Opinione scritta da Argento
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Tutto scorre
Africa, Mali, Bamako. E subito ci viene da pensare a posti bellissimi, a strade polverose e mercati vocianti.
Perché normalmente la parola Africa ci suggerisce atmosfere magiche. Ma leggendo L’Assassino di Banconi, di Moussa Konaté, Del Vecchio Editore, da subito capiamo che l’ambientazione del romanzo non ha nulla di suggestivo. La storia inizia in una latrina di uno dei quartieri più poveri della città: Banconi. Qui viene rinvenuto il cadavere di una donna, morta, forse, per un malore improvviso.
Tra le strade terrose della metropoli africana, avanza la polizia alla ricerca della verità. E questa polvere rossa che avvolge la città, entrando fino nei recessi più intimi, è come la superstizione che copre come un velo l’obiettività della gente locale. Il commissario Habib e il suo aiutante Sosso riescono a scrollarsela di dosso e cercano di guardare oltre le apparenze. Indagano seguendo gli indizi suggeriti dai morti e dai testimoni che riescono a interrogare, senza lasciarsi intimorire dalla terribile polizia politica, una sorta di Gestapo moderna, senza ricorrere alle tecniche odierne di investigazione, ma lasciandosi condurre dal loro istinto e dalla loro esperienza.
Moussa Konaté descrive con eleganza e leggerezza questo scorcio di Bamako, e l’ambientazione, le strade, i mercati e perfino gli ingorghi di auto che si creano improvvisamente, non fanno solo da sfondo, ma diventano protagonisti del romanzo. La città è viva e pulsante e in essa si aggira la gente più disparata, dal saggio Zarka all’inquietante marabutto. In questo romanzo, che ha una struttura tra il giallo e il noir, le vicende narrate ci portano a riflettere sulla realtà che viene descritta. La soluzione del caso non passa dagli indizi ma dall’osservazione dell’ambiente in cui si svolge. L’eroe, anzi gli eroi, sono in realtà antieroi, che, seppur capaci di risolvere il caso, non riescono a ristabilire l’ordine delle cose in quel luogo dove da millenni la tradizione mista a superstizione è profondamente radicata e prevale sulle leggi attuali.
E, in questa terra dalle forti contraddizioni, ricca di odori, di colori e di suoni, una volta risolto il caso, tutto scorre, pánta rhêi os potamòs, come il Niger che attraversa la città, e la vita riprende sempre e comunque e, con essa, la lotta giornaliera delle gente che vive ai margini della società senza però rinunciare alla propria dignità e alla propria identità.
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Carta velina
Alla fiera del libro lo stand vicino al mio era quello dell’ Aìsara e le coloratissime copertine dei loro libri hanno attirato la mia attenzione. Così ho deciso di comprarne uno e la signorina dello stand ha strappato la pagina di un altro libro, l’ha infilata in quello appena acquistato, e mi ha detto che era un “assaggio”. Io, stupita e un po’ inorridita, sono tornata al mio stand, pensando che forse non era una cattiva idea per farsi pubblicità. In seguito ho comprato anche il libro della pagina strappata e quando l’ho letto ho capito il motivo di quel gesto. Lascio ai lettori il piacere di scoprire il significato di questo gesto.
Il libro in questione è “Il Libraio” di Régis de Sá Moreira, edito da Aìsara.
Sono tantissimi i libri dedicati ai librai, ma questo è davvero diverso. Leggero e delicato come un foglio di carta velina, ha come protagonista, inutile sottolinearlo, un libraio. Non troppo giovane né tanto vecchio, il libraio non ha un nome né una descrizione fisica precisa. Ci è dato di sapere che è abbastanza alto e robusto e vive nella sua libreria insieme ai suoi adorati libri, nutrendosi solo di tisane di cui non ricorda mai né il nome né il sapore per cui è sempre costretto a provarle e riprovarle,ascoltando la musica di Mozart e a volte parlando con Dio. Tutto il suo mondo è la libreria, che non chiude mai e da cui non esce mai.
Il libro è piacevole, scorrevole e mai banale. È anche un po’ ironico perché di librai così credo ne siano rimasti davvero pochi. Librai che leggono, voglio dire, non che si limitano a leggere la scheda fornita dalla casa editrice. Librai che sanno consigliare il libro chiedendoti a chi è destinato, quali sono i gusti del lettore, cosa lo appassiona.
Questo libraio è così, legge tutti i suoi libri, ogni tanto ne vende qualcuno, ma solo a chi gli fa simpatia.
Difficile da credere!
Regis de Sá Moreira, scrittore franco-brasiliano, scrive con delicatezza queste pagine senza mai calcare la mano, come se a vergare i fogli di carta velina fosse una vecchia penna a inchiostro, con uno stile leggero e ironico, a volte con riflessioni più profonde. Il libro, in questa libreria, diventa un’entità che vive di vita propria e la libreria stessa una corazza che lo protegge dal mondo. Ma come dice Daniel Pennac , (Come un romanzo, 1992) “Il tempo per leggere è sempre tempo rubato. (Come il tempo per scrivere, d'altronde, o il tempo per amare.) Rubato a cosa? Diciamo, al dovere di vivere.” E allora, forse, ogni tanto dovremmo appendere alla porta un cartello con su scritto “chiuso per ferie”, fare suonare il campanellino di entrata,“Pudupudupudù”, e uscire fuori. Perché la vita è lì che ci aspetta e bisogna viverla per raccontarla.
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Fratello mondo
Se si vive in un quartiere centrale, in una qualsiasi città europea, è facile incontrare persone di diverse culture, nazionalità, religioni: in una sola parola persone di origine straniera.
