Opinione scritta da R๏гy.o°
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Il karma la sa lunga...
Nel 1972 Philip Roth, uno dei più grandi scrittori americani viventi di origine ebraica, pubblicò quello che sarebbe diventato il suo racconto lungo più famoso (non posso sbilanciarmi anche sull’etichetta ‘migliore’ perché non ho letto altri suoi racconti, ma se tanto mi da tanto…).
La storia è di quelle che sbalordiscono per la loro semplicità disarmante capace di portare il lettore ad un alto grado di elucubrazione filosofica.
Il professore di letteratura comparata David Kepesh per un paio di giorni avverte un prurito nelle zone intime che una sera si evolve in uno ‘sfogo cutaneo’. La mattina dopo l’uomo si sveglierà in un’altra condizione fisica: quella che la sera prima era una semplice macchiolina rosa si è trasformata, anzi l’ha trasformato in un grosso seno di ben settanta chili. Incapace di vedere o muoversi, gli unici sensi a rimanere integri saranno la voce (che esce da una linguetta nella parte alta della massa grassa – anche il volto è ormai sparito), l’udito e, dopo le prime ore post-anestesia, il tatto.
Divertente in alcuni passi – soprattutto quelli legati alla componente erotica – e contemporaneamente amaro, il racconto è permeato da un surrealismo di tipo kafkiano e gogoliano, autori dei celebri racconti “La metamorfosi” e “Il naso” spiegati per anni dallo stesso professor Kepesh. Il senso di inquietudine del protagonista deriva dalla condizione fisica in cui egli versa, ma soprattutto dal fatto che probabilmente è sotto osservazione continuamente, e dei medici e della spietata società: ciò lo porta alla riflessione e soprattutto alla rivalutazione del rapporto con gli altri (ad esempio, il padre e la fidanzata che ogni giorno vanno a trovarlo in ospedale lo amano veramente o il loro è solo puro senso di pietà?).
Sta al lettore capire se si tratta della realtà o di un sogno-incubo, oppure ancora di una realtà parallela o di una metafora utilizzata dallo stesso Kepesh. O addirittura del risultato di uno stato di pazzia del protagonista, che più volte nel corso della storia, soprattutto alle battute finali, è portato a credere come l’opzione migliore.
Ciò che emerge di particolarmente interessante è la concezione del karma: il professore accetterà la nuova condizione in cui sta vivendo, proprio perché meritata dopo il tradimento fatto alla moglie che ha portato al divorzio. Era quasi come se dovesse aspettarselo. Ed è così che si delinea un percorso che porta alla presa di coscienza di sé, di quello che si è e di quello che si vorrebbe essere e forse è meglio non diventare.
Infine, Roth ‘chiude’ con una delicatissima poesia di Rilke, “Torso arcaico di Apollo”, in cui il poeta invita non alla conoscenza di sé stessi, quella probabilmente non arriverà mai, nemmeno nei più saggi; aspira invece al cambiamento per una piena maturità. Come il torso mutilato infatti, il nostro essere non raggiunge la perfezione nella sua integrità, ma nel gioco di equilibrio derivante dalle parti (leggasi: qualità) mancanti e da quelle che possediamo. Accettarci per come siamo e mirare alla maturazione, e non alla perfezione, è ciò che vuole suggerirci Roth attraverso la poesia di Rilke. Accettare la straordinarietà della normalità.
“Cominciò stranamente. Ma poteva forse esserci un altro inizio? Si dice che le cose sotto il sole cominciano “stranamente” e finiscono “stranamente” e sono strane; una rosa perfetta è “strana”, proprio come una rosa imperfetta, e come la rosa di normalissimo colore e gradevolezza che cresce nel giardino del vicino”.
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A metà strada tra l'incanto e la realtà
La Allende è una donna dalla grande capacità affabulatrice, e se “La casa degli spiriti” mi aveva incantata, “Eva Luna” non mi ha delusa per niente.
Chi si immerge nella lettura di questo romanzo/enciclopedia della vita deve essere consapevole dell’abilità della scrittrice cilena, della sua preziosa capacità di narrare per il gusto di farlo: una volta immersi nella storia – sebbene spesso non sia chiaro il percorso che si sta affrontando – è difficile chiudere le pagine del libro e proseguire a vivere la propria vita.
Perché in “Eva Luna” c’è vita, c’è un cuore pulsante che ti chiede di battere all’unisono con il tuo; e così le pagine ti immettono in un vortice di narrazioni pure e piacevolmente fini a se stesse – mai leggere però – che si rivelano poi nel crescendo del finale, che riconsegna tutta la dignità dovuta alla storia e soprattutto ad Eva, una grandissima figura femminile con ben pochi precedenti.
Una scrittura mai stancante nei suoi mille intrecci e così rassicurante nella sua circolarità (ci sono spesso, anche se in quantità inferiore rispetto a “La casa degli spiriti”, dei sottili richiami ad avvenimenti futuri della trama) porta la narrazione ad un piano di astrazione pura che paradossalmente trova riscontro nella realtà della rivolta e della guerriglia.
Leggere “Eva Luna” vuol dire rimanere con l’amaro in bocca ma vuol dire anche estasiarsi. Vuol dire centellinare ogni singola frase e leggere come se fosse l’ultima ora della vita in cui è concesso il dono della vista.
Isabel Allende: magia e raziocinio, fiaba e verità, prosa e poesia.
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Suicidio
Un libro pesante, pesantissimo. Non per il contenuto di per sè (dal titolo mi sembrava un saggio che parlasse di vita e di morte) ma per l'intenzione dell'autore. Queste poche pagine mi hanno fatto comprendere l'agonia del protagonista che si suiciderà proprio perchè hanno fatto agonizzare me: certi pensieri, non direttamente collegati alla morte bensì al non-vivere (che è un concetto completamente diverso), sono tali e quali ai miei. Non mi sono spaventata nel riconoscere certe sofferenze, al contrario mi sono sentita capita.
Ma la soluzione che ha scelto il protagonista non la condivido per niente. Il suicidio non è la soluzione ai problemi. E' vigliaccheria. E' la vittoria e la sopraffazione del Male.
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On the road
Sulla strada che porta o che ti allontana da casa si può incappare in mille imprevisti e in mille persone completamente differenti. E quando arrivi a destinazione dopo mille peripezie puoi star sicuro che quello che resterà per sempre dentro di te è il sapore della libertà.
Proprio come quando completi il libro: ti senti pieno del tuo essere e non c'è cosa migliore. Questa è la "Beat Generation" di Kerouac: portato in posti sperduti e, diciamolo pure, dimenticato dal resto del mondo per ritrovare te stesso.
Un applauso a questo libro da divorare in una notte.
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Fa male la verità, eccome se fa male!
Vi siete mai chiesti da dove nasce la locuzione "grande fratello"? Proprio da questo libro che per fortuna non c'entra nulla con quella sorta di pseudo-programma televisivo. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, una frase che compare spesso e incute timore. Ancora a scriverla mi mette i brividi.
"Fino a che non diventeranno coscienti del loro potere, non saranno mai capaci di ribellarsi, e fino a che non si saranno liberati, non diventeranno mai coscienti del loro potere".
Questo è ciò che scrive di nascosto il protagonista. Il libro fu redatto nel 1948 ma il pensiero sembra ancora moderno, nevvero?
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Uno di noi
Che dire di Zeno Cosini?
Il padre degli sfigati e nello stesso tempo degli eroi, per eccellenza.
Un uomo che come Socrate sa di non sapere e ne fa un'arte quasi sublime.
Importante ogni capitolo, ma particolare quello sul fumo che mi ha fatto sorridere e in alcuni passi ridere. "Che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente." Grande Zeno, sei tutti noi!!
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Profumo di Sicilia
Dopo aver conosciuto la scrittrice era mio obbligo e dovere leggere il suo primo romanzo.
Il migliore di tutti a mio modesto parere.
Una Sicilia che per mentalità può essere ottocentesca, seicentesca e persino degli anni 2000.
Gli anni passano, la sicilianità resta.
Come questo libro, che riesce a far respirare anche d'inverno il profumo primaverile dei fiori di mandorlo e di arance spremute.
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Cruda realtà
Avete presente le famose maschere pirandelliane? Avete presente il detto "Una persona, molteplici personalità"? Sicuramente si.
Chi dice che nella vita non ha mai cambiato il proprio carattere in base all'ambiente che lo circondava e alle persone con cui si confrontava, è un bugiardo.
Qui il tema è un pò esasperato, ma bisogna avere cautela nei rapporti interpersonali con gente diversa tra di loro: alla fine potresti diventare uno scatenatissimo Mr Hide!!
Consigliato a tutte le età. Diffidare dalle imitazioni e da chi sostiene sia un libro di fantascienza. Questa è pura e cruda realtà.
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Un pugno allo stomaco
Leggere questo libro a 13 anni, in sottofondo "Heroes" di David Bowie [colonna sonora del film che ne è stato tratto] è qualcosa di straordinario.
Un libro che arriva dentro come un pugno dritto allo stomaco. Verità seducenti e fastidiose.
Rivedere il film per la seconda volta, e per la seconda volta essere tentati da questa lettura coinvolgente.
Un libro drammatico, una bimba che impara ad essere donna, un'esperienza di vita che la caratterizzerà per sempre.
E quegli occhioni azzurri che non si dimenticherano facilmente.
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Boring!
A volte capita che neanche lo stile di un grande scrittore faccia resuscitare un libro che può essere descritto con una sola, esplicita, parola: noioso.
Sarà che la guerra civile spagnola non è il mio argomento preferito ma spesso mi sono ritrovata con la testa tra le nuvole piuttosto che continuare a leggere questo libro.
Consigliato solo a chi soffre di insonnia.
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Lieve ma inconsistente
La più moderna tra le scrittrici giapponesi stavolta si cala nell'avventura della serie di racconti incentrati su un argomento sempre diverso.
"In ogni caso la felicità è sempre dietro l'angolo: la felicità arriva all'improvviso, indipendentemente dalla situazione e dalle circostanze, tanto da sembrare spietata." La frase che più mi ha catturata. Sicuramente un libro da sfogliare e comprendere.
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- sì
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Rimandato a settembre
Un'India dolce e orientale del VI secolo a.C. accoglie i pensieri del protagonista e dello stesso lettore del libro. Un viaggio che a meta arrivata arricchirà un pochino il lettore: un libro sulla meditazione ricco di sensualità, armonia e perle di saggezza.
