Opinione scritta da DanySanny

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    29 Marzo, 2022
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"Guardiano, com'è la notte?"

Romanzo modernista, di un modernismo impraticabile, impervio, a tratti illeggibile nelle spire acuminate della sua prosa convoluta, nel baluginare imprevedibile delle sue misteriose associazioni di senso, questo romanzo di Djuna Barnes, apparso nel 1936, ha la grana materica e feroce della notte di cui si nutre - una notte al contempo fisica e metafisica, quasi spirituale, che si insinua con pervicacia indolenza nelle pause spasmodiche della scrittura. E in questa notte che pian piano divora lo spazio e costringe l’azione nei fugaci aloni di luce che la crudeltà della Barnes di rado concede, i personaggi si aggirano come sonnambuli, o forse come fantasmi, in una Parigi malata nello spirito, corrosa dal verde acido degli anni Venti. Al centro di questo libro sta Robin, la bella schizofrenica, Robin con la sua “grana arborea”, il suo afrore di funghi, con “quella carne della terra che sa di umidità prigioniera” adagiata su un letto di madido bianco, palpitante nella sua “depravata innocenza”, laconica nella sua esiziale esistenza. Attorno a lei, come in un quadrilatero hoffmansthaliano, il barone Volkbein, sbiadito eponimo di un nome inconsistente; Jenny rapinosa e incostante, affamata di Robin - come affamato di carne è chi ha paura del vuoto; Nora - la disperata Nora - innamorata, perduta, dilaniata da Robin che continuerà a conservare come un vizio assurdo nel cuore e infine il più memorabile- il dottor Matthew O’Connor, Guardiano della Notte, lui che della notte conosce i segreti e gli insondabili recessi, lui che troviamo ingabbiato nei suoi lunghi, scostanti soliloqui, nel profluvio terrorizzato delle sue parole, lui che troviamo, anche solo per un istante, travestito da donna nell’intimità della sua stanza, lui che vive su di sé, prima di tutti e per tutti gli altri personaggi, la malattia di un’esistenza troppo dura da vivere.

Molto dovrei dire su Djuna Barnes, sul perché sia poco nota, sul perché sia ingiusto farne soltanto “una scrittrice lesbica”, sul perché Eliot ebbe a dire di non aver mai visto “un genio così grande, in una persona con così poco talento”. Quello che invece voglio dire è che bisogna preparasi leggendo Nightwood a non capirne molto, ad accettare che la concettosità della prosa della Barnes, incistata com’è nei fantasmi di una biografia ferita, di un mondo ostile, impedirà al lettore di cogliere la storia. Eppure c’è qualcosa nell’alone miracoloso con cui queste creature ci appaiono, nell’illogica - ed eppure cristallina - disperazione delle loro battute, qualcosa di definitivamente, irrimediabilmente vero nell’arreso abbandono delle loro parole, che non possiamo riconoscere a questo libro un distillato amarissimo di umanità. E non possiamo soprattuto negare alla Barnes la capacità sublime di descrivere i propri personaggi in modi inaspettati, poetici, sinestetici. Ci sono, in queste pagine, descrizioni tra le più belle (e vi sfido) che potrete trovare come lettori. E ancora c’è in Nightwood un capitolo di esasperata perfezione (“L’intrusa”) in cui (e vi sfido ancora) troverete una delle dichiarazioni d’amore più disperate della letteratura. E quando sarete giunti alla fine, quando davvero avrete forse compreso poco o nulla di quello che è successo, potrete solo balbettare insieme a Nora “Dottore, sono venuta a chiedervi quello che sapete sulla notte”.
E questo romanzo forse illeggibile saprà rispondervi col fiore segreto e il reciso incanto del suo mistero.

“Il profumo esalato dal suo corpo aveva la qualità del profumo dei funghi, quella carne della terra che sa di umidità prigioniera eppure è così asciutta, ma l’offuscava l’odore d’olio d’ambra, recondita malattia del mare, che le dava l’aria di aver invaso un sonno incauto e completo. La sua carne aveva una grana arborea e sotto si intuiva una struttura ampia, porosa, consunta dal sonno, come se il sonno fosse una decomposizione che la ghermiva sotto la superficie visibile”.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    13 Marzo, 2022
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L'intensità bruciante della notte

VARDAMAN: Mia madre è un pesce, ichtys, Cristo salvatore. Mia madre è Cristo e mia madre è morta, Cristo è morto.
CASH: La cassa è levigata, gli angoli smussi, una casa per l’eternità levigata da costante, indefessa pazienza.
ANSE: Lei voleva così, seppellita dove e è nata, lo sa Dio se non dovevo essere così scalognato. Lei voleva così, io che non ho avuto i denti per mangiare il pane del buon Dio.
VARDAMAN: Mia madre è un pesce ma non nuota nel fiume. Dewey Dell ha tagliato il pesce, io ho bucato la bara. Anche mamma ha sanguinato. La mamma è un pesce che non si muove.
JEWEL: Sono un bastardo e mia madre è stata una cavalla. Mio padre ha venduto la cavalla. Mia madre è morta e io non ho più la cavalla.
DEWEY DELL: non so se bastano dieci dollari. Lui ha detto di sì. Lui non c’è più. La mamma non c’è più. No, lui non c’è non come non c’è la mamma. Lui c’è ma non c’è. Lui è era. Così parla Darl.
DARL: io l’ho guardata e allora ho saputo. Io l’ho guardato e allora ho capito. Io ho gli occhi neri, bruciati dalla guerra, inceneriti dalle fiamme. Loro mi guardano e io so. Vardaman mi ha visto, ma lui non vede. Io vedo, capisco e so.
VARDAMAN: gli avvoltoi mangiano i pesci. Ora sono sette, prima erano quattro. Anzi ora sono dodici, in alto, in cerchio, sempre più piccolo. Uno scende e io urlo. Urlo e corro. Io ho visto Darl, io ho visto Dewey Dell. Mia madre è un pesce, i pesci sono ciechi.
ANSE: non ho i denti per mangiare il cibo del buon Dio. Ho fatto una promessa. Non voglio essere in debito con nessuno, ma Dio non ho i denti, ci arrangeremo in qualche modo.
CASH: ho il cemento sulla gamba rotta.
DEWEY DELL: ho dieci dollari e un corpo giovane.
DARL: rido. Io ho la risata. Io li vedo. E loro hanno paura.
JEWEL: io non ho niente. Mio padre ha venduta la cavalla. Ho solo l’inferno.
VANDRAMAN: io avevo un pesce. Il pesce è morto. La mamma è morta. Io voglio il trenino rosso.

ADDIE: chi ha inventato le parole, non ha provato le parole. Una donna sa, sa senza dire. Una donna sente. E solo un figlio può violare l’intimità di una donna. Nessun uomo può farlo. Solo un figlio. Tutto di noi è in noi finché non abbiamo figli. La maternità è la parola di chi i figli non li ha mai avuti. Io credo nella verità delle cose.

Quindici voci per raccontare la storia di una famiglia in viaggio su un carro con una bara al seguito. Non è tanto la scomposizione del punto di vista a rendere miracoloso questo libro, ma la perfezione di ogni punto di vista nella sua allucinazione, nella sua interpretazione del mondo. E su tutto il soffio di un vento nero e amaro, il vento bruciante del Mississipi, il vento graffiante di un libro rubato alla notte e macerato nell’alcol. Da tempo non leggevo un libro tanto abbacinante, da tempo non bevevo il calice dolceamaro della grande letteratura. Perché questo libro di Faulkner è davvero un libro scritto mentre tutto intorno muore.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Marzo, 2022
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Il desiderio impossibile della scrittura

Eros, ci avverte Saffo, è dolceamaro. L’amante, dirà qualche secolo dopo Catullo, odia e ama e in questo dissidio si tortura. Don Giovanni, chiosa la musica di Mozart e commenta Kierkegaard, vive solo fin quando il suo desiderio resta inespresso. E infine, ci ricorda Calvino, che il desiderio più sincero è quello per un cavaliere inesistente, per un vuoto a perdere. Questo di Anne Carson è un saggio non sull’Eros amore, ma sull’Eros desiderio, l’Eros che è mancanza e differenza, l’Eros che è sguardo rivolto all’altro che non ci appartiene e che proprio quando ci appartiene cessiamo di desiderare. Eros, desiderio impercettibile, atroce felicità ed estenuante languore.
Trascinati da questo vortice di riferimenti letterari, spesso in triplice traduzione greca/latina-inglese-italiana, dolcemente adagiata nelle pieghe di seta di una cultura sinuosamente seducente, quasi ci illudiamo di scorgere il senso di questo volume in una colta rassegna di esperienze del desiderio. Eppure è qui che il saggio di Anne Carson compie uno scarto improvviso suggerendoci che in fondo Eros nasce quando nasce la lirica, quando i primi poeti greci lasciano tracce di sé nell’alfabeto e non nella pura voce. L’epica, ci suggerisce la Carson, conosce l’amore ma non l’Eros. Perché Eros non sta nel frasi, ma nelle parole, non sta nel travolgente fluire dell’epos, ma nel segreto e privato incanto di un singolo logos. È quando i greci scoprono le consonanti (suoni impossibili da pronunciare da soli) e le articolano con le parole, quando cioè viene alla non il primo, ma certo il più vario e armonioso alfabeto dell’antichità, che può svilupparsi la scrittura come oggi la intendiamo, che può nascere la poesia lirica che è per definizione meditazione sull’Io: solo la parola scritta può essere intermediaria di questo sguardo rivolto verso l’interno. La società della comunicazione orale non desidera come desidera la società della scrittura: non è più l’udito a governare i rapporti, ma la vista e Eros abita questa svolta, abita la differenza tra la realtà esteriore e il nostro spazio interiore, quello che solo la scrittura sa dire. E se dunque Eros abita la scrittura, il poeta ne è la voce: nel vuoto incolmabile del suo desiderio, nella distanza insanabile tra la sua ispirazione e la parola creata, l’uomo avverte le risonanze del suo Paradiso perduto: più Tantalo, che Adamo, l’uomo dell’Eros non può afferrare quello che desidera, perché questo desiderio lo consuma prima di poter essere anche solo sfiorato.

In questa suggestiva analogia tra Eros e scrittura, ispirazione poetica e alfabeto, nella dissoluzione che sempre minaccia la completezza dell’Amore, sta tutta l’ossimorica aporia del desiderio e il fascino magnetico di questo saggio di fronte alle cui tesi possiamo forse dissentire, ma non certo restare indifferenti. Perché si avverte in certi passaggi la forza inoppugnabili di quelle intuizioni subitanee che ho trovato altrove solo nella densa prosa di Simone Weil. Anne Carson non è Simone Weil, ma certo il suo Eros dolcemaro non sfigurerebbe in quel testo capitale che è "La rivelazione greca".

Un plauso ancora alla casa editrice Utopia che ha portato questo saggio in libreria dopo decenni di ingiusta assenza e che sta costruendo un catalogo di rara raffinatezza.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Marzo, 2022
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Onde, sulla spiaggia arida

Possiamo scegliere due modi per affrontare l’intelligenza tagliente e il tenero disincanto di questo libro di Barbara O’Brien, misterioso pseudonimo di un’autrice di cui non sappiamo nulla, neanche il nome. Possiamo cioè scegliere se accontentarci di un gusto facile e torbido e leggere questo volume come il resoconto miracoloso - dall’interno - di un delirio schizofrenico (cosa che in effetti è), oppure tentare di fare un passo oltre e leggere queste pagine come la storia di un’anima e di una mente che si ricompongono. Barbara O’Brien si sveglia una mattina qualunque vedendo ai piedi del letto tre figure inesistenti e che hanno però la consistenza ineludibile della realtà: tre allucinazioni che saranno il preludio a tre mesi di deliri paranoici che la faranno precipitare in un mondo governato dagli Operatori, uomini che hanno il potere di controllare le menti degli altri esseri umani, le Cose, che non hanno questa capacità. In questo mondo allucinato, che ha però sinistri bagliori della verità del reale, Barbara O’Brien cade e risale, senza alcun tipo di trattamento medico, come per miracolo. Ed è quando finisce il delirio, a metà del libro, che inizia la parte più avvincente: quella dell’analisi introspettiva, della vita che riprende, del mosaico che cerca il proprio spazio. Perché quando la mente torna in possesso di se stessa, svuotata dalla stanchezza della scissione interiore, frustrata dalla sua impossibile possibilità nel mondo, anche il delirio più eccentrico può forse nascondere le tracce di quell’inconscio che nelle sue misteriose vie ci conduce invece alla salvezza. Perché nella cronistoria così accurata di Barbara il confine tra malattia, Es e costrizione sociale sgrana continuamente una certa cosa nell’altra e alla fine della lettura, quando la spiaggia secca e arida della sua mente cosciente torna ad accogliere le onde umide delle emozioni e dei sentimenti, quando cioè la vita si riappropria di se stessa, in tutta la sua interezza, scorgiamo forse i contorni di un male che, faustianamente, da sempre persegue il bene.

La medicina contemporanea forse non classificherebbe quella di Barbara O’Brien come schizofrenia perché per definizione il delirio non ha coscienza di sé: eppure quello che di questo volume resta non è solo la grazia inaspettata della scrittura, il bagliore acuminato del pensiero, ma anche - e soprattutto -la consapevolezza che la malattia mentale è figlia del nostro tempo, del ritmo sincopato del lavoro, dell’alienazione rispetto all’ambiente, della distorsione spazio-temporale delle nostre giornate lavorative. Nelle meticolosa attenzione con cui Barbara di prende cura di se stessa intravvediamo alla fine, come in un darwinismo della malattia, che l’interazione tra geni e ambiente mefitico può davvero produrre l’involuzione della specie. E Barbara ce lo ricorda, col suo volto sfuggente, col suo nome segreto, con l’innocenza intatta della sua spregiudicata trasparenza. Eppure amaramente di lei, alla fine, nulla sappiamo davvero.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Febbraio, 2022
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Una donna sospesa nel vuoto

“Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato. […] Al principio di me c’era questa donna dal viso che non avevo mai visto, ma alla fine di me non c’era niente, non c’era nulla fra me e la stanza nera del mondo.”

Inizia così questo libro, questa autobiografia che fin dal titolo triangola i protagonisti del testo e proietta una vita sullo sfondo assente di un’altra vita. Perché queste pagine che ripercorrono la vita di Xuela sono in fondo la ricerca impossibile di quel viso che non ha mai avuto, del viso della madre morta mentre le stava dando la luce e la ricerca di questo viso è il tentativo di scoprire le radici di se stessa. Radici sospese nel vuoto della morte e rivolte al vuoto della fine, radici senza terreno che cercano di fiorire ad Antigua, in questi Caraibi dai colori crudi e dai violenti chiaroscuri, in questi Caraibi che odorano di terra bagnata, di forze primitive e di crudeltà gratuite. E la scrittura concentrica di Jamaica Kincaid, che si propaga da un centro verso confini sempre più distanti, appena dissonante nel suo incedere spesso anacolutico, nelle sue improvvise alternanze tra laconicità e distensioni, ci accompagna nelle profondità di una protagonista della cui femminilità mai si dimentica: è il corpo di Xuela che ci appare nelle sue ferite, nei suoi tormenti, nella sua tornita bellezza, nella sua provocante spontaneità, il corpo di una donna che ci si dispiega di fronte nei suoi odori, nella sua maturità, nella sua progressiva scoperta. Tutto, dai cambiamenti dell’adolescenza, alla prima esperienza sessuale, fino ad una terribile e indelebile scena di aborto, viene descritto come dall’interno della terra, risuona in un utero cavo e dialettizza il libro una una intensa riflessione sulla vita e sulla morte che passa inevitabilmente per la maternità. Quasi tutte le donne di questo libro sono sterili o muoiono generando la vita e il peso di questa incombenza, il peso di questo potere che è una maledizione, il potere di dare la vita e ricevere forse in cambio la morte incombe come una tempesta nera e feroce sulla protagonista che non ci risparmia mai il dolore di questa ineluttabilità.

Chi mi conosce sa della mia predilezione del tutto spontanea per le autrici rispetto agli autori, ma credo di essere oggettivo quando colloco questo libro tra i più belli che mi sia capitato di leggere di recente: il senso profondo e abissale della vita e della morte, l’incombenza del destino, la forza violenta di questa femminilità che divora se stessa e ancora il senso di assoluta risolutezza con sui la Kincaid fissa lo spazio indefinito dell’eternità spalancata dietro e di fronte a lei hanno la forza di far tremare il lettore fino alle ultime pagine. Alcuni hanno paragonato questo libro ad un altro celebre testo della stessa tradizione, “Il grande mare dei sargassi”, ma qui la grana è più fine, la forza più intensa, lo stile più ipnotico, l’incedere più magnetico. In questo miracoloso equilibrio tra asciuttezza del tono, impassibilità dell’accadere e amazzonico attaccamento alla vita sta il fascino di questo libro che mi sento di raccomandare a gran voce.

“Dentro di me resta la voce che non ho mai sentito, il viso che non ho mai visto, l’essere dal quale io vengo. Dentro di me ci sono le voci che avrebbero dovuto uscire da me, i volti che non ho mai lasciato formarsi, gli occhi ai quali non ho mai consentito di guardarmi. Questo raconto è il racconto della persona alla quale non è mai stato permesso di essere e il racconto della persona che io non mi sono concessa di diventare.”

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Romanzi storici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Febbraio, 2022
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Bicromia della vendetta

Le origini di ogni letteratura affondano nel sangue: il sangue brillante di una violenta storia mediterranea, il sangue nascosto e celato della tragedia greca, il sangue rosso vivo di cui si nutre il flamenco spagnolo. E poi c’è un sangue diverso, un sangue nero, scuro, denso, pastoso come la vendetta, un sangue che sgorga senza scorrere, un sangue affamato di sangue, il sangue feroce della cultura scandinava, muta di dei invincibili, orfana di speranza, oppressa dal peso del tempo che vacilla nell’attesa del Ragnarok, la fine degli uomini, del mondo, degli dei e del creato tutto. In questo tempo così umano, l’unica giustizia è quella che l’uomo è capace di ottenere: la giustizia che Vigdis cerca, la giovane Vigdis innamorata di Ljot, il seducente marinaio islandese che l’ha stuprata e poi abbandonata. Vigdis che ha visto bruciare la sua casa, che ha attraversato la neve scandinava sfidando la morte in una notte di tormenta portando in grembo il figlio di quello stupro. Vigdis ha amato Ljot, anzi lo ama ancora e da questo amore così furioso, così irragionevole ha distillato grammi di odio purissimo che nutrono la sua vendetta. La saga di Vigdis è la storia di questa vendetta, la storia di una ferita che non si rimargina, la storia di un amore che balla il suo valzer senza respiro con la morte.

In una Scandinavia medievale stagliata con inconsueta forza su uno sfondo bicromico fatto di neve e sangue, bianco e rosso, Sigrid Undset, premio Nobel nel 1928, recupera il ritmo sincopato e ossessivo delle antiche saghe nordiche, in un testo che non è un romanzo e che come tale va affrontato: i personaggi non mutano, non hanno tormenti psicologici imprevisti, non si dibattano per tenere uniti i nodi della trama; piuttosto su di loro soffia il vento nero e inesorabile della fatalità, di un destino che deve accadere. Come nell’Angelus Novus di Paul Klee, sono spinti avanti dalla tormenta della storia, ma i loro occhi sono fissi indietro, sul trauma primitivo che ha segnata per sempre la loro vita. Undset, come Bergman in “La fontana della vergine”, torna al medioevo per dire della violenza sulle donne certo, ma soprattuto per descrivere il tormento insanabile dei nodi che non si sciolgono, per dire dell’odio che può consumare la vita e dell’amore che lo nutre.
Nulla di nuovo, ma quale potenza si nasconde nella pagine di questa saga nordica.

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Storia e biografie
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    31 Gennaio, 2022
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Nascondersi in superficie

Mentre si legge questo libro di Memorie - quelle di Leonora Christina Ulfeldt, figlia illegittima di Cristiano IV di Danimarca, imprigionata per 22 anni (1663-1685) nella Torre Blu di Copenhagen sotto l’accusa di aver cospirato con il marito contro la corona - viene in mente la celebre massima eraclitea, “la natura ama nascondersi”. O meglio, a leggerle con l’occhio disincantato di chi sa che anche la politica, in fondo, è fatta di passioni più terrene di quello che siamo disposti ad ammettere, viene invece in mente che agli uomini piace nascondere la verità. Perché in effetti, sedotti dalla sorprendente fluidità che emana da queste pagine scritte tra escrementi di topo, rari brandelli di luce e strati di sporco incrostato sul pavimento della cella, quasi ci dimentichiamo che a scrivere è una donna che la storia, a posteriori, ha probabilmente riconosciuto colpevole. Convinti dalle ripetute apologie di Lenora Christina, persuasi dalla grazia della sua cultura e dall’acume del suo occhio, quasi ci illudiamo di scorgere il bandolo della matassa di intrighi e sotterfugi, odio e rivalse, che la hanno condotta in carcere. Eppure e ben vedere questo libro di Memorie poco di dice di Christina, che continuamente si nasconde proprio nel momento in cui più di espone: mai si lascia di tradire qualcosa più del necessario, superbamente chiusa nei suoi segreti, trincerata dietro le preghiere continue a Dio che sembra metterla alla prova per testare la sua fede. L’attenzione è tutta per i carcerieri, per la loro vita condotta nell’inerzia e nella malvagità, per le serve che via via la accompagneranno nella vita in prigione, per gli altri malfattori presenti e per la piccola vita che si muove nella cella: a colpire e restare impressi sono i rapidi ritratti psicologici degli uomini che la circondano e le curiose osservazioni naturalistiche qua e là disseminate, come quelle sulle pulci e il loro ciclo riproduttivo. Eppure il fascino di queste Memorie, che ancora scintillano di intelligenza dopo oltre quattro secoli, sta proprio nel gioco di manipolazione dell’informazione che Christina dissimula con consumata esperienza: per noi lettori lei è innocente, quasi una martire. In queste che dovevano essere memorie destinate ai figli, in realtà, Lenora Christina tesse la trama di una memoria storica a lei compiacente: sacralizzando se stessa, i suoi avversari politici appaiono come empi miscredenti puniti da Dio in svariati modi (significativa, in questo senso, la lista delle morti più o meno atroci dei suoi vari aguzzini posta nella prefazione del libro). In questo senso queste Memorie sono un grandioso esempio di come lo sguardo dell’autore abbia la capacità di ridefinire la realtà e di come la storia possa, entro certi confini, trasformarsi in uno stimolante, quanto sofistico, gioco del linguaggio.

