Opinione scritta da manu chan
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…Parlare “con le carte in mano”!
Viaggio di Calvino alla riscoperta dell’immaginazione a partire dai tarocchi.
Il castello dei destini incrociati è un libro di Italo Calvino, pubblicato nell’ottobre 1973 da Einaudi.
Nella nota dell’edizione del ’73, Calvino scrisse: “mi sono applicato soprattutto a guardare i tarocchi con attenzione, con l’occhio di chi non sa cosa siano, e a trarne suggestioni e associazioni, a interpretarli secondo un’iconologia immaginaria. Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla”.
La narrazione, ambientata in un castello e in una taverna, si sviluppa nell’intera opera sotto forma di tante storie, che scaturiscono dall’immaginazione dell’autore alla vista di diversi tarocchi. I due luoghi dove i personaggi si ritrovano sono accomunati dal mutismo degli stessi una volta che vi entrano, così si trovano costretti a parlare a gesti e...con le carte in mano. Il castello, raggiungibile solo dopo aver attraversato un bosco pieno di tranelli e trappole di ogni tipo, è dunque luogo di approdo per coloro che escono vivi ma estremamente stanchi dalla boscaglia; tuttavia, l’aspetto del castello, con i suoi arredamenti sfarzosi e malandati allo stesso tempo, sembra quello di una locanda piuttosto che di una reggia. E’ qui che si incontrano persone diverse, accomunate dal viaggio e dalla lingua inutilizzabile, che passano il loro tempo all’interno della struttura raccontandosi storie tramite i tarocchi, disegni all’apparenza insignificanti a cui italo Calvino cerca di attribuire un nuovo e personale significato.
Con questo libro, che sembra un altro dei tanti “laboratori” letterari dello scrittore italiano, Calvino si inserisce in prima persona anche nel periodo letterario di Ludovico Ariosto, immaginandosi con i tarocchi la storia di Orlando e del suo amico Astolfo, mandato sulla Luna a cercare il senno del furioso, contenuto in un’ampolla, la più grande tra tutte quelle presenti sul suolo lunare.
Tra le altre storie raccontate, anche quelle di ladri, regine, foreste, mercanti e fanciulle, disposte in un ventaglio di personalità e situazioni di vita che mettono anche in crisi la personalità dello stesso protagonista-autore, che si chiede chi sia lui veramente, a quale tarocco egli si possa associare, e quale possa realmente raccontare la sua storia. Tutte le storie hanno qualche tarocco in comune e questo permette all’autore di poter intrecciare un folto insieme di immagini non staccate tra di loro, ciò diventa dunque occasione di similitudine con la vita di ogni uomo, la cui storia si intreccia con quella degli altri grazie a momenti e incontri vissuti insieme.
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Alza gli occhi al cielo. Ancora e per sempre.
Era da tempo che non leggevo un libro come questo. Finché le stelle saranno in cielo mi ha dato la possibilità di sognare ancora una volta che tutto (o quasi) può trovare una soluzione, se siamo noi a volerlo profondamente e a impegnarci perché ciò avvenga.
Scritto da Kristin Harmel, appena uscito nell’agosto del 2012 ha riscosso subito un successo grandioso, evidenziato anche dal fatto che i diritti per la pubblicazione sono stati molto desiderati dalle case editrici di tutto il mondo e, dopo lunghe contrattazioni, la Garzanti li ha ottenuti.
La scrittrice presenta già dalle prime righe Hope, alle prese con mille problematiche personali: le condizioni economiche della pasticceria di famiglia che gestisce da tempo sono precarie, ha alle spalle un divorzio fresco fresco dall’uomo che aveva sposato essendo rimasta incinta della figlia, un’adolescente capricciosa che ha sempre qualcosa da dire nei confronti della madre, e che sa di trovare “rifugio” sicuro dal padre, molto più flessibile di lei; e, come se questo non bastasse, la giovane donna americana deve avere a che fare anche con l’Alzheimer della nonna, figura di sostegno per tutta la sua vita, sostituta della madre sempre assente e morta prematuramente. In uno dei giorni di lucidità, nonna Rose consegna a Hope e alla sua pronipote un elenco di nomi, chiedendole di cercare approfonditamente, e di andare a Parigi per cercare quelle persone. Dopo le sue prime titubanze e i suoi dubbi sulla reale lucidità della nonna, Hope si reca a Parigi, lasciando chiusa la pasticceria per qualche giorno. Una volta arrivata Hope scoprirà delle cose che non avrebbe mai immaginato, se non con l’aiuto del tuttofare della pasticceria…
Il romanzo, che merita assolutamente di essere letto, affronta tematiche fondamentali, quali, il dialogo interreligioso, la ricerca del passato per rinascere e per trovare pace interiore nel presente e l’Olocausto, fenomeno nel quale i protagonisti della vicenda sono in qualche modo coinvolti per varie circostanze. Per come è stato affrontato il tema del dialogo interreligioso, questo libro presenta una certa somiglianza con “Vita di Pi” di Yann Martel, il cui protagonista è affascinato da tutte le religioni e finisce per aderire ad ognuna di esse, nonostante la perplessità dei genitori. E poi, l’Olocausto, parla da sé.
Lo stile della Harmel è estremamente fluido e chiaro: questa scelta mi pare opportuna, visto che l’autrice ha preferito abbandonare la scrittura presuntuosa, a favore della storia. La narrazione è affidata a Hope e a sua nonna, Rose, i cui capitoli iniziano sempre con una ricetta della pasticceria che ha fondato a Cape Cod, ora gestita con tenacia dalla nipote.
La scrittrice, bostoniana di nascita, è appassionata di scrittura sin da quando era una bambina, e durante gli studi, aveva iniziato a collaborare come reporter con una testata americana. Laureata in letteratura, ha ottenuto un posto nella rivista americana “People”, con la quale collabora tuttora. Ha pubblicato diversi romanzi, bestseller negli Stati Uniti ma inediti in Italia.
Il titolo fa riferimento a una storia che la nonna raccontava sempre a Hope, che la ascoltava inconsapevole che fosse la storia del suo passato; oggi non siamo tanto abituati a guardare le stelle, la nostra vita è spesso troppo frenetica per accorgerci di quanto il cielo sopra di noi sia stellato: da questo punto di vista, il libro ne dà una lezione di vita bellissima. Alziamo lo sguardo, puntiamo gli occhi in alto. Ancora e per sempre.
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Una ricerca
“E l’eco rispose” è l’ultimo (e senza dubbio non il meno importante) libro di Khaled Hosseini, uscito nel giugno 2013 ed edito da Piemme.
Si pone alla grande sulla scia già tracciata da “il cacciatore di aquiloni” e da “Mille splendidi soli”, nei quali l’autore già presenta alcuni temi ricorrenti anche nella sua ultima opera: l’amore, l’amicizia, le relazioni spezzate che prima o poi tornano di nuovo, sullo sfondo dell’Afghanistan trafitto dai conflitti e dagli interessi internazionali. La prima parte ha un andamento lento, a causa delle tante storie apparentemente distanti una dall’altra che Hosseini poi fa combaciare come i pezzi di un puzzle.