Consigliato a chiunque voglia avvicinarsi ad uno pseudo-libro di aiuto: nessuno meglio di Hermann Hesse saprà indicargli la via.
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- no
Alta letteratura italiana contemporanea
"Sì, c'è una lussuria del dolore, come c'è una lussuria dell'adorazione e persino una lussuria dell'umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d'adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? E fu per questo che rinunciai a quella attività [di inquisitore]. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi".
Un libro che deve essere gustato, assaporato, capito nella sua interezza. Meravigliosamente storico, intelligentemente psicologico, profondamente di formazione.
Un Eco insuperabile.
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Il coraggio nero su bianco
Un libro di denuncia che ogni uomo, ragazzo, bambino dovrebbe leggere. Qui non si tratta solo di camorra ma del male in generale: qui ci sono i limiti a cui un uomo può arrivare e spesso sconfinare.
Vorrei conoscere Saviano, questo grand'uomo. Intelligente e colto, forse troppo. Nessuno gli perdonerà di aver alzato la testa.
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Espiare i propri peccati
Un libro scritto magistralmente, ben dettagliato non solo nelle descrizioni fisiche ma anche in quelle psico-spirituali. Ottima l'idea di far vedere allo spettatore la scena da angolazioni, i personaggi, differenti: riesce a far calare il lettore ancor di più dentro il libro. L'immedesimazione è sorprendente, soprattutto in Briony che può avere mille differenze dal tuo essere ma nello stesso tempo sembra dare voce ai tuoi pensieri. L'espiazione della ragazzina è anche l'espiazione del lettore, che non può non completare il libro in fretta con un senso di liberazione delle colpe ma nello stesso tempo con l'amaro in bocca.
Lo riprenderò di nuovo in futuro, ma aspetterò di avere maggiore carica emotiva per sostenere l'arguta ed intelligente scrittura di McEwan; il dolce, cristallino McEwan.
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Memorie che lasciano il segno
Ho letto con profonda calma questo libro, me lo sono gustata appieno e non sono rimasta per niente delusa. Tant’è vero che posso affermare con sicurezza che questo è il mio libro preferito. Ciò non vuol dire che “la caccia” al libro perfetto abbia chiuso i battenti, eppure non credo che in circolazione ci sia un libro capace di illuminarmi, coinvolgere e soprattutto commuovere come questo.
Stili, generi, pensieri, lingue diverse si fondono in un unico testo capace di interrogarsi su quesiti comuni al genere umano e di rispondere con quella insicurezza tipica dell’uomo sbalorditiva.
Adriano è rappresentato come un uomo capace di commettere errori, e da quelli riuscire ad “alzarsi” per urlare in faccia a chi gli vuole del male. Un coraggio come il suo è inaudito. (“Le mie virtù, le ho utilizzate come ho potuto. Dei miei vizi, ne ho fatto buon uso”)
Ho amato profondamente molti passi, in alcuni mi ci sono rispecchiata, in altri mi sono distaccata, in altri ancora ho appreso nozioni importanti, in altri sono rimasta piacevolmente inorridita. Mai la cultura romana fu tanto più vicina alla nostra. Il capitolo perfetto è quello in cui Adriano – la cui figura mai in questo libro è quella d’imperatore, ma più difficilmente quella d’uomo – ci commuove dopo la morte di Antinoo, il suo prediletto. La perdita più grande di tutta la sua lunga e sofferta (in alcuni casi) vita è raccontata con profondo rispetto; e sempre con profondo rispetto si riflette in ogni sua meditazione anche molti anni dopo il fatto. Persino quando pensa alla sua di morte, Adriano richiama alla mente l’amico Lucio, Plotina, il medico Gellia, il suo dolce e amato Antinoo e giustamente afferma che “la meditazione della morte non insegna a morire”. Saggio, saggio Adriano. Con i mille temi trattati (quali la passione, lo sport, il cibo, la pace, la guerra, l’amore, la cultura, il sociale, i rapporti con l’estero) hai mostrato al mondo che uomo di valore sei. Sei, non eri. Perché con pensieri e azioni del genere, di certo non sei un uomo da dimenticare. Di certo non sei uno dei tanti solamente di passaggio su questa terra. Tu rimani, perché ne hai conquistato il diritto.
Nel mio cuore resterai un grande esempio da seguire. Grazie per i consigli da papà, amico, consigliere, nemico, passante. Grazie.
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Eleganza della prosa e del personaggio
Un grande libro, non c'è che dire.
La Bronte è riuscita a delineare la figura di una donna perfetta. Una donna che non comprende il suo fascino, giovane ma indipendente, forte moralmente e psicologicamente. Una donna che indossa elegantemente i suoi 19 anni e riesce a riempire la sua vita di esperienze sociali e spirituali che forse tutte le altre non riusciranno ad ottenere in una vita intera.
Dirà infatti al suo Rochester:
"Preferisco essere una creatura viva piuttosto che un angelo"
Spesso le protagoniste dei romanzi, soprattutto dell'Ottocento, sono donne forti, emblema di un coraggio inaudito e che porta alla felicità: la prima che mi viene in mente è sicuramente Elizabeth Bennett di "Orgoglio e pregiudizio". E come scordare Catherine di "Cime tempestose"? Anche Anna Karenina ha un bel caratterino.
E potrei andare avanti così per molto tempo. Ma su tutte domina, incontrastata, la figura esile ma determinata di Jane Eyre.
Dio, quanto vorrei essere lei!
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Fuggire dal mondo per ritrovare se stessi
“Non fissarti in un posto, muoviti, sii nomade, conquistati ogni giorno un nuovo orizzonte”.
Leggere questo libro è davvero illuminante. A fine lettura sei ancora lì a rimuginare sui pensieri del protagonista e sei tentato di seguire la sua strada.
Chris McCandless è sicuramente un uomo “con le palle”. Una figura che raramente puoi scordare, una persona che – una volta conosciuta la sua storia – è impossibile non apprezzare.
“Da due anni cammina per il mondo. Niente telefono, niente piscina, niente animali, niente sigarette. Il massimo della libertà. Un estremista. Un viaggiatore esteta la cui dimora è la strada. Scappato da Atlanta. Mai dovrai fare ritorno perché the west is the best. E adesso, dopo due anni a zonzo, arriva la grande avventura finale. L'apice della battaglia per uccidere l'essere falso dentro di sé e concludere vittoriosamente il pellegrinaggio spirituale. Dieci giorni e dieci notti di treni merci e autostop lo hanno portato fino al grande bianco del Nord. Per non essere mai più avvelenato dalla civiltà, egli fugge, e solo cammina per smarrirsi nelle terre estreme.” E’ questa la sua storia, scritta da lui stesso sopra il bus in cui trova dimora lì in Alaska. E’ un ragazzo colto, con lo spirito temprato dallo sport praticato da quando era ancora un lattante e con qualche serio problema nel rapporto padre-figlio. A 21 anni si laurea a pieni voti in Antropologia, dona tutti i suoi soldi alla Oxfam, brucia i pochi dollari che ha in tasca e parte. Parte solo, alla ricerca di sé stesso. Non si cura di nessuno, eccetto della sua anima (e lo testimoniano anche i fedeli libri di Thoreau, Tolstoj e London che si porta sempre dietro). E’ un ragazzo che preferisce il silenzio, ma non esclude le belle chiacchierate. Durante il suo viaggio infatti incontra tante persone, tutte diverse l’una dall’altra, ed è strabiliante leggere che appena due giorni di conoscenza hanno impresso in queste persone un ricordo talmente forte di Chris da provarne dolore. Ma la forza straordinaria del ragazzo sta proprio nell’allontanarsi dalle persone con cui riesce a legarsi (commovente il capitolo dell’anziano signore che guarda Chris come se fosse il suo figlio prediletto): il suo scopo infatti è viaggiare, scoprire sé stesso non nel rapporto con gli altri ma nel rapporto con la natura, quella natura così selvaggia che in più occasioni gli presenterà insidie non indifferenti. Lo scopo del viaggio di Chris è quello di ritrovare la semplicità e la purezza di una vita senza soldi e senza “le abitudini artificiali, i pregiudizi e le imperfezioni del mondo civilizzato”. Unico desiderio è quello della solitudine estrema. Ed è così che Chris parla alla tua anima e ti commuove, ti fa arrabbiare, ti fa sentire un inetto, un sempliciotto. I suoi valori così determinati gli sono costati la vita, e forse è questo che ci allontana dalla virtù: la paura di soccombere. Solo Chris e pochi prima di lui sono riusciti nell’intento di eliminare questa paura. E io vorrei avere una macchina del tempo per tornare a quel lontano ’92. Non di certo per negare a Chris la sua esperienza, pur sapendo come sarebbe finita, ma almeno avrei voluto farmi un’intensa chiacchierata con questo ragazzo così nobile nei valori. Non esagero quando scrivo che per me è un eroe.
E giuro che questo passo sarà il mio stimolo giornaliero per combattere la paura:
“Vorrei ripeterti di nuovo il consiglio che già ti diedi in passato, ovvero che secondo me dovresti apportare un radicale cambiamento al tuo stile di vita, cominciando con coraggio a fare cose che mai avresti pensato di fare o che mai hai osato. C'è tanta gente infelice che tuttavia non prende l'iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l'animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo. Il vero nucleo dello spirito vitale di una persona è la passione per l'avventura. La gioia di vivere deriva dall'incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell'avere un orizzonte in continuo cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso. Se vuoi avere di più dalla vita, devi liberarti della tua inclinazione alla sicurezza monotona e adottare uno stile più movimentato che al principio ti sembrerà folle, ma non appena ti ci sarai abituato, ne assaporerai il pieno significato e l'incredibile bellezza”.
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Combattere, combattere, combattere!
“Questa è la tua vita e va finendo un minuto alla volta”.
Palahniuk centellina frasi del genere praticamente in ogni pagina del libro. Ed è questa la filosofia di vita dei protagonisti: il carpe diem latino in confronto non è niente. Lottare, farsi del male, gustare il sapore del sangue, è questo che serve per arrivare in basso. Non per soldi (“Non tutto ha a che fare con i soldi”), non per gloria o fama, ma per la salvezza dell’anima: l’unico scopo del fare del male e farsi fare male è quello di toccare il fondo per poi riemergere vittoriosamente. Un appunto va fatto senza dubbio su uno dei personaggi più riusciti, Maria, la femme fatale della situazione; autodistruttiva, caparbia e allo stesso tempo dolce, supplichevole e fragile ma testarda: una donna sicuramente a tutto tondo.