In questo caso la città è Palermo e il quartiere è un mercato del centro storico.
Tutto questo succede al protagonista del libro di Nino Vetri, Lume Lume, edito da Sellerio.
Il caseggiato dove abita sembra essere un crocevia di gente: stranieri e palermitani si alternano in un viavai continuo. Popolano il palazzo e i vicoli di questo piccolo squarcio della città, mentre il protagonista osserva e interagisce senza mai giudicare, limitandosi ad accettare qualsiasi diversità con curiosità e ironia, a volte con amarezza. Il romanzo non è canonicamente un romanzo, non c'e una trama che si sviluppa, non ci sono conclusioni né colpi di scena. È una sorta di diario in cui il protagonista appunta gli eventi della giornata, gli incontri fatti, la vita che ha visto scorrere; ogni storia è una voce solista e tutte insieme, alla fine, formano un coro.
Il pretesto per tutto questo è la ricerca delle parole e della relativa traduzione di un canto tradizionale rumeno, “Lume Lume”, che da il titolo al romanzo. “Mondo, fratello mondo” recita la bella canzone e ben si adatta allo sguardo attento e ironico dell’autore che abbraccia e accoglie le diversità non solo degli stranieri, ma anche dei suoi stravaganti concittadini.
È bravo Nino Vetri a dirigere questo coro di umanità, però, e questo lo dico perché anche io sono palermitana, tutto questo potrebbe succedere in qualsiasi altro posto. Palermo è poco connotata, e spero che chi non è palermitano come me, riesca a immaginare le atmosfere, gli odori e i colori che fanno di questa città un posto unico, di rara bellezza, ma anche dai forti contrasti.
La canzone “Lume Lume” potete cercarla su internet (c'è anche la traduzione in italiano), è bellissima e ve ne consiglio l’ascolto.
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Io mi chiamo nessuno
Così rispondeva Ulisse al gigante Polifemo, quando gli veniva chiesto il suo nome. E così si sente il protagonista di questo libro, moderno Ulisse. Saad Saad, il cui nome ha un diverso significato a seconda della lingua in cui si legge, “Speranza Speranza” in arabo, “Triste Triste, in inglese, è un giovane uomo come tanti. Ha una casa, una famiglia, una fidanzata e tanti sogni. Ma ha anche sbagliato a nascere in un paese che è in guerra: l’Iraq. Certo la nascita è un caso, ma di sicuro è un gran caso. E lui non ha la sorte giusta di nascere in un qualsiasi altro paese che gli avrebbe potuto concedere le possibilità che ognuno di noi merita. Nasce a Baghdad il novello Ulisse, e, come l’eroe di Omero, inizia un viaggio che lo vedrá protagonista di mille peripezie. Al contrario di Ulisse, Saad non torna a casa, ma scappa proprio da li. Rifugge tutto quello che per lui era importante, la sua patria, le sue radici, la sua cultura. E nel viaggio è accompagnato dal fantasma del padre, morto poco prima che lui prendesse la decisione di lasciare l’Iraq.
Con uno stile semplice ma efficace Eric-Emmanuel Schmitt, descrive inizialmente la vita durante gli ultimi anni del regime di Saddam, l’embargo degli americani, la caduta della dittatura e il difficile cammino verso la democrazia, in quella che una volta era la città delle “mille e una notte” , per proseguire con le mille difficoltá che il protagonista incontra durante il viaggio che intraprende per raggiungere la meta prefissata: Londra. E’ quella per lui la terra promessa, la sua Itaca, la sua salvezza. A volte con ironia, a volte con amarezza, ma sempre con leggerezza, l’autore descrive le vicessitudini che Saad affronta nel suo viaggio, le cui tappe tanto assomigliano a quelle dell’Ulisse di Omero. E lentamente, a ogni tappa, Saad clandestino, perde la dignità, la connotazione di uomo, diventa un niente. Ma nessuno è un niente, e tutti dovrebbero avere quello che è sancito per diritto di nascita: una vita, un futuro, ma sopratutto la dignità di essere umano. È chiaro l’intento dell’autore nel ribadire questi concetti, con semplicità ma anche con fermezza, sopratutto attraverso i dialoghi che Saad intrattiene con il padre morto, che potremmo define il suo alter ego, la sua buona coscenza, il suo "grillo parlante". Definito attuale l’argomento dei clandestini, viste le note vicende, di nuovo l’autore sottolinea quanto sia attuale da sempre, perché i popoli migrano da quando è nato l’uomo. Cosa c’è quindi di nuovo? Probabilmente il fatto che noi occidentali abbiamo dimenticato che un tempo i clandestini eravamo noi, ma anche e sopratutto la nostra piu grande colpa, quella di aver dimenticato il significato di una parola fondamentale: speranza.
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Siamo tutti adatti a questo mondo?
14 anni e quasi adatto. E’ troppo, o forse è troppo poco, per definire un adolescente che ha una storia difficile alle spalle. Una breve vita fatta di peregrinazioni da un istituto all’altro, fino ad approdare alla scuola “speciale” di Copenhagen. Quando arriva lì, Peter pensa che si tratti di un istituto come un altro, ma ben presto si accorge che è diverso dalle altre scuole dove è già stato. I quasi adatti sono allievi di questa scuola sperimentale, che attua un programma speciale di reinserimento. Sono adolescenti a cui un trauma infantile impedisce “stabili” relazioni affettive e una percezione corretta della realtà. Insieme a i suoi compagni e alleati, Katarina ed August, un bambino autistico sospettato di avere ucciso i genitori per sottrarsi ai continui abusi, Peter porta avanti la lotta contro il sistema, una ribellione contro la società che vorrebbe omologare o addirittura cancellare i ragazzi diversi, non adatti o meglio quasi adatti alla società.