Pari ed Abdullah sono due fratelli uniti da un amore puro, fraterno. Il padre un giorno però, è costretto a vendere Pari, che sarà accolta nella casa di una coppia molto ricca di Kabul. La madre adottiva, Nila Wahdati, è una poetessa e si trasferisce a Parigi dopo aver saputo della malattia del marito. Gli eventi porteranno questi due fratelli a non vedersi più, mentre nel libro si susseguono le storie di quelli che sono stati loro vicini.
Lo stile di Hosseini viene confermato in questo suo libro, che come non mai sviluppa più storie che all’inizio possono sembrare insensate e distanti, che alla fine si incontrano di nuovo.
Anche ne “L’eco rispose” c’è una chiara dimostrazione della violenza sulle donne (già sviluppata in “Mille splendidi soli”), mentre la guerra fa da sfondo e la storia si sposta in paesi diversi (dall’Afghanistan, alla Francia, alla Grecia). Insomma, il tema chiave è la ricerca dei rapporti perduti, di ciò che è stato e forse non sarà più; di quello che siamo stati, di quello che siamo, di quello che saremo.
Sebbene abbia mantenuto delle linee guida tipiche ormai della sua penna, l’autore non è riuscito a prendermi particolarmente. Certo, il libro si fa leggere e alcune parti sono veramente interessanti, ma non sono riuscita a piangere quanto in “Mille splendidi soli”.
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L'egoismo è finito (?)
In molti sono a credere che la crisi ci condurrà lentamente alla morte, ma ci sono altri, come il nostro autore, che credono che invece una soluzione ci sia, se parte da noi.
“l’egoismo è finito” è un saggio economico di Antonio Galdo, che va alla ricerca di nuovi stili di vita da proporre contro la crisi: case condivise, lavoro condiviso, bici condivise, macchine condivise… la condivisione è ciò che ci condurrà fuori dalla famigerata crisi, che tanto assale la nostra società in questo momento.
Fluido, conciso ed efficace: è questo il libro presentato in tre parole. Una volta letto, vi assicuro che andrete voi stessi alla ricerca di qualcosa di innovativo, che possa migliorare la vita, vostra e di chi vi sta accanto.
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La chiave della Storia della Chiesa
Il Concilio Vaticano II è stato un evento rilevante per la storia della Chiesa. Venne indetto nel 1962 da Giovanni XXIII che, con lungimiranza, comprese l’importanza di una Chiesa che stesse al passo con i tempi, fortemente mutati e allo stesso tempo deboli. Il mondo di quel periodo vive tensioni di ogni tipo: etniche, politiche, religiose, che si vanno sommando alla Guerra fredda, conflitto profondo che si viene a creare tra USA e URSS. Si riesce ad evitare lo scoppio di una terza guerra mondiale anche grazie all’intervento del Presidente Kennedy e dello stesso Papa Roncalli.
È in questo contesto storico che si deve inserire il Concilio Vaticano II, il primo “pastorale” che cercò di venire incontro ai tempi. Tuttavia, anche nell’ambito di questa grandissima macchina, non furono poche le contraddizioni e i sotterfugi che avvennero per sviare alcune decisioni da prendere nell’aula conciliare.
Ingrao ci fa una panoramica completa ed efficace grazie al supporto dei documenti, il pezzo forte della sua opera. Infatti, grazie alla scrittura comprensibile che l’autore collega abilmente e fluidamente ai passi tratti dai documenti ufficiali, è possibile per il lettore avere un’inquadratura completa e chiara di ciò che avvenne realmente all’interno dell’evento che ha cambiato le sorti successive della Chiesa e di cui ancora oggi vediamo le conseguenze.
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Partire dal passato. Costruire il futuro.
Romanzo del quale, detto in tutta sincerità, non saprei definire il genere e la motivazione potrebbe essere che proprio non ne ha. Questo non è un romanzo “normale”: insomma, da un lato potremmo definirlo introspettivo, ma dall’altro anche “romantico”.
E’ la storia di un uomo la cui carriera da promettente carabiniere viene interrotta da un episodio che rappresenta per la sua vita in quel momento un vero fallimento; ed è come se in quel momento la sua esistenza raggiunga il capolinea, anche se solo transitorio. Nel periodo di malattia che vive frequenta uno psichiatra, nella speranza di uscire dal buco nero che l’ha inghiottito, e in quegli incontri pian piano si riscopre, momento per momento, liberandosi dalle catene che l’avevano trattenuto per così tanto, troppo tempo.
Lo stile di Gianrico Carofiglio è estremamente raffinato: i monologhi del personaggio sono tanto intensi che sembra di conoscerlo da sempre, Roberto, si ha la sensazione di far parte del suo mondo, così misterioso, ma anche tanto affascinante. Le pagine si divorano una dopo l'altra e, perché no, ognuno si riconosce in questa storia, che è nel piccolo quella del tormento che tutti viviamo nell'attesa del cambiamento, che è destinato da sempre ad essere risolto solamente grazie alle nostre forze. Una storia che parla della forza dell'uomo capace di riscattarsi, partendo da passato per costruire il futuro.
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Colpire pochi per impaurire molti
“Un luogo chiamato libertà” è un romanzo di Ken Follett, scritto nel 1995. È la storia di un uomo che si è riscattato dalla schiavitù per quell’innato senso di indipendenza che è dentro il sangue dell’umanità e di una donna che è voluta uscire dai canoni di comportamento che si addicono al sesso femminile per emanciparsi.
Ambientata nell’Inghilterra del XVIII secolo, la vicenda è perfettamente incastonata in un contesto storico molto movimentato, con l’avvicinarsi della rivoluzione industriale e le colonie inglesi in procinto di dichiararsi indipendenti dalla madrepatria. L’Inghilterra è un territorio ricco di materie prime e in particolare di carbone, le cui miniere sono in mano ai signori locali che abusano degli schiavi come se fossero degli strumenti. Uno tra questi, Malachi McAsh, decide di rompere le catene della schiavitù per ribellarsi e riscattare quelli che, come lui, vivevano da molte generazioni in una condizione ereditaria di disagio. La sua vita si intreccia con quella di Lizzie. Lei scova ogni sistema per fare l’“uomo”, da sempre ribelle a quelli che potrebbero definirsi i canoni di comportamento di una donna di buona famiglia. Vive con la madre in un possedimento che è tanto grande quanto l’impossibilità di mantenerlo; per cercare di riparare a questo, il matrimonio combinato con uno dei vicini della famiglia dei Jamisson sembra inevitabile: possiedono mezza Scozia, diverse miniere di carbone e una piantagione in Virginia. Tuttavia, il matrimonio non va a gonfie vele e lei decide di sbarazzarsi di quell’uomo di cui si era tanto innamorata al di là della necessità economica, problema che tocca più sua madre che lei.
In Inghilterra c’è forte agitazione sia per la situazione delle colonie in America, che per gli scioperi degli scaricatori delle navi. “Colpire pochi per impaurire molti” è il manifesto del potere che i governanti utilizzano come avvertimento contro ogni forma di ribellione, e chiunque decida di correre il rischio pur di riscattarsi dalla situazione di schiavitù viene giustiziato a morte attraverso l’impiccagione. Così il patibolo diventa luogo di ritrovo per tutti coloro che vogliono assistere “ordinatamente” a una fredda morte.