Non stupisce, e anzi sigla il potere di queste Memorie, il fatto che questa donna sia stata paragonata a “Giobbe”, per il peso delle sventure che continuamente sostiene: tutto quello che Leonora Christina ha scritto è un raffinato dispositivo di risemantizzazione che disvela, in nuce, le fondamenta su cui il potere costruisce la propria forza. In quella che quasi diviene la sua sofferta agiografia, intravvediamo l’inquieta verità della massima nietzschana “il fatto è stupido, tutto è interpretazione” e guardiamo in faccia gli ingranaggi implacabili di una volontà che mai ha ceduto e che ostinatamente ha affermato se stessa.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    15 Gennaio, 2022
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Confessioni di un perdono impossibile

Leggendo questo esordio letterario della Yourcenar, uscito nel 1929, molto si può intuire di quelle linee poetiche che condurranno l’autrice alla sua opera più famosa, “Le memorie di Adriano”, perché in fondo i libri dei buoni autori tornano e ritornano sempre sui medesimi problemi irrisolti. A risaltare sin da subito è l’immedesimazione dell’io narrante con una figura maschile: se la letteratura ci ha spesso abituati a memorabili personaggi femminili fatti vivere sulla pagina da autori uomini, più raro è il contrario e ancor più rara è il garbo delicato che l’autrice adopera nel farci assistere a una difficile confessione. Una confessione che a ben vedere illumina senza svelare, fa intuire senza dire, plasmata da sospiri e silenzi, tenuta insieme dalla vergogna. Una confessione che non confessa mai la colpa, ma anzi la lascia emergere, come un corpo diafano, nelle pieghe della propria pudicizia. Pudicizia, scrivo ora, vergogna, ho scritto prima, perché nella resa di questo personaggio alla propria moglie, una moglie che ha tradito con uomini e che ha sposato senza poterla davvero amare, c’è tutto l’ambiguo oscillare di chi non sa scegliere tra la condanna e l’assoluzione.

Se dunque l’omosessualità e la scelta della figura maschile ci riportano direttamente alla figura di Adriano, più sottile è la linea formale che fa quadrare il cerchio tra i tre tempi di “Alexis”, delle “Memorie” e dell’Adriano storico. Per chi ha frequentato la letteratura latino, gli anni che seguono alla morte di Augusto sono quelli che segnano, a livello letterario, il trapassare della prosa classica, elegante e compita, dell’epica Virgiliana e dell’opera ciceroniana ai ritmi più studiati e sincopati del periodare di Seneca, al gusto del paradosso astratto di Lucano e infine alla contratta oscurità del ritmo di Tacito. E proprio questi ultimi tre autori la Yourcenar deve aver frequentato e assimilato per inoltrarsi nella prosa densa e concettosa di Alexis: nessuna frase di questo libro, pur così elegante e raffinato nel gusto, concede un istante al respiro, ma anzi si inerpica sempre più in alto alla ricerca di una foce cui mai si arriva. In questo periodare febbrile e concitato sta tutta la prosa di quegli anni di un Impero che già scontava i primi segni della propria inarrestabile decadenza e il preludio alla scrittura sempre densa, ma più ariosa delle “Memorie”, quasi che l’autrice abbia negli anni appreso la lezione del respiro e della pazienza.

Quello che però resta in Alexis e che più di tutto colpisce, è che questa confessione del protagonista alla moglie mai riesce a toccare il punto più doloroso della propria verità. Proprio nel pudore/vergogna di Alexis a dire la realtà delle cose, a pronunciare le parole che non hanno sinonimi, sta il dramma che si consuma nel silenzio e cioè l’incapacità del protagonista, ancora dopo anni, di confessare la propria condizione a se stesso. Perché molti dimenticano che l’unico giudice a cui chiedere davvero perdono siamo noi stessi e che l’unico giudice che spesso non è disposto a concederlo siamo ancora noi. E Alexis alla fine può solo cibarsi della sua stessa vergogna.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    09 Gennaio, 2022
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Troppi spazi bianchi tra le metafore

Per quanto ritenga di essere un lettore dai gusti molti precisi (“esotici” direbbero alcuni, “pittoreschi” commenterebbero altri, “aristocratici” siglerebbero altri ancora), a volta anche io mi lascio sedurre (pentendomene puntualmente) da qualche libro che vedo esposto all’ingresso delle librerie (esattamente in quegli scaffali che tutti noi riconosciamo come trappole-per-lettori-poco-avveduti). Questo (generalmente unico) momento di debolezza annuale mi permette in ogni caso di provare ad avere un polso dei gusti che corrono. Questo libro di Marco Peano è rientrato in un mio autonomo ciclo di letture dedicato ai libri che affrontano il tema della morte della madre. Ciclo - devo dire - che mi ha lasciato abbastanza deluso, anche di autori come Simenon, che mi sono apparsi sempre troppo superficiali o riservati per essere davvero incisivi.

In questo libro Peano affronta la storia semplice di un figlio che deve accettare la morte incombente della madre malata di tumore. Nelle tre parti che lo compongono si alternano i ricordi dei mesi in cui la madre era ancora in salute, agli sforzi quotidiani che Mattia, il figlio protagonista, e suo padre fanno per poter assistere la madre al meglio fino alla fine. Seguono poi le pagine dedicate ai giorni della morte e qualche capitolo su quello che accade dopo, sulle vite da ricomporre, gli spazi da riconquistare.
Il libro, è vero, è molto garbato e si accosta con rispetto e tatto a un’esperienza lancinante, eppure fallisce proprio là dove un libro dovrebbe essere più solido: nella scrittura. La scelta di organizzare la narrazione in brevi capitoli che raramente superano le 2-3 pagine a di suddividere, a loro volta, i singoli capitoli in paragrafi continuamente separati da linee bianche da un lato mi porta a dubitare delle capacità dell’autore di gestire adeguatamente il periodare del testo, dall’altro lato mi fa sorgere costantemente il pensiero che tutto sia finalizzato a redente il libro più appetibile anche da chi teme i muri nero-bianchi di un testo in prosa. La mia personale idiosincrasia per questo genere di scrittura che ammicca da un lato alla poesia, dall’altro all’icastica brevità di twitter e dall’altro ancora a scritture pericolosamente in bilico come quelle di Baricco o De Luca (senza però averne la fluidità) ha continuamente minato una lettura di cui, pur apprezzando la delicatezza, conservo ancora il fastidio.

Discorso a parte meriterebbe la continua metaforizzazione della patologia oncologica che viene perpetrata nel libro e dell’uso insolitamente abbondante di terminologia medica qua e là disseminata nelle pagine: le metafore permettono ai malati di rendere la malattia già vicina e dunque accettabile, ma dall’altro li ingabbiano in esperienze deleterie. Se una malattia è una battaglia, forse chi combatte e muore lo fa perché non è abbastanza forte o coraggioso? Il fatto è che le malattie oncologiche non sono battaglie, ma lunghi e stretti corridoi bui in cui nessuno è eroe di guerra, ma solo un essere umano di fronte alla dura finitezza della vita.

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Scienze umane
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    28 Dicembre, 2021
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Il Daimon è una coscienza signorile

Per parlarvi di questo libro di James Hillman mi piace partire dalla mia esperienza personale. Per tutti gli anni della scuola superiore ero convinto che avrei studiato filosofia all’università o, al massimo, mi sarei dedicato alle lettere classiche. Avevo categoricamente escluso sia medicina sia giurisprudenza, che sentivo distanti dal mio mondo. Eppure poco prima del diploma, quasi per caso, l’idea di studiare medicina mi ha colpito di sorpresa, imperscrutabile nelle sue profonde motivazioni, ma al contempo perentoria e decisa. Anche se questo ha significato sacrificare molto dello studio che ho sempre amato, ripartire da capo dopo aver letto libri su libri di filosofia e studiato tedesco per essere poi pronto. Partire anzi ancora più indietro, da parte di chi aveva tanta biologia e chimica da recuperare.

Ecco parto da qui perché il libro di Hillman tenta proprio di spiegare queste vocazioni improvvise, questi desideri inappellabili, quello che in noi è più forte di noi. Sulla scia di un certo platonismo jünghiano, Hillman teorizza che a fianco di ogni persona si trovi un Daimon, uno spirito guida, una vocazione incoercibile, una ghianda come spesso la chiama, che segna il destino di ognuno. Il Daimon è uno spirito celeste, ci chiama e convoca da un altro mondo, da uno spazio di là da noi, è una coscienza signorile, ha il piglio del dittatore e non ammette repliche: anche quando tentiamo di allontanarci, eccolo rispuntare fuori, catapultati in traumi o episodi che ci costringono a riabbracciarlo. Il Daimon non ci lascia soli, ma al contempo ci condanna alla sua ricerca. Per sostenere la sua tesi, Hillman passa in rassegna la vita di illustri personaggi: da Judy Garland a James Baldwin, passando per Hitler e una folta serie di serial killer. Sono storie di vocazioni precoci, di segni male interpretati: di incontri con libri che hanno cambiato una vita, di insegnanti miracolose, di morti tracciate nella sabbia del tempo. Sorprende la violenza con cui il Daimon può manifestarsi, perché il Daimon vuole solo se stesso, anche se questo ha il segno di un distruttivo cupio dissolvi. È la storia della Garland, finita tra alcol e barbiturici, la parabola discendente di una bambina che fin dai 3-4 anni era in grado di ballare, recitare, cantare, intrattenendo decine di persone. È la storia di Hannah Arendt e del suo incontro con Heidegger, la storia di Woody Allen, Richard Nixon e Truman Capote e dei loro incontri con la propria intima e violenta inclinazione.

Si può e anzi forse di deve non concordare ogni volta, specie quando il libro attinge con troppa serenità a eccentriche teorie freudiane, eppure ci aiuta a definire il vuoto che la psicologia non si è dimostrata in grado di colmare, ovvero spiegare le origini delle più profonde motivazioni dell’individuo. Hillman le trova nella pianura delle anime del mito di Er e crea la sua personale cosmologia, trascinandoci con insospettabile piacevolezza e fluidità in una lettura che si dimostra sempre accessibile e alla portata di ogni lettore. E chissà che qualcuno, leggendo il libro, non si interroghi sulle apparizioni del Daimon nella sua vita. Io, forse, ho incontrato il mio.

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Classici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    28 Dicembre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

La verità, vi prego, per Sylvia

Manca l’aria sotto la campana di vetro: si soffoca alla luce del sole, di fronte agli occhi di tutti. La realtà è una teca di vetro che costringe gli altri alla distanza, anche se ci illude di rendere visibile l’invisibile. Invece Esther è sola, Sylvia è sola. La giovane ragazza inebriata dalla propria intelligenza, dalla grazia rara delle poesie che scrive fin da bambina, incensata da borse di studio e premi prestigiosi, resta sospesa sul limite sdrucciolevole della propria inadeguatezza, alla ricerca di un equilibrio tra arte e vita, verità e gioia, capace di stroncare un’esistenza. Non scomoderò per Sylvia Plath la psicologia torbida alla McGrath: ho con lei, abbiamo con lei, un debito di sincerità. Non ci sono labirinti limacciosi e torbidi, non ci sono abissi di disperazione, parossismi di tormento. A Sylvia dobbiamo parole nude, suoni puri e trasparenti, perché nelle pagine dei suoi diari, nelle svolte autobiografiche di questo romanzo, ci concede la rara occasione di osservare il nucleo dai margini netti del suicidio. Il suicidio irrompe quasi senza preavviso, dopo pagine qualunque sulla via qualunque di un’adolescente americana che ha ottenuto la possibilità di scrivere per una rivista di moda a NewYork. E quando compare, quando il primo tentativo va a vuoto, il suicidio resta sempre lì, dispiegato nella sua inappuntabile incombenza, non un buco nero nascosto, ma un alter ego cui Sylvia parla con franchezza, come una possibilità sempre concreta, sempre a portata di mano. È questa naturalezza del discorso, questa tranquillità espressiva, che rende questo libro prezioso e doloroso: perché queste non sono pagine di disperazione, ma di stanchezza e rassegnazione. La rassegnazione di chi sa di vivere, come San Paolo, “come attraverso uno spazio”, come la Karin dell’omonimo film di Bergman che sconta questa consapevolezza con la violenta inappellabilità della schizofrenia. Lo specchio che a Sylvia restituisce un’immagine di sé che lei stessa non sa riconoscere, l’immagine tempestata di luci azzurre dell’elettroshock, l’immagine di una poetessa costretta a sacrificare la propria arte a un mondo che alle donne lascia poco spazio.

Sylvia Plath non era un romanziera: il libro sconta qualche trascuratezza formale e di struttura, perfino qualche punto di ineleganza, ma resta forse l’unico lavoro della scrittrice che possiamo leggere senza le manipolazioni e il filtro di un marito, Ted Hughes, che distrusse i diari degli ultimi mesi di vita della scrittrice. Mesi fervidi e creativi, che ci hanno lasciato le poesie inafferrabili e altissime di “Ariel” e che sembrano chiudere il doloroso corollario di una vita che ha in questo romanzo il suo centro rivelatore. Dobbiamo verità a Sylvia Plath, al coraggio della sua fragilità, alla franchezza del suo coraggio, al dolore della sua malattia: una verità che pochi le hanno riservato, cui quasi nessuno sembra tenere. È più facile parlare dell’ennesima donna sfortunata, trattata con disprezzo dal marito, incastrata tra l’arte e i figli: ma la sua biografia, quando presa per intero, ha più di qualcosa da insegnarci sull’essere umani. E questo libro ci aiuta a esserlo.

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Diari di Sylvia Plath
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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    18 Febbraio, 2021
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La vita è vita

Raramente, anzi forse mai, mi sono imbattuto in una scrittura così potente come quella di Pierre Michon: non è la forza quadrata di un Tolstoj o la capacità evocativa di una Clarice Lispector, anzi Michon è tutt’altro, pura voce maschile, puro istinto di uomo. In questo breve testo, a metà tra il racconto e l’incipit lungo di un romanzo mai scritto, il giovane protagonista, appena fatto insegnante, raggiunge un piccolo paese sulla riva della Grande Beune, fiume intransigente che trascina con sé secoli e secoli di storia, ora limpido, ora melmoso. È l’arrivo in uno spazio altro scandito da apparizioni sospese tra realtà e finzione: come in “Morte a Venezia” di Thomas Mann (libro che, come si vedrà, è molto vicino a questo di Michon), figure sfumate appaiono e scompaiono accompagnando il personaggio in una catabasi morale e fisica. La scoperta, al fondo della terra, nelle grotte primitive fatte di disegni sopravvissuti ai millenni che il protagonista visita, è quella del sesso nel senso più animale del termine, nell’accezione più ferina della passione: è il desiderio lacerante che il giovane prova per la tabaccaia, donna provocante, quasi silvana che lo tormenta nel corpo, nella mente e ancora nel pensiero. La costruzione narrativa di Michon è qui miracolosamente riuscita: disvelare la forza cruda e truculenta della carne si rispecchia nella riflessione primigenia sull’origine della vita. Non c’è niente di causale in questa architettura, niente di pacato nello stile: ogni sentimento è talmente incandescente da bruciare la pelle, ogni palpito così forte da incrinare la vita che ribolle e trionfa nella sua implacabile volontà di autoaffermazione.

Non è affatto un caso che “Le Grande Beune” doveva essere l’incipit di un romanzo maestoso intitolato “L’origine del mondo”: il sesso e le primitive tracce della vite scritte sui muri. Non serve altro per creare un testo che corre vertiginoso nella sua climax ascendente di passioni estenuanti e carni consumate. Certo si avverte il senso di incompiuto, certo resta spiacevolmente sospeso, ma lo stile, complice una traduzione sublime, merita davvero una lettura. Sentirete palpitare la vita in sé, cieca e disobbediente, come appare nella testa di cervo che un gruppo di bambini porta in trionfo nel bosco: perché la vita è vita, un rituale quasi cannibale, celebrato tra le braccia di Diana, ma consacrata al sorriso di Dioniso.

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Mann, Morte a Venezia
Serie tv: Hannibal (che consiglio a prescindere)
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Racconti
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    25 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Un soufflè sgonfiato

Simenon, lo sappiamo tutti, ha scritto molto, sempre mantenendo un livello qualitativo sufficientemente buono e pur tuttavia forse privo di quelle punte narrative che lo avrebbero reso uno scrittore ancora più grande. Questa raccolta di racconti conferma in fondo questa impressione: Simenon sa scrivere e lo fa bene, ha il senso della angolazioni, delle prospettive, asciutto senza essere sterile, trasparente senza essere scontato. Certo la Musa del racconto è un giudice difficile da accontentare e Simenon ne esce sì con stile, ma pure con qualche graffio. Nessuno di questi racconti, infatti, per quanto sempre gradevoli, ha la forza per restare impresso o aggiunge qualcosa a quello che Simenon ha detto nei suoi romanzi con molta più efficacia: partono bene, con incipit spesso molto riusciti e proseguono col rigore metodologico che è proprio dell’autore, ma verso il finale, nella fretta di chiudere l’arco della storia, si bruciano in improvvisi salti temporali, arditi tagli diegetici e si sgonfiano, proprio perché tradiscono quello spirito di cacciatore che è, a mio avviso, la qualità più sopraffina di Simenon. Come un cacciatore bracca passo dopo passo la preda, così lo scrittore belga pedina istante per istante la parabola discendente dei suoi personaggi, che pur provando a sfuggire nel fitto del bosco, vanno sempre incontro al proprio destino. Ecco il problema di questi racconti è proprio la loro pretesa di voler affrettare un destino chiaro, ma che non era ancora abbastanza maturo per accadere. E forse proprio il racconto che dà il titolo al libro, per quanto banalmente sentimentale, è quello più riuscito, perché è abbastanza onesto da essere solo quello che è: un bel passatempo.

P.s.: c'è un fastidiosissimo abuso di puntini di sospensione.

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Racconti
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    19 Gennaio, 2021
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La chiarezza di Sciascia

La quarta di copertina e molte delle recensioni che ho letto su questo racconto di Sciascia sottolineano come il titolo, in una sorta di ironia tragica, usi l’aggettivo semplice laddove la trama è invece molto complicata. Io credo invece che questa sia davvero, purtroppo, “una storia semplice”, semplice perché fin troppo quotidiana, semplice perché fin troppo entrata in un sistema di pensiero per cui quasi si fatica a stupirsi. Semplice non è facile, è soltanto l’ipotesi più ovvia: e purtroppo mai per un istante il lettore riesce a illudersi che tutto è come appare. Io penso che in questo “semplice” ci sia più amarezza che ironia, più disincanto che sarcasmo, più dolore che umorismo. Lo stile di Sciascia è pulito e tagliente, caratteristico col suo incedere leggermente anacolutico, con i suoi costrutti dal ritmo quasi classico, con la sua sommessa grandezza e la trasparenza del pensiero. Ecco i punti migliori del racconto sono proprio quelli in cui più brillante risalta l’intelligenza acuminata dello scrittore, nelle battute laceranti e improvvise che irrompono in un dialogo e che sono capaci, in due parole, di adombrare spazi di intensa riflessione.

C’è un omicidio, c’è un intrigo, un nodo da sciogliere: è una storia semplice, quella di un giallo che si è fatto realtà, quella di una terra dilapidata della sua innocenza, stretta nella morsa di un potere che vuole solo preservare se stesso. È un racconto condotto con grazia, raccontato con intelligenza, cui forse nuoce solo una lunghezza ambigua: troppo per un racconto fatto e finito, troppo poco per un romanzo breve. Eppure scrivere con tanta decisione e con tanta limpidezza di pensiero non può che essere segno di uno scrittore dotato di rara coerenza e ancora più rara umiltà.