Un romanzo duro, che stravolge la nostra concezione dell’infanzia e ci induce a riflettere su come a volte gli adulti se ne impadroniscano distruggendo quello che è in nuce in ogni giovane uomo.
Un’indagine tra mistero e filosofia, volta a capire il senso del Tempo, ci guida passo passo verso la verità, che verrà fuori in modo estremamente traumatico.
I “quasi adatti” è un viaggio in un mondo bordeline, dove forse gli outsider non sono solo i bambini che frequentano la scuola. Una lettura che ci coinvolge, ma che lascia una sottile sensazione di amaro e che frantuma tutti gli stereotipi sull’infanzia, che a questi bambini è stata “rubata”.
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Un biglietto per Istanbul
Quando ho finito di leggere la Bastarda di Istanbul di Elif Shafak edito da Rizzoli, ho provato la sensazione così ben descritta da Salinger nel suo “Il Giovane Holden”. Avrei voluto alzare il telefono e chiamare l’autrice per commentare con lei la storia.
La storia è narrata con grande maestria, sia dal punto di vista dello stile che da quello della trama e ha un’ottima traduzione di Laura Prandino.
Due famiglie, lontane migliaia di chilometri sono legate con un filo invisibile che all’improvviso si colora e prende vita determinando così una nuova svolta nella loro vita. E questo filo comincia a colorarsi quando Armanoush, una giovane armena appartenente alla famiglia americana, decide di andare a Istanbul alla ricerca delle sue radici.
Due famiglie, quindi, a confronto: una è moderna e americana, l’altra tradizionalista e turca. Ma quante similitudini ci sono tra di loro, quanti eventi in comune, anche se a loro insaputa, hanno determinato i destini di ognuno dei componenti, seppur distanti l’una dall’altra. Questo mondo tutto al femminile dove non c’è una protagonista vera e propria, se non la Bastarda, che fa un po’ da portavoce, è ricco di odori, di colori e di superstizione, e mi ha riportato indietro nel tempo, alla mia infanzia, agli odori e ai colori della Sicilia matriarcale, dove gli scongiuri, i lunghi pranzi, l’ospitalità, il vociare costante dei mercati hanno un che di arabo; abitudini e tradizioni vagamente simili a quelli descritti nel romanzo. Inoltre, con grande sorpresa, la Bastarda, termine usato sempre in un’accezione negativa, qui ha una valenza diversa, di un personaggio sopra le righe, ma sicuramente positivo.
Con uno stile asciutto, Elif Shafak dipinge le protagoniste rendendole personaggi a tutto tondo, ciascuna con una caratteristica diversa dall’altra, descrivendo con parole “perfette” ognuna di loro.
Anche i personaggi che fanno da corollario sono ben descritti e hanno e danno spessore alla narrazione.
Non mi dilungo sulla trama, che tutti conoscono, né sull’eccidio degli Armeni e sul fatto che a tutt’oggi è una questione irrisolta. Fa da sfondo alla storia Istanbul, sonnolenta, ricca di rumori, di odori e mollemente adagiata sul mare.
La sensazione provata leggendo il libro è da subito quella di un viaggio che vorresti non finisse.
E, per concludere, prendo in prestito le parole del poeta turco Nazim Hikmet “durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me e del viaggio non mi resta nulla se non quella nostalgia”.
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Si stava meglio quando si stava peggio!
Si stava meglio quando si stava peggio. Questo sembra suggerirci Emilia Apostoae, detta Mica, la protagonista del libro ”Sono una vecchia comunista”, di Dan Lungu, edito da Aìsara.
Scrittore rumeno da noi a oggi sconosciuto, ma, chiaramente, conosciuto nel mondo!
Prescindendo dal fatto che lo scrittore sia famoso oppure no, il libro è davvero interessante, sotto diversi punti di vista. La storia che ci narra attraverso Mica è una rivisitazione dei tempi del regime di Ceau?escu vista dalla prospettiva odierna
In Romania è tempo di elezioni e la figlia di Mica, Alice, che vive nel civilissimo Canada, telefona alla madre per chiederle per chi voterà. Ed ecco che Emilia si scopre a pensare con nostalgia ai tempi del comunismo, quando tutto sembrava peggio, ma, voltandosi indietro, forse si stava meglio.
“All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…." (Marcel Proust, Dalla parte di Swann)
La telefonata della figlia sembra essere il pezzetto di maddalena che risveglia la memoria della protagonista con tutta la sua dolcezza. Ma la memoria spesso inganna, perché il tempo addolcisce i ricordi sfrondandoli dai contenuti più brutti. E questo succede anche a Mica, che ha oggi una visione nostalgica e quindi edulcorata del regime. I suoi dolci ricordi, come le belle giornate passate in fabbrica a lavorare e a giocare a Backgammon, diventano oggi quasi assolutori nei confronti di un comunismo che ha lasciato pochi nostalgici in coloro i cui amici e parenti ne sono stati vittime Come dimenticare le lunghe ore passate in fila per acquistare beni di prima necessità, la paura di essere perseguitati dal regime, come nemici del popolo, le privazioni accettate in silenzio per anni? Queste apparenti incoerenze portano Emilia a riflettere e a confrontarsi con la differenza che c’è tra il passato e il presente, che va avanti, si evolve, e passa il testimone di mano.