Le tematiche che risaltano del racconto sono molte e tutte interessanti: i diritti dei lavoratori, l’uguaglianza tra i sessi e la pena di morte,ecc.. tuttavia, appaiono inconsistenti per il modo in cui la narrazione procede; insomma, la forma romanzata non permette di dare il rilievo che si meritano questi argomenti così importanti, nella vita di una società qual è quella che nel tempo in cui è ambientato il racconto, sta formandosi.
Lo stile semplice e scorrevole permette una lettura veloce, sebbene in alcuni punti del racconto il ritmo perda consistenza e il lettore sia introdotto in una lettura in cui le dite sfogliano automaticamente le pagine senza che la mente sia collegata. In più, nei momenti in cui il racconto delle si faccia interessante, a causa del modus scribendi dell’autore viene ridotta a una specie di soap-opera su carta.
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Siamo rimasti quelli, e null’altro
Il gattopardo è un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il suo nome trae spunto dal simbolo della famiglia dei Salina, parenti lontani dello stesso autore. Il racconto delle vicende che hanno segnato gli anni di potere della casata, è ambientato nella Sicilia borbonica e post-unitaria; e, sebbene al suo interno siano numerosi i riferimenti storici, non può essere classificato come romanzo storico. I personaggi, tutti realmente esistiti, sono stati parenti dello stesso autore, che ne ha voluto raccontare le vicende come esempio della società siciliana del tempo. Scritto con il cuore alla Sicilia e alla penna, il gattopardo è oggi un classico tradotto in tutte le lingue.
La storia della sua pubblicazione è abbastanza travagliata: il romanzo venne rifiutato più volte sia dalla casa editrice Mondadori ed Einaudi, che annunciò il mancato consenso all’autore pochi giorni prima della sua morte, che avvenne nel 1957. La prima edizione fu curata da Giorgio Bassani nel 1958 per “Biblioteca in letteratura”, anche se furono riscontrate imprecisioni e qualche incoerenza con il manoscritto; la prima edizione con la “Universale Economica Feltrinelli” avvenne soltanto nel febbraio 1963.
La storia si destreggia leggiadra tra le vicende e i pensieri di Don Fabrizio, il capo-famiglia ancora legato alla vecchia classe dirigente. Egli non ha fiducia nel cambiamento e, sebbene sia circondato da una numerosa schiera di figli e parenti, è un personaggio estremamente solo, se non fosse per le stelle, unico approdo sicuro da cui attinge serenità volgendo lo sguardo al cielo. Tomasi di Lampedusa utilizza Don Fabrizio per esprimere la sua opinione riguardo al cambiamento generazionale che ha colpito la Sicilia del tempo, legata ancora a una struttura tipicamente feudale che sembra reggersi da sola. L’autore ha modo di dare voce ai moti perpetui che sembrano aleggiare nel cervello dei siciliani che "non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria, ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”. La voce rammaricata e rassegnata è la rappresentazione di una Sicilia segnata dai secoli, dalle dominazioni e dal paesaggio desertico, che non vuole cambiare perché si accontenta ad essere “così com’è”. E’ come se tutti stessero per muoversi per raccoglierla da terra, ma nessuno si muove, e così rimane in quello stato fino a quando non capisce che ce la può fare da sola (succederà?). E così i siciliani si chiudono in un mondo a se stante fatto di pettegolezzi, clima torrido e tradizioni conservatrici, l’ignoranza, i monumenti che vengono dal passato che sono “magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come fantasmi muti”. Il suo nipote Tancredi è l’emblema del ricambio dei ceti, Angelica quello di una bellezza sempiterna, Concetta quello di una vita persa nell’oblio della tristezza e Don Calogero quello di un politico con una gamba alla forma di governo passato e l’altra a quella nuova, con l’obiettivo di ottenere potere, in qualsiasi modo, Don Ciccio l’unico povero fedele al re di Napoli che si vede zittito da un sistema locale che cerca la novità più che il cambiamento. Bendicò non è figura trascurabile: tutt’altro! Come già l’autore aveva indicato a chi aveva raccomandato di riuscire nella pubblicazione del libro, egli rappresenta una figura-anello che non può essere in alcun modo dimenticata: il cane, sempre dimostratosi fedele e compagno al padrone Don Fabrizio, è la rappresentazione stessa della loro famiglia, il suo essere va di pari passo con quello dei Salina, la sua figura, rappresentata in secondo piano, rappresenta il punto fermo dell’intera narrazione: presente dalla prima all’ultima pagina.
La scena più rappresentativa è quella dell’incontro con Chevalley, segretario della prefettura, che propose a Don Fabrizio di entrare nel senato della nuovo Regno appena costituito. E ancora una volta la riflessione ricade sulla Sicilia e sul riciclo di cariche che il Regno vuole per assicurarsi il ben volere dei cittadini, che credono che il cambiamento di fatto non c’è perché le persone sono rimaste sempre quelle e sul rifiuto, sullo sfogo di Don Fabrizio, che tiene sulle sue spalle la consapevolezza dell’essere di questa terra. Cambierà qualcosa? Basta un seggio in Senato a cambiare qualcosa?
Lo stile che l’autore utilizza è sfarzoso: le parole e l’uso della sintassi sembrano dipingere il quadro rappresentante ciò che la Sicilia è: con i suoi limiti, con le sue bellezze, con le sue ragioni e i suoi perché. In modo scorrevole, il lettore si lascia attirare all’interno delle camere rococò e nei saloni immensi dove si ballano mazurke fino al mattino…
Il gattopardo è il racconto del passato del presente e del futuro della Sicilia, di quello che siamo come suoi abitanti e che non cambierà mai. Nel sangue scorre l’appartenenza ad una terra tanto grandiosa quanto pigra, che si accontenta delle sue ricchezze, mantenute dalla natura, sorella di questa regione. “Bisogna che tutto cambi perché non cambi niente”, perché oltre il tempo, al passare delle storie, delle dominazioni e dei personaggi, ci accorgiamo che siamo rimasti sempre quelli e null’altro.
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Brutto, brutto, brutto.
Romanzo destinato a chi ha voglia di sfogliare le pagine credendo di leggere, anche se realmente i pensieri non sono su quelle righe. La storia, che potrebbe essere carina per l'idea, si rivela noiosa già dal principio.
Mandorla è ancora una bambina quando perde la madre, che la concepisce con un inquilino del numero 315 di via Grotta Perfetta, dove abita da poco tempo. La bambina, che è stata abituata da sempre a sapere che il padre è un astronauta in orbita - a quanto pare - da una vita, alla morte della madre si trova ad appartenere a tutte le famiglie residenti nel palazzo. L'inconfessato padre non vuole dichiararsi e così ad una delle solite riunioni condominiali-familiari si decide: "Mandorla è figlia di tutti" e da quel momento la povera piccola sarà costretta a fare sù e giù da un appartamento all'altro, figlia di tutti e di nessuno.
Lo stile, profondamente disordinato e incomprendibile, rende il libro assolutamente pesante e poco scorrevole; ad aggravare la situazione anche i frequenti errori di punteggiatura, che stancano il lettore per la poca chiarezza: insomma, provare non nuoce, ma in questo caso...