Probabilmente Palahniuk ha inaugurato un nuovo stile di scrittura, la cui definizione migliore credo sia “suburbana”: ripetizioni, frasi brevi ma dure come pugni, filosofia psicanalizzata e ambienti lugubremente “pulp”.
Ma c’è qualcosa di inquietante in questo libro, qualcosa che non è la violenza, lo stile a tratti claustrofobico o il meschino sdoppiamento di personalità, no: è qualcosa di più grande, qualcosa di cui non riesco a trovare traccia. In ogni caso è un libro che consiglio di leggere.
Un’esperienza da fare.
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Antologia della Vita e della Morte
Spoon River: un villaggio, un sobborgo, una città.
Una sintesi di anime così diverse tra di loro, ma così somiglianti al tempo stesso. Una raccolta di canti, di ultime preghiere, di ricordi, di elogi, di soliloqui, di imprecazioni, di un paese intero; in cui si intrecciano passato e presente attraverso le voci di padri, figli, mogli, insegnanti, armaioli, contadini, giudici, casalinghe, nonni, avvocati, nipoti, e così via. Forse c’è più vita in queste pagine, che ridanno voce per l’ultima volta ai morti, che in altre opere.
Io sono rimasta sconvolta dall'intensità e dalla bellezza sublime di questa antologia, il cui punto di forza è la semplicità con cui vengono esposte preziose perle di saggezza sulla vita e sulla morte.
Forse questa è la più bella, ma c’è davvero l’imbarazzo della scelta:
“Quando vi sarete arricchiti l'anima
il più possibile,
con i libri, la riflessione, il dolore, la conoscenza degli uomini,
la capacità d'interpretare sguardi, silenzi,
le pause nei grandi mutamenti,
il genio della divinazione e della profezia;
sicché vi parrà a volte di tenere il mondo
nel cavo della mano;
allora, se per l'affollarsi di tanti poteri
entro il cerchio della vostra anima,
l'anima prende fuoco,
e nell'incendio dell'anima
il male del mondo è illuminato e reso intelligibile -
siate grati se in quell'ora di visione suprema
la vita non v'inganna”.
(Jonathan Swift Somers)
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Levità del dolore
Un libro assolutamente commovente.
Sarà che avevo visto il film così poetico ed avevo poche pretese, ma questo libro è stato una rivelazione. Non è la storia di per sè ad avermi toccato le corde dell'anima ma il modo in cui è stata raccontata: non credo che al mondo sia esistita persona più coraggiosa e determinata a Vivere come Bauby.
Incredibilmente sorprendente la sua tenacia.
Leggere questo libro è come annotare sul cuore un monito alla felicità quotidiana: bisogna trovare del bello in ogni cosa che ci succede. Solo così riusciremo a godere appieno della vita.
Solo così.
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Claustrofobia allo stato puro
"In realtà deve ancora nascere il primo essere umano sprovvisto di quella seconda pelle che chiamiamo egoismo, ben più dura dell’altra, che per qualsiasi cosa sanguina."
Se dovessi trovare un unico aggettivo per poter definire questo libro sicuramente avrei problemi. A voi la scelta tra agghiacciante, terrorizzante, profetico, claustrofobico.
La storia è originalissima: una mattina un uomo fermo con la propria auto al semaforo diventa improvvisamente cieco. Questo sarà il destino della maggior parte della popolazione. Una bellissima metafora della vita, come Saramago ci spiega attraverso le parole dell'indiscussa protagonista, la moglie del medico: "Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono."
Ma questa cecità è strana, diversa dal solito: non è nera, è bianca. E rende i nuovi ciechi più spaventati del normale. Non troveremo una cura al male, non stabiliremo perchè si diffonde questa malattia, ma attraverso questo capolavoro entreremo nell'animo umano. Senza formalismi e apparennze, ci scordiamo del colore della pelle, della marca dell'abito, persino dei nomi dei singoli personaggi. Ognuno, da cieco, deve lottare per la sopravvivenza in un mondo di ciechi:"Ci sono molti modi di diventare un animale, questo è solo il primo".
Ed è proprio ciò che si nota in ogni singola pagina: la legge della natura, la lotta e la sopraffazione tra gli uomini non è mai sparita; probabilmente si è manifestata in contesti differenti e in versioni meno accentuate, ma è sempre esistita. Ed è bastato un piccolo/grande avvenimento, come quello della cecità universale appunto, per farlo riemergere. Più potente e distruttivo di prima.
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Frammenti di una storia che poteva essere racconta
Mattia e Alice sono i risvolti della stessa medaglia, sono due esseri che vivono solamente completandosi a vicenda. Più che vivere però, riescono a sopravvivere. Tra dolori, paure e un segreto che li accomuna, i protagonisti crescono insieme cercando di farsi forza vicendevolmente. Ma non sempre ci riusciranno.
Un libro che vorrebbe essere di grande impatto, spezzettato in episodi significativi che riducono la vita dei protagonisti alle esperienze più importanti. Un libro fatto di gesti cruenti, immagini deboli e suoni sfuocati che ci accompagnano in un triste epilogo che tuttavia riesce a lasciare aperte le porte alla Signora Speranza.
A me non è piaciuto: lo stile non è un granchè e la storia è fin troppo frammentaria, infatti mi ha lasciato l'amaro in bocca. Troppo facile citare gli episodi e poi non concluderli. E non mi interessa la storia del "poi tocca a lettore immaginare". Non così, non in questa maniera.
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La bellezza di chi crede ancora nell'Italia ci mos
Commentare Saviano è difficile, per me.
Più di Flaubert, Hugo, Fogazzaro o Svevo. Perché non è un classico, è moderno. Perché parla di me, di chi legge questo commento, di tutti noi. Perché è contemporaneo e, come tale, scrive delle brutture che mi circondano. Ma non solo: il suo potere è infatti quello di riuscire a tirare fuori l’incantevole, persino in terre come la mia e la sua, famose per la loro bellezza e la criminalità. Ed è questo che corre nel libro-raccolta di Saviano: il binomio tra potere e volere, tra sorrisi e lacrime, tra orgoglio e sottomissione, tra sabbia dorata e una montagna di rifiuti. Tra bellezza e inferno.
E’ difficile commentare Saviano. Forse perché Saviano non è uno scrittore di genere, perché è impossibile incasellarlo dentro tristi definizioni prestabilite. Forse perché lo considero un po’ un piccolo grande eroe, capace di far rinsavire anche le menti più pigre e ignoranti. Lo vedo come un Superman dei tempi moderni: niente tutina blu e rossa, niente mantello, nessun volo di perlustrazione, niente S cucita sul petto. Ma abiti moderni, il potere di informare i disinformati, una grossa V di Verità stampata nel cuore. E proprio il suo cuore, così grande, è quello che traspare attraverso ogni singola parola. Ciò che colpisce di questo grande giovane autore è la capacità di non soppesare le parole per imboccartele col cucchiaio, no: lui le spara dritte, potenti, colpendo lo stomaco e tatuandole nella mente.
Il problema infatti non risale alle sue parole: bellissime, toccanti, oltremodo potenti. Il problema sono i fatti: gli uomini che campeggiano sui suoi articoli esistono realmente, come realmente esiste la sua solitudine, l’isolamento forzato e in un certo senso dovuto. Mi dispiace leggere, da lui e da altri, che dopo “Gomorra” certe "organizzazioni" (passatemelo per eufenismo), certe mentalità.. quasi niente è cambiato.
C’è solo un dolore che si aggiunge agli altri, insopportabile: la voglia di lacerare questo omertoso silenzio da parte di un ragazzo le cui ali sono state maledettamente tagliate.
Ma io so che lui troverà un modo per volare in alto ancora. Di nuovo tra noi.
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Unica 'opera letteraria' di Baricco
"Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non é abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio".
C’è poesia in Baricco, una poesia travestita da prosa. Una poesia che scuote gli animi, li rinvigorisce e li disseta. Non capisco perché alcuni sostengono che Baricco sia un furbetto, un abile mescolatore di parole che nella sostanza non dice nulla. Bhè, a me ha detto molto. E lo ha fatto in un maniera così elegantemente innovativa che mi ha spiazzato. C’è una musicalità nelle sue parole da togliere il fiato. C’è un progetto, dietro gli eventi apparentemente scollegati, incredibile. C’è salsedine, di quella che quando finisci di farti la doccia, continui a sentirla sulle gambe, nelle braccia, nel volto. E non puoi toglierla via: non puoi perché non vuoi, lei è un segno semi-indelebile dei momenti in cui sei stato vivo. Là, in mezzo al mare. All'oceano mare.
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La nausea del mondo e degli altri
Ma questo libro l'ho scritto io e parlo di qualcuno che mi assomiglia, o l'ha scritto qualcuno che mi assomiglia e parla di me? Il confine è labile.
“La nausea” non è di certo il classico romanzo: nonostante sia un diario, non v’è una trama vera e propria. Il protagonista è l’antieroe per eccellenza: Antonio Roquentin, un intellettuale, uno scansafatiche, uno scrittore, un debole, un artista, chissà. E come si fatica a descrivere il protagonista, così non si potranno leggere lucidamente i fatti all’interno del libro: una volta iniziata la lettura, questo libro catapulterà il lettore in un vortice di riflessioni filosofiche che gli sconvolgeranno l’esistenza. Come a dire, leggi “La nausea” e non sarai più lo stesso.
Io ho finito di leggere “La nausea” da un paio d’ore e mi ritrovo ancora all’interno di questo vortice senza fine. Mi gira la testa, mi sento in colpa. Mi sembra di impazzire ma al contempo tiro un sospiro di sollievo, perché qualcuno forse comprende le mie sensazioni. Mi sento meno sola, ecco.
Antonio non è un eremita né un misantropo, eppure non riesce a inserirsi nella società borghese –ch’egli ritiene senza ragione di vivere – come tutti gli altri. Già, gli altri; Antonio ci riflette su e... più vorrebbe essere normale, condividere pensieri scialbi e condurre una vita insulsa, più ripugna questa omologazione che lo porta ad avere una totale sensazione di non-appartenenza al genere umano. “Mi sembra di appartenere ad un'altra specie. Escono dagli uffici, dopo la giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con aria soddisfatta, pensano che é la loro città, una bella città borghese. Non hanno paura, si sentono a casa propria. Che imbecilli. Mi ripugna pensare che sto per rivedere le loro facce solide e rassicurate “.