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Dürrenmatt
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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    18 Gennaio, 2021
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Come una creme brulèe

Non potevo esimermi dalla lettura di questo che è diventato a suo modo il QLibro della fine del 2020, specialmente perché frutto della penna di Shirley Jackson, con il suo tratto mai sbavato, con la sua eccentrica visione del mondo, con l’atmosfera di magia dolciastra e la sua sottilissima, pervadente inquietudine. Dopo aver letto alcuni dei suoi racconti e quella bella raccolta di testi a carattere vario che è “Paranoia”, posso finalmente dire che di Shirley Jackson preferisco il mondo interiore alla prosa. Nella misura lunga del romanzo, infatti, trovo che i suoi pregi si facciano sì evidenti, ma che anche i suoi difetti (o quelli che almeno a me sembrano tali) si acuiscano. L’autrice ha un istinto narrativo sorprendente, una grazia compositiva di sofisticato garbo, una capacità invidiabile di dosare al punto giusto ogni ingrediente e anche un piacevole senso del ritmo e del suono; anzi questo romanzo risulta godibile per la scelta di affidare la narrazione a un personaggio inaffidabile, elemento chiave per creare anche nel lettore una sorta di asincronia tra quello che effettivamente accade e come questo viene invece raccontato (come accade nel famoso “Giro di vite” di James). In questa crepa si insinua l’inquietudine che serpeggia nel libro, la stessa che alla fine lascia tra il commosso e il turbato, indecisi su dove volgere la propria compassione, disgustati dalla violenza degli uomini, ma anche traditi da chi credevamo amici.
Cosa è che allora non mi convince di questo romanzo? Il fatto che, come nei racconti, il testo resta quasi in sospeso, in una conclusione tanto sfumata da apparire incompiuta, quasi debole e zoppo sulla conclusione. Se nella dimensione breve del racconto questo silenzio finale è più accettabile, qui invece risulta in una punta di insoddisfazione. Per tornare alla metafora culinaria che tanto spesso associo alla Jackson, è come mangiare una perfetta, equilibrata e buonissima creme brulèe: deliziosa certo, ma sempre monca di quello strato croccante sul fondo che la renderebbe finalmente compiuta.

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Arte e Spettacolo
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    13 Gennaio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Il daimon di Simone Weil

Avverto una certa difficoltà nel tentare di recensire, in così breve spazio, non solo una pensatrice eccezionale quale è stata Simone Weil, ma anche un lavoro così ermeneuticamente complesso come “Venezia salva”, unico testo teatrale scritto dall’autrice, per di più rimasto incompiuto. Comprendere “Venezia salva” significa cogliere il fondo solido su cui si innesta una riflessione filosofica tesissima, che ha accompagnato Simone Weil per tutta la vita, dalla celebre analisi dell’Iliade come “poema della forza” alla discesa della Weil stessa in fabbrica, per lottare a fianco degli operai, per sentire su di lei, malata di tubercolosi, il peso della fatica.

Non credo sia un caso che Simone Weil abbia scelto, per una delle sue pochissime opere di non-saggistica, la forma del testo teatrale, perché sulla scena, prima ancora che nell’intreccio del romanzo, la voce dei personaggi può trovare la purezza della parola, l’intensità assoluta e perentoria di un sentimento che dalla pagina si fa carne viva. Il teatro permette all’autrice di purificare il testo dai dettagli inutili, da quelle concessioni inevitabili che un romanziere deve fare alla narrazione: alla Weil non interessa descrivere, ma soltanto gridare con la massima risolutezza. Così, leggere “Venezia salva”, col suo quasi fastidioso alternarsi di brani compiuti e lunghi intermezzi riassunti alla svelta, diventa uno strumento potentissimo per toccare la volontà di fuoco, il daimon poetico, della Weil: un daimon che non concede nulla alla prosaicità e che anzi la costringe alla contrazione per librarsi solo laddove l’urgenza espressiva non ammette replica. E su questa scorta si capisce anche perché la Weil non fu in grado di terminare l’opera: perché completarla avrebbe significato tradire la sua più propria volontà. Quello che ci resta è un’opera di ermetica concentrazione, capace di generare fastidio proprio perché là dove è compiuta, si presenta straordinariamente levigata e lirica e il lettore avverte quasi rammarico per le parti che invece non hanno goduto di tale attenzione.

La storia ci viene già raccontata nelle primissime righe: è quella di una congiura ordita dagli spagnoli per conquistare e assoggettare Venezia, destinata a fallire per il tradimento Jaffier, un congiurato che per un istante è in grado di vedere e contemplare la bellezza di Venezia. È la città lagunare, brillante e tersa, magnifica negli occhi di Violetta, il polo femminile dell’opera, a colpire Jaffier con l’evidenza che nessuna sete di potere, nessuna volontà della forza può giustificare la distruzione di questo gioiello. Come in Dostoevskij, è la bellezza che salva il mondo perché solo vedendo la bellezza, l’uomo può non cedere ai suoi istinti. Eppure la denuncia di Jaffier condannerò a morte i suoi compagni, accusati di tradimento: l’atto di pietà di Jaffier, l’atto di luce che deve redimere il mondo, si scopre essere la condanna a morte di altre persone. In questa insoluta aporia sta il dramma della Weil, che sa portare sulla scena un’opera tragica nel senso più proprio del termine: uno scontro tra forze uguali e contrarie, ugualmente giuste. E mi ricorda quella celebre frase di Goethe, “sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”, perché nella Weil il confine tra Cristo e Lucifero non è masi stato così sottile.

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Sarah Kane, Georg Büchner, Shakespeare, i tragici greci, Camus e a chi vuole conoscere Simone Weil. Consiglio l'edizione Castelvecchi, davvero ben fatta.
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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    27 Dicembre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Ferire per non amare

C’è un passo molto acuto nell’”Idiota” di Dostoevskij nel quale l’autore fa amaramente notare che in fondo, chi ama tutti, non ama davvero nessuno. Ho pensato a lungo a questa frase mentre leggevo questo fragile libro di Baldwin, forse anche impropriamente. “La stanza di Giovanni” è un libro sul dolore che può arrecare chi non vuole ferire, chi non è pronto ad andare fino in fondo a se stesso, chi si scopre troppo esile, tra i vasi di ferro, per vincere la propria ritrosia. Un libro, ci avverte l’autore, che vuole esplorare cosa succede quando si ha “paura di amare”. E al centro di tutto questa stanza della tortura, la stanza di Giovanni, il giovane cameriere italiano incontrato in un pub gay da David, americano in fuga dal vecchio mondo per trovare se stesso in una Parigi in cui ci si deve perdere per trovare la propria natura. Una stanza che accoglie questi due corpi, così soli, così disperati l’uno dell’altro, una stanza che è tutta una vita, rimescolata in onde di desiderio e contrappunti di disincanto, ore di estasi e minuti di angoscia. Un stanza che diventa il perimetro asfissiante di una vita corsa troppo in fretta mentre Hella, fidanzata di David, è in Spagna, confini di mattoni affastellati troppo di corsa, incollati da una calce troppo liquida. David e Giovanni si guardano e toccano, ma vivono su mondi diversi, su universi senza galassie in comune: il primo troppo spaventato di abbandonare la sua fidanzata, la sua vita normale, inchiodato dalla nuda voce della carne, il secondo troppo dipendente da David, troppo instabile, malato, disperato. David e Giovanni, un passo avanti insieme verso l’abisso, circondati da vecchi papponi e uomini disgustosi pronti a comprare un corpo più giovane con la promessa di qualche soldo, di un lavoro.

È una storia come tante quella di David e Giovanni, di tanti altri romanzi, ma nobilitata dalla prosa meravigliosamente pura di Baldwin, tanto delicata quanto precisa, brillante come un manto di stelle in una notte cristallina, sospesa senza essere reticente, equilibrata senza essere stantia, dolorosa quando la vita non può fare a meno di ferire, luminosa quando si può respirare per un istante. E quello che già colpisce di questo romanzo è l’anima dell’autore, impressa in filigrana tra i dialoghi e i martiri, nei pensieri che fuggono: un libro che se non è perfetto, è perché sconta un’urgenza espressiva assoluta, destabilizzante, bruciante, a tratti caustica. Un libro in cui credo l’autore abbia messo molto di sé e della propria vita, da accogliere come la confessione di un amico e che ci ricorda come spesso una stanza non è solo uno spazio, ma una prigione mentale e come attraversare quella soglia è un atto di coraggio che può cambiare una vita. E chi ha dovuto attraversa la soglia della sua stanza, lasciare quella porta alle spalle, sa che il dolore di quel passo può strappare il cuore dal petto.

“Mi fece pensare, pensare a casa - forse la casa non è un luogo, ma semplicemente una condizione irrevocabile."

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Isherwood, "Un uomo solo"
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Arte e Spettacolo
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    23 Settembre, 2020
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Miti e figure di Antigone

È difficile scrivere di un’opera così fortunata come l’”Antigone” di Sofocle senza accennare, almeno brevemente, ad alcune delle letture più significative che ne sono state fatte, eppure mi propongo con questa recensione di scrostare, pur solo in parte, il peso delle sovrastrutture che, a mio avviso, ne hanno tradito la natura. Il problema è che per noi moderni il teatro greco classico è, in fondo, un genere letterario, come la lirica, il poema epico, il romanzo. Eppure il teatro ateniese prima di essere poiesis, creazione artistica, è praxis, agire del cittadino: il teatro è politica e da questa non si può scindere. Non è un caso che caduta Atene, anche il teatro cesserà di esistere nella forma perfetta cui Euripide, Sofocle ed Eschilo lo hanno portato. In secondo luogo, come sottolineato da Aristotele, l’effetto emotivo che l’opera suscita nel cittadino-spettatore è un elemento del tutto secondario per valutare la bontà della stessa: precetto questo molto distante dalla poetica romantico-ottocentesca di cui siamo eredi. E terzo aspetto che vorrei sottolineare, i personaggi del teatro greco si muovono in un universo di valori solido, distanti da quello “strappo” di amletica memoria che fa collassare il mondo in un dilemma irrisolvibile. Tutte queste premesse sono essenziali, a mio avviso, per capire che fare di Antigone l’eroina che lotta un potere cieco, crudele e sordo in virtù di un coraggio superiore è, almeno in parte, una mistificazione e come volerla erigere a paladina del femminismo contro lo strapotere del maschio sia una stortura tanto arbitraria quanto filologicamente inappropriata. Tutto questo è ancora più significativo se si considera che mentre un’opera come l’”Edipo Re”, la tragedia della conoscenza, ben si presta a una lettura più soggettiva, nell’”Antigone” il dramma è tutto sulla scena pubblica e tanto più efficace perché, credo, per Sofocle entrambe le posizioni sono valide: Creonte, re di Tebe, deve governare e per governare deve far rispettare le leggi anche quando queste appaiono crudeli o ingiuste, Antigone ha il diritto di seppellire il fratello. In fondo vietare la sepoltura di Polinice, che ha assediato la città per ottenere il potere, per l’utilità di Stato è giusto e coerente. Dall’altro lato Antigone sente impellente il bisogno di seppellire Polinice per una legge non scritta, una legge degli dei che ritiene superiore alla ragione di Stato, ma non lo fa perché Polinice è un uomo e dunque di per sé degno di sepoltura, ma lo fa perché Polinice è suo fratello. Anzi c’è una frase terribile che Antigone pronuncia e che molti commentatori forse non considerano abbastanza: parlando del perché senta il bisogno insopprimibile di seppellire il corpo, sostiene che:

“Non avrei affrontato questa fatica, non avrei agito contro la città, per un figlio o per un marito. Perché dico così? Per quale legge? Se mi fosse morto un marito, avrei potuto averne un altro. O fare un figlio con un altro uomo, se avessi perso il figlio che avevo. Ma mia madre e mio padre ormai sono morti, e un altro fratello non potrebbe più nascermi.”

Sono versi a loro modo tremendi che un fine interprete come Goethe addirittura volle espungere non volendo accettare che in fondo Antigone si muove in un orizzonte di valori distante dal nostro e che decide di agire dopo aver soppesato la gravità della perdita: un figlio potrebbe riaverlo, un marito potrebbe riottenerlo, ma il fratello no, perché i genitori sono morti. Ecco che allora Antigone agisce non per pura volontà di difendere la famiglia, di salvare il sangue, ma per azione in funzione di una norma, di un principio, così stridente per noi moderni. La verità è che l’”Antigone” non è né la tragedia hegeliana della famiglia contro lo stato, né quella goethiana dell’eroina contro il tiranno, né ancora quella misterica di Hölderlin che vide in Creonte il principio organizzatore del disordine di Antigone: questa è la tragedia di due principi che si scontrano nella loro legittimità e che sono, ognuno a suo modo, validi: che cosa succederebbe allo Stato se tutti si sentissero in diritto di violare una norma, che cosa succederebbe ad Antigone se cedesse sul fratello? In questa drammatica incomunicabilità, in questa impossibilità della sintesi, sta l’infinita e sublime forza drammatica di questa tragedia che ci ha consegnato alcuni dei cori più belli della letteratura e alcune delle pagine più intense che il teatro abbia scritto.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    21 Settembre, 2020
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Vita di Shirley

Mi immagino a cenare con Shirley Jackson, mentre ordiniamo una crema inglese e parliamo delle ossessioni dei recensori, fantasticando su dialoghi favolosi tra i bicchieri e i coltelli, le bottiglie e i piatti in tavola. A emergere da questo “Paranoia”, infatti, non è la scrittrice, ma la donna dietro la penna: una madre innanzitutto, che rincorre il tempo per stare dietro ai quattro figli, alla casa, alle idee fulminanti che la trafiggono mentre lava i piatti o spenna un pollo; la moglie che aiuta il marito con i suoi libri, i suoi articoli per i giornali, l’autrice che ritaglia manciate di minuti per ticchettare una storia sulla macchina da scrivere. “Paranoia” in effetti è un libro molto più lieve e delicato di quanto il titolo non faccia supporre, una sorta di zibaldone che accoglie al suo interno diverse sezioni: la prima, con quattro racconti tipicamente jacksoniani, attraversati come sono da una inquietudine sottile che si disperde un po’ nei finali troppo aperti; seguono poi pezzi di varia natura: brevi scene umoristiche a cavallo tra la realtà e la finzione, simpatici resoconti famigliari (la famiglia al ristorante, i figli disobbedienti, gli stratagemmi per mantenere la propria identità nonostante gli impegni), ma anche gustosi pezzi di sorridente ironia sui recensori di libri (e questo ci interessa tutti qui nel Qmondo!), sulla genesi di alcune delle sue storie, qualche conferenza tenuta sulla letteratura e sulla sua idea di scrittura. Insomma in fondo i racconti sono la parte meno bella di questo libro che ci sorprende perché fa scoprire la vitalità esuberante di una donna che magari il lettore si immagina cupa, inquieta, macabra. Al massimo Shirley Jackson è eccentrica, nel senso buono e affascinante del termine: crea mondi mentre carica la lavastoviglie, riempie la casa di post-it per non perdere un’idea, lotta contro la pagina bianca e non teme di dire “mi arrendo”, quando correre da una parte all’altra della vita diventa troppo. Se poi volessimo leggere in filigrana, potremmo anche vivere da dentro una famiglia americana degli anni ’50, con le sue storture maschiliste, ma anche con i suoi preziosi equilibri, ma non è questo lo scopo del libro: qui tutto si legge con sguardo aggraziato e confesso che raramente ho chiuso un libro con un senso così elettrico di positività.

C’è poi un giallo a sua volta jacksoniano che circonda questo libro: il materiale che qui è contenuto, infatti, proviene da un pacco che è stato recapitato, negli anni Novanta, a casa di uno dei figli dell’autrice. Un pacco ovviamente anonimo e contenente un grandissimo numero di scritti di cui nemmeno si sospettava l’esistenza. Dal lavoro di raccolta e rammendo, arricchito dalle ricerche degli eredi presso il fondo Shirley Jackson, è nato questo libro, dal titolo esplicativo “Let me tell you”. In fondo “Paranoia” è un’autobiografia che procede per ghiribizzi e scarabocchi, per rapide deviazioni e indomite divagazioni, un libro indocile, recalcitrante, ma in fondo coinvolgente come la sua autrice. E per una volta devo tirare le orecchie ad Adelphi che per pubblicare il libro con un titolo commerciale, ne tradisce in fondo la natura.

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Chi vuole conoscere più intimamente la Jackson e scoprirne lati del carattere imprevedibili.
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    20 Settembre, 2020
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Amaro, troppo amaro

Romanzo d’esordio del premio Nobel Camilo José Cela, “La famiglia di Pascual Duarte”, pubblicato nel 1942, è l’opera con cui si apre l’avventura della casa editrice “Utopia”, nata in piena pandemia e già decisa nell’armonica eleganza delle sue copertine, adelphiana nei colori pastello, raffinata negli autori che intende pubblicare. “La famiglia di Pascual Duarte” è un libro profondamente legato alla tradizione letteraria spagnola, ma capace di reinventare uno stile che sarà proprio del romanzo contemporaneo. In particolare il libro vive contrasti: è la memoria autobiografica, più o meno affidabile, di Pascual Duarte, condannato a morte per più di un reato, tra cui l’omicidio, e che in attesa della pena capitale ripercorre la propria vita, indirizzando le pagine di questo resoconto a uno dei tanti “Don” spagnoli. La penna di Cela ben si adatta alla personalità del suo protagonista: uno stile diretto, povero senza mai essere sciatto, leggermente spigoloso nel suo procedere, capriccioso nel suo fluttuare tra presente e passato, anticipando e tornando indietro nella liquidità del ricordo; eppure questa semplicità lessicale lascia vedere sul fondo ben altra tempra stilistica: non di rado il racconto si lascia trascinare in evocative metafore, spesso vivaci nella rappresentazione della bollente natura spagnola, ma soprattutto il testo si inserisce in una tipica struttura a incastro. Infatti apre il romanzo la nota di un trascrittore che ammette di aver ritrovato le carte di Pascual Duarte in una farmacia e le carte di Duarte si aprono a loro volta con una lettera che lo stesso scrive, forse per ottenere la grazia o un ritardo della pena, confessando un omicidio di cui dovrà trattare ma che in realtà nel testo non viene mai menzionato. Come se non bastasse, chiude l’opera un’ulteriore nota del trascrittore che riporta lettere ricevute dagli esecutori e confessori di Duarte. Districare dunque il vero dal falso in questa storia può essere complicato e Cela riesce in questo modo a sospendere la credibilità della narrazione, ma anche a dare ritmo e pathos ad una storia per il resto relativamente ordinaria: Pascual racconta del padre violento, della madre cattiva, della sorella perduta in attività poco adatta ad una ragazza, il fratellino, la moglie, i figli scomparsi, concentrando su di sé una quantità di avversità che sembrano guidate da una cattiva stella sempre perennemente incombente. Ne consegue un romanzo durissimo e dichiaratamente pessimista, rugginoso e stordente, che ricorda le desolazione dello “Straniero” di Camus o il rancore etilico del “Fondo della bottiglia” di Simenon: come nella tragedia greca, la famiglia diventa il covo di vipere che sa compromettere e avvelenare la vita di ognuno, condannarlo a un futuro delittuoso e disperato, senza speranza. Uscire da queste radici malate è per Pascual impossibile, lui che ribolle di sangue e di rabbia, lui che non teme di difendere il proprio onore. È la storia certo di un assassino, che merita la sua pena, ma soprattuto la storia di una vita ferita, di un bambino che ha visto l’orrore e che nient’altro ha conosciuto. Come ha sottolineato Italo Calvino, tutte le vittime di Pascual sono peggiori di lui e la sua appare come una barbara giustizia o, meglio ancora, vendetta. In questo rancore montante e in questo perdono impossibile, non c’è spazio per alcuna luce.

Forse il tema non è troppo originale, ma la struttura narrativa sa scegliere una prospettiva peculiare che sorregge costantemente la lettura; forse lo stile, tranne alcune scene di martellante potenza, non è poi così elegante, ma del tutto appropriato al contesto. Il risultato è un romanzo di ascendenza picaresca (da notare che segue la stessa struttura del “Lazarillo de Tormes”), ma che nel suo incedere ne segna forse l’amara fine, l’impossibilità della leggerezza nel dramma straziante del contemporaneo. Non va dimenticato che il romanzo è scritto durante la Seconda Guerra Mondiale e pubblicato in piena guerra civile spagnola. Complessivamente un testo d’esordio, per Cela, di buon livello, sebbene personalmente nutro qualche riserva sullo sviluppo complessivo e sul ritmo della narrazione. In ogni caso uno squarcio impietoso sulla fragilità dell’uomo e sulla sua impossibile ricerca della felicità.

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Faulkner, Simenon, Camus
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    18 Settembre, 2020
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Tre donne

Bisogna possedere molto garbo ed eleganza per scrivere un libro ambizioso e fragile come questo, un libro che affonda le sue radici nella vita tormentata di Virginia Woolf e sul suo romanzo “La signora Dalloway”, intrecciando la storia di tre donne chiamate ad affrontare la domanda atroce: vale davvero la pena vivere? E tanto più tatto è necessario se si decide di aprire il libro con il suicidio della Woolf, che si abbandona al flusso dell’acqua inchiodata sul fondo dalle pietre che si è curata di afferrare. “Le ore” è la storia di Virginia, ma anche quella di Laura Brown, casalinga californiana alle prese l’aria di piombo della sua modesta vita coniugale nel secondo dopoguerra e quella di Clarissa, editor newyorkese che deve organizzare una festa per un suo amico terminalmente malato di AIDS. Cunningham sa indubbiamente scrivere e non mancano, specie nella prima metà del primo, scene decisamente riuscite come quella di Laura crucciata per una torta che non sa realizzare come davvero vorrebbe o quella di Clarissa che compra fiori nell’aria di vetro di una mattina splendente, o ancora quella di Virginia che mette mani alla prime righe del suo famoso romanzo. Eppure c’è qualcosa, da subito, che stona: lo stile appare sempre un pelo troppo contraffatto, ripulito, studiato, uno stile da scuola di scrittura che sa mettere la parola giusta al posto giusto, ma allo stesso tempo imbarbarire la voce vera dell’autore, oppure l’evidenza delle linee geometriche che uniscono in un preciso gioco di parallelismi le vite delle tre donne. C’è molto studio in questo “Le ore”, molta anche dedizione e credo passione, ma anche le stigmate di alcune derive della scrittura più recente: le pagine dedicate a Clarissa sono così newyorkesi nei commenti e nei modi che viene quasi da credere che se si è scrittori nella Grande Mela, non si possa scrivere altrimenti. L’effetto complessivo è un libro scritto correttamente, ma forse privo di autenticità, in cui il gusto per la geometria ha fatto perdere di vista il messaggio profondo della vita di Virginia Woolf, sfruttando la sua esistenza per parlare di altre donne e altre vite che, loro malgrado, la involgariscono. Conferma lo studio editoriale che sorregge il Pulitzer di Cunningham, il fatto che per attirare l’attenzione del pubblico il libro si apra con il suicidio della Woolf, in piena asincronia con tutto quello che poi viene detto e fatto vedere.