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Ingredienti: inquinamento e fantasia
Passano le stagioni sulla ruota ferma dell'anno solare, passano gli autobus e i tram sulla solita via dove abita Marcovaldo, la cui famiglia numerosa vive in un umido scantinato in una città alle prese con il boom economico ed industriale. Il cielo è sempre nascosto da una lieve, ma sempre presente coltre plumbea; proprio quella che causa ai bambini di Marcovaldo le tossi e le febbri. Ma il grigiore della città si alterna sempre ai sogni fantastici del protagonista, che cerca di contrastare il ritmo frenetico dei mezzi e della ciminiere con una sconfinata fantasia che lo porta lontano dai rumori e dagli odori della sua metropoli, dove esistono prati verdi (perché esistono, vero?) e dove le mucche possono pascolare in tranquillità.
Ha il suono delle favole, questo romanzo di Italo Calvino, che attraverso la sua penna magica riesce a trasformare l'inquietudine per la nuova trasformazione industriale della città in una storia con la S maiuscola. In fondo non è poi così difficile immaginare una città diversa da quella che abitiamo: basta mettersi alla bocca una mascherina contro lo smog nauseabondo e rivolgere gli occhi al cielo, dove la fascia dell'inquinamento non è più visibile; forse è questa la ricetta per i sogni. Leggetelo, può risultarvi utile.
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L'Italia nascosta
Nel suo romanzo autobiografico, Carlo Levi vive il confino in Lucania, terra desolata e abbandonato al suo destino, che neanche Cristo ha voluto calpestare, perché appunto si è fermato ad Eboli, e lì è rimasto, trattenendosi anche l'evoluzione e la scienza. La storia ha dimenticato questa regione, l'ha lasciata all'indigenza, alla malaria e alle tradizioni che si uniscono alle arti magiche. Qui, dove le donne vanno vestite a lutto e dove i medicinali sono una rarità, dove le pietre si confondono con le case e dove le capre hanno uno spirito maligno, l'autore si è trovato a contatto con personggi differenti, molti dei quali sono stati consapevoli del distacco sociale da Roma, che ritengono l'artefice di una politica che li dimentica, annullandoli.
Anche in queste zone così desolate, Levi trova il modo di dare voce alle sue capacità, esercitando la professione di medico, sebbene nella civiltà in cui viveva prima non l'avesse mai fatto (a cui in realtà viene avvicinato quasi per caso) e trovando luogo per la sua arte, a cui gli spazi rocciosi e desolati si prestano per essere ritratti al pari degli uomini.
La scrittura, scorrevole e talvolta elaborata, permette al lettore di addentrarsi in un periodo storico difficile per l'Italia (rappresentata non dai cittadini, ma dal potere) e per gli italiani (a cui spetta il compito di subire).
Vale sicuramente la pena di affrontare questa lettura, che ci guida alla scoperta di un'Italia nascosta, indispensabile per la nostra cultura di cittadini.
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La fine che stravolge
476. E' l'anno simbolico che si attribuisce alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, nel quale Odoacre, re degli Eruli depone l'ultimo imperatore romano, il tredicenne Romolo Augustolo.
E' durante un banchetto a Ravenna organizzato per il quarto mese di governo del figlio come imperatore, che Oreste, capo militare romano confida alla moglie che non tutto è perduto: egli stesso ha infatti disposto l'organizzazione di una legione che rimanga per sempre fedele all'imperatore, la NOVA INVICTA. Quest'ultima, in realtà, si disperderà, ma un piccolo gruppo di uomini valorosi riuscirà in seguito a liberare l'imperatore da Capri, isola in cui viene confinato dopo la morte dei genitori, sotto il diretto comando di Wulfila, luogotenente di Odoacre. Tuttavia, dopo la liberazione, non sarà facile il seguito della vicenda.
Con l'avvincente penna di Valerio Massimo Manfredi si entra nella Storia (anche se poi finisce per diventare sottilissima la linea tra storia e fantasia). Lo stile fluido e raffinato, le descrizioni dettagliate dello stile di vita degli ultimi Romani, e dell'inquadratura storica della nascita degli imperi romano-barbarici rendono questo libro un'importante occasione di divulgazione su un mondo volto ormai al suo epilogo.
P.S. : il finale è sorprendente!! :D
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I ragazzi del proprio futuro
Sono tanti, confusi, disperati, soli. Arrivano da tanti paesi diversi, e ci sono arrivati in tanti modi. Hanno in comune un maestro, che nella Città dei Ragazzi, vuole insegnare loro a diventare grandi, ad avere un pensiero proprio e un proprio ideale, qualcosa in cui credere, o forse in cui sperare. Eraldo non vuole però limitarsi a un rapporto professionale con loro. No, forse neanche lo meritano. Ne hanno passate molte ma il suo interesse per loro sta nel trovare le cause delle loro fughe, dei loro viaggi disperati alla ricerca di qualcosa di migliore, entrare nelle loro case, incontrare i loro cari, se ancora ne hanno, e scoprire il Paese di ognuno di loro. Non con gli occhi di un europeo emancipato, che è già in grado da sé di conoscere la vera realtà (o forse crede di saperlo fare), ma con gli occhi di un ragazzo che lì è nato e che vuole puntare tutto del suo impegno per cambiare qualcosa, per rendere tutto migliore, vivibile.
L'istruzione è la vera chiave di tutto. Quanto, quanto può! Soprattutto in un Paese in cui è un optional, o un obbligo per chi attraverso le proprie conoscenze vuole sottomettere gli altri al suo potere. L'istruzione è una garanzia per non essere fregato, insomma, ed è questo quello che hanno capito loro, i ragazzi, gli autori del futuro del proprio paese.
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Il Miglio Verde: L'ultimo viaggio verso la morte.
"Il miglio verde", l'ultimo viaggio verso la morte.
Dalla penna di Stephen King, esce fuori un romanzo intenso, che da molti spunti di riflessione. L'America ...uno potrebbe pensare: "cavolo, l'America è l'America", beh forse questo non si rende conto delle innumerevoli contraddizioni che si spandono all'interno di questo paese. Uno di questi è la pena di morte.
Paul è un semplice impiegato statale che assume un compito "normale" per il penitenziario di Cold Mountain: aiutare i condannati a morte verso la loro fine. Basta alzare una leva per uccidere. Sono in molti quelli che hanno vissuto gli ultimi giorni della loro vita in questo piacevole parco divertimenti: tra questi Delacroix, Wharton e infine John Coffey, un uomo grande, grosso e nero incolpato dell'omicidio di due gemelline.
E' una storia avvincente, questa, capace di trattenerti ore ed ore attaccato alle pagine.
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Ora so veramente chi è una GEISHA.
"Memorie di una geisha" è un romanzo che, sebbene l'autore stesso all'inizio voglia distogliere il lettore da quest'idea, ha funzione descrittiva di un mondo ormai quasi agli sgoccioli.