E’ la nausea che lo spinge a sentirsi in qualche modo diverso, una sensazione che deriva dalla sensazione che la vita, essendo assurdamente vuota, è priva di un senso vero e proprio. E così vive la sua solitudine senza paura, riflettendo sull'inutilità dell'esistenza e lasciando una sorta di positiva percezione di un lontano coraggio che alla fine trova anch’egli il modo di possedere, il coraggio di vivere la propria vita.
Per quanto mi riguarda, questo libro è dovuto diventare il mio preferito: m’ha cambiata, rasserenata, incuriosita, terrorizzata. E se ha fatto tutto ciò, allora è il migliore libro che sia stato mai scritto.
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Terrorismo psicologico
E dopo aver divorato “Misery” capisco perché Stephen è davvero il re. Stile denso, profondo, aguzzo e determinato.
Ma il mio elogio non è allo stile. La mia stima verso questo Scrittore è maturata notando la grande manovra psicologica dietro ogni singolo personaggio. Come si fa a scrivere di un uomo e una donna praticamente in una sola stanza senza far annoiare il lettore ma anzi facendogli venire gli incubi? Solo il magistrale King ha saputo farlo. E non esagero quando dico che io stessa nel periodo in cui ho letto “Misery” ogni notte mi sono svegliata di soprassalto.
Il personaggio di Annie è fascinante quanto pericoloso: credo sia uno dei più riusciti personaggi ‘vivi’ sulla carta stampata, il che la dice lunga sulla tensione che si crea dalla prima frase e che corre viva attraverso il libro. Il problema è che non si conclude neanche a lettura finita.
Ho adorato anche lo scandire del tempo attraverso i capitoli: alla fine del libro diventano sempre più piccoli, come a sottolineare – appunto – l’azione frenetica della scena.
Un King che mi ha stupito. Un King che mi ha scosso. Un King che mi ha lasciato in apnea. E ancora deve tirarmi fuori.
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Del razzismo e ciò che gli gira intorno
E quando un avvocato molla il suo lavoro per scrivere, è tutto dire. E quando questo ex-avvocato con il primo libro scritto vince il premio Pulitzer, è davvero tutto dire. E quando l’autrice vince una medaglia per il libro, che è stato definito “un dono per il mondo intero”, non c’è nulla da aggiungere.
Ho amato “Il buio oltre la siepe”. Questa donna, Harper Lee, è una donna con i contro*****. Non per il tema affrontato (il razzismo), ma per il modo in cui l’ha fatto: attraverso la parlantina di Scout, la giovane figlia dell’avvocato, veniamo immersi nell’America anni 20 piena di odio e di rancore (qualcuno deve poi spiegarmi del motivo di tutta questa cattiveria umana) nei confronti dei cosiddetti “negri”. Il libro si svolge un po’ come un giallo, un po’ come un saggio, un po’ come pura opera di narrativa. A tratti doloroso, a tratti pungente. Ma la lettura non stanca mai.
Sono pienamente d’accordo con chi sostiene che questo debba essere uno dei ‘must’ di ogni libreria. Solo un piccolo appunto: consigliato ai ragazzi? Lo farei leggere alle scuole medie? Assolutamente no. Prima i grandi. Sono loro quelli che devono imparare veramente ad amare il prossimo.
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Povera Italia...
C'è questa mia amica che mi telefona per dirmi che ha deciso di mollare tutto e di partire per l'Inghilterra e che ha preso questa decisione leggendo "Un posto nel mondo". 'Addirittura!', ho pensato. E leggiamolo và.
Ma Volo non mi è mai piaciuto, nè in tv nè su carta stampata. E infatti anche stavolta ha fatto cilecca. Gran paraculo. Io magari ci credo che è piaciuto a tante persone, ma queste persone non hanno mai letto veri libri, secondo me. Queste persone si accontentano di poco, secondo me. Ed elogiano la sufficienza, sempre secondo me.
Se qualche contenuto poteva esserci.. bhè il potenziale (?) non è stato messo in atto. Per cui Volo è un gran paraculo.
E sapete che forse forse è meglio Moccia? Andrò contro il giudizio nazional-popolare.. ma viste anche le vittorie degli ultimi Sanremo, meglio così.
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Un gioiellino della letteratura americana
Un piccolo gioiello.
Un racconto breve che sazia ogni tipo di appetito.
La caratterizzazione di Holly è qualcosa di superbo. Questa donna-bambina o si ama o si odia. E io l'ho amata.
Forse questo è uno dei rari casi in cui una trasposizione cinematografica si discosti in parte dal libro ma sia comunque stupenda. Il libro è più bello, però. Ha quel fascino particolare, quel sapore di non detto ma capito.
Capote ha senza dubbio colto nel segno!
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Genialità e umorismo: connubio perfetto!
Quante volte per un autore si può usare l’aggettivo “geniale” prima di sembrare un’adolescente in piena venerazione?
Io amo Gaiman. Lo amo. E neanche questa volta mi ha deluso.
Mi è piaciuto il momentaneo abbandono delle tinte ‘dark’ per un lavoro a quattro mani che entra di diritto tra i capolavori dell'umorismo inglese. Le situazioni come al solito sono geniali: a renderle vive (paradossalmente!) è l’umorismo sottile, questa comicità intelligente che ci fa riflettere sui mali della nostra società e sugli stereotipi religiosi attraverso una scrittura così divertente e frizzante da poter pensare di affibbiare un solo aggettivo per Gaiman: geniale.
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Leggerezza costruttiva
Adoro quella categoria di scrittori che riesce a rendere la parola leggera e umoristica ma importante. Benni fa sicuramente parte di questa categoria, e "Saltatempo" ne è l'esempio probabilmente più lampante.
Come al solito, non mancano i neologismi e il surrealismo più reale che ci sia.
"Saltatempo" è un romanzo di formazione, senza alcun dubbio. Non solo perchè assistiamo alla crescita fisica e intellettuale del protagonista Lupetto/Benni ma anche perchè il Lettore ne trae spunti per la vita reale.
Grandissima la descrizione degli anni '50 e '60. Benni è riuscito a farmi venire di nuovo la voglia di vivere il '68. O di farne uno tutto mio. Grazie.
"C'è gente che dice che vuol lottare e poi confonde il fischio d'inizio della partita con quello dell'ultimo minuto, e va a casa"
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L'alidilà di una quattordicenne uccisa
Si sa, certi libri piacciono perché si leggono nel momento ‘adatto’.
Ora, io non so quale momento sto vivendo, so soltanto che questo libro mi ha spiazzata.
Devo dire che ha creato dentro me sentimenti ambivalenti: infatti ho dovuto aspettare un paio di giorni di decompressione per poterlo recensire.
La storia, se si vuole, è semplice: Suzanne – Susie per gli amici, e quindi anche per il lettore – ha 14 anni quando viene violentata e uccisa. La sua famiglia e gli amici ne resteranno sconvolti e dovranno affrontare la vita con la sensazione di vuoto creata dall’assenza della ragazzina.
Le fasi del lutto però non vengono affrontate in maniera classica, né tantomeno si legge da un punto di vista canonico. A parlare è la stessa Susie, costretta a condividere con il lettore la sua metabolizzazione della morte e quella dei suoi cari.
Di per sé neanche questo può sembrare a prima vista un elemento ‘straordinario’, eppure se ci si riflette su vengono i brividi a fior di pelle. Una ragazzina vede la sua vita finire per colpa di un maniaco sessuale ed è obbligata a guardare sulla Terra come si comportano le persone che ha amato. A me è venuta l’ansia, parlando francamente.
Ho proprio vissuto quel che viene definito ‘Turbamento’: a letto prima di addormentarmi ho addirittura dovuto leggere altro, chè gli incubi sennò erano dietro l’angolo.
Perché quando sfogli le pagine hai la sensazione che non siano i tuoi occhi a leggere le parole ma che accanto a te ci sia Susie a raccontarti la sua storia sussurrandotela nelle orecchie. Perché il racconto procede disincantato e l’amarezza sale ad ogni pagina. Perché il libro ha un che di maledettamente poetico e di delicato, ma allo stesso tempo è aspro e psicologicamente violento.
Forse l’aggettivo migliore per descriverlo è ‘crudo’, una crudezza non delle parole ma delle intenzioni delle parole.
Particolarmente interessante mi è sembrata anche l’idea della Sebold del Paradiso: ognuno ha il suo, creato a immagine e somiglianza dei nostri desideri terreni. Mi è sembrato un particolare così tenue e dolce da farmici abituare all’idea. Niente nuvole bianche né musica celestiale come sottofondo: d’oggi in poi mi immaginerò il Paradiso come uno spazio dedicato totalmente a me. Come quello di Susie, del resto: il gazebo, il cane, il nonno. Un Paradiso più ‘a portata di mano’ e meno colorato e new age del film di Jackson, che tanto mi era piaciuto.
In definitiva ‘Amabili resti’ è entrato nella rosa dei libri preferiti. Ma non so se mai avrò il coraggio di riprenderlo in mano. La lettura mi è sembrata così emotivamente stancante (l’ultima frase ad esempio è talmente semplice che mi ha tolto il fiato e regalato un fiume di lacrime) che probabilmente farò prendere un bel po’ di polvere al tomo prima di sfogliarlo di nuovo.
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Crudezza non richiesta
Mi è difficile recensire Bukowski.
Vedo in lui una potenziale innovazione spesa per le cause più inutili.
Per cui mi sa che sta per partire una recensione altamente femminista e conservatrice.
Avrò molto da criticare sui contenuti, perciò parto subito dallo stile: sgradevole e a tratti indisponente. Innanzitutto occorre dire che questo non è un romanzo, ma una raccolta di racconti che in partenza dovevano essere organici tra loro. Per me non hanno ragione d’esistere: voglio dire, un inizio inutile (ho letto in giro, c’è chi parla di racconto visionario e profetico, mah) è perfettamente legato ad un finale al di sotto della mediocrità. Poi non ci posso far niente, amo le novità (come ad esempio i neologismi di Benni) ma la grammatica non si può modificare. Virgole inesistenti, discorsi che iniziano con un soggetto e finiscono con un altro (quando finiscono, ovviamente), carattere minuscolo dopo il punto… è l’inferno per me. Per quanto mi riguarda, lo stile di Bukowski è irritante e irritato.
E già questo è servito a indispormi.
Ma parliamo del vero ostacolo che mi ha reso la lettura oltremodo sdegnata. I contenuti.
Le storie hanno dell'incredibile, ma un incredibile troppo sfrontato e irreale.