La narrazione si svolge, infatti, su diversi piani, quello di un oggi, moderno e capitalista, e quello di un ieri, in cui il comunismo la faceva da padrone. E con diverse digressioni ci porta ai tempi di Ceau?escu, "Geniul din Carpa?i", il genio dei Carpazi, raccontandoci come si svolgeva la “vita comune” durante il regime, dipingendolo a volte in modo grottesco attraverso storielle divertenti sul Condottiero. Il libro è scorrevole, ha un ritmo piacevole ed è a tratti divertente o amaro. La traduzione è ottima e non fa rimpiangere la lettura in lingua originale.
Dan Lungu è bravo nel farci immaginare come si viveva a quei tempi, senza mai indulgere in pietismi e in invettive politiche, ma soprattutto senza mai raccontare gli orrori di un regime totalitario. Lascia al lettore, conducendolo per mano, la scelta di schierarsi dalla parte di Mica o di Alice, e quindi di decidere, democraticamente, se si stava meglio quando si stava peggio.
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Romanzo o saggio?
Questa è la prima domanda che mi sono posta leggendo le prime cento pagine di questo libro. Lungo libro, faticoso da leggere, perché poco scorrevole. Di romanzo, nel senso canonico del termine, ha davvero ben poco. Dal tempo usato per la narrazione alla struttura narrativa,. Inoltre c’è la mancanza di una vera “fabula” e di un epilogo, che dia un senso, negativo o positivo, alla narrazione. I personaggi, da Matilde, la protagonista, al padre, sono poco connotati. C’è più una caratterizzazione psicologica effettuata attraverso gli oggetti, i libri, la musica.
Le emozioni, il modo di pensare dei personaggi, cosa anima i loro pensieri, tutto viene raccontato attraverso quello che gli appartiene. Una figlia che ricerca il padre, cercando di capirne “l’essenza”, per scoprire le motivazioni che lo hanno portato lontano dalla famiglia e dal suo mondo. Un viaggio interiore attraverso cui, all’improvviso, quello che ci è sempre apparso familiare e conosciuto viene scoperto come “nuovo”. Le stampe appese alle pareti, i libri e dischi accumulati negli anni, la figura stessa del padre , tutto si apre a una nuova visione e spinge Matilde a fare nuove considerazioni anche su sé stessa.
Lunghe pagine di descrizione, dal giardino alle pareti dello studio, (verso la parete est ho dato segni di cedimento) che a volte annoiano, ci dovrebbero fare intuire la personalità del padre, unitamente ai libri e alla musica che ascolta. E così troviamo interi brani tratti da Lord Jim, di Conrad, o da il Vecchio e il mare di Hemingway, commentati e spiegati facendo somigliare il romanzo più a un saggio di letteratura, che non a un percorso narrativo che si evolve. Lo stile è asciutto, a volte piatto, soprattutto nel discorso diretto, e l’uso di parole “ricercate” rende ancora più ostica la lettura. La colonna sonora è jazz e blues e altro ancora, un po’ troppo per una profana come me. La cosa più straordinaria è che la narrazione si spinge quasi fine alla fine senza che succeda niente. Solo parole, stati d’animo e una quantità esagerata di particolari. Su tutto: dalla varietà dei sali da bagno al pranzo al ristorante, niente ci viene risparmiato!
Più che un romanzo, quindi, è una specie di saggio sulla letteratura, sulla musica, sulla cultura in generale e sulla vita. In poche parole è un romanzo sui generis. Nonostante tutto, dalla lettura trapela il gusto della narrazione che è il vero motivo che mi ha spinto ad andare fino in fondo e non abbandonare il libro dopo le prime pagine, appellandomi a uno “dei diritti del lettore”, come sancito da Pennac.
“Avete il diritto di non leggere, di saltare le pagine, di non finire un libro, di rileggere....” ma, a questo punto, io esercito l’ultimo dei diritti: quello di tacere.
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Esiste il posto giusto per morire?
Scopro per caso questo scrittore. E insieme a lui, il commissario Melis, il protagonista del romanzo di Hans Tuzzi; ill commissario è uomo silenzioso, ma un grande osservatore della natura umana.E la natura umana parla ancor di più dei fatti!
Ci troviamo in quella che negli anni ’80 era la “Milano da bere”, quando lo yuppismo la faceva da padrone e tutto sembrava possibile. Avere successo, mettersi in mostra, era, in quegli anni, il diktat per chi voleva “esserci”. Ma al commissario tutto questo non importa, lui scava nei meandri della vita e dell’anima delle vittime per riuscire a risolvere il caso.
Un architetto famoso, della Milano bene, è stato assassinato in un vicolo malfamato della periferia; cosa ci faceva lì a quell’ora di notte, in un posto sbagliato per morire?
L’indagine parte da qui, dapprima in maniera canonica, ma lentamente il commissario intuisce che la chiave di volta dell’indagine sta nella vita della vittima. Un affermato professionista, tanti amici ma anche tanti nemici, due ex moglie e un figlio, il piccolo Duccio, che potrebbe essere suo nipote per la grande differenza di età, ma che è stato, fino all’omicidio, la ragione di vita dell’architetto. Queste informazioni sono di pubblico dominio, ma cosa può esserci nella vita di un uomo irreprensibile da spingere qualcuno a ucciderlo? Il commissario Melis comincia così a mettere a nudo “l’anima” della vittima e a scavare nella sua vita e in quella delle persone che lo hanno circondato.