E' la vicenda, ambientata nella prima metà del Novecento, di Sayuri, che strappata dalla tristezza e dall'aria ammuffita della sua "casa ubriaca", viene condotta in un quartiere di Kyoto molto famoso per la numerosa e quasi totale, direi, presenza di geishe. Esse hanno un'organizzazione molto rigida, vengono indirizzate sin da tenera età allo studio della danza e della musica; dopo il livello di "apprendista" si passa a quello vero e proprio da "geisha", in cui lo stato personale diventa una professione, una regola di vita. Attorno agli incontri nelle case da tè, ai famosi "mizuage", alla compagnia e al decoro delle geishe ruota una sola parola: denaro. Tra l'altro non sono per niente d'accordo (e qui la cultura occidentale ha un grande peso) sugli stili di vita e sulle modalità di guadagno di queste geishe. Nel libro ho notato una quasi totale assenza di valori umani, qualcosa di più saldo che tenga una donna alla sua famiglia, al suo pensiero, alle sue origini. Tutto il passato viene messo via al posto di una vita fatta di falsi sorrisi e feste, grandi vestiti e lusso.
Il libro procede lento, ma molto dettagliato nella descrizione. Ottima la fase di ricerca preparata dall'autore. Lo consiglio più che altro per capire fino in fondo la vera essenza di queste donne che altro non sono che semplici accompagnatrici, a dispetto di quanto noi tutti occidentali possiamo credere.
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Bambino per sempre.
E' impressionante il modo con cui un bambino si spinge alla libertà, fa di tutto per prenderla, assaporarla, condividerla con gli altri... E' la storia di Iqbal Masih che non è stata vissuta dopo essere stata raccontata, come imitazione di qualche eroe remoto, ma vissuta per essere raccontata, urlata, gridata al mondo intero. Il male che viene sconfitto dalla vittima, la schiavitù nel Pakistan vinta da un bimbo, bambino per sempre. E' lui la guida di altri, tanti altri bambini, la liberazione dei compagni, la parola che vince sul silenzio. Le botte hanno ferito si il suo corpo, logorato dalla posizione uguale nelle ore di lavoro, ma non hanno persuaso la sua mente. Il buio e il caldo della stanzetta dove tanti altri come lui sono stati sfruttati, gli ha dato l'input a ripartire. Da capo. La storia di un grande bambino, che ha voluto dire di no.
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Il giorno prima di...
Napoli, un palazzo tenuto in ordine da un portiere, don Gaetano, che per il bimbo solo dell'edificio è un padre, un fratello, un confidente. Ha 5 anni quando, per via di una palla da calcio finita dietro la statua del cortile, scopre un nascondiglio che fu di un ebreo nel periodo della seconda guerra mondiale, riuscito a evadere al massacro che ha coinvolto tutti quelli del suo popolo. Il pensiero della ragazza distante e lontana della finestra non sarà poi intoccabile e la scuola è la sua passione: ogni materia da una spiegazione alla vita, al mondo e alla città. Un romanzo da leggere tutto d'un fiato, per la scorrevolezza delle parole e la fluidità del pensiero, nel cuore pulsante di un ragazzo cresciuto tra le pagine di un libro...
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AAA cercasi lettore impegnato!!
Una casa, una famiglia, quattro generazioni. “La casa degli spiriti”, scritto nel 1982 da Isabelle Allende è subito diventato dalla sua uscita un best-sellers. Nell’America Latina dell’inizio del XX secolo è ambientata la vicenda della famiglia Trueba – Del Valle.
L’opera della scrittrice peruviana rappresenta scrupolosamente tutte le caratteristiche di una società nascente, con le sue paure, le sue innovazioni, le sue speranze e i suoi cittadini, persone che hanno sacrificato parte della propria esistenza per contribuire al miglioramento della vita propria e di quella dei concittadini. Gli esempi in questo ambito sono costituiti da Nivea, donna intraprendente che insieme alle sue amiche lotta per il diritto di voto alle donne nel suo paese, ed Esteban, uomo innamorato pazzamente di Rosa, la sorella maggiore in casa Del Valle, per cui lavora in miniera, si allontana dalla sua casa per potersi permettere quattro soldi per poterla portare all’altare. Questo grande obbiettivo da raggiungere è abbattuto da una lettera, non una qualsiasi, ma quella che annuncia la morte di Rosa. Così dopo aver deciso di tornare alle Tre Marie, suo luogo d’infanzia, Esteban sistema il villaggio, dando lavoro ai disoccupati, aumentando i capi di bestiame e il guadagno dei suoi abitanti che da questo momento danno piena fiducia al loro nuovo padrone. La sua età avanza, come la malattia della madre, e Ferula, la sorella, spinge il fratello a sistemarsi, così che Esteban si dirigerà di nuovo a casa Trueba – Del Valle, per chiedere la mano di Clara. Da sempre rinomata in famiglia per i suoi “poteri” soprannaturali, Clara vive nel suo mondo che tramuta spesso in mutismo, malattia che solo la Nana riesce a guarire con i suoi buffi travestimenti. Lo zio Marcos, le cui imprese eroiche sono state narrate alle prime pagine, è un personaggio fondamentale perché in lui si vede sia la voglia di conoscenza e di cambiamento per un nuovo millennio, sia il simbolo di un uomo che con i viaggi attira a sé l’attenzione e la gloria da parte dei compaesani, che appunto lo ritengono un eroe. Per non parlare poi della rivoluzione che coinvolse tutta la popolazione, attirando in un vortice morti e giovani che speravano in un futuro migliore per se stessi e per il loro paese.
Molti sono i lunghi periodi costituiti interamente dalle descrizioni di quelle campagne sconfinate, quelle case sgualcite dall’umidità e dall’odore impregnante di povertà di dolore, di fame. Sono dettagliate invece, le sequenze narrative, che la penna dell’Allende ha tracciato nel cuore dei lettori.
La scrittrice non ha per niente sollevato la mia simpatia nelle prime pagine, che tutt’ora ritengo abbiano ostacolato la mia continua lettura, tuttavia, il romanzo si fa intrigante man mano che prosegue. Storie di evoluzioni, dal cavallo alla macchina, dalle lettere al telefono, dalla povertà ad una situazione di borghesia, costituiscono la parte più interessante di tutto il libro, che si basa su questo.
E’ una storia molto vicina a quella che noi stiamo vivendo, non lontana secoli o millennio. La Allende, con uno stile non semplice, ha sprofondato la sua penna nelle radici della sua terra, ha fatto un viaggio non troppo lontano nel suo passato, è entrata nel cuore di quelli che questi anni li hanno vissuti, li hanno temuti e combattuti, per assicurare ai posteri sicurezza economica e sociale.
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Simpatico...
Devo confessare di aver comprato questo libro giusto per vedere se eliminare l'autrice dai miei preferiti o meno. Già immaginavo che sarebbe stato un libro con uno stile molto semplice, una storia per "rilassarsi" e qualche situazione piacevole, e in effetti è stato così. Per quanto non patteggi per questo genere di libri, questo è stato carino, da leggere tra una lettura pesante e l'altra, anche se il confronto non regge assolutamente. L'aria di Londra che è caratteristica in questo libro è stata per me piacevole. Anche la trama simpatica e qualche situazione ambigua per la protagonista ha salvato questo volume in calcio d'angolo dalla "lista nera".
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L'inchiostro di Vecchioni si fa poesia.