Complessivamente un libro che non posso dire essere brutto e che si lascia leggere con gradevolezza, ma che fallisce nell’avere una sua voce distintiva, un suo messaggio autentico, nascondendosi dietro le pagine della Woolf, ma non avendone certo l’armoniosa melodia e l’amara consapevolezza. Il risultato è che delle tre storie, forse solo una si salva: non quella della Woolf, che si perde nel vuoto, non quella di Clarissa che appare per lo meno pleonastica, ma quella di Laura Brown, che leggendo “La signora Dalloway” vive su di sé il trasporto tremendo e l’identificazione risoluta che qualche lettore a volte ha la fortuna di sperimentare con un certo personaggio. Nella sua parabola, così scarna se si vuole, ma così asciugata da risultare essenziale, si avverte per un istante il polso del talento dell’autore, che però consegna un libro più debole che dolce, più suggestivo nelle premesse che riuscito nella conclusione. Devo però dire che il film che ne è stato tratto, con, tra le altre, Maryl Streep (come Clarissa) e Nicole Kidman (Virginia Woolf), merita una visione: il montaggio e le interpretazioni delle attrici sanno nobilitare il libro di Cunningham e lasciare un’evocativa atmosfera al termine della visione.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Settembre, 2020
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Imparare ad amare

Mi avvicino a questo nuovo tassello nell’universo letterario e umano di Clarice Lispector con un certo timore: sarà per il titolo che mi suona legnoso, sarà per i nomi dei due protagonisti, “Lori” e “Ulisse” che mi sembrano per una volta male assortiti, sarà perché questa prosa segue, a cinque anni di distanza, un libro a suo modo perfetto e definitivo quale è “La passione secondo G.H.”, istante narrativo in cui se Dio è conoscibile, lo è solo per via negativa perché il linguaggio non lo sa dire. Se G.H. alla fine del romanzo conosce il divino per estrema passione, mangiando una blatta, qui invece il movimento è diverso: non più un’assimilazione dell’altro dentro di sé, piuttosto un’espansione del sé verso l’altro. In fondo “Un apprendistato o Il libro dei piaceri” è la storia d’amore di due persone che devono impara a dire “io sono” per potersi davvero amare: Lori, la protagonista femminile, al solito proiezione dell’autrice, vittima e carnefice di una sensibilità acutissima e cangiante, così instabile nel suo oscillare tra vertigini e abissi, è chiamata a conoscere il lato allegro della vita, il lato luminoso e vivace che la irradia per riuscire a vivere quell’istante d’estasi capace di dare senso all’esistenza. A guidarla l’uomo che ama, Ulisse, docente universitario di filosofia, lui che ha già seguito parte del percorso e che pazientemente aspetta che lei capisca, che lei sappia, che lei alla fine sia davvero in grado di amare.

Bisogna scegliere la prospettiva giusta per tentare di tenere il passo della prosa capricciosa e a tratti insondabile di Clarice Lispector, forse aver provato nella vita quello che vivono i suoi personaggi per tentare di penetrare nel linguaggio insidioso che fa continuamente deflagrare la pagina: le creature letterarie che vivono nei suoi romanzi sono sempre donne e uomini soffocati dal velo opaco che li separa dalla verità della cosa, dal silenzio nudo del mondo, dalla vita in sé, cieca e sorda, ma che allo stesso tempo vivono con angoscia lo sguardo di Medusa che sanno rivolgere all’essenza della cosa, al destino forse senza senso, alla morte che termina un’esistenza sempre troppo breve. Eppure sanno, loro che non tollerano l’illusione, che solo accettando l’inizio e la fine, le contraddizioni del tempo, la somiglianza primitiva degli opposti possono riuscire a trovare un senso al loro inevitabile esistere. Solo al termine di questo apprendistato che fa scoprire il dolore nell’allegria e l’allegria nel dolore, Lori è pronta per amare in una notte “nera e trasparente”, di “umidità incandescente” e l’erotismo che ammanta il libro, che provoca senza mai essere davvero erotico, può finalmente farsi tramite per toccare la pienezza di un istante: come nel più classico Platone è Eros il Dio che sa condurre l’uomo in un’altra dimensione. Tuttavia Clarice sa che non c’è pienezza tra due anime mozze, ma che l’unica estasi è nell’incontro tra due anime già piene: per questo Lori ha dovuto sopportare il silenzio, per questo Ulisse non l’ha voluta subito, perché a volte il corpo può nascondere il vuoto dell’anima.

Questo è un libro facile e difficile allo stesso tempo: facile, rispetto agli altri dell’autrice, perché ha per una volta una trama, un dialogo, una parvenza di traiettoria, difficile perché si rischia sempre di appiattirne gli angoli, le incongruenze, l’indocilità; credo sia stato anche un libro difficile da scrivere perché si avverte, in fondo, che nemmeno Clarice sa dominare appieno la materia di cui scrive, perché, come ci avverte all’inizio, questo libro “si è preso una libertà più grande di quella che ebbe paura di dare”, perché scrive di quello che in lei è più forte di lei. È questa vibrazione di incertezza e talora di imperfezione che guasta di un poco il piacere della lettura, specie nei dialoghi che appaiono sempre troppo forzati o sopra le righe per essere davvero reali; siamo più in basso del dialogo-monologo altissimo di “Un soffio di vita” o del soliloquio metafisico della “Passione secondo G.H.”, ma siamo anche distantissimi dalla prosa frantumata e a tratti illeggibile di “Acqua viva”: questo “Apprendistato” è allo stesso tempo più accessibile e più prosaico, meno compiuto e più imperfetto, ma indubbiamente un libro di innegabile grazia.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    03 Settembre, 2020
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Tecnica raffinata, gusto da educare

Mi è capitato, non troppo tempo fa, di cenare in un ristorante di quelli da guida Michelin, con l’atmosfera giusta, la cucina raffinata, l’equilibrio dei sapori, assaggiando piatti costruiti con logica, dai tratti puliti e lineari: una cucina che manca del gusto pieno di certi classici che mangiamo ogni giorno e per apprezzare la quale serve forse un’educazione del palato al gusto. In una parola, un piacere più intellettuale che fisico. Leggendo questa breve raccolta di Shirley Jackson ho avuto la stessa sensazione: una scrittura molto raffinato nascosta dietro un’apparente semplicità, in cui atmosfere quasi bucoliche o serene si striano a poco a poco di elementi insoliti, allusioni, tentennamenti; può essere una bottiglia di latte lasciata di fronte a un porta a un’ora strana, un cumulo di pietre in una piazza centrale, un vestito troppo verde per un certo ristorante: elementi quasi banali che si caricano però, strato dopo strato, di un preciso significato e che diventano alla fine simboli così pregnanti da svoltare totalmente il racconto. C’è davvero molta tecnica nella Jackson, autrice eccentrica che amava definirsi “strega”, lei che credeva nei fantasmi e nella voce degli oggetti domestici: come nei migliori film di Hitchcock la tensione non richiede effetti speciali, sangue o mostri o creature strane, ma cresce poco a poco, alimentata da una parola stonata, accudita da un gesto incoerente fino a stringere il lettore in lacci invincibili, annodati in finali che sono a volte solo una variazione di ritmo o una parola imprevista: non ci sono esplosioni nella Jackson, non ci sono verità disvelate, ma solo corridoi bui che sembrano costringere i personaggi in un vuoto senza fine. È in questa mancanza di prospettiva, nel senso di un tempo costretto a ripetersi, che si cela l’ansia di questi racconti, il loro essere considerati dai più come noir o thriller. Qui però non siamo in un genere, ma in una sola parola: inquietudine. E in questo Shirley Jackson è molto brava, se è vero che all’uscita del racconto eponimo, “La lotteria”, l’autrice fu quasi sommersa da lettere di accusa, spregio, talora pure di estatica ammirazione. Certo talora questa scelta del finale aperto è rischiosa, perché sembra non concludere il racconto o giocare volutamente su un’incertezza troppo incerta e non nascondo che potreste chiedervi “e quindi?”. Ma Shirley Jackson è questa, col suo stile inconfondibile, con la sua precisa visione della letteratura, un piatto raffinato di un ristorante della guida Michelin: semplice grandezza, tecnica altissima, gusto un poco scarso.

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Altri libri della Jackson. Consiglio "Paranoia", uno zibaldone di racconti, scene quotidiane, saggi sullo scrivere davvero carino.
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    28 Agosto, 2020
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Sulle tracce dei primi pìcari

Deve essere stato forgiato di una magia tutta particolare questo “Lazarillo de Tormes” per risultare ancora oggi, al lettore moderno, così scorrevole e libidinosamente smaliziato. Pubblicato da un anonimo autore alla metà del ‘500, e subito diffuso in diverse stampe e forme come nelle più classiche storie della letteratura d’intrattenimento, il Lazarillo sdogana da subito i pomposi topoi dell’epica e della lirica alta per approdare, con inesauribile disinvoltura, a narrare la vita della gente umile, quella che si arrabatta per strada giorno dopo giorno per vivere, tra una piccola truffa e un piccolo raggiro e consegnandoci così i prodromi di quello che diverrà, dopo almeno un altro paio di secoli, il romanzo realista. Il contenuto sardonico, brioso ma tutto sommato povero, così rapido e asciutto nel suo trapassare di scena in scena, non deve trarre in inganno: l’autore del Lazarillo è abbastanza raffinato, tanto da dissimulare il libello nella forma di una lettera indirizzata a un mittente non meglio specificato, allo scopo di spiegare un particolare “caso” di cui non è dato sapere nulla. Il gioco dell’autore è quello della falsificazione, non della finzione e in effetti in tutte le scene del romanzo il giovane Lazarillo impara a falsificare: prima al seguito di un cieco tirchio, verso cui escogita ogni tipo di stratagemma per ottenere qualcosa da mangiare, poi presso la casa di un chierico ancora più tirchio, sempre sul filo della fame e così via in altre avventure che lo porteranno ad ottenere un posto nell’apparato amministrativo dello Stato. L’ascesa sociale di Lazarillo è certo l’occasione per mettere alla berlina i truffaldini personaggi degli strati sociali più bassi, quelli in genere dimenticati e che da lì a qualche anno saranno meravigliosamente rappresentati da Caravaggio o El Greco, per smascherare le ipocrisie sociali e uno Stato che latita mentre i nuovi arrivisti proliferano, eppure si farebbe torto a voler fare del Lazarillo un manifesto di denuncia sociale, perché tutto in questo romanzo ha la lentezza placida delle lunghe giornate spagnole, il calore sincero del sole madrileno, la spontaneità del carattere iberico e tutto plana con grazia sulla storia per approdare divertiti e soddisfatti al finale. In verità nel Lazarillo si possono apprezzare nel piccolo le strade che prenderà il romanzo, con i suoi intrecci, le sue avventure, i suoi intrighi, sempre però corretto dal dolce e intelligente sorriso del disincanto.

Pungente, senza mai essere cinico, scabro senza mai essere rude, l’autore del Lazarillo sembra sapere che in fondo la vita va presa in tutta la sua multiforme inconsistenza, con un velo di malinconia e un sorriso aperto. Il vero scarto del Lazarillo, il suo essere così moderno è proprio in questo: l’umile non è solo funzionale al ribaltamento di modelli alti (come poteva essere il Satyricon di Petronio), ma anzi l’umile diventa degno di essere rappresentato nella sua vivida concretezza, lontano da modelli antichi e sempre più proiettato al tempo futuro.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    05 Agosto, 2020
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Esistere sotto leggi già date

Quello che più mi stupisce di Dürrenmatt è la sua capacità di scrivere in modo piano, fluido, quasi elementare nella sintassi, senza però rinunciare un solo istante alle profonde e alte ambizioni delle sue opere, che, sostenute da trame originali e beffarde, non temono di affrontare temi spinosi come la giustizia e il destino. A ben vedere Dürrenmatt non ha mai scritto il suo libro capitale, il suo capolavoro memorabile, perché, come in Simenon o Balzac, ogni sua opera è la stella di una più ampia costellazione: è lo sguardo d’insieme che da questa traspare a rappresentare il vero approdo della sua letteratura. In questo libro, di poco posteriore a “La panne”, l’autore si prefigge di svuotare il giallo del proprio significato, perché ogni giallo, con la sua schiera di detective, indizi, deduzioni, si fonda su una gabbia così coerente da risultare fasulla; il problema, ci suggerisce Dürrenmatt, è che nel giallo classico, quello scintillante di Agatha Christie, quello inscalfibile di Conan Doyle, la realtà è piegata alla volontà dell’autore e tradisce, in questo senso, la verità. Così in questo libro, che si occupa di un delitto orribile, di un omicida efferato, che rincorre per 150 pagine una fine, il tema non è la soluzione del caso trovata con il più logico dei ragionamenti deduttivi, ma l’impossibilità di ingabbiare il mondo nelle rigide caselle della comprensione umana. Emblema di questa dissoluzione del predomino umano sulla realtà è il detective protagonista del romanzo che nella sua parabola dal genio alla follia riconosce sulla propria pelle lo sgretolarsi della ragione, braccato dal senso di colpa per una promessa tradita, per una pace impossibile.

Con questo romanzo Dürrenmatt inaugura un filone giallo che, a onor del vero, ha avuto una certa fortuna: sorvolando sulle serie TV di più immediato consumo, sono molti i registi che si sono cimentati sulle ossessioni della giustizia, sulla sua fallibilità, sul beffardo accadere degli eventi, basti pensare alla splendida prima stagione di True Detective, ad alcuni gelidi finali di Law & Order o alla scurissima Mindhunter di David Fincher. In questo sgretolarsi delle certezze del contemporaneo, l’opera di Dürrenmatt appare, nella sua tragica e necessaria inappellabilità, quasi veggente e aggiunge, se possibile, una vena ulteriore di pessimismo alle conclusioni cui era giunto precedentemente. Peccato solo per un finale fin troppo preparato e allungato, certo scenicamente efficace, sardonico e quasi cinico, ma che lascia davvero l’impressione di essere seduti a un tavolino a godersi lo spettacolo. Il fatto è che la trappola narrativa di Dürrenmatt è talmente brillante da imprigionare il suo autore. E per questo ci piace.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Agosto, 2020
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La prigione dello sguardo

Tutto inizia con un fulmine in una notte di tempesta, un fulmine che fa “impazzire le ombre” e disvela nella finestra della casa di fronte tre figure, tre donne, immobili e rivolte alla strada, impassibili nei loro gesti sempre uguali, nelle loro vite scandite da rituali quasi irreali. Tre donne che diventeranno nel loro silenzio, nella loro metafisica immobilità, l’ossessione di una ragazza, la narratrice della storia, di cui non è dato sapere nulla se non che ha diciassette anni: le osserva dalle persiane, immagina, crea e disfa le loro vite mentre le spia dal davanzale. E poi nutre e coltiva quel desiderio, il desiderio di uccidere la maggiore di loro, lei che sembra tanto simile a lei, lei che sembra nascondere un segreto indicibile e costringere le altre sorelle al silenzio. Finché per caso alla posta la narratrice non riuscirà a intercettare una lettera indirizzata alle tre donne e il confine tra realtà e immaginazione comincerà a farsi voluttuosamente sottile.

Questo di Norah Lange è prima di tutto un romanzo sullo sguardo, capace di creare mondi, ma così fallibile nonostante la sua pretesa di verità: come nel celebre film di Hitchcock “La finestra sul cortile”, lo sguardo si addentra nella vita degli altri competendo con l’immaginazione, che spasmodica tenta di gonfiare bolle, riempire spazi oscuri; il gioco dello spettatore, che guarda senza essere visto, si fa ossessivo, vertiginoso, quasi erotico: è la stessa “Finestra dei Rouet” di Simenon, il palchetto del teatro, vita che si fa letteratura, letteratura che si fa dramma. E il lettore, in questa seducente seduta di voyeurismo, non può fare a meno di chiedersi se le tre donne davvero esistono o se forse, come in “Un giro di vite” di James, in fondo l’eccitazione febbrile di questa ragazza non abbia creato un mondo immaginario. Non sembra un caso che prima del famoso lampo, la protagonista scorga per strada un cavallo morto: quasi a dover metabolizzare il dramma della morte, le tre figure che appaiono sembrano riflettere l’ossessiva paura della fine, abbandonate come sono a una solitudine dolorosa, a un silenzio opprimente. Il tema della morte si insinua sottile in ogni lembo di conversazione, in ogni sguardo obliquo, come a voler dire che diventare adulte significa fare i conti con il senso della caducità. E in effetti si potrebbe tentare un’altra lettura, psicosociale, del romanzo: diventare adulti significa far morire parte di quello che è stato e forse essere condannate, se si è donne in un mondo tutto maschile, alla reclusione in un salotto, a essere le ombre di se stesse.

Norah Lange, amata da Borges e moglie del suo più caro rivale, si muove sinuosa in una scrittura avvolgente, complessa senza mai essere inestricabile, che dilata le frasi come cerchi concentrici via via più estesi, abolendo nessi logici e sintetizzando in un’unica immagine più elementi: uno stile “ultrasita” come è stato definito, tutto sinestesia e metafore, perennemente in bilico tra realtà e finzione. E forse proprio per questo si potrebbe azzardare una lettura metaletteraria del libro di Norah Lange: la ragazza di 17 anni che osserva le tre donne dalla finestra, che immagina le loro vite, le odia, le desidera, le vuole morte, è forse l’autore stesso che vede e plasma i suoi personaggi, che ne progetta vita e morte accorgendosi però che la loro esistenza letteraria è più forte della sua volontà. Trascinato e imprigionato in questa spirale polisemica, il lettore non può fare altro che attendere il bandolo della matassa, ma come Don Giovanni precipita quando termina la musica, così le tre donne svaniscono quando per la prima volta si distoglie lo sguardo, portando con loro il segreto di questo libro. Peccato solo per l’assenza quasi totale di trama, eventi e passaggi logici che rende ostica e accidentata la lettura, ma nulla che spaventi un lettore allenato.

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Tutti i romanzi citati nella recensione. Per la scrittura pregnantemente femminile, V. Woolf, Christa Wolf e Clarice Lispector.
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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    30 Luglio, 2020
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Tutto era fulgore e tenebra

È un romanzo saturo, questo di Jean Rhys: saturo di colori cangianti e vivi, tropicali e violenti, saturo di una luce che non è mai trasparente, ma verde come il segreto della foresta, purpurea come il calore del sangue e scura come un cielo in tempesta. Una luce che non lascia scampo e bracca i personaggi con un calore asfissiante, esaspera le sensazioni, distorce le azioni e su tutto fa gravare il senso incombente della tragedia. È in questo mondo di feroce, limpida, involontaria violenza che si consuma e divampa la vita di Antoinette, donna a metà, né nera né bianca, ma creola, invisa tanto agli schiavi africani oramai liberati dalla legge quanto ai pallidi e aristocratici inglesi. Prima bambina, figlia di una madre che non ha saputo sopportare il peso crudele della vita e diventata folle, poi adolescente relegata in un convento dal patrigno e poi ancora donna adulta manovrata e manipolata, troppo fragile, troppo instabile, data in sposa a un uomo interessato solo al suo denaro. È la parabola di una vita che diventa un’ombra. È una storia come tante quella di Antoinette, di cui Jean Rhys ci restituisce con drammatica forza narrativa tutta la tumultuosa e incandescente violenza, in pagine che scorrono con tanta prepotenza da far vacillare tutta la struttura, perché l’urgenza di dire è così vibrante che la camera non può fare altro che stringere sempre più sui volti di Antoinette e del marito, di cui mai si scopre il nome. Entrambi si sono ritrovati incastrati: lei nei propri sogni infranti quando una protesta anticolonialista ha bruciato la sua casa e ucciso il fratello, nella inesausta ripetizione della vita di sua madre e lui nel matrimonio con una donna dal passato difficile, dal presente instabile. Qui dunque questa relazione finisce per diventare logorante, distruttiva, aterogena, insostenibile. E sullo sfondo, misteriosa e imperscrutabile, la magia antica di Josephine, la schiava nera rimasta con Antoinette, storie di zombie e vodoo che inseguono il sogno di un filtro d’amore, capace alla fine di far precipitare le nubi nerissime che si erano addensate.

Questo romanzo potrebbe apparire come poco più di una drammatica storia d’amore, ben scritta certo, ma senza molto di più. E invece è straordinario il motore narrativo di tutta la storia: la Rhys, con la storia di Antoinette, non ha solo ricostruito le tappe di una dissoluzione inesorabile, di un matrimonio fallito; non ha solo esplorato la difficile connivenza tra bianchi, neri e creoli; non ha solo riflettuto sull’inamovibile predomino che il maschio vuole sulla femmina, ma ha anche ricostruito, in un affascinante salto intertestuale, la storia del personaggio di una donna folle, moglie del protagonista maschile, che appare In Jane Eyre. Come folgorata da questa ombra letteraria, Jean Rhys le dà un volto, le restituisce una storia, le conferisce dignità e forse permette a chi ha letto Jane Eyre (purtroppo non sono tra questi) di ridefinire certe coordinate: forse il marito della donna, Mr. Rochester ha seppellito in sé più di quanto non appaia nel romanzo della Brontë, che nonostante l’indomita modernità, resta pur sempre un libro del 1847: un uomo abbastanza spietato da chiamare continuamente Antoinette, Bertha: un modo ulteriore per toglierle la libertà e l’indipendenza. Tremendo e potente il finale, che sutura il romanzo alle pagine finali di Jane Eyre. Un cerchio che si chiude nel mondo sorprendente della letteratura.