La trama si delinea e il racconto ci prende, narrando una vicenda di grande solitudine e di amore che a volte lascia l’amaro in bocca. Le domande del commissario diventano quelle del lettore. Lo stile asciutto, i personaggi ben caratterizzati e sullo sfondo Milano, città forse difficile da vivere in quegli anni, rendono il ritmo narrativo serrato e scorrevole.
E quando l’indagine sembra arenarsi un evento improvviso porta il commissario a risolvere il caso. Tutte le domande sembrano trovare risposte. Tutte tranne una: dove vanno i palloncini quando volano di mano ai bambini, allontanandosi nell’azzurro, lassù fino a essere un punto lontano lontano?
A questo Melis non sa dare risposte.
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Vedo, dunque sono?
Possiamo immaginare un mondo dove improvvisamente si spegne la luce? No, non lo immaginiamo e non immaginiamo nemmeno che, invece di sprofondare nel buio, tutto scompaia, come inghiottito, da un biancore accecante, lattiginoso. E diventiamo improvvisamente ciechi, inghiottiti da un mare di latte. Una cecità contagiosa, che colpisce tutti e di cui tutti hanno paura. Questa cecità sovverte gli ordini, sociali e politici, fa uscire da ognuno l’istinto di sopravvivenza, ma anche gli istinti primordiali. E tutto perde di significato, tutto tranne la vita; ma solo la nostra. Riuscire a mangiare è la necessità primaria, il resto è superfluo. E in un posto qualunque, in un momento qualunque accade che gli uomini lottino gli uni contro gli altri, dimenticando millenni di storia, di guerra, di civiltà che ci hanno portato fin qui, nella cosiddetta società civile. Saramago indaga, scruta, osserva, senza mai commentare, senza mai approfondire, tracciando i personaggi e non dandogli mai un nome, come se nessuno fosse più identificabile. Il medico, la prostituta, il ladro di auto, così vengono identificati i personaggi. Ma di ognuno viene esplorato l’intimo. E in questa nebbia che tutto avvolge vengono “alla luce” solo le debolezze e i particolari dell’anima. “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”, queste sono le parole delle moglie del medico, l’unica che non viene colpita dalla cecità, e vive l’orribile condizione di un vedente in un mondo di ciechi, ma che per sopravvivere deve fingersi cieca e assistere, sgomenta, alla ferocia di cui tutti si rivelano capaci .
Saramago dipinge con magistrale bravura uno spaccato della società, mettendo a nudo tutte le debolezze e gli orrori di cui possiamo essere capaci, ci fa “vedere” come siamo disposti a perdere la dignità pensando che nessuno ci possa vedere, come se la cecità ci affrancasse dalla brutture che perpetriamo.
Siamo ciechi in un mondo di vedenti e, se così, come era iniziato tutto finisse, ci accorgeremmo che ”la città era ancora lì”.
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E le stelle stanno a guardare?
Riporto dalla quarta di copertina: “Clara è abbandonata dal marito dopo un matrimonio trentennale. Nella tempesta del dolore e dei ricordi, tenta di rileggere il passato e di capire quale sia il cammino da imboccare, per uscire dall'oscurità che la sconvolge” Ma più che abbandonata direi lasciata dal marito, cosa ben diversa. Certo, si tratta sempre di distacco, solo un po’ meno tragico.
Questo evento la riporta indietro nel tempo e ripercorre il cammino all’inverso, per capire come potere proseguire. La struttura del romanzo è affidata a un io narrante, che ci racconta, a volte al passato a volte al presente, gli eventi che si sono susseguiti dalla fanciullezza all’età matura. La scelta dell’io narrante, se di primo acchitto può sembrare facile perché la narrazione è lineare, si rivela uno stile narrativo difficile, perché l’autore deve portare il lettore al suo livello di conoscenza, dare spessore ai personaggi e agli eventi. Incorrere nell’errore è facile, come succede nel “Cammino delle stelle”, romanzo di esordio di Emilia Vigliar.
Infatti quello che andiamo leggendo è una sorta di diario, forse troppo piatto, schematico, stereotipato. La protagonista, Clara, ci racconta la sua vita, ma senza sbalzi, nessuna emozione, niente che ci faccia fremere durante la lettura. I personaggi sono poco connotati, sia fisicamente, che psicologicamente. Come sarà Clara, di cui apprendiamo il nome solo dopo parecchie pagine, perché il papà le scrive un biglietto (!)? Sarà bella, bionda, alta, bassa, e ancora sarà apprensiva, nervosa, entusiasta della vita. E Francesco, il marito fedifrago? Certo, non conta l’aspetto esteriore, ma una connotazione, un accenno, un suggerimento bisogna pur darlo, per aiutare il lettore a farsi un’idea e a partecipare alla lettura. Non vengono lesinati particolari, anche minuziosi, sulla vita della protagonista, ma che non arricchiscono la narrazione. Il libro è diviso in tre parti, che dovrebbero simboleggiare le tre diverse età, fanciullezza, giovinezza, maturità e sono connotate con il nome di costellazioni: Berenice, Cassiopea e Antares. A parte un piccola frase sull’imperscrutabilità del cosmo, non sono riuscita a capire la scelta. Cosa hanno in comune le tre costellazioni? Si avvicinano e si allontanano l’una dall’altra? Hanno un cammino comune? Non credo, ma azzardo un’ipotesi. Berenice, dalla bella chioma che finisce in cielo, presente soprattutto durante l’equinozio di primavera, Cassiopea, la bella, condannata per la sua vanità a girare eternamente intorno al corpo celeste a volte addirittura a testa sotto e visibile in estate, e Antares, la rossa e luminosa, rappresentano rispettivamente le tre età della vita: fanciullezza, giovinezza e adolescenza? Non so, però sono certa che le stelle stanno a guardare!