L’elemento principale è il sesso, ben descritto e accompagnato da parolacce ed espressioni poco fini. Io capisco tutto: la Beat generation, l’anticonformismo, l’underground ma c’era bisogno di tutto questo ‘baccano’? Il sale all’interno della lettura è ben accetto, ma quando è troppo è troppo. Non voglio passare per la santerellina che viene sconvolta dalla lettura delle parolacce, ma dopo un po’ diventano fastidiose.
Altro argomento ricorrente: l’alcolismo. Un racconto ogni tanto ci sta, ma far gravitare tutto sempre intorno ad un bar ed una bottiglia di rum è stancante.
Per non parlare della figura della donna: un tantino misogino, il Buk. Per lui siamo pazze, esseri nati per servire l’uomo in tutto e per tutto, per non parlare e non pensare, per essere tradite, picchiate, violentate a piacimento. Ovviamente se l’essere in questione ha un bel culo. In caso contrario, adios: razza da non considerare. Perfetto, ci hai preso eh! Siamo esattamente così!
L’eleganza o si ha o non si ha: e Bukowski non solo non l’aveva, ma non voleva neanche averne. E’ questo quello che mi disturba di più.
Potrei andare avanti, ma mi sale il nervoso e preferisco tacere.
Perché ho continuato a leggerlo e non l’ho abbandonato? Volevo capire. Capire perché c’è tutto questo gran parlare di lui, perché è così letto, perché è così adorato. L’ho letto tutto. E non l’ho capito.
Oh, non m’è calato. Che posso farci?
Lapidatemi.
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Tristezza della mediocrità
Mai letto De Luca.
E dirò... non mi sono persa granchè.
La scrittura è lieve, talmente lieve che a volte si perde.
La trama, o meglio la storia di fondo, è inconsistente e poco affascinante.
Tutto sommato però non c'è una grande critica da fare. Perchè le descrizioni sono ben fatte e il 'libro' si legge talmente rapidamente che non ti lascia la sensazione di aver perso tempo prezioso. Per cui senza infamia e soprattutto senza lode.
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Immensità irraggiungibile
Incenerita. Questo libro mi ha totalmente incenerita.
E’ uno dei libri più belli – che aggettivo squallido per un libro di tale spessore – che abbia mai letto.
Leggere “Notre-Dame de Paris” è come provare le sensazioni che più ti fanno sentire viva: sentire il cioccolato sciogliersi in bocca, sorridere senza motivo, amare senza un perchè.
Inutile provare a presentare la trama: chiunque la conosce. Sarebbe come tentare di sorprendere qualcuno tentando di raccontare la fine di ‘Romeo e Giulietta’.
Ciò che mi ha sbalordito è che il genio di Hugo è riuscito a comporre l’intera trama su un’unica parola, scoperta dall'autore stesso nello scuro recesso di una delle torri della Cattedrale: “??????” (fatalità). Questa parola greca incisa nel sasso colpì talmente Hugo che lo spinse ad indovinare quale poteva essere stata la mano medioevale che l'aveva tracciata:
"L'uomo che la tracciò su quella parete è da vari secoli scomparso dal flusso delle generazioni; la parola è, a sua volta, scomparsa dal muro della chiesa; la chiesa stessa scomparirà forse, fra non molto, dalla faccia della terra".
Leggere Hugo è come fiondarsi in un marasma di ironia, profondo umorismo, lacrime, compassione, dolore. E’ imbattersi contro le mura di una Cattedrale alta e possente. E’ leggere e voler capire, sentire di poterlo fare, comprendere di non riuscire a farlo fino in fondo. E così si consigliano 4, 7, 9 mila altre letture. Perché la prima non basta, non perché non se ne ha l’intelligenza, ma perché la lettura è talmente frastagliata e misteriosa che si VUOLE leggerlo ancora. E ancora. E poi ancora.
Della saggia scrittura di Hugo ho amato talmente tanto che una recensione non basterà ad elencare ciò che ha illuminato i miei occhi. Mi limiterò per cui a citare pochi elementi.
La forza dirompente della sua descrizione: c’è gente che dice in giro che certi capitoli sono noiosi. Orrore! Quei capitoli sono l’essenza del libro stesso: le descrizioni di Parigi, della Cattedrale.. sono semplicemente essenziali per immergersi nella frenesia della società parigina di fine medioevo.
Le caratterizzazioni psicologiche. Assolute e complete sin nel minimo personaggio di secondo.. che dico, terzo piano.
Le storie dentro la storia che poco hanno da invidiare alla Monaca di Monza del coetaneo Manzoni.
Tiene alta l’attenzione del lettore chiamandolo in causa per ridestarlo dal torpore letterario. Un genio. Un genio.
L’incredibile descrizione dell’innocente e bellissima Esmeralda, del fedifrago Febo, di Quasimodo, la creatura mostruosa e incapace d’essere amata. E soprattutto i moti interni e divergenti di Claudio Frollo. Uno dei personaggi più contorti e veri e strazianti della letteratura moderna.
Tutto. Hugo ci infila di tutto, dentro IL libro. Amore, morte, nostalgia, senso della vita. E non aggiungo altro.
La storia è un susseguirsi di eventi narrati in una maniera così delicata e aggressiva che solo la competenza di uno scrittore come Hugo poteva partorire.
Il capoverso finale è straziante. Ho i brividi a parlarne.
E il libro così si presenta reale ma ideale, liricamente popolare, perfetto, inimitabile.
Un capolavoro immenso come la cattedrale.
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Inquietudine istruttiva
Inquietante.
Certi silenzi, certi sguardi così ben descritti, certe tensioni mi hanno messa a disagio. Soprattutto perchè ad esserne protagonisti sono dei bambini, che si trovano di fronte al Paradiso. Che possono scegliere di non assaggiare la mela del Bene e del Male ma che la addentano. E più di una volta, per giunta.
Golding ha saputo dimostrare come la Libertà non è la massima aspirazione cui deve ambire l'uomo. Perchè ad essere liberi - veramente liberi - si fa del male, a sé stessi e agli altri.
Mettere dei ragazzini di fronte a qualcosa di più grande di loro e studiarne le reazioni, è geniale e insano allo stesso tempo, perchè certe scene non aiutano di certo la digestione.
Non so ancora se il libro mi sia piaciuto o no. Quel che è certo è che ciò che mi verrà in mente d'ora in poi sentendo parlare di Golding saranno questi due termini: cinismo puro.
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Per dare una risposta ai propri quesiti
Per affrontare pagine del genere ci vuole stomaco e nervi saldi.
Perché ci si trova di fronte ad un libro claustrofobico, perché è una parabola su Dio e sul binomio vita/morte, perché certi passaggi sono difficili da digerire.
Un libro pregno di tematiche forti che si contraddistingue per la povertà di ambientazione e di personaggi. E’ infatti impostato su un dialogo tra due sole persone, completamente diverse per estrazione sociale, cultura e forma mentis; a testimoniarlo il nome stesso degli interlocutori: il Bianco e il Nero.
Il dialogo viene ‘registrato’ quando già è stato incominciato ed è difficile inquadrare gli argomenti principali. Si parla di vita, di morte, di suicidio, della libertà, di concezione del mondo, di Dio, di religione. Tutto questo ed altro, visto da due prospettive che seppur diverse paiono sempre più chiaramente i risvolti di una stessa medaglia.
L’ironia qua è fine e certe frasi sono bombe, molto più che aforismi. E anche se a volte si scende in stereotipi, il livello dell’opera non si abbassa. Ciò che mi ha colpito è lo stesso McCarthy, che come un cronista riporta fedelmente il dialogo tra i due ma non prende mai posizione e ci concede un finale assolutamente non scontato e ricco stimoli.
Da riprendere in mano e rileggere più volte. Di certo una sola lettura non basta, se si vuole cogliere l'intero spirito del libro e capire qualcosa in più di se stessi.
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Una rivisitazione dignitosa
Nel Vangelo – quello vero – Maria è una ragazza inondata dallo Spirito Santo che partorisce Gesù Bambino. Punto. Non è dato sapere il ‘prima’ né tantomeno il ‘dopo’.
Sarà Barbara Alberti, circa duemila anni dopo, a darci la sua versione della crescita spirituale e morale della ragazza grazie alla quale il mondo intero è cambiato (o avrebbe potuto, visti i risvolti).
L’affresco offertoci dalla scrittrice umbra può sembrare audace, e lo è se si legge nella versione latina della parola, proveniente dal verbo ‘audeo’ (cioè ‘voler risolversi ad un’azione’). Non è, perlomeno non per me, un libro irriverente o insolente. E’ un libro che smuove, ma che lo fa in maniera intelligente e con un ritmo incalzante e a tratti soave.
Un libro fatto più di poesia che di prosa: è molto musicale, ci sono parecchie rime e manca in alcuni passaggi la punteggiatura che avrebbe rotto il flusso del racconto.
C’è un critico letterario – non chiedetemi il nome, non me lo ricordo – che ha studiato l’importanza della frequenza della congiunzione ‘e’ nell’opera leopardiana e ne ha spiegato il vitale valore ne “L’infinito”. Ora, non è che sia ammattita tutto d’un colpo e voglio paragonare l’Alberti a Leopardi… ma c’è un brano, precisamente quello dell’Annunciazione, in cui v’è ripetuta costantemente la congiunzione ‘e’. Ed è in questa anafora che è contenuta la forza della Alberti e di questo ‘Vangelo secondo Maria’, che si articola su più dimensioni: quella del reale, della visione onirica, del piano simbolico e di quello profetico.
A me questo vangelo moderno m’è piaciuto, e non per il semplice gusto di voler andare contro, ma perché ho notato più sostanza qua che in tanti altri libri pubblicati al giorno d’oggi tutti messi insieme.
La promozione del libero arbitrio e dell’indipendenza femminile sono affrontati in maniera diversa, e sinceramente non ho ancora capito perché il diverso fa così paura. Che la Alberti continui per la sua strada e i bigotti se ne stiano a casa loro, grazie.
“Ho quattordici anni. Il mio corpo e la mia capacità di capire crescono ogni giorno in armonia, ma devo stare attenta: a non farmi contagiare dal dolore impresso su ogni volto, come il marchio di una colpa indimenticata. Alle fanciulle non si addice far domande; ma io, a tutti quelli che incontro vorrei chiedere se hanno scelto il loro destino, o se una strada come questa del villaggio li ha inghiottiti senza lotta”.
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Un testo per l'ennesima volta coraggioso dall'eroe
Eroe personale, eroe nazionale. Dategli il premio Nobel per la Pace e quello per la Letteratura, per favore.