“Soprattutto odiavo lei. Perché lei apparteneva a quella magia e a quell’incanto. Mi aveva lasciato assetato e tutta la mia vita sarebbe stata sete e desiderio di ciò che avevo perduto prima ancora di trovarlo.”

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Jean Eyre, Follia di McGrath e, curiosamente, ho pensato continuamente a "Il Mercante di Venezia" e "La tempesta" di Shakespeare. Sarà per l'atmosfera magica.
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Politica e attualità
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    29 Luglio, 2020
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Impiccagioni senza perdono

Il problema della pena di morte è tutt’ora in grado di suscitare accese polemiche tra fautori e detrattori, in una panorama globale nel quale ancora metà della popolazione vive in paesi in cui il braccio della morte è in piena attività: USA, Cina, India, Corea del Nord, Iran e Giappone sono solo gli esempi più macroscopici. Charles Duff, acuminato giornalista irlandese, scrive questo “Manuale del boia” per la prima volta nel 1928, in anni davvero complicati, sospesi tra i due conflitti mondiali e alla ricerca di riforme del sistema della giustizia, sia civile sia militare. Il libro fu di enorme successo, tanto da essere ampliato e ristampato più volte e divenne la bandiera del movimento abolizionista per la pena di morte. Il fascino di questo testo è la prospettiva del tutto ribaltata e paradossale da cui muove. Duff infatti sembra difendere strenuamente l’impiccagione come giusto strumento per mantenere l’ordine dello stato, esalta i boia, si rammarica per la scarsa considerazione e paga di cui godono, depreca il drastico calo nel numero di esecuzioni che vengono effettuate, ma porta questi concetti talmente all’estremo da svuotarli di significato e in un sottile quanto ironico gioco di ribaltamenti ogni pagina falcidia le basi su cui poggia il movimento di sostegno alla forca. Col pretesto di sorvolare “certi spiacevoli incidenti”, Duff elenca tutta una serie di casi in cui l’arte del boia (perché impiccare è un’abilità “che gareggia con le sculture di Michelangelo”) ha fallito, rendendo le esecuzioni davvero crudeli: il più delle volte, infatti, l’impiccagione non esitava nello slogamento del collo e quindi nella morte istantanea, ma piuttosto in un lento e atroce soffocamento delle vittime. A questo si aggiungono gli episodi di soggetti che è stato necessario impiccare più volte perché stranamente resistenti, o tuti i casi di uomini giustiziati per crimini che in realtà non avevano commesso, o ancora l’elevato tasso di suicidi tra i boia, incapaci di sopportare il peso di tanta sofferenza arrecata. Il punto, lascia trasparire Duff, è semplice: se lo scopo della pena di morte è quella di essere un monito per limitare il numero di crimini, perché le esecuzioni vengono compiute in gran segreto, con poche persone, lontano dalla folla? Perché lo Stato si vergogna a tal punto, ma ufficialmente sostiene la pratica? Al fondo di questa ostinata ipocrisia, Duff utilizza tutto il proprio black humor per smontare pezzo dopo pezzo le ragioni della fazione avversaria e lascia passare in sordina alcuni aspetti a mio avviso sconvolgenti: nel 1948 in Inghilterra la pena di morte era ancora in vigore per incendi dolosi appiccati sulle navi mercantili, ma era stata abolita qualche anno prima per gli stupri su bambini di età inferiori ai 10 anni. Insomma, priorità di Stato. Alla fine di tutto, dunque, tra dettagli truculenti e grandiosi rovesciamenti, il lettore scopre, qualora non ne avesse ancora contezza, le terribili implicazioni delle condanne a morte, che non sono solo relegate al caso specifico delle impiccagioni, ma pure alla sedia elettrica americana o alle lapidazioni di certi stati islamici. E non penso sia sbagliato tornare a soffermarsi oggi sulle ragioni contrarie alla pena di morte, perché credo, anche se non ne ho le prove, che se si dovesse fare un referendum oggi forse a vincere sarebbero i sì.

Nel libro qualche difetto c’è: pur nella sua relativa brevità, finisce per essere ripetitivo e talora vagamente tedioso, ma il gioco sarcastico e corrosivo di Duff mantiene desta l’attenzione e genera un libro tanto serio nel contenuto, quanto elegante nella forma.

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Romanzi erotici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    23 Luglio, 2020
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Da pruriginoso a urticante, passo breve

Non vorrei spendere troppe parole per questa raccolta di racconti di Anaïs Nin, se non altro perché il materiale di cui discutere è molto esile. Nella prefazione programmatica l’autrice confessa di aver scritto questi racconti per un committente che le ha chiesto di eliminare ogni traccia di erotismo e di concentrarsi soltanto sulla pornografia, scontrandosi però con la sua vocazione da scrittrice, incapace di rinunciare del tutto a qualche approfondimento psicologico o d’atmosfera. Il risultato è una serie di racconti in cui non c’è traccia d’erotismo e in cui la pornografia è frettolosa, ripetitiva, noiosa, spesso eccentrica o con tratti surreali: l’idea ricorrente è quella di personaggi esibizionisti o feticisti, insoddisfatti, piatti e annullati sulla pagina, tanto da risultare del tutto inconsistenti. Il problema peggiore tuttavia è che i racconti, specie quelli più brevi, sono di una fragilità narrativa imbarazzante per un libro tanto di moda fino a pochi anni fa, trame che procedono spesso sfidando la credulità del lettore, senza nerbo, senza ragione di esistere, a volte dilatati a forza di ricordi infantili in cui vedere la propri madre nuda uscire dal bagno segna i gusti sessuali di tutta quanta una vita. A salvare in parte questa tediosa inconsistenza, più furba che ispirata, sono alcuni rari sprazzi di raccolto lirismo nei racconti più lunghi, in cui l’esplorazione dell’universo femminile fa la propria comparsa sulle pagine di un libro, dopo secoli di fallocentrismo. Eppure non basta questo nuovo sguardo sul “delta di Venere” a rendere la lettura gradevole. Ampiamente dimenticabile.

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Romanzi autobiografici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    22 Luglio, 2020
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Vizio di forma

Dopo che l’editore Gallimard l’ha inserita nelle proprie collane, Annie Ernaux è divenuta un’autrice quasi di culto, considerata capace di ridefinire un genere, quello dell’autobiografia, dilatandone e quasi annullandone i confini, che finiscono per abbracciare l’analisi sociale, culturale e la ricostruzione storica. E certo la scrittrice ha un modo peculiare di procedere, quasi per schemi: l’evento autobiografico, che si configura come un trauma, un punto di rottura, apre la narrazione e si riverbera a cerchi concentrici per tutte le pagine successive. In questo breve testo, “La vergogna”, Annie ricorda una domenica d’estate, la domenica in cui suo padre tentò di uccidere la madre e di come nulla, da lì, fu più come prima. A leggere le prime pagine, in effetti, il libro prende la strada di una ristrutturazione psicologica, di una disamina attenta di come quanto l’autrice ha vissuto ne abbia poi condizionato la vita. Le stigmate del passato, ci ricorda le Ernaux, vanno masticate, metabolizzate e digerite, eppure scoprire il velo del dolore, il silenzio greve degli anni, affrontare ancora gli istanti più cupi della propria storia, richiede un coraggio insolito, un coraggio che a molti manca e che più di tutto reclama la necessità di sapersi perdonare per non essere stati abbastanza, per non essere riusciti a impedire il tragico, per essere stati fragili e deboli quando la vita pretendeva forza e resistenza. Il dolore di questo evento, il cui ricordo non ricompone la memoria, ma anzi ancora più la frantuma, è talmente incandescente da dover essere neutralizzato da una scrittura algida, cerea, asettica; una scrittura “entomologica”, come programmaticamente la definisce la Ernaux, volutamente fredda, che non di rado procede per punti ed elenchi, centrata com’è sul ricorso a un linguaggio nudo e concreto, lontano da orpelli e metafore.

Personalmente non sono contrario ad uno stile freddo se questo è giustificato dal contenuto, ma mi pare che la rigidità del tono mal si adatti al resto del libro, che tratta con disincanto l’ipocrisia e la finta educazione della società coeva, la rigida educazione nel collegio cattolico, le norme e i precetti da seguire per non sfigurare, il cortile dove defecare, la casa-emporio-bar senza angoli di privacy, le gite a Lourdes, la rigida tassonomia urbanistica ed economica delle strade della città: quando il fuoco della narrazione si allarga al contesto, la freddezza del tono scade nella telegrafia e contribuisce, nella completa assenza di respiro narrativo, a scoperchiare una grossa criticità strutturale; “La vergogna” è un testo sospeso, non concluso, il tassello di una più grande progetto autobiografico che si intravvede e credo si ricomponga leggendo gli altri testi dell’autrice, ma che letto singolarmente galleggia nell’universo dell’indefinito.

Concludendo “La vergogna” non è un brutto libro e credo che Annie Ernaux abbia un proprio timbro specifico e una profonda sincerità narrativa, ma il testo pare piuttosto sbilanciato, asfissiato com’è da uno stile che non lascia spazio a nulla se non una cronaca austera, in bilico tra la biografia, l’analisi sociale e la volontà narrativa e castrato da una lunghezza insufficiente alle ambizioni. Non fatico però a credere che l’autrice possa essere molto apprezzata e avere molto seguito: c’è qualcosa di così dolorosamente vero in quello che scrive da costringere il lettore a una franchezza perentoria con se stesso. Il problema è che qui la forma non è in grado di sostenere il peso dell’opera.

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L'analisi sociale ricorda Simenon, che è però di un altro livello. L'esperienza psicologico-biografica ricorda i romanzi di McGrath, che però si muove su binari molto più definiti.
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Classici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    27 Mag, 2020
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La vertigine della parodia

Tengo molto a quest’opera di Petronio e mi piacerebbe riuscire a incoraggiare qualcuno nella lettura. Di Petronio sappiamo poco, se non il ritratto straordinario che ne fa Tacito come “arbiter elegantiae” nei suoi Annales, collocando il misterioso autore alla corte di Nerone. Non fa sorgere meno dubbi interpretativi questo suo “Satyricon”, testo che credo epocale per più di un motivo. Intanto la forma: approssimandolo a una categoria moderna, si potrebbe dire che il Satyricon è un romanzo, genere davvero poco praticato nell’antichità e certo considerato una forma di letteratura minore. L’esempio più celebre è Apuleio con le sue “Metamorfosi”, e pochi altri sono i romanzi di cui abbiamo conoscenza, tutti di matrice greca e tutti basati sullo stesso schema: una coppia di innamorati che non può unirsi a cause di fattori che ne determinano la separazione fino al ricongiungimento finale. Eppure il Satyricon ribalta completamente questo modello: al centro della storia un triangolo amoroso del tutto irreale tra tre uomini, con non infrequenti incursioni femminili a dire il vero, in cui il bel Gìtone è conteso tra diversi aspiranti e approfittatori. Ancora più celebre è però la famosa cena di Trimalcione, tripudio pantagruelico e volgare dei nuovi arricchiti, della più turpe delle degradazioni, tra portate immaginifiche, sessualità dubbia, sproloqui indecenti. Quello che però crea ancora più confusione è che quanto ci resta del Satyricon corrisponde al solo libro XV e parte del XIV e del XVI: tutto il resto è andato perduto. Ne segue che questo romanzo dovesse essere un’opera monumentale e che forse proprio per questo fosse pubblicato addirittura a puntate, innervando tutta una vendita di libri più “frivoli” e leggeri, nonché licenziosi, che doveva essere in realtà molto ricca nella Roma imperiale. Eppure il gioco letterario del Satyricon è tutt’altro che popolare, anzi, è piuttosto raffinato: tutto gira attorno alla parodia più estrema, al rovesciamento sistematico dei modelli classici cui la letteratura importante si ispira e che qui vengono ribaltati: i protagonisti sono implicati in una inverosimile storia omosessuale, il dio che perseguita Encolpio, il protagonista, non è l’Helios che tormenta Ulisse, ma Priapo, dio dall’esuberante mascolinità che lo punisce con l’impotenza; o ancora i modelli alti dell’amore coniugale (Ulisse e Penelope) vengono sovvertiti nella irriverente novella della “Matrona di Efeso”, che apre una sottonarrazione nel mentre della cena di Trimalcione, la quale è a sua volte la parodia di un’intera società che ha toccato il denaro e che subito si è corrotta e forse un’estremizzazione dei curiosi libri di cucina che sappiamo stavano iniziando a circolare all’epoca. Eppure col proseguire del testo la parodia si fa ancora più estrema: poco prima delle ultime scene che ci restano, uno dei personaggi si lancia nella declamazione di un poemetto, il “Bellum civile”, del tutto tradizionale, anzi, si direbbe stantio. Allora qui l’arte di Petronio si fa escplicita: quello del “Bellum civile” non solo è un topos letterario straordinariamente prolifico, ma in quegli stessi anni era il tema di un’altra opera memorabile, la “Pharsalia” di Lucano, che a sua volta era il rovesciamento del più grade epos latino, l’”Eneide” di Virgilio. Ecco che Petronio realizza l’indicibile sfidando i modelli più alti e facendo della parodia il motore della narrazione; inoltre inserendo all’interno di quest’opera narrativa interi poemetti, novelle, composizioni elegiache ed epigrammi e richiamando l’epos più alto, annulla la tassonomia dei generi letterari così come ancora oggi intesa, in un modo che forse si realizzerà poi di nuovo solo nel Novecento.

Dunque il Satyricon è un’opera modernissima, che però non finisce di regalarci sorprese. Infatti a chiunque legga con attenzione, appare chiaro che il protagonista, e in generale ogni personaggio, sia la caricatura estrema di un tipo umano e che dunque coesistono due piani narrativi: quello di Encolpio, narratore “mitomane”, che trasfigura le sue vili imprese con le parole dell’epica e il narratore “nascosto”, Petronio, che guida la storia con i modelli letterari che stanno dietro al libro. Il risultato è che Encolpio, imprigionato nei suoi modelli sublimi, accentua la parodia, che si fa strumento allora per rivelare, attraverso la trivializzazione, come gli schemi del romanzo abbiano reso melodrammatici i veri modelli sublimi.
Da questo romanzo Fellini ha tratto l’omonimo film scandalo del 1969, tutto dominato da tinte rosse e nudità promiscue, con sconvolgenti introspezioni sul senso della vita e l'angoscia della morte, e credo che molto del senso del Satyricon sia nel più recente “La grande bellezza” di Sorrentino: anche lì la macchina del regista è quella di una parodia che smaschera la trivializzazione della vera bellezza, quella che non è grande, ma sublime.

Chiudo aggiungendo una piccola nota editoriale. L’edizione Mondadori di questo libro è, per usare un eufemismo, scandalosa: sono stati tagliati tutti gli inserti poetici e i poemetti che sono parti integranti del testo per favorire il lettore moderno, con una traduzione che più che libera, mi pare arbitraria e che dimostra come del libro non sia stato compreso il senso più proprio.

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Scienza e tecnica
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    15 Aprile, 2020
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Scatole, palline e probabilità

Non stupisce che un secolo così difficile e vacillante come il Novecento, si sia aperto ai piedi dei maestri del sospetto, Schopenhauer, Nietzsche e Freud e sia continuato con le deflagranti teorie di Einstein, Heisenberg e Gödel; un secolo in cui lo spazio, il tempo e l’identità hanno perso la propria solida e indefessa consistenza per inseguire il dubbio, il relativismo, l’indeterminazione. E così gli elettroni diventano non particelle, ma onde di probabilità, il tempo si dilata e contrae nelle teorie di Bergson e nella ricerca di Proust, l’io scopre sconcertanti profondità in se stesso che lo fanno dubitare della sua stessa consapevolezza. Non stupisce dunque che la fisica quantistica sia nata nel Novecento, a rimarcare ancora una volta che il placido e compiaciuto mondo newtoniano è, in fondo, un modello applicabile solo su scale intermedie.

La fisica quantistica resta strana e difficile da penetrare, spesso banalizzata: l’entanglement, che lega due particelle anche a chilometri di distanza, è diventato l’ennesima frase da-bacio-perugina bistrattato, distorto, travisato. E sono convinto che spesso questo sia dovuto al fatto che si divulgano le teorie, senza spiegare il meccanismo di fondo. Per esemplificare con una immagine più vicina al mio ambito di studio, è come dire che sì l’insulina determina un abbassamento dei livelli di glucosio nel sangue, ma senza spiegarne il meccanismo molecolare: e non spiegare il meccanismo è una forma di magia, non di scienza. L’interesse primario di questo libro di Therry Rudolph, nipote di Heisenberg, è proprio il suo sforzo di spiegare la meccanica dei quanti, il modo con cui questa nuova fisica funziona: e così il libro si riempie di immagini, esempi con scatole, leggi della logica, palline colorate, che si scambiano, modificano e interagiscono con l’ambiente in modo per ora alquanto capriccioso. E Rudolph ha anche il merito di introdurre progressivamente la possibilità delle nuove tecnologie, i computer quantistici, i nuovi calcoli possibili, il tempo di studio che potrà essere più ridotto.

Certo non è un libro facile: leggerlo richiede non solo una certa dose di attenzione, ma anche un’elasticità logica che non penso sia così diffusa come l’autore mi pare credere. Il difetto maggiore che si può ravvisare, nonostante lo sforzo di renderlo facile, è che a forza di fare esempi si perde il quadro generale (riperdendo l’immagine di cui sopra, è come insegnare dettagliatamente le vie molecolari con cui l’insulina agisce senza però dire che alla fine, stringi stringi, fa diminuire la glicemia). Ci vorrebbe, in questo, più equilibrio, qualche pagina in più, oppure si dovrebbe destinare il libro a un pubblico che abbia ben chiari i riferimenti entro cui ci si muove. Dunque un buon libro, ma con le dovute precauzioni.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    17 Marzo, 2020
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Un dolore che non ha fine

Brevi, inevitabili spoiler.

Questo è uno di quei libri che meriterebbero, in copertina, una fascetta con scritto “maneggiare con cura”. Questa è un recensione difficile perché uscire dal mondo di “Una vita come tante”, un mondo che lascia stremati, esangui, quasi annichiliti, è compito durissimo per il lettore su cui le pagina abbiano inciso cicatrici a ogni frase. La vera domanda cui si deve rispondere prima di intraprendere la lettura delle oltre mille pagine di questo libro è: quanto dolore possiamo sopportare? Perché Hanya Yanaghihara sprofonda quanto più possibile nelle pieghe laceranti dell’abuso, della sopraffazione, dell’autolesionismo e costantemente, quasi stregata da una maledizione, la coazione a ripetere, a perseverare nel male, ci ricorda che l’uomo può amare, certo, ma anche e, soprattutto, ferire, massacrare, uccidere.
“Una vita come tante” è la storia di quattro amici, che la scrittrice segue dal college all’età adulta, in quarant’anni delle loro vite che si dilatano nei continui ricordi, nei tentacoli aggrovigliati di un passato che non lascia scampo. C’è JB, artista ambizioso, Malcom, aspirante architetto, Willem, bellissimo e seducente, cameriere prima, attore poi e alla fine, anzi, soprattutto, Jude. Questo romanzo in fondo potrebbe intitolarsi “Vita di Jude”: fragile, delicato, quasi potesse rompersi fra le mani; Jude che vuole diventare avvocato e che pure frequenta un corso di matematica pura, Jude che non crede in se stesso, che cammina con difficoltà, immobilizzato a volte da attacchi quasi convulsivi che lo pugnalano in ogni parte del corpo. Jude che porta sempre e solo le maniche lunghe, per nascondere i tagli che si fa sulle braccia, lembi di pelle percorse da una trame infinita di cicatrice, pezzi di carne che si staccano quando non sa controllare quel dolore che pure pensa essere la propria colpa da espiare. Jude, silenzioso e geloso dei suoi segreti, dei suoi misteri, Jude, che sùbito intuiamo, ha subìto qualcosa di atroce da bambino. Preparatevi, respirate, se non siete pronti chiudete questo libro, perché quello che riserverà progressivamente sarà il corpo di Jude bruciato, frustato da bambino, in monastero, violentato dai monaci; sarà lo stesso corpo costretto da un uomo a prostituirsi con uomini o gruppi di uomini nei motel degli Stati Uniti, un uomo che diceva di amare questo bambino di otto o nove anni; e ancora sarà lui a essere rapito, seviziato e stuprato da uno psichiatra, investito dalla sua auto, dopo essere fuggito ancora da altri abusi terribili, quelli nell’orfanotrofio. Ecco se resistete a questo, a questo corpo su cui il destino si è accanito, su questo bambino a cui hanno tolto tutto, forse non siete ancora pronti: perché c’è altro dolore da affrontare, quello dell’autolesionismo, quello della vittima che si sente colpevole, quello di Jude che anche se ricco, di successo, anche se ha trovato una nuova famiglia, penserà sempre di non meritare nulla, di dover obbedire alla bontà rara degli altri, a cedere, a mentire, a lasciarsi prendere dalla fame, stordito dal dolore alle gambe sempre più feroce, inebetito da un abbraccio, trepidante per un bacio. Jude che non saprò mai se è etero o omosessuale, perché “fin da piccolo ho conosciuto solo gli uomini”, più grandi, più sporchi, più disgustosi; Jude che avrà paura del sesso, del contatto con un corpo, Jude che non riuscirà più ad avere un’erezione e non perché è stato investito, ma perché per lui non c’è più niente che possa essere salvato. E se anche siete pronti a tutto questo, se anche vi sentite in grado di sopportare per mille pagine di sofferenza, sappiate che non c’è mai fine, che la tragedia si annida ovunque e che all’orizzonte ci sono, nonostante qualche luce, altre morti, altri abusi, altre malattie.

