Opinione scritta da Ophélia Queiroz
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Un Classico...a metà
Di solito i lettori amanti dei Classici, mettendosi di fronte a una nuova avventura letteraria, partono già con una certa disposizione d'animo, pronti a lasciarsi mettere in discussione dalla tematica del romanzo e ansiosi di ricevere un certo arricchimento. Ecco, in cio' Ivanhoe tradisce un po' la sua missione di grande classico, deludendo le aspettative. Se possiamo riconoscergli, da un lato, un'ottima struttura narrativa, possiamo rimproverargli dall'altro un certo senso di perenne "manchevolezza". Come già espresso da altri utenti prima di me, i personaggi sembrano svuotati dall'interno, mossi da un'animosità quasi programmata, fin troppo fedeli a sé stessi e al proprio ruolo, servi, più che protagonisti, delle dinamiche del romanzo. Fatta eccezione per alcune pagine più felici, che vedono in azione quelle che sono a mio parere le figure più interessanti (l'ebrea Rebecca e la vecchia Ulrica), tutto il libro é appesantito dai ridondanti scambi di cortesie tra i cavalieri, dalle onnipresenti professioni di onore e coraggio, dai reciproci riconoscimenti di valore, dalle dichiarazioni di ostilità dei sassoni verso gli odiosi oppressori normanni. Ecco, tutto cio', privo com'é di quell'invisibile forza sotterranea che attraversa altri veri Capolavori della letteratura, finisce per stancare anche il lettore più paziente, e Ivanhoe si dimostra un romanzo che riesce ad accontentare pochi. Faticoso e pedante per un pubblico giovane, ma debole e poco approfondito per un lettore maturo. Forse non erano ancora giunti i tempi in letteratura, delle grandi analisi psicologiche dei personaggi, e risulterebbe quindi fuori luogo rimproverare eccessivamente l'autore di « superficialità », ma devo proprio ammettere che, a dispetto della sua grande fama, non riesco proprio ad annoverare Ivanhoe tra i romanzi immancabili nella mia biblioteca!
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La vedova scalza
Libro difficile da valutare.
Partiamo dalle lodi: lo stile è originale, escludendo qualche occasionale uscita dalle righe, ha momenti di grande felicità, e riesce ad essere poetico ma con spietatezza, come piace a me. Essendo sarda ho potuto apprezzarlo a pieno, anche nelle sfumature dialettali spesso presenti, ma penso che risulti più o meno comprensibile anche a chi il sardo non lo conosce. L'autore ha fatto un ottimo lavoro per quanto riguarda la lingua, e ha reso magistralmente quella che è la "sintassi tipica sarda".
La trama è avvincente, drammatica, le riflessioni piene di rabbia e fierezza della protagonista si alternano a momenti di azione concitata, senza avarizia di dettagli anche nei particolari più brutali delle vendette barbaricine.
Ma la tirata d'orecchie è inevitabile: non se ne può più di questo cliché della Sardegna vista come una terra aspra e selvaggia, culla delle più ancestrali tradizioni. Su questo si è scritto troppo. C'è chi l'ha fatto a mio parere in modo mediocre e convenzionale, come la Deledda (nonostante sia stata lei ad aprire questo sovraffollato filone non ho alcuna stima delle sue opere, considero il suo un premio Nobel assolutamente immeritato), e chi è stato un po' più sottile e valido, come Satta con "Il giorno del giudizio". Indipendentemente dai risultati è la tematica che ormai è usurata. Si pensa che sia questo che il consumatore vuole dalla letteratura sarda (parlo di consumatore, appunto, neanche di lettore), e quindi si offre il solito prodotto: banditi, monti, faide e natura selvaggia. Questo è un volto della Sardegna ormai falso, esaurito, soltanto qualcosa purtroppo continua a sopravvivere nella mentalità di pochi, in paesi chiusi in se stessi che usano la tradizione come scudo contro lo sviluppo e contro qualsiasi forma di apertura. E allora smettiamola di alimentare questi miti così negativi, così sorpassati, buoni soltanto per attirare un po' di attenzione morbosa dei turisti.
Se volete sapere com'è sul serio la Sardegna, leggete Soriga, leggete Sardinia Blues...Troverete meno folklore, ma uno sguardo un po' più acuto e sincero.