Più leggo Roberto Saviano e più mi sembra che sia diverso dagli altri. Non è la sua voglia di portare a galla la verità, non è il suo senso di giustizia che trapela in ogni intervista, è la luce che ha negli occhi quando parla. E’ il suo modo di sacrificarsi per il bene comune. E’ il suo modo di dire la dura, durissima verità ma di farlo con il sorriso, tipico di un uomo che spera e sa che la situazione si può cambiare. Basta volerlo.
Ed è qui che entra in gioco la sua ultima pubblicazione. Che parla certamente di camorra, ma che non è essenzialmente il fulcro del libro. Il tema centrale è il potere della parola.
Della sua parola.
Senza arroganza, Saviano ci spiega perché i suoi articoli, le sue interviste e soprattutto la sua ‘Gomorra’ hanno scatenato il panico all’interno del sistema camorristico.
Perché si può eliminare fisicamente Saviano, ma ormai tutti sanno. Puoi eliminare chi sparge la voce, ma non quella voce.
Perché grazie a lui determinati concetti - anche ripetuti fino alla nausea (e questo lo sa chi lo segue giornalmente) – sono diventati un tatuaggio sulla pelle, si sono sedimentati e li abbiamo fatti nostri.
Parlo al plurale, forse sono ottimista. Ma sono convinta che presto tutti più o meno grazie a lui formeranno una coscienza tale da cominciare a lottare davvero contro la realtà della mafia e i suoi affini.
Perché anche se abiti in Trentino non sei immune. Perché anche se vivi in Germania non sei salvo da questa realtà, ahimè, dilagante. Dovremmo essere tutti uniti contro la stessa malattia sociale.
Non dovrebbe solo Saviano a farlo. E quando leggo una frase come questa, mi viene voglia di mollare tutto e cominciare a fare lo stesso lavoro di Roberto: “e tu, perché non racconti?”.
Ancora non racconto, ma ho voglia di farlo. E sono sempre più convinta che Saviano vada necessariamente introdotto come libro di testo fin dalle scuole elementari.
“Ogni lettore che fa sua una storia, ogni lettore che protegge un libro, che osserva, che ascolta, sta facendo moltissimo. Sta facendo moltissimo perché permetterà a quell'autore di continuare a lavorare e soprattutto contribuirà a diffondere le sue parole, a renderle strumenti pericolosi. Anche criticando, anche non condividendo, anche facendone semplicemente argomento di discussione, farà si che le tante vicende avvolte dall'ombra possano diventare invece storie degne di essere raccontate, che i tanti morti diventati semplicemente un numero possano tornare ad essere persone, che i molti sogni rimasti a margine, possano tornare a essere possibilità reali."
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La scrittura diventa Arte in una storia che parla
Lolita. Un libro che generò scandalo alla pubblicazione per i contenuti scabrosi che la società (con un finto moralismo più irritante del solito) vi trovava nella trama esplicita, che richiamava la pedofilia.
Per me “Lolita” è ben altro. E’ innanzitutto la prosa elegantissima di un Maestro della Parola. E’ l’arte scritta che si rivela. E’ umorismo della sensualità ed è la sensualità dell’umorismo. E’ abile maestria: nonostante lo scandalo che produsse, le pagine del libro infatti non contengono neanche una descrizione sessuale; ed è questo, credo, il pregio più alto di Nabokov, saper parlare di ogni tipo e forma di amore e di farlo con la morale adeguata, senza perversioni di alcuna sorta.
Fin dal primo rigo mi sono immersa negli spasmi e nelle ‘impurità’ di Humbert Humbert, un personaggio che vive e si muove da solo, che ha senso di esistere e che non può non entrare nella storia della letteratura. E forse non esagero se scrivo che sarà immortale.
E la sua Lolita. Amara, dolcissima, furba-ingenua Lolita. Ma dimmi, sei esistita davvero? E’ mai esistito un singolo particolare della tua figura letteraria? Esisterà mai più un’altra parola, come il tuo nome, che conterrà tutti i significati del mondo e i suoi contrari? Questo è davvero uno dei personaggi femminili più enigmatici della letteratura. Che prorompe nelle sue modeste descrizioni, che riesce a far sentire le sue urla mentre scappa in bicicletta, che è capace di far sentire il suo afrore mentre gioca con grazia a tennis.
A momenti viene voglia di giustificare Humbert. Eppure non sta al lettore giudicare questa raccolta di “idilli amorosi”. La storia parte come un guazzabuglio di sentimenti e riesce a dipanarsi da sola.
E’ vero, questo libro non parla di una storia d’amore. Parla di un rapporto (in tutti i sensi) che lega un uomo e una bambina. Ed è un rapporto che viene vissuto come un sentimento amoroso, casto e puro: il genio di Nabokov, ancora una volta, si insinua nelle nostre menti e riesce a farci cedere alle lusinghe di Humbert, a farci credere che in fondo quel che i due protagonisti assoluti stanno vivendo è qualcosa di ‘naturale’. E quando uno scrittore manipola la mente del lettore in questa maniera, pur chiamandolo sempre in causa, pur facendolo mettere sull’attenti, pur elogiando la sua intelligenza, è proprio in quel momento che la scrittura diventa Arte Pura.
E quest’arte, districata con tanto ingegno, si rivela in ogni pagina, in ogni sussulto, in ogni singolo capoverso che lega il lettore alla schiavitù della lettura.
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Argh!
Non sono per le categorizzazioni e non faccio parte di coloro che sostengono che se Faletti è un attore, allora è meglio che resti su un palcoscenico.
Non farò una feroce critica di questo libro, che sostanzialmente non mi è piaciuto.
Perché qualcosa di interessante, questo “Io uccido” ce l’ha. Ed è nella sua stessa intrinseca natura di giallo: è ben architettato (nonostante alcuni passaggi ridicoli) e, come tutti i gialli che si rispettano, non mi sarei mai immaginata (se non a 200 pagine dalla fine) chi fosse l’assassino.
Punto, fine degli elogi. A coinvolgere (o perlomeno, a convincerti a finire il libro) è solamente la trama e assolutamente NON lo stile, abbastanza piatto e prevedibile (vedi ad esempio un’Agatha Christie che suscita tensione con una semplice descrizione). Di prevedibili ci sono anche i personaggi, la cui caratterizzazione spesso scende a compromessi con dei clichè (il poliziotto assetato di giustizia dopo la morte della moglie? Maddai?!?).
Mi ha fatto storcere il naso anche l’imbarazzante motivazione psico-sociologica per i crimini scellerati del serial killer che Faletti si è palesemente imposto di offrire al lettore.
Sono 700 pagine che potevano benissimo essere condensate in 300. (In teoria, sarebbe stato un libro da non pubblicare, ma mi ero ripromessa di essere clemente con Faletti..).
Non è il libro più orribile che abbia mai letto, ma con Faletti finisce qua.
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IL libro
«Questo libro è un dramma che ha l’infinito come personaggio principale. L’uomo è il secondo».
Vorrei iniziare questa recensione con qualcosa che colpisca il lettore, con qualcosa che lo incolli a questa pagina e gli faccia comprendere quanto fondamentale è il libro che ho appena finito di leggere. Ma mi sento svuotata di belle parole, come se solo Hugo fosse in grado di partorirle, e mi sento orfana di pagine che non dimenticherò, pagine che racchiudono una storia indelebile raccontata con una voce soave e sibillina. Mi sento triste per gli accaduti raccontati e per la sorte dei personaggi che in questo arco di tempo – di lettura – sono diventati miei compagni di viaggio.
Avrei voluto fare un commento lucido, analitico e critico di questo Romanzo. Avrei voluto, ma non ci riesco. Non con in testa ancora il ronzio della voce di Hugo. E non sto qui a presentarvi la sinossi, sarebbe troppo riduttivo. Perché dentro la penna dello scrittore francese c’è il mondo, ed è proprio quello – nella sua interezza – che egli è riuscito a riversare su carta. Potrei parlarvi delle piccole perle di saggezza ed eleganza descrittiva sparse nel testo; potrei citarvi quel lunghissimo elenco di vere piccole perle sull'animo ed il comportamento umano (sulla zia di Marius: "Era triste di una tristezza oscura di cui non possedeva ella stessa il segreto: c'era in tutto il suo essere lo stupore d'una vita finita che non è mai cominciata"); potrei elogiare gli ottimi dialoghi: nella “Repubblica”, Platone sosteneva che il modo mimetico della narrazione è quello che riporta i dialoghi in modo diretto, ed è un modo pericoloso, perché al lettore gli si confondono le idee e non capisce se a parlare è lo scrittore o direttamente il protagonista. Con Hugo Platone ha maledettamente ragione, sia sulla lettura che fa scomparire la presenza di terzi incomodi, ché esistono solo il lettore e i protagonisti che parlano direttamente al suo cuore. Sia sul fatto che lo scrittore sia pericoloso.
“I miserabili” uscì in due parti, e la stampa non tardò ad attaccare aspramente l'opera, che venne giudicata troppo favorevole e celebrativa dei moti rivoluzionari. E divenne un libro tanto ‘pericoloso’ quanto letto in tutto il mondo. Un libro con così tanti argomenti, politici sociali morali filosofici e psicologici, e così sapientemente mescolati, che mi stupisco della sua esistenza. Perché “I miserabili” è un’enciclopedia della vita: si legge dell’amore in tutte le sue sfumature, della morte, del coraggio, del mistero, della lealtà, dell’inganno, del rispetto, della cattiveria.. e l’elenco potrebbe non finire mai. Si leggono le posizioni moderne di Hugo rispetto alla pena di morte e alla finalità rieducativa della pena, oppure della schiavitù delle donne ridotte a prostituirsi, ad esempio, oppure ancora sui moti rivoluzionari ("Fra la logica della rivoluzione e la sua filosofia, c'è questa differenza: che la logica può condurre alla guerra, mentre la filosofia non può condurre che alla pace"); e poi ci si cala nel vivo della storia e in particolare nell'intimo di ogni personaggio, tanto da farci scordare che stiamo leggendo un libro del XIX secolo. Pagine liriche ed eccelse, con immagini intense che scuotono l’anima del lettore si alternano a capitoli interi sul gergo parigino, l’argot, o di descrizioni minuziose dei quartieri parigini o della battaglia di Waterloo. La magistrale scrittura di Hugo si rivela per quel che è: come un giallista che si rispetti, anzi addirittura meglio dei giallisti, ci dimostra che nelle sue pagine nulla è lasciato al caso, che niente è superfluo ma tutto è essenziale nelle sue parole, anche quando sembra che si dilunghi fin troppo su particolari 'inutili'. Pagine in cui non si esime nel fornirci i suoi pensieri di denuncia sociale, che possono benissimo essere riassunti nella frase “L’unico pericolo sociale è l’ignoranza”; e su quelli politici: limitare la povertà senza frenare il benessere, oppure aumentare il salario e diminuire la fatica, oppure ancora la considerazione sul lavoro, che non può essere una legge senza essere un diritto.