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Scipio pugnaturus omnia de industria mutavit
Romanzo breve o racconto lungo?
Questa è la prima domanda che ci poniamo sin dalle prime battute del libro, che da subito ci fa capire che ci troviamo davanti a un linguaggio molto ricercato. Dodici righe per descrivere come inizia l’estate e declina verso l’autunno sono davvero tante, per un romanzo di 75 pagine! Comunque, proseguendo, la lettura diventa scorrevole anche se di tanto in tanto ci troviamo di fronte a espressioni davvero inconsuete, o meglio, desuete. Nessuno direbbe più “essere assiso sul divano” o “ammannire il pasto” e questo appesantisce un po’ il romanzo. Ringraziamo l’autore per aver “rispolverato” questi e altri termini che non si sentivano da tanto. Una scelta coraggiosa, adatta a ”un barboso cultore di una scrittura di altri tempi”. Fin qui abbiamo parlato dello stile, adesso passiamo al contenuto.
Il titolo ci richiama subito alla mente gli “Scipioni” e le guerre puniche, anche se lo scrittore vuole forse alludere al “Circolo degli Scipioni” che raccoglieva poeti e storici che dissertavano di storia e letteratura. Gli Scipioni del romanzo sono: Antonio Giovanni e Paolo. Un piccolo circolo costituito da tre membri, diversi tra di loro, ma accomunati non solo da legame di sangue. Non dissertano di arte e letteratura, ma di problemi e insoddisfazioni. Tutti e tre portano avanti la loro personale guerra, chi contro la società e il qualunquismo, chi contro la monotonia della vita, chi contro la scuola come istituzione, descrivendone vizi e virtù.
E su Giovanni, il professore, quello più concreto, il medio dei tre fratelli, quello in lotta con il sistema scolastico da cui si sente schiacciato, sia Antonio che Paolo riversano sempre le loro recriminazioni. Giovanni è di sicuro il personaggio più approfondito: le sue idee, i suoi malesseri e le sue aspirazioni emergono con chiarezza e ironia.
La guerra che gli Scipioni portano avanti è solo contro sé stessi e scaturisce dalla loro incapacità di omologarsi e appiattirsi, restando un “po’ all’antica” e perseguendo i valori e i principi che stanno sempre più scomparendo, senza peraltro rinunciare alle loro aspirazioni, giuste o sbagliate che siano. E’, in fondo, la malattia del vivere quotidiano, che diventa tanto affannoso e pesante quanto più ne siamo insoddisfatti. E allora perché non prendersi una piccola pausa dalla vita?
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Scacco matto
Immaginate che la vita sia una scacchiera e noi gli scacchi. E da ogni singola mossa dipende non solo la nostra vita, ma anche quella degli altri. E allora che fare? Lasciare vincere l’avversario o batterlo? Qual è la mossa più giusta, per avere salva la vita? Forse la mossa azzardata, la Variante di Luneburg per l’appunto, che non solo ci salverà ma ci consentirà anche di pareggiare i conti con il destino. Pedine nere contro pedine bianche, un’eterna lotta tra il bene e il male, in un’alternanza di vittorie e di sconfitte.
Il romanzo di Paolo Maurensig, scritto nel 1993, ha come filo conduttore il gioco degli scacchi, metafora di vita e, anche per chi non capisce niente del gioco, come me, può apprezzarne la lettura, che a volte riprende i toni del thriller e ci narra anche gli orrori del nazismo senza mai indulgere in pietismi o manierismi di genere. Scorrevole, appassionante a volte fantasioso il romanzo è scritto magistralmente e merita il successo che ha avuto.
“Quand’ero bambino avevo la facoltà di scoprire il grado d'influenza che il gioco esercitava sull’individuo che mi stava dinanzi, solo fissandolo qui, in mezzo alla fronte.” dice Tabori, il maestro di scacchi, che si definisce “un uomo che ha giocato all’inferno”; forse anche Paolo Maurensig ha capito che il libro avrebbe appassionato i lettori, anche senza guardarli in mezzo alla fronte.
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Il buio dell'anima
"Benvenuti alla Waldklinik
Clinica specializzata in psichiatria, psicoterapia e psicosomatica."
In altre parole “Benvenuti all’inferno”, avrebbe potuto aggiungere l’autore. Perché tutti i luoghi deputati alla cura delle malattie mentali, sono un po’ un inferno. La follia affascina e terrorizza, fiumi di inchiostro si sono spesi su questo argomento. E questo romanzo non è da meno. Affronta, come un giallo, il tema della follia, ce la fa vivere e toccare con mano, anche se non ce ne rendiamo conto fino alla fine. E questo è il pregio del romanzo, che ci conduce nei meandri del buio, quello profondo, che prende l’anima e la rapisce. Questo succede alla protagonista Ellen, che lavora in un ospedale psichiatrico, che giornalmente ha a che fare con l’umanità reietta, con gli alienati, come si chiamavano un tempo i pazienti psichiatrici. E il buio della mente si trasforma in buio dell’anima, quella che oscura l'essenza dell'uomo. Un fatto banale scatena una serie di eventi e il ritmo del romanzo diventa crescente, fino alla fine, quando il cerchio si chiude.
Un romanzo bello e scorrevole, che ci fa sentire “l’odore” della paura, e,quando finiamo di leggerlo, ci fa tirare un sospiro di sollievo. Perché noi non siamo pazzi!