Ho provato a sintetizzare la storia, con qualche concessione di più alla trama, perché questo non è un libro adatto a tutti, anzi forse solo a pochi. Hanya Yanaghihara ha delle evidenti lacune tecniche: gestire un libro così lungo che fluttua perennemente tra passato e presente, da più punti di vista (quello dei quattro amici, ma anche di altri comprimari), crea qualche problema non solo nell’uso dei verbi, che talora barcollano nell’alternanza di imperfetto, passato remoto e presente, ma anche nella gestione delle anticipazioni e dei flashback, generando un tempo zoppicante, ferito com’è anche da improvvise ellissi che spostano l’attenzione di anni nel giro di poche righe. E, a dirla tutta, nessuna frase di questo libro, presa isolatamente, merita forse troppa attenzione, nel senso che lo stile è molto piano, non gode di nessuna variazione particolare, di nessun guizzo. E anzi ho trovato quasi sgradevole che una storia tanto dolorosa come quella di Jude sia stata dilazionata e frammentata per creare un po’ di suspense, come fosse un giallo o una spystory qualunque. Eppure c’è qualcosa in quello che viene narrato, nella vivida rappresentazione dei corpi e dei personaggi, nell’inarrestabile trasporto sentimentale che annulla il tempo della lettura e fa bere pagine su pagine, che rende questo libro imperfetto un ingranaggio emotivo inarrestabile, capace com’è di demolire punto per punto ogni speranza residua, di lasciare, dopo la fine, solo un campo devastato e sterminato di sbigottimento, dolore, tristezza. E dunque per quanto il lettore provi a mantenersi oggettivo, le pagine della Yanaghihara lo costringono ad ammettere che molto raramente ha provato, nel leggere qualcosa, lo stesso tremore, la stessa compartecipazione, la stessa violenta identificazione con i personaggi. Vi confesso che ho letto questo libro tenendo in una mano il libro e con l’altra attorcigliandomi i capelli, tanto era la tensione che stavo accumulando e che non riuscivo in altro modo a manifestare.

Non so se riuscirei a rileggerlo, troppo dolore anche per me, eppure mi resta una commozione tanto pura e vera che non posso esimermi dal consigliarlo. Chiudo soltanto sottolineando come oggi ci sia molta attenzione, con ogni ragione, alla violenza sulle donne e sui bambini, ma che spesso dimentichiamo la violenza sui ragazzi, magari quelli un po’ troppo esili, un po’ troppo efebici, troppo aggredibili, quelli che qualcuno gode ancora di più nello sporcare, nello sfregiare, nel possedere. Succede purtroppo ogni giorno, anche se in modo più sottile e infidamente meno fisico di quanto accade a Jude, ma questo non lo rende meno doloroso.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Marzo, 2020
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Abbaiare una preghiera

Questo è un libro da leggere prima di morire; non nel senso ormai sdrucito di “imperdibile”, ma nella contingenza temporale del crepuscolo, della vita che finisce. Solo alla luce indaco e scura dell’ultimo respiro, “Un soffio di vita” può forse svelare il mistero che segretamente custodisce oltre lo specchio selvaggio della sua prosa frantumata, irrequieta, instabile, sull’orlo limaccioso dell’illeggibilità. Perché addentrarsi nel vortice furioso che si avviluppa senza respiro per tutte le tesissime pagine di questo libro sfrangiato e ubriaco, “che balla nudo per strada”, richiede un atto di fede, di puro abbandono. Clarice Lispector scrive perché non sa più contenere in sé il grido di dolore e spavento per quella diagnosi irrevocabile ricevuta, quella malattia inclemente che la farà morire in pochi mesi, lei che amava più di tutto la vita e che temeva di non essere ancora riuscita a dire l’indicibile, a dare forma alla trasparenza inattingibile della verità. Eppure chi si perde nelle sue pagine scopre che quasi ogni frase sconvolge un mondo, fende l’aria, rompe la crosta della coscienza, quasi ogni divagazione colpisce un bersaglio distante anni luce. C’è in Clarice la potenza di un pensiero dirompente, imprevedibile, ma anche la sensibilità di un mondo di acqua e di terra, di carne e di sangue che sta oltre le porte del pensiero, un passo più vicino al cuore, più vicino al respiro.

Sottotitola “Pulsazioni” Clarice Lispector, perché in fondo “un soffio di vita” è sia quello della nascita, il primo vagito di chi ha perso la pienezza del grembo, sia quello ultimo della morte che consegna l’anima a un mondo sconosciuto e forse terribile, forse luminoso. Pulsazioni che segnano il tempo della vita, ma anche la discontinuità della stessa e dunque della prosa, che mai come in questo suo ultimo romanzo rasenta rovelli interpretativi di difficile risoluzione. Ma lei è chiara fin da subito: “stiano lontani i profani”, questo non è un libro per tutti e ancora, “voglio scrivere movimento puro”. Sono onde vorticose e seducenti quelle che assaltano il lettore, che lo sommergono e soffocano fino alla sfinimento, in un dialogo tra un “Autore” e una sua creatura, “Angela Pralini”. Ho detto dialogo, ma mi correggo: ognuno dei due interlocutori parla per se stesso, a volte non si ascoltano, a volta interferiscono, più spesso seguono indisturbati il filo dei loro pensieri. È come se giunta al tempo estremo della vita, Clarice di sdoppiasse in un alter ego esplicito (l’Autore) e in un grido primitivo, (Angela), in un gioco di specchi che moltiplica i piani di lettura e che pure è funzionale per descrivere, quando tutto finisce, come tutto inizia: la creazione. Non a caso ad aprire il libro c’è un passo della Genesi, il libro per eccellenza della creazione, e un pensiero di Nietzsche sulla gioia feroce del creare. Clarice crea l’Autore e l’Autore crea Angela Pralini, così come Dio ha creato l’uomo e dall’uomo è stata creata la donna. Ed essere stati creati è il crivello esistenziale che macera e tortura questi personaggi: fin dove si spinge la libertà di ognuno? quanto può divampare la rivolta verso il proprio Creatore? e perché l’esistenza, perché la morte. Non sono domande facili, anzi i personaggi di accartocciano più volte lungo le rive disseccate della follia, ma quello che è più sconcertante è che Clarice è consapevole di se stessa fin nel più recondito recesso del proprio delirio, lucidissima, devastata, ma ancora animata da una forza titanica. E allora tutto questo libro di frasi rotte e oscure, di frammenti non ricomponibili finisce per essere una lunga preghiera a quel Dio che è l’interlocutore perpetuo di ogni pensiero, di ogni parola, il silenzio muto della verità. Una preghiera che in un istante può diventare l’ululato di un animale ferito e un attimo dopo il placido ohm di un monaco tibetano. Perché questo libro così intimo è pervaso davvero dall’ultimo soffio di vita di Clarice, dalla sua ultima e suprema pulsazione e in questo suo essere estremo nasconde la sfuggente impressione di una immane cosmogonia, quella di un divino che non è nell’astratto vuoto del cielo, me nella briosa spuma del mare. E mentre ci si approssima alla conclusione, questa storia, che ancora una volta è un percorso di passione, si sublima nell’estasi della visione suprema, nel miracolo raro di una scrittura che forse tocca davvero qui il fondo vero delle cose, un bagno di luce. E forse bastano anche solo queste tre o quattro pagine issate sulla vetta della scalata, a far valere non solo la pena della lettura, ma anche quella, più generale, di essere lettori; pagine così belle da temere di finirle, che ci lasciano stupiti e abbandonati, col viso reclinato e arreso come la Santa Teresa di un meraviglioso Bernini.

Io so che non sono oggettivo, che non è un libro per tutti e che non è perfetto, spesso ostico, irragionevole, a volte illeggibile. Ma che ci volete fare, quando la leggo sento come se in me esplodessero stelle e galassie, come se anche io mi aprissi a qualcosa che in me è più in fondo di me. Io, quando leggo Clarice Lispector, sono felice: è come aver trovato l’anima gemella.

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Clarice Lispector (ma consiglio sempre di iniziare da "Vicino al cuore selvaggio")
V. Woolf
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    09 Marzo, 2020
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Un anno di vita

È il 1982 quando Tondelli pubblica "Pao Pao", appena due anni dopo l’uscita di “Altri libertini”, pressato dall’editore Feltrinelli e stupito egli stesso dal suo inaspettato successo; dunque Pao Pao è un romanzo scritto in fretta e proprio per questo sconta più di qualche criticità. Innanzitutto si fatica a capire dove Tondelli vuole arrivare: in questo memoriale dell’anno di servizio militare, rito di passaggio ammantato da brividi paurosi ma anche da risa improvvise, il centro della narrazione fluttua in continuazione senza mai mettere a fuoco un problema. Ora è la caserma, con le sue leggi e la sua violenza, le sue raccomandazioni e le sue prevaricazioni, ora è la vita con i compagni, tanti e sfuggenti, tutti alti e slanciati, tra feste proibite, droghe e perenne fumo di canne. La scrittura di Tondelli è quasi eruttiva, nella su smania di dire e contrarre, descrivere e contingentare e allora, specie nella prima parte ambientata a Orvieto, il modulo espressivo è quello della lista, della ripetizione, dell’asindeto esasperato che lega lunghi periodi dilatati su intere pagine, a violare la punteggiatura, a concentrare la potenza semantica sempre esuberante nella sua polifonia e creatività. Eppure proprio per questo andamento vertiginoso e ondivago, il romanzo sembra smarrire la strada: non è né un’autobiografia, né un romanzo alla Kerouac, né un reportage sulla vita nell’esercito né ancora un romanzo sentimentale. "Pao Pao" è tutto questo, ma mai in pieno, con le sue variazioni fulminee e forse la sua indecisione. Tondelli impiega un buon quarto del testo, nelle successive scene romane, a ritrovare il bandolo della matassa e solo alla fine il lettore che raggiunga le ultime trenta o quaranta pagine del romanzo può finalmente trovare pace. E la trova quando Tondelli si costringe a fare quello che gli riesce meglio: aprire squarci d’ombra nell’interiorità dei suoi personaggi e scandagliarne gli struggimenti, l’amara malinconia, il disincanto, ma anche l’accettazione dolorosa di una vita che si rifiuta di essere irregimentata. Certo pure qui la forma, pur più piana, stona nel suo eccesso di giovanilismo, nel babelico subentrare e subitaneo scomparire di troppe comparse, ma lascia già intravedere quel lavoro di introspezione che dominerà le belle pagine di “Camere separate”.

E dunque "Pao Pao", col suo sentore esotico già dal titolo, col suo essere ibrido e scostante, segna un libro di livello un po’ inferiore rispetto agli altri dell’autore, ma nonostante questo si lascia leggere con un certo gusto, ancor più immagino per chi il servizio militare lo ha svolto e che dunque può ritrovarsi nel freddo pungente delle camerate, negli scherzi tra compagni, nella ricerca di mezzi più o meno leciti per un giorno di permesso. Più di tutto, però, di questo romanzo porto con me un riflesso biografico: le campagne di Orvieto che regalano al protagonista qualche momento di serenità e pace nello sconforto della vita militare, mi hanno ricordato i verdi crudi e brillanti e i marroni tenaci delle colline della mia amata e odiata Gubbio, con il labirinto claustrofobico delle sue stradine medievali inerpicate sul ventre della montagna; e ancora più sorprendentemente nel fiorire della vita militare a Roma ho ritrovato una sensazione precisa del mio passato, quando qualche anno fa, nella mia prima notte da solo nella capitale, ho sentito l’infinità libertà di poter essere chiunque nelle strade ampie e indifferenti, sorridenti e misteriose di una città tanto grande. E allora capisco che Pao Pao in fondo è sì la storia dell’anno di leva, ma più a fondo è semplicemente il ricordo di un anno di vita che passa, di una tremante tensione di metamorfosi.

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Tondelli, "Altri libertini", "Camere separate"
Autori della Beat Generation che Tondelli omaggia più volte (Kerouac, Ginsberg e Burroughs su tutti)
C. Bukowski
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Scienza e tecnica
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    05 Marzo, 2020
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Il difficile equilibrio della comunicazione

[Mi scuso per i refusi con chi ha letto la recensione appena pubblicata]

Ho letto questo libro diverso tempo fa, ma lo recensisco oggi perché mi ha fatto tornare in mente un problema importante che in questi giorni è quanto mai pregnante, la difficoltà e il modo di raccontare, a chi non è competente, la scienza. Tra l’essere divulgativi e il semplificare fino a falsificare c’è talora una linea molto sottile, rispetto alla quale può essere difficile regolarsi. Un libro come questo di Rovelli che affronta spesso problemi apparentemente inattingibili è in effetti costretto a non dire tutto, perché dire tutto significherebbe scrivere un trattato specialistico, fatto che non era negli scopi dell’autore. Viceversa, l’impegno morale dello studioso che sa, è anche quello di non cedere alla smania di appiattimento, perché è pericoloso trasmettere l’idea che la materia sia facile e alla portata di tutti. Ovviamente Rovelli ne è consapevole, ma chi legge, fin quanto lo è? Se oggi tutti pretendono di avere il diritto di poter parlare su tutto, dalla geopolitica alla medicina, dalla finanza al diritto, i libri come questo fanno bene o male? Al solito non è lo strumento a essere positivo o negativo, ma l’uso che se ne fa e dunque se si può criticare qualcosa di questo libro, è che è fin troppo esile, fin troppo facile anche laddove non potrebbe esserlo, pena il fraintendimento. Il fatto è che spesso manca la conoscenza scientifica di base per rapportare i fatti al contesto, per saper collocare bene gli eventi nelle loro relazioni. Perché leggere i sintomi della malattia x su mypersonaltrainer non significa essere medici e conoscere le leggi dell’entanglement non significa essere fisici. Questo non per crocifiggere questo testo, che anzi è piacevole da leggere, affascinante e misterioso, ma per sottolineare come sia importante comunicare anche che quello che si sta dicendo è solo un frammento infinitesimo della conoscenza complessiva. Che sembra scontato, da dire, ma mi pare che molti se lo dimentichino. Questo libro di Rovelli è forse un gradino sotto all’approfondimento minimo richiesto, anche se mai si vanta di essere più di quello che è, ma forse si poteva fare di più. Un libro che lascia in fondo un poco insoddisfatti e non a caso di questo stesso genere si può trovare qualcosa di meglio. In ogni caso, per vedere il lato positivo della medaglia, ha venduto inaspettatamente centinaia di migliaia di copie, tanto da permettere il finanziamento di molti altri bei libri che Adelphi ha pubblicato in seguito. Perché la scienza deve uscire dalle aule universitarie, ma quando esce è un’arma che va maneggiata con cura. COVID19 docet.

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Romanzi storici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    02 Marzo, 2020
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Gertrude è innocente?

Mentre penso a cosa scrivere su questo libro di Malaparte, mi torna in mente il me di qualche anno fa alla presa con il più classico dei temi del liceo, “Getrude: colpevole o innocente?”. Sarà che quel “La sventurata rispose” mi aveva colpito più di quanto non avessi intuito, ma io Gertrude l’avevo prosciolta. E allo stesso tempo, qualche anno dopo, avevo difeso la filosofia di Heidegger all’indomani della pubblicazione dei “Quaderni neri”, esplicito documento del suo sostegno al nazionalsocialismo, perché in fondo, mi ero detto, l’architettura del pensiero, la bellezza del linguaggio, la profondità della riflessione non perdono smalto di fronte alla biografia. Eppure con il tempo anche le posizioni cambiano e così quanto siamo o non siamo disposti a perdonare. E oggi mi chiedo: a cosa serve filosofare, a cosa serve scrivere la bellezza, se questa non ci aiuta a scegliere quanto è giusto, a sentire le vibrazioni di quello che accade. Forse può sembrare un discorso fin quasi moralistico, ma non riesco a farne altrimenti.

Venendo al caso specifico, Malaparte ha il dono non comune di una prosa lussureggiante, evocativa, in cui suoni e colori si mescolano e rincorrono in un labirinto di citazioni coltissime, in cui basta un vento nero e feroce a tenere le redini di un capitolo o basta seguire un personaggio che cammina per le strade misteriose di Napoli per dipingere una città memorabile. Dal generale al particolare, dal particolare al generale, Malaparte scrive come dipingerebbe un pittore fiammingo, ma con più luce, con più strazio, con più passione. D’altronde l’enormità della guerra, l’assurdità della fame, della malattia, l’idea inconcepibile, ma pure così frastornante, dell’uomo che annienta un altro uomo richiedono, per poter essere davvero rese, una scrittura tesissima, spasmodica, sull’orlo della rottura. E il rischio che ne segue è che nei punti di massima tensione, una scrittura già esasperata, debba, per rendere l’akmé, quasi negare se stessa. E in effetti i punti di maggior orrore (la vivisezione, l’esposizione della vergine, la cena cannibalesca) non di rado sfiorano la tenerezza. E Nei suoi punti migliori, mi pare, il libro è circonfuso dalla delicatezza improvvisa che si apre nel caos soverchiante della guerra e della distruzione, dal respiro calmo della natura e dal riposo di una notte che profuma di pietà, ma troppo spesso Malaparte indulge nell’orrore che non ha motivo di essere, si compiace dello stupore di una nuova aberrazione e per farlo mistifica fin oltre il consentito la realtà. Non è un caso che nel teatro classico la violenza non venisse rappresentata sulla scena, perché la violenza è preziosa e pericolosa, può sbilanciare completamente una narrazione; perché anche sulla pagina, quando è gratuita, è già un passo oltre il lecito. Malaparte conosce benissimo la letteratura greca e latina, anzi, la fa conoscere, in modo un po’ inverosimile, a un soldato americano, fino a citare i più lontani lirici, Simonide, Pindaro, Anacreonte, ma forse dei classici dimentica una lezione cardine: l’aura mediocritas, il concetto di limite, il senso dell’equilibrio. Questo non significa che la violenza non debba trovare spazio, ma deve essere finalizzata a qualcosa di valido, come accade ad esempio in “Arancia meccanica” di Kubrik. Qui, invece, mi pare che troppo spesso la personalità dell’autore offuschi la bellezza della scrittura e che forse troppo spesso l’esuberanza non sia adeguata allo scopo. Ci sono almeno un paio di capitoli che potrebbero scomparire, qualche scena che si potrebbe tagliare, ma farei torto alla personalità dello scrittore, che dunque valuto così com’è: ammiccante, compiaciuta, vagamente egocentrica. Non a caso Malaparte, che si inserisce come personaggio del libro, quasi sempre esce vittorioso dalle discussioni, quasi sempre fa una bella figura.

Ecco non vorrei che tutto questo faccia dimenticare quanto di bello il libro riserva, l’idea che tutti, vincitori e vinti, escano ugualmente sconfitti dalla devastazione, l’idea che l’uomo può scendere ogni gradino dell’abiezione per salvarsi, gli affreschi meravigliosi del Vesuvio che erutta, della Napoli vivace e quasi mistica che trapela dall’uscii delle porte; la stessa Napoli in cui si perde e vaga Andreuccio da Perugia, in una celebre novella del Decameron, perché è la città, con le sue strade e i suoi buchi d’ombra, a rappresentare il vero centro della narrazione, col suo percorso di dannazione e salvezza, di cateresi e catarsi. Forse la scena più bella del libro è quando dopo l’eruzione del Vesuvio la terra rinasce e pare che quasi si tratti dell’Eden, di uno spazio vergine, del primo passo dell’uomo su un pianeta intoccato. Eppure proprio perché il libro parla di temi tanto delicati, tutto avrebbe meritato più attenzione, più cura e meno circo, meno protagonismo. Perché non bastano le intenzioni a rendere buone le azioni. Nella vita, come nella letteratura.

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Arte e Spettacolo
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    27 Febbraio, 2020
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Ubu l'esuberante

Personaggio iconico del teatro moderno, ma meno fortunato di altri suoi simili, Ubu nasce dalla penna di un eccentrico scrittore, Alfred Jarry, quando questi, ancora adolescente, frequenta un rigido collegio francese. Sono le storie narrate sottobanco e le magnificazioni del solidarismo tra compagni a costituire l’humus da cui nascerà questo personaggio pantagruelico, col suo ventre enorme e prominente, che lui stesso ripetutamente chiama “Cornoventraglia”, con i suoi bastoni del potere, con la sua “pompe à merdre”, con cui semina e diffonde la paura e perperta i suoi omicidi. Personaggio borderline ed estremo, con la sua etica disinibita, con la sua logica maccheronica, Padre Ubu non si fa mancare i battibecchi con un’altrettanto elefantiaca Madre Ubu, che continuamente lo rimprovera e anzi, prova a tradirlo, senza però troppi successi. Quando la prima opera dedicata a Ubu, l’”Ubu re”, fu rappresentata alla fine dell’Ottocento, il benpensante pubblico francese fu sconvolto da quel “Merdre” che apre l’opera e che ripetutamente conclude, puntella, esagera le esclamazioni dei protagonisti. Perché Ubu è, prima di tutto, l’incarnazione della volontà parodistica e satirica dell’autore, un personaggio tanto poco definito, quanto infinitamente definibile: si potrebbe consideralo come un semplice burattino, un personaggio ben riuscito e simpatico, oppure si potrebbe rivestirlo di molti simboli: l’arbitrio assoluto del potere, il fanatismo logico e scientifico, il marito geloso, l’epopea della libertà nell’immaginario francese, perché tutto in Padre Ubu è sconsacrato e messo alla berlina.