Nel capitolo IX del libro V si legge: 'Ci sono molte di queste virtù in basso; un giorno saranno in alto'. E’ questo il principio che sta alla base del progetto “I miserabili”. Un progetto che contempla la caduta di molti miserabili, il più importante dei quali è decisamente Jean Valjean, e la volontà di risalire in alto. Per dimostrare di essere forti d’animo e pronti a soffrire per stare bene. Perché mentre si legge, si incontra gente come i Thénardier, che sono esattamente l'incarnazione del Male che deriva dall'Ignoranza. Si leggono di discese sociali che purtroppo (conseguentemente?) vanno a coincidere con quelle morali. Grandissime pagine in cui Hugo si dimostra ben capace – con la sua solita maestria nell’uso delle parole – di descrivere “quel po’ di tutto” che “ c’è nel caos dei sentimenti e delle passioni che difendono una barricata: il coraggio, la gioventù, il punto d’onore, l’entusiasmo, l’ideale, la convinzione, la pertinacia del giocatore, e soprattutto un continuo alternarsi di speranza”. Pagine che restano dentro; dentro al cuore e nella mente di chi le legge e ne resta rapito: se "Notre-Dame" - l’adolescenza - mi aveva folgorato, con "I miserabili" - decisamente la maturità - non riesco a dare una spiegazione razionale del mio amore sempre in costante crescita per Hugo. Secondo la critica letteraria lansonista, che pone alle propria base dei concetti elaborati da Proust, il libro è semplicemente uno strumento ottico attraverso il quale al lettore è permesso di vedere se stesso. Hugo è stato il mio strumento ottico: ho letto di Valjean, Javert, vescovo di Digne, Cosette e altri ancora, ed ho letto di me stessa. Mi sono immersa nella realtà parigina di inizio ottocento e ho vissuto.
Mi si strazia il cuore ad abbandonare i protagonisti di uno dei libri più letti di sempre.
Trovatemi voi un libro migliore di questo.
Leggetelo. E’ un imperativo morale.
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Incantevole delizia
Non sono una persona che ama giudicare una persona dall’apparenza o un libro dalla sua copertina. Né tantomeno sono del parere che ‘l’abito fa il monaco’.
Per cui raramente ho dato giudizi affrettati su una persona prima di conoscerla o su un libro prima di finirlo. Con “La casa degli spiriti” non è stato così. Non poteva andare così.
E’ stato amore a prima vista e ho subito concesso le cinque stelline (e se aNobii ne avesse permesse altre le avrei sfruttate) a questo libro epocale.
Nella mia vita di lettrice ho incontrato scritture eleganti, scritture intelligenti, scritture furbe, scritture che fanno riflettere. La scrittura della Allende è tutto insieme, e molto di più: è una scrittura lieve, che fa commuovere (non a caso più volte è capitato che una lacrima scivolasse sul mio viso nel corso della lettura), è una scrittura magnetica. E’ una scrittura dolce e che affronta temi importanti e seri – come quello della dittatura militare e del golpe – con tutta la serenità necessaria: è in questo senso che si può parlare della scrittura della Allende come di una scrittura femminile nel senso più positivo ed elogiativo del termine. Perché nel suo lessico, nella sua impostazione stilistica vi sono una potenza espressiva e una carica evocativa che ben pochi scrittori possono vantare di avere.
Ciò che più mi ha lasciato basita è la capacità di raccontare il mondo e una vita intera in una singola frase. Per quanto mi riguarda, c’era riuscito solo Manzoni con la celebre “La sventurata rispose” (l’ottonario del X capitolo dei “Promessi Sposi” che si riferisce alla Monaca di Monza e al ‘richiamo’ di Egidio e che lascia all’immaginazione del lettore il seguito della vicenda). Chiaramente solo la Allende è riuscita ad equiparare la straordinaria capacità manzoniana di contenere il delirio di una vita e di farne comprendere o perlomeno immaginare tutto il dolore che si cela dietro all’interno di una, più o meno breve, frase.
Altra nota positiva del libro (la cui semplificazione della trama sarebbe un’impresa ardua) sono i continui – ma non asfissianti – rimandi a ciò che succederà che creano una circolarità (sottolineata dal gran finale) del racconto veramente preziosa. Sono ufficialmente invidiosa di chi deve ancora assaporare e scoprire questo libro incantevole – per me, l’esordio più promettente di tutto il Secondo Novecento –, in cui ad emergere non è la brutalità dell’uomo presente dalle prime pagine fino alla fine, Esteban Trueba, bensì la leggiadria e la grazia delle figure femminili (vittime di uno stesso destino), di madre in figlia, di nonna in nipote, che colmano i vuoti che solo gli uomini sanno solcare.
Ultima nota: la questione Marquez.
Chi mi conosce sa che non ho amato “Cent’anni di solitudine”, opera questa che spesso viene indicata come superiore a “La casa degli spiriti”. Non farò la cieca, mi sono resa conto che ci sono dei punti in comune. Ma il fatto è proprio questo: è attraverso le convergenze dei due autori che si notano le divergenze. Se in Marquez l’elemento magico mi dava fastidio e sapeva di irreale, ne “La casa degli spiriti” questi spiriti sembrano pertinenti e tangibili, non giustificati perché non occorre giustificare il quotidiano e l’ovvio. E mentre in Marquez il corale dà un senso di ridondanza non richiesta, per l’Allende sembra il naturale processo dell’arte affabulatoria della stessa. E mentre la dinastia di una famiglia viene affrontata da Marquez attraverso una ripetizione di nomi che mettono solamente in confusione, nell’Allende finalmente non si ripetono i nomi – “Perché i nomi ripetuti creano confusione nei diari” dirà Clara più volte nel corso della storia.
Consigliato a chi vuole perdersi attraverso una narratrice d’eccezione nei meandri e negli intrecci delle vite del Sud America sentendosi a casa propria.
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Meglio un bagno al mare
Non c'è nulla di peggio del finto poeticismo.
Il prodotto è scadente, non solo a livello stilistico (le frasi brevi e moraleggianti sembrano derivate più che altro dallo sforzo immane di Fermine di rendere lo scritto più 'orientale') ma anche a livello contenutistico. Continuavo a leggere e mi chiedevo: "Si, ma dove vuoi arrivare? Cosa mi vuoi dire?". Quando l'ho finito (e non ci vuole molto in realtà dato che le frasi presentano caratteri cubitali) non ho ben capito a cosa Fermine voleva arrivare.
Assolutamente sconsigliato: già durante la lettura scivola tutto via, non resta assolutamente niente. Questo scritto (guai a chiamarlo libro) è proprio come la neve: si scioglie al primo raggio di sole. E adieu.
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C'è sempre qualcuno che è più uguale degli altri
Quando ho preso in mano questo libro sapevo di avvicinarmi ad un capolavoro della letteratura mondiale e mi sono accostata alle sue pagine con timore reverenziale. La fama che precede “La fattoria degli animali” è stata sempre, per me, motivo di allontanamento causa probabile delusione. E sono felice nel constatare che certi libri, se gli si è data la definizione universale di ‘classico’, un motivo ci sarà.
La trama è nota a tutti, anche ai bambini che frequentano le elementari, ma è cosa buona e giusta ricordarla: in una fattoria dell’Inghilterra gli animali – stanchi delle vessazioni di un padrone totalitario e ubriacone – si ribellano e acquistano il controllo dell’azienda agricola, decidendo di non avere padroni e di dividere equamente i prodotti della terra. Se vi riecheggia Marx nelle orecchie, non preoccupatevi. Ma qualcosa va storto, e anche la rivoluzione più ‘libertaria’ che esiste si trasformerà presto in dispotico regime.
Il testo è una potente satira allegorica del totalitarismo sovietico di stampo staliniano, verso cui il disprezzo di Orwell si era indirizzato e aveva preso forma da esperienze di vita reale (aveva lottato infatti nella guerra civile spagnola proprio contro gli stanilisti). La triste vicenda – credo di non svelare a nessuno niente di nuovo – si conclude con la celebre frase “le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”, che sottolinea l’idea portante dell’opera, e che cioè nessun ideale comunista, nessuna utopia – neanche quella più nobile – può realizzarsi pienamente.
Ciò che più mi ha colpito è la caratterizzazione dei personaggi: ognuno di essi incarna un personaggio storico ben preciso (chi Stalin, chi Marx, chi Trotskij, ecc..) ed è proprio il fatto che gli animali siano dei simboli, nonostante buona parte di essi – a partire da Napoleone – sia corrotta e crudele, l’essere animale ne esce positivamente, proprio perché incarna difetti e pregi (ma quali?!?) di uomini. Con la consapevolezza che gli animali sono migliori dell’essere umano.
Nel genere che incarna, la distopia, lo ritengo un libro superbo, addirittura superiore a “1984”, forse per la sua feroce schiettezza nell’allegoria. Forse perché è un libro che si articola su più livelli: la lettura è facile e scorrevole ma per apprezzarlo occorre leggere tra le righe. Forse perché, nonostante sia stato scritto nel 1937, ho letto di me, di chi sta leggendo questa recensione, dei miei tempi e della mia Italia in malora. Forse perché ho letto della totale abolizione (e chissà, poi, se sono mai esistiti veramente) degli ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza, dato che “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”; ideali che, del resto, non mi rappresentano in quanto cittadina dello Stivale.
Se l’amarezza non vi spaventa, andate a comprare questo libro e fatelo vostro, assaporatene ogni scena e custoditene gelosamente gli insegnamenti che ne trarrete. Se invece vi spaventa la lettura di un’opera modellata a immagine e somiglianza di una favola, ma che vi svelerebbe inquietudini e prevaricazioni, andate a comprare lo stesso questo libro. Perché la vita non è una favola, la vita è realtà. Amara realtà.
E tutti dobbiamo esserne consapevoli.
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Gaiman, tra mito e fantasia
C’era una volta Neil Gaiman, uno scrittore che scriveva da dio e che aveva deciso di scrivere un libro sugli dei. C’è riuscito, e il risultato del lungo lavoro è “American Gods”.
