituata a una madre che di fronte alle altre comari lamenta l’arrivo della Quarta e dello sforzo ulteriore nella situazione sua disgraziata di vedova. Si adatta a quell’essere chiamata con un numero ordinale, invece che col nome proprio. O, tutt’al più, l’Ultima.
Viste le difficoltà di mettere un tozzo di pane nel piatto, Anna Teresa Listru cede Maria in adozione a Tzia Bonaria, che accoglie amorevolmente la piccola nella sua casa vuota.
Accabadora è colei che aiuta a raggiungere la fine, in una terra pervasa di suggestione e superstizioni è lecito e tacitamente convenuto quel che altrove è null’altro che delitto.
Ciò che insegnerà l’accabadora a Maria sarà riconoscere la differenza tra pietà e complicità, alla fine di un percorso in cui due anime nate sole, strette in un legame affettivo sempre più solido, convoleranno al loro naturale destino: la vita, la morte.
Un romanzo che calza come un vecchio velluto verde e prezioso, un velo sul capo ricamato da merletti in tombolo nero, narrando di una Sardegna di terra e sudore, di fatture e benedizioni, di uomini e donne che sono isola ancora più dell’isola stessa, protetti da una legge che non sta né in cielo né in terra né sui testi giuridici.
Spicca la narrativa di Michela Murgia per il realismo attribuito ai personaggi in una scenografia perfettamente affrescata, aspra la vita e aspra la gente, scavando tra le pietre un cuore satollo di nettare come quegli acini d’uva rossa e dolce, nella vigna dei Bastìu.
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Metti un po' di musica leggera, anzi leggerissima.
Rosa è una donna triste, cresciuta da una madre triste.
E’ avvenente, si fa scivolare addosso gli uomini senza molto interesse. Ha studiato botanica, ma vede alberi senza guardarli.
Rosa è un fiore francese tra le peonie di Kyoto, mentre aspetta la lettura del testamento del padre giapponese, mai conosciuto.
“Dopo le ceneri, le rose”
Durante la lettura di questo breve romanzo ho spesso pensato ad alcune righe scritte da Mishima Yukio, in cui sosteneva la bellezza di un abito tradizionale indossato da una donna del paese di appartenenza. E’ splendida un’indiana in sari, è affascinante una giapponese in kimono. Scambiate gli abiti e, pur restando graziose, si avvertirà una nota stonata. Questo libro è un vestito indossato da qualcuno che lo imbruttisce, sforzandosi di sedurre con un tessuto che non sa valorizzare.
I punti di forza dovevano essere la voce dell’autrice dell’Eleganza del riccio, il Paese del Sol Levante e il mondo vegetale, tutti elementi che amo.
Se avete gradito il più famoso romanzo di Barbery, sappiate che della penna di carattere del suo best seller qui non c’è neppure un’ombra sfocata.
La narrazione è tanto scorrevole quanto banale, con dialoghi veloci ed elementari al limite dell’imbarazzo. Del Giappone si parla spesso, con una profusione di descrizioni piuttosto irritante poiché si tratta di una carrellata bella, ma senz’anima. Manca lo stupore della prima volta, manca la poesia, manca l’eccitazione o un tangibile dissenso. Latita il realismo.
La botanica è disseminata nel testo con lo scopo di mostrare il disinteresse di Rosa per la botanica stessa, non aggiungo altro. Per il resto, trascorrerete le giornate tra birra, ristoranti e templi, dove piatti e bicchieri son ampiamente riforniti e altrettanto espressi, ma nei santuari buddisti echeggia solo il vuoto di una spiritualità assente e di un sarcasmo urticante. Tra gli altri orrori, una storiella d’amore che non pubblicherebbero nemmeno nella Posta del cuore della rivista Intimità.
Se il vostro intento è di mettere un po' di musica leggera -anzi leggerissima- perché avete voglia di niente, questa è una buona opzione.
Per chi necessiti di un minimo di spessore nella forma o nel contenuto, questo libro è un bacio sulla bocca da un estraneo febbricitante nell’annus horribilis 2020. Scappate.
Finalmente vi mando all'Inferno :D
Se si possa commentare un libro con un appello non so, questo è il mio appello commentando un libro.
Lo rivolgo a tutti coloro che -lungi dall’età scolastica- abbiano accarezzato l’idea di leggere la Divina Commedia, scrollando però la mano prima che la carezza arrivasse a destinazione.
L’opera, si sa, è impegnativa e necessita di una attenta lettura delle note bibliografiche, ma le didascalie che accompagnano le edizioni del poema sono talmente fitte da dissuadere dall’intento molti benintenzionati.
Dante Alighieri spaventa, non per ciò che scrisse un tempo, ma per quel che dobbiamo affrontare oggi per comprenderlo.
Io sono la Rinuncia, lo sono stata per anni finché, nel mezzo del cammin della mia vita, ho incrociato Silvia e questo lavoro di Vittorio Sermonti. Esso si propone – con eccellenti risultati – di spazzare via la macchinosa analisi dell’Inferno per proporre in una prosa elegante ed accattivante spiegazioni, nozioni, collegamenti storici che ci permettano di accedere all’universo del sommo poeta.
La sequenza è semplice: un corposo capitolo esplicativo anticipa il canto. Letta la disamina, il poema si scioglie amabilmente ai nostri occhi.