“Chi dunque curerà coloro che si ritengono sani? L.A.Seneca”
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Può un libro cambiarci la vita?
Può un libro cambiarti la vita?
E’ questa la domanda che ci si pone leggendo "Le quaranta porte" di Elif Shafak, scrittrice turca, edito da Rizzoli.
Almeno questo è quello che succede a Ella, la protagonista. Una donna di quarant’anni, americana che vive una vita perfetta. Un marito rispettabile, tre figli, una bella casa, tutto quanto costruito per dare l’impressione che tutto sia come dovrebbe essere. Ma un cambio di direzione, un lavoro non richiesto e accettato con riserva, porta Ella a capire che a tutta questa perfezione qualcosa manca e non è cosa da poco. Nella sua vita manca l’amore, ma da così tanto tempo che quasi non ne conserva il ricordo. Se ne rende conto leggendo “la dolce eresia”, il romanzo che l’agenzia letteraria le affida per stilare una scheda. Il piano di lettura diventa doppio, la vita di Ella, moderna, americana, consumistica, di bene e di affetti, e la vita dei sufi, religiosi di una corrente mistica della religione islamica. Si passa dall’occidente all’oriente, in Turchia, per la precisione negli anni 1200 ca, con disinvoltura e coraggio. Attraverso la lettura di quel romanzo, scritto da un uomo a lei sconosciuto, Ella capisce che tutto quello per cui vive un giorno, non avrà, per lei, più importanza e lo abbandonerà senza rimpianto.
La storia dei sufi appassiona sicuramente di più di quella di Ella, che è appena accennata. E mentre leggiamo di Rumi e Sharm, cominciamo a capire la differenza che passa tra religiosità e spiritualità, intuiamo che l’amore ha sfumature segrete e inaspettate, che la differenza di ceto, di religione o di qualunque altra cosa non è una pregiudizievole, anzi spinge al confronto e all’apertura. Belli tutti i personaggi anche se Aziz è appena un accenno.
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un po' d'aria biopurificata
“I miei genitori mi hanno chiamato Margherita, ma io amo essere chiamata Maga o Maghetta. I miei compagni di scuola, ironizzando sul fatto che non sono proprio snella, a volte mi chiamano Megarita; mio nonno, che è un po’ arteriosclerotico, mi chiama Margheritina, ma a volte anche Mariella, Marisella oppure Venusta, che era sua sorella. Ma soprattutto, quando sono allegra mi chiama Margherita Dolcevita." Così inizia il libro di Stefano Benni Margherita Dolcevita e da subito ci lasciamo contagiare dall’allegria di questa ragazzina.
Margherita è un’adolescente intelligente e fantasiosa che sa guardare il mondo con ironia, forse per i chili di troppo o per il suo cuore un po’ difettoso. Vive con la sua famiglia, di cui giustifica i difetti, che più che altro sono stramberie, in un posto che non è né campagna né città. Si perde nel grande prato intorno alla casa, l’ultimo baluardo di campagna che viene divorata lentamente dalla città. E’ la sua, una vita normale, che assomiglia alla vita di tanti altri adolescenti, almeno fino al giorno in cui, di fronte la sua casa appare un cubo nero circondato da un asettico giardino e da una palizzata di siepi. Lì si sono trasferiti i signori Del Bene, portatori della beatitudine del consumo. Con la loro aria biopurificata, le loro siepi finte, la loro eleganza incantano la famiglia di Margherita. Solo lei resta immune da quel fascino, anzi avverte un pericolo subdolo, non riuscendo però a identificarlo. Con la sua fantasia e la sua combattività, cerca in ogni modo di scoprire quale sia il piano diabolico in cui i Del Bene voglio far precipitare la sua famiglia e forse il mondo intero.
Come sempre Stefano Benni fa centro, con il suo modo di scrivere unico per l'uso originale e innovativo del linguaggio, la sua acutezza nel colpire con la satira gli aspetti più aberranti della società moderna, la sua comicità stralunata e irresistibile e la sua inesauribile fantasia, che gli permette di creare mondi immaginari l'uno più straordinario dell'altro.
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Un topo piagnone
Quando è uscito questo libro, tutti hanno gridato al miracolo! Perle di saggezza elargite da un topo, non umanizzato e filosofo, quindi da non perdere. E così anche io l’ho comprato.
Il romanzo inizia con la celebre frase di tolstojana memoria sulle famiglie felici e su quelle infelici. Di sicuro Firmino è nato infelice e la sua vita prosegue nell’infelicità, infatti lui racconta iniziando così: Questa è la storia più triste che abbia mai sentito. Vi assicuro che sono 170 pagine circa di assoluta, pura infelicità. Mai "visto" un topo più lagnoso, per quanto filosofo. Devo dire che la sua fame di libri è appunto solo fame, nel senso che se li mangia. Anche il mio cane, Nara si mangiava le versioni di greco o i vocabolari se i miei figli dimenticavano di togliere gli zaini da terra, ma non per questo è diventata professoressa di lettere. E inoltre questo topo è pure antipatico. Scritto sicuramente bene e altrettanto bene tradotto, belli i disegni, ho faticato a leggerlo perché mi annoiava, cercando di capire quale fosse l’ingrediente “segreto” che ne ha decreto il successo. E’ rimasto un mistero!
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romanzo rosa-storico?