Prendete un uomo comune, un po’ incolto, detenuto da tre anni in carcere per amore (la moglie lo convinse a partecipare ad una rapina), senza sogni nel cassetto e con poca voglia di vivere. Fatelo uscire dal carcere per fine della pena e dategli due brutte notizie: la moglie in sua assenza l’ha tradito felicemente con il migliore amico di lui, Robbie, e i due (moglie e amico infedele) sono morti in un incidente stradale. Fate incontrare Shadow – questo è il suo nome, questo è il suo stile di vita, un’ombra ("Uno è soprattutto ciò che gli altri pensano che sia")– sull’aereo di ritorno con Wednesday, un tipo strano che gli offre un lavoro altrettanto strano e misterioso. Infilatevi nella mente di Shadow e vivete con lui gli strani e quanto mai vari incontri con gli amici sgangherati di Wednesday, tutti provenienti dall’Europa, che continuano a ripetergli che “la tempesta sta per arrivare”. E la tempesta non è niente meno che la lotta tra gli antichi dei (primi tra tutti Wednesday, oops, Odino) e i nuovi dei: internet, televisione, carta di credito e via dicendo. Non aggiungo altro alla trama, sia mai vi venisse in mente di leggerlo.
La storia avrebbe potuto evolversi in un milione di modi, dalla lotta fino all’ultimo sangue tra gli dei all’approfondimento psicologico del processo sociale di cambiamento degli dei da venerare, fino ad una connotazione più ‘gothic’, visto che il libro stesso si presenta come una ‘gothic novel’. Ciò su cui Gaiman si concentra, a sorpresa, è invece il viaggio itinerante di Shadow e di Wednesday in un’America provinciale intelligentemente dissacrata e sconsacrata, quasi come fosse dimenticata (apparentemente) dagli dei; un viaggio che serve a Wednesday per reclutare tutti i vecchi dei in attesa della battaglia. Ed è proprio questa attesa che rende la lettura concitata e permette a Gaiman di non esaminare troppo le dinamiche tra gli dei.
La storia è geniale e lo sviluppo particolare che ne consegue mi è piaciuto, ma se dovessi trovare un difetto a questo libro indicherei l’approfondimento psicologico presente ma che basta in parte al lettore, non solo della moglie defunta o degli dei (a volte stereotipati, ma spesso descritti con un’abilità introspettiva travolgente) ma anche dello stesso Shadow.
In ogni caso, il libro risulta piacevole alla lettura ed è pregno di significati velati narrati in una ‘novel’ con le caratteristiche di una favola ma con un ritmo surreale e onirico.
Ancora una volta Gaiman ha codificato un nuovo genere, e ancora una volta gliene sono grata.
C’era una volta Neil Gaiman.
Errata corrige: c’è Neil Gaiman, e da lui mi aspetto ancora tanti, tantissimi libri!
"La narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, op-pure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là della storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza.
Una vita che come ogni vita è uguale e diversa da qualsiasi altra"
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Di insostenibile, qua, c'è solo il libro
Tutto qui?
Il tanto decantato “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, libro-culto degli anni ’80 con tanto di quarta di copertina - nell’edizione Adelphi - di Italo Calvino, è davvero solo questo?
Modesto nella trama (che si può ridurre al quadrilatero Tereza ama Tomas, Tomas ama Sabina, Sabina è amata da Franz ma non sa cosa vuole dalla vita), sempliciotto nello stile: ho letto di gente che l’ha trovato ostico. Dove, di grazia? Sembra scritto da un bambino! Si procede per coordinazioni, la sintassi è poco sviluppata e la frase più lunga che ho letto è di due righe e mezzo (il mezzo è importante, eh). Per non parlare del lessico; ma quello può essere ‘colpa’ della traduzione: ho attivato l’opzione ‘beneficio del dubbio’, se ve lo stavate chiedendo.
Non so, mi ha delusa. Tutta la bellezza promessa dalla fama che lo precede si ferma al titolo. Il resto è solo un presunto e spicciolo pistolotto filosofico di stampo esistenzialista che sostanzialmente gira a vuoto. Il libro si basa sul motto tedesco “Einmal ist Keinmal”, e cioè ciò che si verifica una sola volta è come se non fosse mai accaduto. Spunto interessante sviluppato nel peggiore dei modi: secondo Kundera – che ce lo fa sapere in mezzo capitoletto – ognuno di noi compie delle scelte nella propria vita che non servono a modificare il corso dell’esistenza, in quanto sono leggere.
Perché, mi chiedo, fermarsi alla teoria e non approfondire?
Perché Kundera è pigro, o forse non sa scrivere. O forse è talmente bravo che sa come si fanno i soldi. Perché Kundera è il papà di Coelho, abile nel vendere a peso d’oro banalità disarmanti.
Ho trovato classici dell’Ottocento molto - molto! - più moderni di questo libro scritto un ventennio fa. Per cui parliamoci chiaro e non diciamo che all’epoca le idee erano geniali, e che adesso chi lo legge lo può giustamente trovare ‘passato’. L’epoca in questione è vent’anni fa, svegliamoci.
Leggete piuttosto Hugo o Tolstoij, loro sì che scrivevano in un’epoca diversa dalla nostra e, guarda un po’, sembra di leggere qualcuno che abbia scritto ai giorni nostri.
Non sprecherò altre parole su questo libro.
Concedetemi solo un ultimo aggettivo: sopravvalutato.
Se ne avete sentito parlare (e molto bene, suppongo) non fatevi cogliere dalla curiosità insaziabile e fatene a meno. Mi ringrazierete.
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Non lasciamoci
Cominciare una recensione su questo libro non sarà facile; perché sebbene non si tratti del “libro più bello degli ultimi 10 anni” (cito il Time Magazine), mi ha scombinato un bel po’. Sicuramente non potrei partire dalla trama, sarebbe inutile descriverla: il libro è troppo intimo, ha una storia talmente particolare – nella sua semplicità – che “Non lasciarmi” potrebbe avere tante letture quanti lettori.
La storia non decolla subito, ci vogliono un paio di capitoli per sentirsi immersi nel libro, e la colpa è da affibbiare sicuramente all’atmosfera che esce dalla penna di Ishiguro, un’atmosfera surreale, rarefatta e astrusa che ben si confà, però, alla storia. Mi è difficile anche inserire il romanzo all’interno di un genere; magari quello distopico: una distopia etico-scientifica piuttosto che politico-sociale.
“Non lasciarmi” è una storia che lascia il segno perché testimonia la fragilità dell’esistenza. Ma è anche una storia sull’amicizia prima ancora che sull’amore, ed è soprattutto una storia dei ricordi, ricordi che si presentano sia come struttura narrativa che come tema portante dell’opera stessa. A far da sottofondo “Never let me go” – una canzone inventata da Ishiguro – che è più struggente di quel che ad una lettura ‘veloce’ potrebbe sembrare.
Perché la scrittura delicata e appassionante riesce a mostrarsi lucida fino in fondo, quando tutti i pezzi del puzzle ritorno al loro posto e quando ti rendi conto che quello che più ti ha colpito è la rassegnazione dei personaggi di fronte a situazioni talmente angoscianti che il lettore non avrebbe mai potuto sopportare (una solitudine dell’anima ad esempio che si rispecchia nelle ambientazioni spaziose e mai intime, come i campi o il vasto dormitorio) e che paradossalmente è costretto a subire ed accettare. A ricevere tra le mani questo destino inevitabile, questo ciclo di vita e di morte che fa parte di noi stessi, di cui non possiamo e non vogliamo fare a meno.
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Da brividi!
«È [un racconto] al di là di ogni immaginazione. Non conosco nulla che gli si possa paragonare.» E’ questa frase che una sera d’inverno, attorno al fuoco, un signore dichiara ai suoi amici: presto racconterà una storia diversa dalle altre appena sentite, una storia da brividi. Il signore procede chiedendo cosa ci può essere di più orrorifico di una storia di fantasmi in cui sia coinvolto un bambino; la risposta non tarda ad arrivare: una storia di fantasmi in cui appaiono non uno ma ben due bambini. Sostanzialmente un giro di vite.
Ed è tramite l’espediente del racconto nel racconto che James ci introduce nel mondo di una novella senza precedenti, una novella ben costruita e originale sotto ogni punto di vista.
Un racconto che pervade il lettore del senso di perturbamento, di fastidio nella lettura: l’orrore non deriva però (come solo i grandi scrittori sanno fare) da immagini splatter et similia ma dalla descrizione sibillina della mente umana. Una giovane donna è infatti incaricata di fare da insegnante/padrona di casa in una villa di campagna a due bambini fin da subito definiti deliziosi: la piccola Flora e Miles, il fratellino più grande. Dopo un primo periodo di quiete e tranquillità però la donna è costretta a vivere in tensione a causa di alcune – apparenti – visioni. Inutile addentrarmi nella trama, non avrebbe senso per due motivi.
Il primo, quello più banale, è perché rovinerei l’intreccio della storia a chi non ha ancora letto la novella.
Il secondo, quello in cui risiede l’abilità di James, è che non si è certi che gli eventi sinistri raccontati nella novella siano accaduti veramente o siano soltanto frutto della mente della governante: la storia narrata diventa dunque oggetto di tante interpretazioni quanti lettori l’hanno affrontata. Ogni minimo particolare cambia e si trasforma a seconda del punto di osservazione, trama e personaggi sono mutevoli e illusori e non offrono mai elementi di certezza o degli appigli per il lettore che si trova spesso disorientato. Ad accrescere questo clima di pathos giocano poi vari fattori come le frasi non dette o lasciate sospese, i capitoli che si interrompono nel momento clou della narrazione e soprattutto un non-finale che non spiega nulla e lascia decisamente con l’amaro in bocca.
La scrittura fluida e felicemente poco ottocentesca concorrono alla facile immedesimazione e alla partecipazione emotiva dello stesso lettore, che è accompagnato però anche alla riflessione.
Mi sono chiesta infatti durante la lettura se le “allucinazioni” della donna – di cui non è dato sapere il nome (ulteriore elemento di mistero) – non derivassero da un atteggiamento nevrotico della stessa, dovuto ad un sovraccarico di lavoro (era alla sua prima occupazione ed era stata lasciata sola a gestire tutto, dalla casa all’educazione dei bambini). Che James abbia voluto inserire un elemento di critica sociale all’interno della sua novella? Perché no, in fondo il suo primo mestiere era quello di critico letterario. E sappiamo benissimo che l’arte non è scindibile dalla vita e dunque dalla società.
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