"Il libraio di Selinunte" è un libro di Roberto Vecchioni, cantautore, professore e poeta. Anche in questo libro, come nella sua vita e carriera, ha dato il meglio di sé. Il valore delle parole, dei libri, come un tesoro da riscoprire, da uscire fuori da un baule troppo impolverato e squallido che nemmeno noi vogliamo ammettere di avere dentro. E le storie come carburante della mente e della vita umana, una sorta di prevenzione contro il mostro dell'apatia e dell'indifferenza che come un tumore, contaminano la società degli ultimi tempi. Un libro degno di essere definito 'classico', perché le sue parole non tramontano mai, come la magia dei libri e dei librai che riescono ancora a raccontare storie. Un respiro sottovoce nel trambusto del mondo.
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Il pianista sull'oceano
Un monologo che ti prende in un modo che ti costringe a legger tutto d'un fiato. Un uomo, una storia. Una nave, una vita. Una mente, un mondo. La trascrizione filmica che ne esce è il capolavoro di Giuseppe Tornatore "Il pianista sull'oceano". E' Novecento il personaggio principale a cui viene dato questo nome perché trovato all'inizio del nuovo secolo. Abbandonato su un pianoforte (che diventerà la sua unica ragione di vita),passa la sua intera esistenza su un transatlantico. Incontrerà persone nuove, diverse, riconoscerà familiare il grido "terra" che ogni passeggero cercava di accaparrarsi alla vista della sponda americana. Passerà il tempo, passeranno le persone, ma lui rimarrà sempre fedele alle sue origini, alla sua storia, alla sua vita.
L'opera di Alessandro Baricco è un tesoro cartaceo da apprezzare col cuore.
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Quadro, quadro delle mie brame...
Un quadro, un ritratto in particolare.
E’ nello studio di Basil Hallward che ha inizio la vicenda di Dorian Gray. Viene presentato come un uomo debole e ingenuo che per la sua bellezza divina si guadagna da vivere posando come modello. Ma dal momento della stesura del dipinto inizia il suo vero cambiamento.
Spinto dal cinismo e dalle teorie di lord Herny, Dorian cambierà e porrà alla sua vita un unico obiettivo: essere bello sempre.
La sua ansia nei confronti di questo argomento lo farà schiavo della sua immagine: non solo quella che gli si presenta davanti allo specchio, ma anche quella impressa con i colori sulla tela …
Da personaggio umile e invidiato dalla società per il suo aspetto, si trasformerà in un uomo crudele, inseguito dall’incombenza della fine.
E sarà da quel momento che i paesaggi descritti prima alla luce del giorno e ricchi di odori impregnati di flagranze particolari, si trasformeranno in luoghi cupi, dove la notte sembra l’unico arco di tempo in cui descriverli per l’oscurità nei pensieri …
Il romanzo, capolavoro di Oscar Wilde, presenta dunque una narrazione “dinamica”: dalla luce al buio dei luoghi dove si svolgono i fatti, dalla felicità ai problemi esistenziali dei personaggi, dalla vita alla morte …
Nonostante la prima pubblicazione del libro si sia avuta nel 1890 su un giornale inglese, l’opera letteraria si presenta attuale più che mai.
Il dilemma adolescenziale (e non solo) sulla bellezza, di chi fa di tutto per essere bello sempre (tinture, ricostruzioni, operazioni chirurgiche volte a imbottire il seno, le labbra o gli zigomi), fa dello stesso complesso una scusa per la schiavitù eterna dell’essere umano. Perché tutto questo? Per cercare di vincere la forza del tempo che, instancabile continua a scorrere.
“Il ritratto di Dorian Gray” un avvertimento, affinchè non ci facciamo “abbindolare” dal possibile raggiungimento di un obiettivo irraggiungibile per natura.
Un libro da comprare, da leggere, da rifletterci sù.
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Una lunghissima attesa...
Mi dispiace ma questo libro proprio non l'ho retto... "Il deserto dei tartari" è uno dei tanti romanzi scritti da Dino Buzzati. Si narra di un tenente che un giorno riceve una lettera di trasferimento in una caserma isolata, ma molto importante perché al confine con il deserto, da cui sarebbe potuto giungere una truppa di Tartari, un popolo sconosciuto e temuto allo stesso tempo da tutti ... La cosa strana è che all'arrivo del tenente Drogo, non risulta alcun nome corrispondente al suo e così il superiore gli suggerisce l'idea di fingersi ammalato sotto raccomandazione sua e di ritornare a casa. Quando però il momento di lasciare la caserma isolata arriva, Giovanni Drogo si ritira e si converte all'idea del soggiorno in quel posto squallido. Il libro è una continua attesa, un respiro affannoso che il lettore non riesce a placare. Io proprio non ce l'ho fatta a finirlo di leggere.
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Oltre il filo spinato
"Il bambino con il pigiama a righe" è un libro di J. Boyne che parla di un bambino di 9 anni che si chiama Bruno ("sebbene il libro non è per bambini di 9 anni"...). E' figlio di un generale tedesco trasferitosi con la famiglia ad Aushcwitz per il suo nuovo compito nella sorveglianza del campo di concentramento più famoso della Germania. Quello che appare dalla finestra della cameretta di Bruno e di sua sorella è uno scenario tranquillo: c'è una grossa fabbrica dove lavorano tanti operai e in fondo, una ciminiera da cui spesso esce del fumo. Proprio per questo i due bambini non capiscono quale sia il motivo del loro trasloco in quel posto così strano, per di più senza bambini con cui giocare; è così che Bruno quasi ogni giorno gioca all'esploratore: il suo passatempo consiste in lunghe passeggiate parallele al lungo e quasi infinito recinto di quella fabbrica, dove non si vedono uomini, ma solo casermoni immensi...un giorno incontra vicino al recinto un bimbo, vestito con un grosso pigiama a righe, sporco. I due bimbi si presentano e intessono pian piano una lunga amicizia, pur non sapendo di appartenere a mondi diversi... Per loro sì che non esiste differenza tra colore della pelle, razza e religione. Per loro l'amicizia va oltre il confine di un filo spinato.
E' così che il forte contenuto di questo libro intenso supera lo stile semplice e scorrevole dello scrittore irlandese, lasciando un'impronta nell'animo dell'uomo che lo legge.
Un libro da leggere, per pensare, per ricordare.
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Il barone rampante
Un libro molto interessante e anche divertente, visto quello che accade a Cosimo, dodicenne che a causa di un'asprezza durante un cena in famiglia decide di salire su un albero e, ostinato, ci rimarrà tutta la vita. Durante questa lunga esperienza non si fa mancare proprio niente: si adatta alle intemperie, trova una soluzione per suoi bisogni fisiologici, per la sua istruzione, anche per l'amore (purtroppo tradito) e per i viaggi. Da ramo a ramo troverà il modo di scoprire nuovi luoghi e nuovi popoli, di intessere amicizie con essi e ritornare a casa, ma mai scendere.
Il libro affronta il problema dell'adolescenza, che si trasforma in una certezza di vita. Il protagonista è un esempio di forza interiore e di forte personalità, che riesce a mantenere nonostante i numerosi tentativi di persuasione da parte della famiglia. Un libro toccante, che ti apre le porte alla riscoperta di te stesso.