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Vite di uomini non illustri
In certi casi essere impietosi è un po' un dovere. Questo è un brutto libro. L'autore ci propone una serie di brevissime biografie immaginarie di persone comuni, dalla nascita alla morte. Medesimo schema per tutte le micro-storie: nascita-vita-morte, una sorta di curriculum riassuntivo, scarno, troppo scarno, che non lascia spazio a nessun approfondimento che possa coinvolgere il lettore. Lo stile oltre ad essere sciatto presenta pure una sintassi discutibile. Un libro che, voltata l'ultima pagina, lascia un'impressione di inconsistenza. Quando l'ho chiuso e ci ho pensato un po' su mi son resa conto che, sul serio, delle vite raccolte non ce n'era una che mi avesse colpita, una che mi ricordassi. Non so, mi son chiesta: "Perchè questo libro?" Forse voleva essere un omaggio all'uomo comune, ai suoi pensieri piccini, alla sua vita di tranquillizzante semplicità? O piuttosto una critica acuta alla società del XX secolo, alla povertà dei suoi ideali, all'inconsistenza del tipo di umanità che produce? Ma, francamente dubito che l'intento dell'autore fosse così alto, piuttosto mi è sembrato un tentativo di letteratura che viene dal niente e approda al niente. Storie di vita mediocri per un'opera mediocre, e forse per una società che, sì, è mediocre. Ecco, magari un pregio ce l'ha: inconsapevolmente incarna l'anima del nostro tempo. Ma lo si poteva fare annoiando di meno.
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L'insostenibile leggerezza dell'essere
Mha, non lo considero un Capolavoro con la C maiuscola, ma non mi trovo d'accordo neanche con qualche recensione precedente, davvero troppo severa. Tralasciando di riassumere la trama, riconosco che lo stile non sia dei più elaborati, ma non sempre uno stile cavilloso è sinonimo di contenuto valido. Piuttosto rimprovero all'autore di aver voluto giocare troppo su interpretazioni "psicanalitiche" un po' sempliciotte riguardo alla natura dei personaggi. Nel complesso comunque si tratta di un buon romanzo, piuttosto scorrevole, con uno stile misurato ma piacevole, e un contenuto interessante, che ogni tanto tra le pagine dispensa qualche verità non troppo scontata sui meccanismi che si innescano nelle relazioni umane. Non è un libro destinato a una ristretta elite di intellettuali, questo no. Non è un libro che ha le carte in regola per essere annoverato tra i grandi classici della letteratura, no. E' solo un libro piuttosto intelligente, che tutti possono capire. E' un romanzo che trae dei presupposti da alcune teorie filosofiche, ma non pretende di essere un trattato di filosofia. Nonostante ciò ha delle pagine interessanti, per esempio quelle riguardo alla teoria del "diabolico dono della comprensione" che spesso unisce gli amanti e li condanna a "patire" insieme, a portare il proprio dolore o le proprie emozioni sulle spalle, aggravate dalla perfetta e lucida comprensione anche del dolore e dell'emozione dell'altro. Ripensandoci ora, a distanza di circa un anno dalla lettura, riconosco che più che per la vicenda in sè o per lo stile, questo libro si fa ricordare come un'ottima fonte di citazioni. Però su...abbiamo letto tutti decisamente di peggio. Lo consiglierei, assolutamente. Senza farvi troppe illusioni, però leggetelo.
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Gli indifferenti_Moravia
Ho interpretato questo romanzo in senso un po' diverso rispetto a qualche altro lettore che ha commentato prima di me e che temo ne abbia semplificato un po' troppo il messaggio. L'indifferenza di cui parla Moravia non è certamente quella per i mali della società, per i barboni per strada! E i personaggi non sono superficiali...sono piuttosto annichiliti, completamente smarriti, disposti a tutto, anche alla depravazione, pur di trovare una via d'uscita alla noia e allo squallore borghese. Carla e Michele sono le vittime di se stessi, della loro identità, non sono indifferenti alla miseria che vedono per strada (non ricordo neanche una pagina del romanzo in cui emerga questo aspetto), sono indifferenti a se stessi, disprezzano se stessi, e tutto ha una piega molto "esistenziale". Non è mia intenzione "fare una recensione alle altre recensioni" ma ci tengo a sviare chi passa per questa pagina dall'impressione che questo romanzo (che per altro adoro) sia stato scritto per fare una bella tirata d'orecchie a tutti quelli che rimangono insensibili di fronte al bisognoso che chiede una monetina; la grandezza di questo romanzo secondo me sta nell'analisi impeccabile della psicologia di questi due giovani, talmente demotivati e senza speranza da cercare volontariamente la propria rovina, talmente apatici da trovare l'ultima disperata soluzione nella violenza brutale contro se stessi, contro la propria vita. Rinunciare a qualsiasi forma di purezza, non credere più che nessun tipo di amore possa salvarti, abbandonarsi alla distruzione...mio dio che libro meraviglioso...