Sia chiaro, serve concentrazione, che state affrontando Dante Alighieri e non il numero 313 di una serie Walt Disney. Serve attenzione, che non è il mio temino da terza elementare ma la scrittura divulgativa di un erudito. Servono tempo e testa, perché le pagine sono molte e pretendono le assorbiate.
Ciò premesso, come il neonato scivola dalle mani della madre su acque placide per scoprirsi in grado di nuotare, così abbandonatevi all’accurata versione di Vittorio Sermonti.
Vi mando all’Inferno e ci andrete galleggiando.
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drogàti
“Ma il leone è apparso ancora…”
Samuel ha diciotto anni, vive con la madre – la donna più pia e retta che io conosca- e ha deciso che non ha senso lavorare molto per guadagnare poco, quando spacciando droga si può ottenere molto lavorando poco. Samuel eccelleva in matematica, prima di abbandonare la scuola.
“…tenendo tra le fauci enormi…”
Manfred è un poliziotto del dipartimento di Stoccolma, padre non più giovane di una bimba piccina.
Una manina sporca di burro impedisce la presa. Dopo la luce, arriva il buio.
“…una candida colomba immacolata.”
Pernilla è l’agnello, pura e algida ha sempre chinato il capo e accettato il suo destino di privazioni. Ma una madre quanta forza può stanare in se stessa per sfuggire il proprio figlio alla morte? L’agnello e il leone.
Samuel, Manfred e Pernilla sono le voci narranti che si intrecciano scandendo le sorti delle vittime e dei carnefici che brulicano sotto la cenere di un mondo che si muove in remoto.
Interessante scoperta Camilla Grebe, di cui approfondirò la bibliografia, questo suo lavoro si legge d’un fiato, trattando tre filoni principali che rivendicano il ruolo protagonista.
Ovviamente si tratta di un thriller, un buon thriller con qualche ciocca di capelli tirata un po' troppo forte, ma che si perdona senza indugio. Poco poliziesco e poco scientifico, il livello di suspense è eccellente e sebbene non sia sferzato da una tempesta di colpi di scena, quelli che incontriamo sono sublimi.
L’autrice propone un romanzo che pure si focalizza molto sui rapporti umani nelle famiglie coinvolte, invitando il lettore amabilmente nelle vicende di questa gente.
Infine, come fosse un video in loop, è una ricorrente denuncia sulle oscene dipendenze funzionali della società moderna e sul narcisismo cronico che ha appestato gran parte di noialtri, popolo dei selfie e dei like sui social.
Un bel thriller, non il solito thriller.
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invisibile è chi invisibile fa
Studioso indefesso, fisico geniale, Griffin riesce a trovare la formula dell’invisibilità, l’entusiasmo di un toro sul tappeto rosso steso verso l’Olimpo della scienza.
Votato alla sua causa, più il lavoro lo avvicina alla meta e più egli si aliena dagli affetti e dalla vita sociale, disprezzando sempre più il popolino ignorante.
Dopo i successi consolidati sugli oggetti e sugli animali, decide di testare il suo esperimento su se stesso. Rendersi invisibili è come accecare il resto del mondo, vedere in un mondo di non vedenti colloca l’uomo al di sopra della disabilità altrui.
La brama di potere di Griffin esonda dai confini dell’umana sensatezza, la corsa verso la celebrità lo rende ebbro dei vantaggi di tale situazione acquisita, senza lasciargli il tempo di riflettere sulle difficoltà dell’uomo indistinguibile. Isolato, sempre più solo, il fanatismo malato dello studioso si fa malvagio.
Piacevole romanzo seppur non eccezionale nello sviluppo e nello stile, la lettura scorre veloce su una scrittura non particolarmente pregiata, ma buona è la soglia d’intrattenimento.
I personaggi, avvolti da una certa aura di comicità, strappano un sorriso di troppo, così goffi e grotteschi. La vicenda si esprime così in una commedia, sebbene il contenuto sarebbe stato più consono ad una tragedia.
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QEII
Un giorno si ricorderà senz’altro per essere stata la regnante più longeva al trono d’Inghilterra, ma ancora di più per essere la sovrana più colorata a memoria d’Europa.
Non serve essere inglesi o monarchici per trovare curiosa la figura di questa elegante ultranovantenne, sua maestà Elisabeth II.
Sali Hughes, giornalista e editorialista specializzata in bellezza, propone un singolare viaggio fotografico a fianco di QEII, in un piccolo e robusto volume arcobaleno che organizza per colore l’abbigliamento di decenni di stravagante discrezione.
Bellissime le proposte in alta definizione, benché si tratti prevalentemente di immagini, ogni pagina è corredata di dettagliate didascalie che svelano una nutrita serie di curiosità sul protocollo della regina, usi costumi e piccoli segreti tra migliaia di completi, borse, cappelli e ovviamente gioielli dal valore inestimabile.
Scoprirete che gli abiti sono a prova di intemperie, viene infatti testata la loro resistenza a pioggia e vento, prima dell’utilizzo ufficiale. La spilla, per esprimere una figura elitaria, va appuntata rigorosamente in prossimità della spalla sinistra, mentre la posizione della borsetta è l’oggetto di codifica di un linguaggio ben preciso tra Elisabetta ed il suo entourage…
Simpatica idea di lettura, frivola ma non priva di classe, per coccolarvi durante una pausa, tazza di porcellana alla mano e un earl grey aromatizzato al bergamotto a profumare la teiera.
Con una goccia di latte, ovviamente
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