Ancora una volta Italo Calvino mette in mostra la sua abilità stilistica e narrativa.
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La Spagna colpisce ancora!
l'"Antiquario", primogenito di Julian Sanchez è uno dei libri più completi che abbia mai letto. Architettura, letteratura e storia di un popolo che riesce sempre a risultare vincitore nel campo del mistero e delle situazioni più interessanti. Da un antiquariato a un libro a un mondo dietro una cattedrale, all'interno del quale si concentra tutta la storia della vicenda. Abbastanza interessante anche la documentazione dell'autore nei confronti della massoneria e simili, di cui si parla nel libro. Davvero bello e sicuramente da rileggere per la quantità e la qualità di certi contenuti.
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Date ai francesi quel che è dei francesi
“Gli effetti secondari dei sogni” è un libro di Delphine De Vigan scritto nel 2008 che io ribattezzerei “Gli effetti secondari della scelta di un libro per il titolo e la copertina”, dato che per me è stato molto deludente rispetto a quanto mi sarei aspettata per l’approccio estetico avuto in prima battuta all’acquisto.
La storia parla di due ragazze completamente diverse che si incontrano quasi per caso in una stazione. Lou è una dodicenne dal quoziente intellettivo di 160, è per questo che salta due classi e si ritrova a condividere le sue giornate scolastiche con ragazzi più grandi di lei che la ignorano per la sua intelligenza. Ama guardare la gente e per questo spesso si reca alla gare d'Austerlitz per ingannare il tempo: è lì che nota tra gli sguardi della gente che parte, che ritorna e che si saluta, stati d’animo completamente diversi; è lì che conosce Nolween. No è una ragazza diciottenne che vive per strada, fa uso di alcool e di droga e viene “utilizzata” da Lou per una ricerca scolastica sul tema dell’abuso di sostanze stupefacenti tra i giovani; ne è talmente interessata che alla fine sembra quasi che diventino amiche. La situazione a casa di Lou non è facile a causa della depressione della madre in seguito alla perdita di sua figlia in un incidente domestico e sebbene il padre cerchi di nascondere invano la situazione, Lou conosce il problema di fondo e con un discorso pacifico convince il padre a ospitare No per qualche giorno a casa. Durante il soggiorno a casa della sua nuova amica, No è riuscita anche a sollevare il morale della madre di Lou, che riprende a sorridere, a cucinare, a fare la spesa. Una mattina No scappa dalla casa in cui era ospite, così Lou chiede aiuto al suo migliore amico Lucas, che accetta di cercare Nolween per ospitarla a casa sua. I due ragazzi provano anche a togliere la droga dalle mani di No, ma la ragazza soffre di crisi d’astinenza. Un giorno Lou decide di partire e vagabondare in giro per la città con No, anche se all’appuntamento alla stazione la diciottenne non si presenta e Lou ritorna a casa. Delusa e amareggiata per quello che non ha potuto fare nei confronti di No, si rifugia tra le braccia di Lucas, che finisce per diventare il suo fidanzato.
Sebbene nel libro siano affrontati temi importanti, quali la solitudine, la droga e l’alcool nel corpo di una ragazza, la ricerca disperata di una via d’uscita per la depressione della madre, lo stile col quale vengono narrati gli argomenti sopra elencati è molto semplice, per non dire banale. I periodi sono brevi e la punteggiatura è in molti casi stata usata male. Insomma, forse è il caso di dire che la De Vigan ha fatto più furore in Francia, vista la vincita del “Prix des Libraires as Salon du Livre 2008”.
Il titolo non ha nulla a che fare con il contenuto dell’”opera” (se così si può chiamare), perché di sogni in quel libro non se ne parla proprio, vista la fine deludente sia per Lou che per il lettore. Non dico che doveva andare a finire tutto rose e fiori, ma quantomeno sarebbe spettato all’autrice creare le condizioni anche per fingere che tutto fosse al posto giusto. Evidentemente neanche questo è stato possibile per la banalità dell’affronto dei temi scelti. Questo libro avrebbe potuto avere molta più potenzialità per quanto riguarda i contenuti, avrebbe potuto raggiungere livelli maggiori, eppure non è stato così. Davvero un peccato … I francesi l’hanno preferita quindi forse è il caso che continui a scrivere per la Francia.
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Bidonville: un viaggio attraverso la speranza
“Irradia ovunque amore e troverai gioia (canto indiano)”: recitano così le parole dapprima inosservate del segnalibro che per caso ho voluto utilizzare per la lettura di un libro, che parla delle bidonville, quegli ammassi di sabbia, fango e lamiere che costituiscono per mille, milioni di uomini una “casa”. Se è vero che il caso non esiste e che tutto accade per un disegno ben preciso, questo sono arrivata a crederlo quando, arrivata a buon punto nella mia, nella loro storia, i miei occhi si sono gettati su quel pezzo di carta ormai reso logoro dalla salsedine e dall’acqua che mi è servito per tenere il segno tra una pagina e l’altra, di cui in seguito ho capito il significato solo grazie alla fine della storia (che non è una storia, bensì una realtà).
Il libro di cui vi parlo è “La città della gioia”, opera di Dominique Lapierre. Scritto nel 1985, dopo una lunga e accurata indagine svolta dallo stesso autore, è diventato da subito uno dei miei preferiti.
Hasari Pal è uno dei pochi contadini sopravvissuti nella campagna bengalese, la cui famiglia viene colpita alla fine dalla carestia, che li spinge ad emigrare verso la città. I primi tempi non saranno buoni per l’assenza di una casa, per l’elemosina a cui sono costretti i figli, all’assenza di cibo per giorni.
Paul Lambert è un sacerdote francese che per dare vero senso alla sua esistenza e alla sua vocazione, decide di partire definitivamente per l’India: Calcutta e le sue bidonville possono essere l’occasione giusta per fare di Paul l’uomo più realizzato “professionalmente” e spiritualmente che conosca.
Max Loeb è un medico statunitense, figlio di uno dei più ricchi dottori della Florida: la sua casa è dotata di tutti i comfort possibili, non gli mancano le belle macchine e una bella donna, la sua fidanzata. Tutto ad un tratto decide di dare una svolta alla sua carriera.
Queste tre storie seppure diverse saranno destinate nel corso della storia ad incontrarsi inequivocabilmente. Questi uomini infatti sotto le briglie del cambiamento saranno destinati a condividere la miseria, la mafia, la malattia e la morte che caratterizzano gli slum. In ognuno di loro, però emerge una lotta continua contro la paura e la rassegnazione.
Hasari Pal, dopo aver tenuto la famiglia affamata e sulla sponda di una marciapiede per circa un mese, cerca incessantemente un posto di lavoro per il pugno di riso che avrebbe potuto soddisfare la fame dei suoi bambini. La fortuna arriva quando uno degli “uomini-cavallo” di Calcutta muore e così gli viene passato il posto di lavoro. Il compito dell’”uomo-cavallo” a Calcutta consiste nel trasportare risciò da un punto all’altro della città affrontando ogni tipo di situazione meteorologica: dall’acqua alta dei monsoni, al vento, al caldo soffocante; correre sull’asfalto bollente nelle ore più calde del giorno tra piaghe e mal di schiena per le due monetine buttate giù dai due turisti che fotografavano sorridenti e felici la città intorno a loro … e dopo qualche anno anche le sue piaghe e i suoi mal di schiena si continueranno a sentire più forti, e la tosse rossa lo inizierà a prosciugarlo dall’interno fino alla fine, quando morirà tra le braccia della moglie e dei figli nella stanza affidatagli da Paul Lambert.