Quello di Ubu è un ciclo di quattro opere teatrali: apre l’Ubu re, che già nel titolo richiama e parodìa la celebre opera sofoclea e che allo stesso tempo recupera il modello altissimo del Macbeth shakespeariano per ridurre tutto il dilemma del potere a sfrenata parodia; segue l’”Ubu incatenato”, forse la più riuscita delle opere, nella quale il modello è il “Prometeo incatenato” di Eschilo e nella quale si crea un divertente cortocircuito tra la libertà e la schiavitù, fino a invertire i due concetti; minori e forse meno riuscite le altre due commedie, “Ubu in collina”, sintesi più pittoresca dell’”Ubu re” e l’”Ubu cornuto”, in cui la moglie del nostro incontenibile protagonista lo tradisce niente di meno che con un africano, per scandalizzare ancora di più l’orgoglio della società e quello di Padre Ubu.

Merita attenzione anche lo stile molto creativo di Jarry, la sua capacità inventiva notevole, i neologismi, i curiosi accostamenti verbali, la capacità di usare le ripetizioni per amplificare le scene e contemporaneamente per farle esplodere, o ancora gli inserti “musicali”, canzoncine, filastrocche sadiche, i personaggi di contorno che spesso compaiono anche solo per un istante, quasi senza motivo. Certo i libri non toccano vette troppo alte e non credo giovi troppo volerle rivestire di infiniti significati; piuttosto meglio figurasi le scene e sorridere, anche se qualche volta a denti stretti, dell’esuberante prestanza di padre Ubu. Degno di nota che Jarry, morto anche giovane, fu fondatore della “patafisica”, scienza delle soluzioni immaginarie, come ebbe a dire, una scienza che sconsacra la scienza e che trascende la metafisica. Non so se la patafisica fosse per Jarry un’idea seria o piuttosto un divertissement quasi serio, ma certo è che oggi esistono siti e scuole e libri dedicati alla patafisica e Ubu, non a caso, che della patafiisca è il massimo realizzatore, è il loro nume tutelare. Destino curioso per un personaggio nato forse solo per prendere in giro un professore troppo maligno.

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Fantascienza
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    26 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Combattere, fino alla fine

In un mondo postumo a un violento conflitto nucleare, che ha devastato ogni città, inabissato l’Europa, eliminato grossa parte della popolazione mondiale, un mondo illuminato perennemente dalla luce innaturale e livida di un fungo atomico che pervicacemente resiste all’orizzonte, la guerra dei pochi superstiti si è spostata nelle montagne del Tibet, nei labirinti scavati nella roccia, unico luogo dove le radiazioni sembrano non essere letali, dove la vita può perpetuarsi ancora e ancora indefessa, nella sua logica di violenza e sopraffazione. Mercenari assoldati dal’”Amministrazione”, misteriosa e vaga entità che vegeta là dove i governi hanno smesso di legiferare e che per sostenere il peso di una guerra in cui tutti sono sconfitti, ha creato nemici immaginari, o forse amici, colpi di mitragliatrice destinati ai propri amici o ai propri avversari, non c’è differenza. Perché un nemico deve pur sempre esserci, per mantenere l’ordine, per far evaporare gli istinti centrifughi e distruttivi in una società fatta di odio e frustrazione. E così il protagonista, prima soldato fedele al governo e ora deluso da chi, invece di proteggere la popolazione, si è rifugiato sottoterra per preservare i propri interessi, vive il resto della sua esistenza, mutilato nelle gambe, una mitragliatrice saldata al braccio sinistro, un punteruolo fuso sul braccio destro. È con questo punteruolo che incide sulla roccia la sua storia, la storia del mondo, come un uomo primitivo che ha dimenticato altra forma di linguaggio e il lettore lo segue in quello che è forse il delirio di un uomo solo, che non esce da anni dal ventre della montagna, o forse il delirio di due uomini che non sanno l’uno dell’altro, che scrivono e si sovrappongono. Nulla è certo in questo racconto, se non che la scrittura è una forma di memoria, se non che il potere, in ogni forma, vuole solo perpetuare se stesso.

Molti, al solito, i temi che Dürrenmatt condensa in poche pagine: una critica feroce della guerra, il peso della minaccia nucleare all’alba degli anni ’80 del Novecento, le logiche che regolano non solo il potere, ma anche la società (molto ben riuscito, per quanto non semplice da seguire, il paragone tra i processi di fusione nucleare nelle stesse e le dinamiche della società, che sa trovare un ordine e una simmetria tra le leggi della fisica e le leggi umane), la forza della scrittura, l’indispensabile presenza di un nemico da affrontare, senza chiedersi il perché, l’egoismo di chi governa e su tutto la fatale, finale ironia di un mondo che oramai si scopre archeologico, di incisioni che scopriamo solo alla fine essere il testamento dell’uomo nella caverna. In questa regressione allo stato primitivo si innesta, meravigliosamente, il mito platonico della caverna a rimarcare ancora una volta che ognuno, osservando le ombre, potrebbe scambiarle per la verità stessa, ma anche la paura di scoprire che quello che vediamo è solo una finzione. Perché a volte è meglio non sapere. Certo l’ambientazione è meno riuscita di altre volte, la storia meno appassionante, ma l’acume è sempre lo stesso e “La guerra invernale nel Tibet” ricorda, già nell’assurdità del titolo, l’assurdità della guerra.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    24 Febbraio, 2020
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L'amore che trema

Il Tondelli che nel 1989 pubblica “Camere separate” è molto distante dal giovane autore di “Altri libertini”, libro scandalo pubblicato pochi anni prima, tanto crudo e violento nella immagini, quanto immaginifico e affascinante nel linguaggio. Al di là di una certa continuità tematica, infatti, “Camere separate” approda a una scrittura più placida e misurata, ricca ma mai soverchiante, graziata com’è da un candore delicatissimo, da un rispetto quasi sacro per il dolore e per la solitudine. Sulla scia del bel libro di Isherwood, “Un uomo solo”, Tondelli supera il modello costruendo una storia difficile e commovente, una storia che trema in ogni suo palpito, in ogni sua pagina, perché la mano non può essere ferma quando si descrive la grazia di un amore che nasce, il dolore di una vita che finisce. Leo e Thomas, scrittore l’uno, musicista l’altro, stregati da uno sguardo in una sera qualunque a Parigi, i corpi slanciati, tonici, gli occhi di brace su un una stanza che è quasi solo un letto, su un amore che è quasi tutta una vita. Eppure Thomas è morto, lo scopriamo subito, stroncato troppo giovane da una malattia che gli ha gonfiato le viscere, che lo ha spento poco a poco. E Leo che è sopravvissuto, che lo ha potuto vedere solo un’ultima volta implorando i genitori di Thomas, porta su di sé il peso di essere ancora vivo, la colpa di poter ancora ridere, godere, piangere. È un’accettazione dolorosa che dall’apatia passa all’edonismo, che dal torpore passa all’ubriachezza, perché la morte di Thomas non è solo la fine di un mondo, ma forse la fine della possibilità d’amare.

Accartocciata su se stesso, la storia di “Camere separate” modula un tempo liquido, che fluttua dal passato al presente senza soluzione di continuo, che fa sospirare e atterrisce, capace nella sua sconcertante e crudele normalità di conficcare il lettore alla croce della propria impotenza, se la vita è vita, capace anche di distruggere la bellezza. Eppure “Camere separate” non è primariamente un libro sulla fine dell’amore, piuttosto è un libro sulla solitudine, sullo spazio della propria indipendenza, sull’altare della propria libertà. Per questo Leo vuole vivere ancora distanti, separati appunto, per separare dal cuore anche la possibilità di precipitare per sempre nella vita e nell’amore, perché l’amore puro e assoluto può anche essere una caduta rovinosa. E dunque elaborare la morte di Thomas non è solo elaborare un lutto, ma la ricerca di un perdono per se stesso, un’occasione per scoprire quello che in Leo è più profondo di Leo e forse per uscire dal proprio narcisistico egoismo, dal proprio riflesso.

Ho amato molto questo libro, perché ho riconosciuto in certi punti la mia scrittura, il mio modo di sentire e intendere il mondo, perché Tondelli ha scelto la strada dell’attenzione e della delicatezza, quella che sfuma invece di ferire, come si può notare nelle bellissime scene d’amore che brillano di una luce soffusa. Non è un libro perfetto, a volte divaga, a volte perde il centro dell’attenzione (ritorna la droga, alla politica, ma non ce ne è bisogno), si potrebbe rivedere l’intreccio, anticipare quello che viene detto in fondo e dire in fondo quello che viene detto all’inizio, eppure, nonostante questo, un libro che sa toccare là dove fa più male, nella consapevolezza cioè che a volte ognuno di noi vive in camere separate, sullo stesso letto, certo, ma fissi nel nostro riflesso, come lo sguardo di Leo che nella primissima scena si contempla perduto nell’oblò di un aereo. Perché a camere separate, non si può toccare la vita.

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Isherwood, "Un uomo solo"

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    20 Febbraio, 2020
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Coazione a ripetere

Si nasce e si muore nell’acqua, continuamente: quella di una piscina, o del mare, quella di una doccia, sporca, pulita, macchiata di sangue o invasa di ruggine. Acqua che fa nascere e mutare, acqua che fa morire. E nel mezzo dell’acqua, corpi. Corpi di uomini, di donne, di transessuali, corpi di bambini, corpi nudi, spalancati, maciullati, crivellati, corpi ammaccati, affamati, corpi che corrono e che vivono, prima ancora della volontà. È una vecchia storia, quella della vita, cieca, disperata, sorda, vita che perpetua se stessa, nella morsa della ripetizione e sullo sfondo di relazioni umane tanto assolute quanto spersonalizzate. Sette volte per sette capitoli, sette inizi, riflessi e sfrangiati in una miriade di specchi, vittime innocenti diventate carnefici, violentatori stuprati, bambini che muoiono e uccidono. E su tutto la stessa piattezza, lo stesso tono, la stessa atona inquadratura che impassibilmente descrive l’orrore che accade.

Non credo sia un caso che Littell abbia dedicato un libro, “Trittico”, alla figura di Francis Bacon: chi ha in mente i dipinti inquieti e disperati del pittore irlandese, non fatica a rivedere nei corpi descritti da Littell la stessa intensità dolorosa, la stessa violenta contorsione, le membra stirate, accartocciate, quasi dilaniate, perché il corpo, prima ancora della peronsa, pensa e agisce, subisce e crea, nella sua chiusura e nella sua dolorosa apertura. A tenere le fila di questo labirintico libro, il filo rosso della violenza. Rubo le parole alla scrittrice Sarah Kane per spiegarne la logica:

“La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra.”

Ogni capitolo scritto da Littell, esplorando prima la famiglia, poi la coppia, poi ancora la solitudine e il gruppo, esita sempre in una scena di guerra, perché la violenza nel piccolo cresce e si manifesta nel grande, perché la violenza di un bambino che gioca con i soldatini è la stessa del generale che massacra i prigionieri. Nell’universo di Littell ogni azione ha lo stesso peso: mangiare, bere, dormire, evacuare e dunque la scrittura riporta tutto senza enfasi, senza scomporsi, come un cronista che assista al massacro. E in questa scrittura volutamente neutra, mi pare di leggere un dolore profondissimo, quello di chi ha visto l’oscenità del mondo e non sa ritrovare un briciolo di luce per sostenere la speranza. Detto altrimenti, questo è un libro di intenso nichilismo, ma un nichilismo che procede non per esplosioni e distruzioni, ma per un costante e perpetuo livellamento di ogni rilievo della realtà.

Quello che non funziona è che la ripetizione del modello per sette volte appare non necessaria e pleonastica e che la scrittura, come la violenza, finisce per alimentare sterilmente se stessa. Specie nelle scene in solitaria, quando l’azione non supporta l’attenzione, il libro scivola pericolosamente come una vite che gira e rigira scavando quello che è già stato scavato. E il sesso e la violenza che vivono sulle pagine appaiono alla fine come inutile gratuità. Solo alla fine, quando tutta la parabola è stata percorsa, in una rapida e improvvisa apertura, il dolore dello scrittore si manifesta nella sconcertante e assoluta disperazione della solitudine.

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Sarah kane
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    21 Gennaio, 2020
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Tamburellare la solitudine

È un labirinto di specchi infiniti quello che Dedalo ha costruito per il Minotauro, forme che ripetono altre forme, la stessa innocente e pura sagoma di una creatura sospesa tra l’umano e la bestia. Gesti che si ripetono in eterno, nello spazio illusorio di un mondo costruito tutto a immagine e somiglianza dell’essere che vi dimora, fragile, solo, abbandonato. Senza amici, senza tempo, senza poter capire che la vita è esile e basta anche solo la gioia a incrinarla. Labirinto fisico, labirinto di vetri, ma anche labirinto mentale, costruzione disperatamente e impossibilmente razionale con cui dare forma alla materia informe del caos. Il labirinto è una metafora, non un simbolo, non possiamo spiegarlo, solo accettarlo, perderci e disperderci negli anfratti nascosti dei suoi angoli più scuri. Il Minotauro è ontologicamente solo, unica creatura metà umana metà taurina, incapace di pensare, ma capacissimo di sentire il dolore dell’abbandono. Gli restano solo gli specchi, la sua immagine che non sa riconoscere, che si muove con lui, ride con lui, piange con lui. Gli specchi dunque, e i ragazzi che ogni nove anni Atene devolve in sacrificio. Vita nuova, persone nuove, per un attimo la felicità. E il Minotauro danza la sua gioia, danza la sua pace, danza la sua sincerità e mentre danza stringe troppo forte i suoi nuovi compagni. Non sa che un abbraccio troppo intenso può uccidere, che il filo che ci tiene stretti alla vita è così trasparente da essere invisibile. E così per sempre, solo di nuovo, nella sua umanità indicibile, nella sua bestialità inappellabile, finché Teseo, travestito da Minotauro a sua volta, non gli si fa incontro, riflesso che non risponde ai comandi e come nel mito più crudo, lo uccide; uccide il mostro che non sa di essere un mostro e chiude dolorosamente il labirinto e la sua storia.

La perfezione di questo racconto non è solo nella sua esplorazione degli abissi più scuri dell’uomo e della ragione, ma anche nello stile meraviglioso, ritmico e lirico che Dürrenmatt riesce a trovare. Come a fare eco alla moltiplicazione degli specchi e delle immagini, alla vertigine dello spazio, la prosa si fa battente, martellante, drasticamente anaforica, ricca di allitterazioni, giochi verbali, cocciute ripetizioni. L’effetto che ne segue è che lo spazio già amplio del labirinto, si fa ancora più esteso e, paradossalmente, claustrofobico e il lettore si perde davvero in questo tessuto abnormemente dilatato per avvertire con ancora più intensità, su di sé, il peso di ogni parola ribattuta, di ogni suono ritrasmesso, in una tensione che cresce, cresce e si acumina fino a ferire. Riporto per farvi capire:

“Si distaccò dalla parete, sbirciò pieno d’odio la sua immagine, e quella di lui, colpì col pugno destro, l’immagine col sinistro, i due pugni s’incontrarono, nuovo scambio di colpi con lo stesso risultato, e allora colpì con entrambi i pugni, e così fece anche l’immagine: infine tambureggiò sulla parete. Tambureggiò la sua rabbia, tambureggiò la sua smania di distruggere, tambureggiò il suo desiderio di vendicarsi, tambureggiò la sua voglia di uccidere, tambureggiò la sua paura, tambureggiò la sua ribellione, tambureggiò l’affermazione di se stesso, ma ad un tratto avvertì che quell’essere davanti a lui, che era un essere come lui, era il suo traditore”.

Eppure il libro si spinge un passo più in là. Chi è il lettore? Il Minotauro, perduto nella sua solitudine e incapace di amare senza ferire? O forse il lettore è Teseo, che deve travestirsi da Minotauro per poterlo uccidere, deve diventare mostro anche lui per eliminare quello che in lui è più forte di lui. Forse ognuno di noi ha il suo labirinto, il suo modo di sfuggire al mondo e forse tutti noi abbiamo dimenticato la compassione, la comprensione e ci scopriamo, ucciso il mostro, ancora più soli di prima. E tutto questo Dürrenmatt ce lo chiede in 40 pagine scarse. E mi pare un crimine che un libro come questo, miracolosamente perfetto nel suo intangibile incanto, non venga più pubblicato, almeno a quanto ho visto in rete. Se lo trovate, prendetelo: prima o poi lo leggerete ed entrerete anche voi nel vostro labirinto, un passo più fondo a voi stessi.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    19 Gennaio, 2020
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Cadere, come Silvia

Qualcuno prima di me si è chiesto cosa avrebbe scritto Camus dopo questo libro, dove sarebbe giunto il suo pensiero, perché il pessimismo e la disillusione cui “La caduta” approda, hanno davvero il peso di un macigno che nemmeno il Sisifo più volenteroso e felice potrebbe sollevare. In effetti il libro al quale Camus stava lavorando prima della morte, non era un romanzo, ma un’autobiografia, come se il personaggio di Clamence avesse alla fine davvero chiuso un cerchio e solo nei ricordi del suo maestro di scuola, dell’uomo che lo ha reso lo scrittore che è poi diventato, Camus avrebbe potuto trovare una nuovo calore, una nuovo punto d’inizio.

“La caduta” non è un romanzo perfetto, ma ricapitola, nella sua straordinaria densità, i temi cardine dello scrittore e ne sottolinea, ancora una volta, l’acume tagliente, l’implacabile e indefessa profondità con cui scava non solo nelle radici dell’esistenza, ma anche nell’amore, nell’amicizia, nell’ipocrisia. La scrittura di Camus è tale che, ogni volta che si pensa di afferrarla, essa raggiunge un livello ancora più alto, una percezione ancora più intensa del mondo. Mi pare che ogni suo libro sia in fondo una riflessione sull’impossibile impossibilità del mondo, ovvero sull’impossibilità di aprire un varco, un miracolo, nella maglia rigida dell’esistenza. Lo stesso varco che cerca il suo Caligola, quando in uno splendido atto terzo chiede a un suo suddito-poeta di poter avere la luna, è lo stesso squarcio che il protagonista Mersault non sa intuire nella sua asettica impassibilità e soprattutto lo stesso miracolo che Clamence non sa realizzare. Perché ogni miracolo è, in un certo senso, una forma d’amore e Camus ci ricorda che “non essere amati è una semplice sfortuna: la vera disgrazia è non amare”. Il dramma di “La caduta” è tutta qui: Clamence non sa amare, in lui tutto è voce del verbo, chiacchiera e discorso, retorica; tutto il suo parlare, la sua sofistica, non è altro che la prosopopea di chi intuisce il giusto per logica, senza però sentirne l’urgenza, di chi conoscendo il male, non sceglie il bene. Il miracolo che avrebbe potuto arrestare la parabola discendente di questo libro era un tuffo, un atto di pura abnegazione, ma ancora una volta, nella paralisi di Clamence, Camus ci ricorda che non basta conoscere le maglie dell’assurdo per poterle spezzare. Non è un caso che il cuore del romanzo sia il suicidio di una ragazza, perché nel suicidio l’uomo è chiamato a portare alle estreme conseguenze il disgusto di una vita straniante nella sua pleonastica gratuità, eppure un vita che, al di là di ogni percezione razionale, l’uomo non è in grado di abbandonare. In fondo Clamence sa di essere al culmine della disperazione, là dove secondo Cioran la vita disgusta tanto quanto la morte, ma non ha abbastanza tempra per poterlo sostenere e allora tutto il discorso diventa una forma estrema di divertissement.

Quello che non funziona è che Camus tocca verità limpide tramite la voce di un personaggio creato e plasmato per non raggiungerle mai, condensa una quantità enorme di pensieri in uno spazio tanto stretto da diventare concettoso e lo stile non riesce a sostenere le ambizioni dell’opere. L’esito è che il libro rischia di sfaldarsi su se stesso e che nessun pensiero, una volta chiuso, resterà davvero impresso. È certo che con Clamence, Camus silenzia l’ipocrisia esistenzialista e fa crollare, una volta per sempre, la speranza, unica vera vittima di questa caduta.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    17 Gennaio, 2020
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Il muro

È un ufficio come tanti, scrivanie, sedie, computer, ascensori e bagni; colleghi più o meno conosciuti, vite che non sono la tua, convivenze forzate, amicizie smorzate, gesti ripetitivi, arrivismo e competizione. È l’ufficio moderno di un paese moderno, con le pareti curate e il pavimento da calpestare solo con scarpe pulite o pantofole. E poi c’è una stanza strana, ordinata e senza polvere, aperta lungo il corridoio; la stanza che Bjorn ha scoperto senza averla mai prima vista e nella quale ritrova la pace e la tranquillità di cui ha bisogno. Il fatto è che la stanza esiste solo per lui: quando lui è lì dentro, per i colleghi sta solo fissando il muro bianco per minuti interi. Perché Bjorn, anche se non viene mai detto, vive in uno spazio mentale diverso dai più: ossessivo-compulsivo, ordinatissimo, ma autistico e incompreso, viene relegato a riempire stampanti e compilare elenchi. Eppure lui è più bravo di tutti a scoprire la logica delle direttive che vengono dall’alto e a riscriverle in un modo tanto limpido da sembrare miracoloso. E allora l’ufficio, sulle fiamme dell’invidia e della emarginazione, diviene il campo di battaglia di due fazioni inconciliabili, di due mondi che non possono tollerarsi, quello di Bjorn e quello dei normali: il primo, antipatico e tronfio, ma quasi commovente nella sua dispercezione e nelle sue idee francamente maniacali; i secondi spaventati e aggrappati all’ordine fragile delle cose. In quella che diventerà una lotta all’ultimo colpo per il futile potere dell’ufficio, Bjorn resterà il più debole e risponderà al divieto impostogli di non entrare più nella stanza come un animale ferito, scomparendo nel muro.