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Più che rispettabile
Non ho letto altri libri di Baricco (a parte Senza Sangue, romanzo brevissimo che avevo chiuso senza sapergli dare un giudizio preciso, un po' senza infamia e senza lode), per cui, al contrario delle persone che hanno commentato prima di me, non posso cimentarmi in grandi confronti. In compenso però, quello che posso dire di Emmaus, è che lo considero un romanzo di valore, che almeno si distingue dalla massa mediocre della prosa italiana degli ultimi anni, anche se non è esattamente un capolavoro. Lo stile è fine e accurato, la vicenda originale e i personaggi, mai banali, sono credibili, così come è credibile la crisi in cui si ritrovano coinvolti, la messa in discussione di tutto: dei valori fino ad allora inattaccabili trasmessi da un'educazione cattolica, di Dio, del Bene stesso. Il pregio di questo romanzo è quello di riuscire a descrivere con assoluta serietà e senza luoghi comuni, il percorso di crescita di un giovane; percorso che, contrariamente alle convenzioni dei soliti romanzi di formazione, non trova approdo in una meta stabile e rassicurante, ma al contrario, partendo da salde certezze, va poi a precipitare in una condizione di disorientamento totale. Non certo ottimistico, ma davvero realistico e acuto nella rappresentazione dei conflitti interiori dei personaggi. Consigliatissimo.
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Isabel Allende_Eva Luna
Mha. L'impressione è che Isabel Allende questo romanzo l'abbia già scritto decine di volte. Quando, ormai diversi anni fa, lessi la Casa degli Spiriti, rimasi piacevolmente sorpresa. Tentai allora le opere successive, ma mi ritrovai in mano, senza troppe varianti, ogni volta lo stesso romanzo. Ambientazioni, contesti sociali e politici non variano quasi mai, così come la caratterizzazione dei personaggi. Il ritmo è lento, i personaggi inverosimili e soprattutto non se ne può più dell'eterno ritorno al tema del legame ancestrale della madre coi propri figli, della ricerca delle radici. Non se ne può più della solita storiella improbabile imbevuta di superstizioni, bambini dalla fantasia vorace, mummie e cattivi sempre più cattivi. All'autrice consiglierei di cercare seriamente nuove tematiche, non si può basare tutta una carriera letteraria sugli stessi quattro concetti, di romanzo in romanzo sempre più impoveriti. L'ho trovato insulso, pardon!
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Agostino_Moravia
Come sempre Moravia non delude. In questo romanzo breve ci propone con grande efficacia il percorso di crescita del tredicenne Agostino e la sua scoperta della sessualità, attraverso il deteriorarsi del rapporto con la madre e la frequentazione di una banda di ragazzi popolani. La psicologia del protagonista è approfondita e studiata a fondo, ed è presente, in germe, il tema che caratterizzerà molte delle opere successive: quello dell'angosciosa presa di coscienza della propria natura e della propria vita. Come Carla e Michele de "Gli Indifferenti" anche Agostino pur desiderando una realtà pura e incorrotta, si arrende non senza un certo compiacimento, al fascino della degradazione e dello squallore, che gli rivela con drammatica lucidità, la verità su sè stesso.
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la solitudine dei numeri primi
Non che mi aspettassi granchè. Ok, come già notato da altri il titolo è intrigante, peccato che non sia nemmeno stato partorito dalla fiacca immaginazione dello scrittore, ma sia stato successivamente imposto dalla casa editrice. Tutta la vicenda ruota attorno alle tristi vite dei protagonisti, lui autolesionista incallito, lei anoressica, rapporti familiari difficili, traumi infantili che si ripercuotono nell'età adulta (che originalità!). Entrambi insicuri, affetti da una sorta di comune impotenza esistenziale che li unisce, ma allo stesso tempo li rende incapaci di stare insieme. La trama è piatta, manca un'acuta analisi psicologica dei personaggi e lo stile è quello facile facile che sembra esser tanto gradito da un pubblico pigro. Più che un libro ha la schematicità della sceneggiatura di un film, anzi la netta impressione che ho avuto è stata che l'autore, anzichè approfondire il racconto si limitasse a illustrarlo come se stesse effettivamente descrivendo superficialmente delle scene che passano su uno schermo. Nell'insieme comunque non funziona, si fa leggere facilmente ma manca sia la forma che la sostanza.
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