Paul Lambert ritiene che per servire e comprendere appieno una persona, un popolo, bisogna stargli accanto, condividerne le sventure, le fortune, le gioie e i dolori; proprio per questo decide di intraprendere un viaggio: dalla Francia a Calcutta, per stare con i poveri. Anche se la notizia non viene compresa e condivisa da tutti, il sacerdote francese continua nella sua convinzione e parte. La società e i modi di vivere che lo aspetteranno non saranno per niente congruenti al tipo di povertà che lui si era prefissato: le condizioni igieniche sono pessime, gli scarafaggi e le blatte convivono con l’uomo, i bambini giocano tranquilli tra di loro nel fango del monsone e gli uomini ringraziano ogni giorno Iddio per quel poco che offre loro. Una povertà insolita! Nonostante la tristezza dello stile di vita, gli uomini vivono nella spensieratezza di un giorno migliore. Il sacerdote ai primi giorni di soggiorno nello slum è accolto da re: gli vengono offerti cibo, tappeti, un piccolo specchio, una tenda per l’ingresso, ecc … Piccole cose che fanno sentire a casa il “grande fratello Paul”. La differenza sostanziale delle religioni nello slum viene annullata e gli uomini di Calcutta ridotti nella vita all’interno delle bidonville ringraziano anche gli dei sconosciuti, come quel Gesù che Paul venera ogni giorno attraverso l’immagine della Sacra Sindone, “perché in quel Gesù morto e sofferente si incontrano gli sguardi delle persone che piangono nel silenzio”, così afferma il missionario francese.
Max Loeb viene richiamato a alcutta da un appello del sacerdote francese Paul Lambert, che chiede aiuto da giovani medici per la realizzazione di un centro di primo soccorso per tutti i casi disperati dello slum. Parte anche lui, lasciando la fidanzata, la sua carriera, la famiglia e gli amici, in cerca di quel richiamo che pare aver bisogno proprio di lui. Sebbene ceda qualche volta alla vita di miseria dello slum, si fa coraggio e oppone resistenza alla paura e all’egoismo nei confronti di tutti quegli uomini.
Lo stile utilizzato dall’autore non è molto complesso, anzi la lettura ne esce abbastanza scorrevole e molti sono i termini nuovi che ho imparato in questa nuova lettura. La narrazione inizia con la presentazione di Hasari Pal, successivamente si sviluppa con quella di Paul Lambert e continua con quella di Max Loeb. Nella struttura narrativa è presente un’alternanza delle vicende tra i personaggi che rende parallela la successione degli avvenimenti.
Il libro, edito dalla Mondadori con la traduzione italiana di Elina Klersy Imberciadori, ha riscosso da subito un grandissimo successo per la potenza dei sentimenti e il coraggio evidente nei cuori di ognuno dei personaggi descritti, principali o secondari che siano. Sebbene il libro sia il risultato di una lunga inchiesta che ha visto operare in prima persona lo stesso autore, non ha lo scopo di essere una testimonianza sull’India. Da quando Dominique Lapierre ha abbandonato (non del tutto, poi) i luoghi narrati, in cui ha vissuto personalmente durante la stesura del libro, ha creato con sua moglie un’associazione volta alla costruzione di opere benefiche nei territori di Calcutta e dintorni.
Un libro davvero interessante, che mi ha aperto una nuova finestra sulla società dell’India, attraverso un grande viaggio. Allora è proprio il caso di riconfermare: “Irradia ovunque amore e troverai gioia”.
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MILLE SPLENDIDI SPERANZE
Appassionante. Vero. Forte. Questi sono i tre aggettivi con i quali descriverei l'intero libro. La realtà che tutt'ora incombe nera sulle donne del Medio Oriente è descritta talmente bene da far drizzare i peli ai lettori. Molte scene sono narrate così bene che i personaggi sono lì davanti a te, mentre tu li guardi durante le loro vicende quotidiane, che se da noi sono cose nella normalità (o in alcuni casi di situazioni disagiate), per loro sono trofei, se consideriamo il paese in cui vivono, lacerato dalla guerra e dall'incertezza politica che fa urlare le bombe nelle case dei suoi abitanti. L'amicizia tra Mariam e Laila destinate ad un unico destino di mogli-schiave si tramuta in un'energia imbattibile e una voglia di cambiamento e di miglioramento per loro e per tutte le donne che verranno dopo, perché il loro calvario possa essere l'input di una vera rivoluzione. E inoltre la fedeltà, l'amicizia e la durata nel tempo di un amore tra i due ragazzi (nonostante i vari allontanamenti) sono la speranza che accende una luce diversa all'interno del libro: la speranza della libertà.
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Peccato per il camaleonte...
Il libro che mi ha stregato appena letto, ora è diventato per me un po' come la saga di Twilight: appena commercializzata ben bene ha perso l'interesse che aveva suscitato ai primi tempi dalla sfornata. Leo è un ragazzo che può senza dubbio rappresentare i dubbi e le convinzioni degli adolescenti come me. L'amore per una ragazza che soffre di leucemia lo migliora dentro, lo fortifica nel rapporto con lei e con il mondo che gli sta attorno e l'amica di sempre per lui rimarrà quasi sempre tale (fino agli ultimi colpi di scena), anche lei cerca qualcosa di più che un intenso rapporto di amicizia. Il professore, per quanto possa sembrare vero, non lo è. Sarebbe un sogno avere un prof per amico, e forse non tanto buono, perché una cosa è un professore e un'altra è l'amico. La fine è abbastanza prevedibile vista la malattia di Beatrice e data l'assenza di una pozione magica inventata dal camaleonte di turno per guarirla. Il mondo dei giovani è visto sicuramente con positività, sebbene i protagonisti siano troppo "dentro" per dare al lettore uno sguardo obiettivo. Un libro che va bene per le ragazze che come me, l'hanno letto a 12 anni (con tutto il rispetto di questa età).
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La Spagna di Zafon
Il gotico mi appassiona moltissimo e con Zafon il piacere è stato più che travolgente. La lettura è molto scorrevole, ma lo stile non molto semplice. Tra l'altro la storia copre un arco di tempo abbastanza lungo (da quando Daniel ha 10 anni a quando è già un adulto formato) e l'autore spagnolo gioca molto su flashback e riepiloghi della vicenda man mano che l'indagine avanza e si fa più complessa. L'evoluzione con l'età del suo rapporto con le donne crea uno sfondo molto piacevole da coniugare con la vicenda stessa. L'incontro con il futuro assistente del negozio del padre costituisce una svolta non di poco conto per la storia: l'agente Romero infatti, è un compagno di "avventura" e allo stesso tempo di vita per Daniel che egli accompagnerà nel passaggio tra l'adolescenza e il mondo degli adulti. Una storia appassionante in una Spagna non da meno.
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