Non era facile descrivere il mondo dagli occhi di una persona con alterazioni psichiche e per buona parte del testo il lettore dubita dell’esistenza o meno della stanza, perché in fondo il mondo è sempre il nostro mondo e non basta quello che viene visto dai più per definire la normalità. Karlsson segue la scia, sebbene con altre ambizioni, di Faulkner che fa parlare Benjamin nel suo “L’urlo e il furore”: costringe a entrare in un mondo diverso per accettare la diversità. E mi spiace molto che questo libro sia stato ridotto ad una mera metafora dell’alienazione del lavoro moderno, perché credo vada molto oltre: l’ufficio è, nel suo piccolo, specchio di un mondo dove siamo lontanissimi dall’accettazione, dall’integrazione e da ogni altra forma di comprensione. La guerra isterica di questo ufficio contro Bjorn ha, in fondo, le stesse basi delle guerre di fuoco e proiettili che torturano il mondo. Libro essenziale nello stile, rapido nei capitoli, ma inaspettatamente doloroso nella sua inappellabilità.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    15 Gennaio, 2020
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Scandalo per benpensanti

Il clamore mediatico che questo libro ha suscitato deve aver divertito molto Houellebecq, se è vero che il chiasso maggiore è stato fatto da quegli intellettuali o pseudotali che scrivono da blog e giornali e che, fanatici di un’impostazione critica del tutto avulsa dalla realtà storica attuale, tirano fuori marxisti in lotta con le destre, fascisti in lotta con le sinistre, musulmani agguerriti e conquistatori, cristiani effeminati e sottomessi, e tutta un’altra serie di categorie politico-estetico-religiose che, confesso, urtano quanto di urtabile esiste in me. Eppure sono quegli stessi intellettuali non già radical-chic, ma spenti e consumati nelle logiche più claustrofobiche del loro studio iperspecialistico, che Houellebecq bersaglia per tutto il romanzo, specie nei punti più riusciti. Per questo, devo riconoscerglielo, il libro, a posteriori, funziona.

Tre storie si intreccino e richiamano: la parabola religiosa di Huysmans, celebre autore di “À rebours”, manifesto dell’estetismo, la storia del protagonista, esimio studioso dello stesso e docente universitario e l’ascesa dei Fratelli musulmani che prenderanno il potere in un Francia pronta a cedere su ogni piano della cultura. Questo tre filoni, non sempre ben intrecciati e sufficientemente fluidi nel passaggio l’uno nell’altro, condividono in realtà un tema in comune, che è quello della fuga dal mondo. Come Des Esseintes, il protagonista del romanzo di Huysmans, anche il personaggio di Houellebecq consuma una vita spenta circondato dall’estetismo più esotico, alla ricerca di un senso da trovare forse nella fede; ma anche la Francia cerca una fuga dal mondo in un altro equilibrio, in un’altra cultura. C’è tanto, troppo fumo in questo romanzo, così eccessivo a volte da aver indotto in tentazione più di qualche critico e sviato diversi lettori; credo che fosse in fondo questo lo scopo di Houellebecq, realizzare nel reale quello che descrive nel libro. Eppure la qualità puramente letteraria di “Sottomissione” risente di tutti questi depistaggi, di tutta questa fumosa sovrabbondanza, perché il punto, zigzagando continuamente, rischia più volte di perdersi. Ecco bisogna scollare la struttura dalla sovrastruttura e cercare, in fondo, il tema più proprio del libro, che mi sembra essere, molto più prosaicamente, la ricerca di una pacificazione, di una garbata tranquillità, di una quiete magari borghese ma non borghesizzata. Tutto il resto è critica sociale, ironia politica, scandalo per i benpensanti.
Non a caso la scena più riuscita del romanzo (riuscita proprio perché silenziosamente vera), è quando molto prima della presa del potere dei musulmani, il protagonista discute di massimi sistemi con il marito di una sua collega di università. Mentre sono impegnati in voli pindarici e arguzie geopolitiche, lascia il segno l’immagine di questa donna che non viene mai fatta parlare (nonostante sia appunto una docente universitaria), ma che semplicemente porta piatti a tavola, con le lodi delle figure maschili. È in questo vuoto di parole assordante che Houellebecq si dimostra un bravo scrittore, nel realizzare che la distopia è avvenuta prima ancora della distopia, prima ancora dei musulmani; è che quello che segue è già nell’animo di ognuno.

Un romanzo che sconta il suo voler essere provocatorio e che soffre di uno stile non all’altezza (stendo un velo sulle scene di sesso che sono scritte davvero male e penso più per goffaggine che non per precisa volontà), che avrebbe potuto fare a meno anche dei musulmani in effetti, ma che raggiunge, oltre il valore del libro, lo scopo: deridere chi trova finto lavoro nella chiacchiera, gli opinionisti, chi non ha niente di meglio da fare. Croce deleteria di un sapere sempre più frammentato, sempre più gelido, sempre più masturbazione dell’ego.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    13 Gennaio, 2020
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Resistere serve a tutti

Inizio la mia esplorazione dell’universo letterario di Curzio Malaparte da un racconto minore ritrovato e pubblicato da Excelsior 1881, casa editrice purtroppo non più in attività. L’alternante e libresca vita di Malaparte, tanto mutevole nella politica quanto accesa nei toni, lascia spazio a una narrazione che fa della delicatezza e dello sfumato la sua prima virtù. Siamo nell’Italia dei primi giorni del settembre 1943, il re è fuggito, ma le nuove alleanze dell’8 settembre non sono ancora state siglate. Calusia è un soldato bergamasco, confinato in uno sperduto manipolo di uomini in Calabria, solo e senza ordini contro lo sbarco degli inglesi e degli americani che annienteranno il suo caposaldo. Superstite per caso della dolorosa sconfitta, Calusia intraprende un viaggio per l’Italia portando con sé, in una cassa costruita da lui stesso, il corpo del suo Tenente, diretto a Napoli, dalla sua famiglia.

Fin da subito Malaparte sceglie uno sguardo sfumato, impreciso, che sgrani la realtà per renderla forse meno dura, più malinconica: la battaglia che apre il romanzo è un miscuglio di nebbie e bagliori, brevi istantanee di uomini che cadono e dei rumori delle mitragliatrici, ma tutto scolora e si confonde, quasi che il rispetto per la morte e per il dolore impedisse di descrivere il massacro. E su questo stesso tono elegiaco e sospeso, che non di rado si affida a un lirismo terrestre e garbato, si assesta il prosieguo: Malaparte procede per ellissi e studiate omissioni, segue il suo personaggio, senza braccarlo, lo accompagna lungo un viaggio che ha la capacità di descrivere la crudezza come fosse una fiaba. Ne risente forse la struttura, a tratti troppo esile, ma ne guadagna lo stile, che trova nel silenzio e nelle scene per istantanee la sua forma più pura. Così si affastellano scene trasognate e memorabili, come quella in cui Calusia e una giovane orfana rubano i vestiti di due soldati inglesi che, forti dei fucili, avevano fatto gli smargiassi; o ancora il soldato nero che canta din don appeso alla campana di una chiesa. Eppure Malaparte lascia intravedere questioni serissime: la fiumana di esuli che dalle regioni del sud muove verso il nord alla ricerca di qualche possibilità di lavoro, la angherie di chi si approfitta della povera gente per i propri scopi e più di tutto il sacro rispetto per il corpo di un compagno morto, per il dolore della sua famiglia. Non è solo e aneddotico cameratismo, anzi il contrario: è questo ultimo lembo di umanità che, sopravvivendo nell'abnegazione tenera e decisa di Calusia, impedisce alla guerra di abbruttire senza possibilità di perdono anche le ultime relazioni umane. L’Italia ha perso la guerra, ma Calusia non può lasciare che a vincere siano “i ladri”. È nel brutto che accompagna ogni guerra che Malaparte crea una inaspettata storia di luce, graziata, com’è, da una superba e garbata eleganza.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Gennaio, 2020
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Una quieta bellezza

Credo che l’essenza di questo racconto di Yasunari Kawabata sia ben espresso da una splendida poesia di Ungaretti, intitolata “Stasera”:

Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia

È la malinconia di una bellezza perduta e da ritrovare, la nostalgia di una pienezza evanescente quella che il giovane protagonista della storia tenta di ritrovare, nel suo viaggio verso la penisola di Izu. Un viaggio di formazione tanto archetipico quanto insolito, perché il segreto da scoprire non è per una volta nelle profondità dell’animo del protagonista, nelle spirali occidentali e fangose dell’animo umano, ma anzi nella natura e nella sua semplice armonia. Anzi, crescere è proprio questo: imparare a vedere la bellezza delle piccole cose, la raffinata perfezione di un istante, la capacità di scorgere nell’esterno la forza pacificante della letizia. Non è un caso, in effetti, che la forma più emblematica dell’arte letteraria giapponese sia l’haiku, un componimento fulminante di 5-7-5 sillabe, che ha sempre un riferimento alla natura e, che nella più classiche delle struttura, non affonda mai nel torbido, ma sempre illumina un’immagine delicata, una “quiete accesa”. Non è un caso neppure che la poesia di Ungaretti con cui ho aperto sia un haiku, genere nel quale il suo ermetismo ha trovato plastica e cristallina consistenza. Per apprezzare a pieno la poetica orientale di Kawabata, anche il lettore è chiamato a una sorta di educazione, a un percorso di crescita, aiutato da due conferenze dello stesso autore in appendice al racconto. In una di queste, l’autore, in vacanza alle Hawaii, scova uno spettacolo di insolita bellezza nella rifrazione dei raggi del sole sui bicchieri scintillanti della colazione e segue per qualche minuto i giochi di luce e di ombre che si alternano con naturale fluidità. Ecco, la bellezza per Kawabata è l’istante miracoloso, un hic et nunc che non potrebbe darsi in altro tempo se non allora, in altro luogo se non lì.

“La danzatrice di Izu” è oggi, in Giappone, un testo nazionale, letto nelle scuole, citato da molti, travolto da un merchandising che illumina (e confonde) la storia d’amore tra il protagonista e la giovane danzatrice di una compagnia itinerante che incontra lungo la strada. In realtà quello del ragazzo non è amore, non brucia di fiamma e passione, e non è neppure un innamoramento; piuttosto è un’infatuazione, dove proprio l’essere fatuo risponde alla natura del libro. Il giovane ama amare, ma è un amore che prescinde dalla persona, dalla giovane danzatrice, tanto che è quasi sollevato quando scopre che è tanto piccola da non poter costituire nemmeno la tentazione di una realizzazione pratica del desiderio. È in questo dire l’essenza senza mai sfiorarla che sta l’arte di Kawabata: forse il protagonista è perfino omosessuale, come lascerebbe intendere il suo pianto finale sul grembo di un uomo, ma questo non interessa a nessuno, perché tutto il bello è nell’incantesimo di un attimo, nell’irripetibile gesto di una bambina in cui si rispecchia la divina perfezione dell’essere.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    08 Gennaio, 2020
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La tentazione di credere

È sempre la luce ad annunciare il divino: la stessa luce che scompare quando Gesù, nel suo umanissimo lamento al Padre che lo ha abbandonato, esala l’ultimo respiro; è questo buio che riesce per un attimo a far pregare la terra, a rompere la certezza, a insinuare il dubbio nell’animo di Barabba, il criminale liberato, attratto inesorabilmente da quell’uomo che si proclama figlio di Dio e che pure gli sembra farneticare. La domanda che striscia tenace è talmente semplice e brutale da sembrare un’aporia: com’è possibile che l’uomo abbia condannato Dio che si è fatto carne per salvarlo? Come è stato possibile che il più giusto tra tutti, il più innocente di tutti, sia stato crocifisso? Il Golgota sarà per Barabba il punto di non ritorno, la suprema tentazione di credere a un mondo divino che annuncia la salvezza di tutti gli uomini, un paradiso che non è di là da venire, ma una promessa di felicità sulla terra. Barabba non può credere perché ogni parte della sua logica si oppone: come è possibile resuscitare i morti, guarire i lebbrosi, moltiplicare i pani e i pesci; come è possibile risorgere tre giorni dopo la morte, oltre il masso pesante che chiude il sepolcro; come è possibile che gli ultimi saranno i primi in un mondo che vive di schiavi e padroni. Tutto questo Barabba vive con l’impeto di chi vorrebbe trovare un senso oltre la vita, immaginare che la morte non sia il nulla eterno, l’annullamento di ogni possibilità, ma anche con la disillusione di chi non è toccato dalla fede. Barabba se lo chiede, lui, l’ingiusto che è sopravvissuto, lui per il quale il figlio dell’Uomo si è sacrificato mentre intorno Leporina, la giovane donna di cui si è approfittato, sfida la legge delle pietre per professare la sua fede, mentre il suo compagno di schiavitù, l’uomo cui sarà legato per anni da una catena, affronterà la legge di Roma per essere schiavo di un Dio più alto di Cesare.

Siamo partiti dalla luce, perché le forme di questo romanzo sono tagliate da un bagliore freddo, scandinavo, quello della penna di Pär Lagervist, premio Nobel nel 1951, che si immerge nella sfida inesausta tra fede e incertezza, dubbio e ateismo e lo fa ripartendo dalle domande, quelle essenziali, attaccate alla vita di ogni giorno, senza indulgere a retoriche teologiche, a speculazioni verbose. Barabba è il suo alter-ego che cerca e fallisce la parola biblica, perché Barabba è ogni lettore che scende con lui nelle miniere, che insieme a lui si muove perso nelle catacombe senza luce, in un mondo che è solo morte. Ecco, il mondo di questo libro è quello pesante, opprimente di chi non può fare altro che accertare l’indefesso materialismo della vita e sentire che la morte è solo un salto nel buio. Hanno paragonato la scrittura di Lagervist alla cruda consistenza dei dipinti di Masaccio, eppure mi pare che la similitudine più propria sia con un Caravaggio spettrale: la stessa vivida rappresentazione degli uomini, lo stesso potente fantasma della salvezza, ma qui, la luce tagliente che illumina i suoi dipinti, la parola di Dio che fa breccia nella coltre scura del mondo, fallisce il suo divino splendore e su tutto regna una densa e costante penombra.
Resta l’amarezza per un libro che avrebbe potuto essere indimenticabile e che sconta, purtroppo, uno stile tanto semplice da rischiare la piattezza e soprattuto un’impostazione della storia che non procede per trama, ma per scene, come se ogni capitolo fosse l’atto di uno spettacolo teatrale. Barabba arranca un po’ nel suo ritmo assente e fa perdere smalto alle sue difficili interrogazioni.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Gennaio, 2020
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Il Settecento in 80 pagine

Questo racconto nasce, secondo la storia e forse la leggenda, da una scommessa: quella di scrivere una storia erotica senza mai fare uso di un linguaggio carnale. Vivant Denon, viveur che incarna alla perfezione l’ideale intellettuale dell’uomo del settecento, sceglie di accettare la sfida e scrive una storia che il pubblico contemporaneo, abituato a ben più esplicite evoluzioni, può faticare ad apprezzare. Ma Denon, che non era scrittore, ma storico dell’arte, conosce bene la differenza tra erotismo e pornografia, pur non dandoci troppo peso. Il racconto diventa così un vero e proprio prontuario dei modelli e dei cliché del Settecento, anzi, in queste pagine si ricapitola un’epoca: la seduzione che la donna sposata esercita sul bel giovane (già amante di una sua amica) a teatro, le scene d’amore che si consumavano sui palchetti e dietro i sipari; il lungo viaggio verso un castello disperso; il giardino fiorito e ombroso, il laghetto e la panchina dove avanzare le pretese d’amore; il famoso boudoir che nasconde inenarrabili piaceri, quasi sospeso in un’atmosfera di fiaba, tra specchi e alberi evanescenti che trasportano l’uomo in un mondo irreale; e ancora il marito tradito che accoglie a cena l’amante e infine il gioco di inganni e finzioni che rendono il Settecento il secolo non del teatro, ma della teatralità. Ecco tutto questo è “Senza domani”, anche se magari la storia non è poi un granché e solo la capacità dello scrittore di tenere il ritmo permette al lettore di non annoiarsi.

La cosa più interessante di questo libro è invece la biografia particolareggiata di questo uomo fatto barone, Vivant Denon, che seppe attraversare, senza restarne colpito, le transizione epocali della storia francese: a suo agio tanto nelle regge della monarchia francese, quanto, pur nel disprezzo, nei tribunali del giacobinismo, sarà al seguito di Napoleone in Egitto, dove requisirà in lungo e in largo i reperti storici fino ad allora del tutto trascurati e soprattuto diventerà il primo curatore e direttore del Louvre. È proprio Vivant Denon il fondatore del moderno concetto di museo, l’artefice della nostra percezione e fruizione dell’arte, e ahimè è sempre lui che depredò l’Italia di tanti capolavori per poter fare del Louvre una somma splendida dell’arte di ogni secolo. Per questo è quasi commovente l’immagine di questo uomo che, oramai vecchio e attaccato ai suoi Leonardo, Raffaello, Tiziano, combatterà fino allo stremo per trattenere nel suo museo quei beni artistici che la Restaurazione, caduto Napoleone, vorrà a forza portagli via. È nella mondanità di Vivant Denon, nella sua “urbanità” che sta la fonte di “Senza domani”, ma anche lo spirito di un intero secolo e di tutta quanta una cultura, nonché l’occasione, davvero gradevole, di ripercorrere cinquant’anni di storia densi e bellissimi.

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Scienze umane
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    06 Gennaio, 2020
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Accozzaglia commerciale

Sarò tranchant, ma mi perdonerete: Recalcati (paraculo) finge di scrivere un libro sui libri e sulla bellezza dell’essere letti dai libri e confeziona invece una collezione di autocitazioni (ci saranno almeno cinquanta note con rimandi ad altri suoi lavori), sulle orme di Lacan (che nomina a ogni piè sospinto), tramite cui nutrire il proprio narcisismo evidentemente non superato con uno stile che vorrebbe essere evocativo, ma che, invece, finisce per essere stucchevole. L’idea di base è bella: i libri ci scelgono e hanno la capacità di leggerci, non hanno senso se non interpretati e restano fissi nel nostro vissuto quando sanno parlare alla nostra radice più pura, alla nostra forma primaria, alle più infantili delle nostre esperienze. Certo lo dice raffinando il discorso, ribadendolo all’infinito con sinonimi vari e mutevoli, ma il succo è questo. E non gli sfugge che i libri possono diventare una prigione, un mondo di vetro che ci allontana dalla nostra esistenza. Il libro fin qui sarebbe anche passabile (e per un lettore è sempre bello capire di più della propria passione), ma nella seconda parte del libro, quando Recalcati analizza nove testi che hanno segnato la sua vita, il gioco si scopre e la struttura perde davvero ogni forma. Ogni libro che esamina diventa l’occasione per un percorso di autoanalisi, per nutrire ancora una volta il discorso sulla sua vita, oppure si trasforma in articolata discettazione sulla filosofia di Heidegger o Sartre (piegati naturalmente alla sua visione psicoanalitica), oppure al tributo, inevitabile, al suo maestro Lacan. Recalcati critica i filosofi speculativi, ma ne eredità la verbosità espressiva e nutre la mia insofferenza per questa cultura non dico da baci Perugina, ma da documentario di seconda serata. Non ci sarebbe nulla di male nell’essere divulgativi, ma non bisogna mai mentire ai propri lettori: questo non è un libro sulla forza e sulla bellezza dei libri, o meglio, lo è solo nella sua prima parte; è piuttosto un’autobiografia psicoanalitica che usa i libri come pretesto per affrontare i propri temi ricorrenti (e d’altronde sono sempre gli stessi, se riesce a pubblicare tre o quattro libri l’anno). Insomma questo libro è talmente ibrido da risultare fastidioso. Ciononostante ci sono un paio di capitoli che, estratti, mi paiono ben riusciti: quello su “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern e quello sull’”Idiota di famiglia” di Sartre, che parlando di Flaubert, mi sembra cogliere bene un elemento cardine del suo stile. Per il resto, il libro non è né carne né pesce, poteva fermarsi a pagina sessanta ed evitare di inserire a forza una parte slegata, oppure avrebbe potuto dichiara in apertura che in fondo questo libro non è altro che la sua biografia.

Per non rendere del tutto inutile questo libro, voglio raccontarvi brevemente una storia. Conoscendo i miei gusti, non lo avrei mai comprato spontaneamente. Mi è arrivato come regalo da una mia professoressa della scuola media che, dopo aver letto il mio libro, ha sentito il bisogno di scrivermi un bigliettino nascosto tra le pagine di questo volume. Ha sbagliato la scelta, ma mi fa pensare alla capacità bellissima che i libri hanno di creare relazioni, di richiamarsi tra loro, anche a distanza di anni, di riportare le persone ad avvicinarsi, di costruire comunità. Non a caso di questa professoressa ricordo ancora la bellezza di una lezione su Carlo Magno e i suoi paladini, Durlindana e il corno suonato sull’orlo della disfatta: con quale incredibile potenza espressiva certe immagini ci fissano e ci accompagnano per tutta la vita. E in fondo questo libro ha permesso, nel piccolo, quello che tutti i libri permettono di fare qui su Qlibri: unire le persone e creare relazioni.

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