“Nel sesto giorno d’agosto dell’anno di grazia 1570 il cuore di Parigi ansimava.” Con questa frase comincia il corposo romanzo Il libraio notturno. Inizialmente inganna, ma piano piano svela gli ingredienti di quello che potrebbe essere “etichettato” un romanzo rosa-storico. E non lo dico con disprezzo perché io ho cominciato a scrivere tanti anni fa e scrivevo proprio romanzi d’amore o rosa-storici. Quindi ho rispetto per chiunque li scriva, tra l’altro documentarsi dal punto di vista storico è una fatica immane. L’unica cosa in cui differisce è il protagonista: un ragazzo.
In una Parigi infiammata dalle lotte religiose tra cattolici e protestanti, o ugonotti, come si chiamavano quelli francesi con tendenze calviniste, Martin, giovane orfano adottato da uno zio fanatico cattolico che lo tratta come un servo, conduce una esistenza infelice e piena di privazioni. Ma Martin la notte scivola sui tetti di Parigi per cercare quella serenità a cui aspira. Spiando dalle finestre troverà l’amore, non solo per una donna, ma anche per i libri. E sarà questo amore che lo aiuterà a sopportare tutte le vicende affannose che gli capiteranno.
Seguiamo Martin dalla giovinezza all’età adulta, passando per Parigi infiammata da lotte intestine, dalla strage di San Bartolomeo, quando vennero uccisi diecimila protestanti in nome di Dio, attraversando la Svizzera, per finire con l’Editto di Nantes che pose fine alle guerre religiose francesi.
Sebbene, sia nel linguaggio che nella trama tutto è simile al romanzo rosa-storico, il libro, che è ben scritto e direi anche ben tradotto, ha il merito di essere scorrevole, nonostante le lunghe pagine di storia e anzi, proprio per questo, ha un merito in più: mi ha fatto venire la curiosità di conoscere meglio quelle pagine di storia.
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La Pastorale Americana
La pastorale americana è valsa allo scrittore il Premio Pulitzer nel 1997, e questo di sicuro ci fa riflettere. Perché mai dovremmo criticare negativamente uno scrittore così prestigioso e il suo romanzo più bello e famoso?
Roth è di sicuro un maestro e la Pastorale è ben scritto e racconta uno spaccato di vita americana, in maniera magistrale. Forse proprio per questo non sono riuscita a “entrare in sintonia” con i personaggi. Il romanzo racconta la storia di Seymour Levov, bello, biondo alto e sportivo, detto lo svedese e candidato a incarnare il sogno americano, che sposa una donna destinata a diventare Miss America, ma non ce la fa e rimane Miss New Jersey , e per tutta la vita cerca di dimostrare che lei è tutta “cervello” e poche forme, non è la solita bambolina, ma che dentro di sé cova il rimpianto per quella mancata vittoria. Fin dalle prime pagine Nathan Zuckerman, un compagno di Lev e alter ego dello scrittore, parla dello svedese, ma per entrare nel cuore del romanzo ci vuole pazienza; superare la noia di tante descrizioni, da come si fanno i guanti a come si concia una pelle, passando per particolari di musica, di cancro alla prostata, di tori da monta onestamente non è facile. Nathan Zuckerman rincontra a una festa gli ex compagni e da lì in poi sente la necessità di raccontare la storia di Lev prima che svanisca la memoria. Ma non è solo Lo Svedese il protagonista del romanzo e in questo la narrazione è davvero bella e particolareggiata. Il sogno americano, emblema di riscatto e di opportunità, si distrugge sempre più man mano che leggiamo, fino a porre una domanda cruciale.
Perdono quindi a Roth i particolari che non aggiungono niente alla storia e ve ne consiglio la lettura.
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Esiste la donna giusta?
Una storia, quattro voci narranti, lunghi monologhi per raccontarla da diversi punti di vista. Marai ci narra la vicenda e tu sei lì a leggere, ma ti senti come se fossi seduto in un elegante caffè di Budapest, o anni dopo, in un altro caffè di Budapest, o a Roma, in un albergo e dalla finestra si vede sorgere il sole, o molti anni dopo a New York, per sentire l’epilogo della storia. Stai lì incantato e incatenato pagina dopo pagina, ad ascoltare la donna che racconta del suo amore, di suo marito, che ha perso perché un giorno ha trovato per caso nel portafogli un pezzo di nastro viola. Così intuisce che nella sua vita c’è un’altra donna. Ma nonostante tutto continuerà ad amarlo, perché crede che “tutto nella vita passi, tranne che l’amore”. Nel secondo monologo è il marito della donna che parla e narra del suo matrimonio finito, perché amava un’altra donna che per lui era diventata “come un veleno mortale”. E questa donna, che racconta la sua versione nel terzo monologo, ci fa capire come l’amore possa trasformarsi in ferocia, avidità, desiderio di vendetta, contro tutti o forse solo contro noi stessi. Il quarto monologo è forse il meno appassionato, ma non per questo il meno bello. A raccontare è l’amante della seconda donna, un esule ungherese trasferitosi a New York in cerca di fortuna. Lui conosce la versione della seconda donna, la freddezza con cui l’ha raccontata ma anche la tenerezza con cui lo ha amato. E assiste, per caso, all’epilogo della storia.
Marai parla dei sentimenti, del matrimonio, dell’amicizia,(bellissimo il personaggio di Lazar, l’amico scrittore, anch’esso testimone silenzioso e bizzarro di tutta questa vicenda), come se essi nonostante la necessità, quasi la bramosia di provarli, sfuggissero e lasciassero solo un guscio vuoto nell’anima. E prendendo a pretesto il lungo evolversi della storia ci racconta anche vicende politiche e sociali, gli orrori della guerra,la bellezza della sua città, con leggerezza e realismo.
“Welcome, gentlemen. You are served, Sir.”
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