Opinione scritta da Giovanni Baldaccini

5 risultati - visualizzati 1 - 5
 
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    30 Agosto, 2011
Top 1000 Opinionisti  -  

Un'ipotesi interpretativa

Azzardo un’interpretazione. Mi sono sempre chiesto come un essere abietto, quale Céline era, un collaborazionista, un simpatizzante nazi-fascista, e tralascio altre definizioni sgradevoli, abbia potuto scrivere un capolavoro, un’odissea sublime, come Viaggio al termine della notte. Un enigma all’apparenza insolubile.
Pure una soluzione c’era. Per trovarla, occorreva considerare il libro come tale, ma soprattutto come uno specchio dell’uomo che lo ha scritto. Dunque, una complessità, non un semplice libro. Per orizzontarsi in questa complessità occorre uno sforzo: non lasciarsi andare alle parole e a ciò che esprimono attraverso uno stile meraviglioso, ma ricordarsi sempre allo stesso tempo di chi le ha scritte.
Il romanzo racconta la storia di un perfetto imbecille che, per compiere un atto apparentemente privo di qualsiasi senso, si ritrova immerso negli orrori della guerra. Questo imbecille è Céline stesso. Il giovane Céline: guascone, irriflessivo, con la tendenza a disperdersi nell’esteriorità del vino, delle donne, dell’assenza di ogni significato. Un essere totalmente esteriorizzato, privo di qualsiasi contatto con la propria interiorità. Che tuttavia c’era e gli ha dichiarato guerra.
Da qui l’incredibile. Assistiamo infatti, nello svolgersi del romanzo, alla più impensabile delle trasformazioni: da perfetto idiota a santo. Come è possibile? Il personaggio di Céline, dunque Céline stesso, attraverso l’orrore impara a muoversi nel non senso, a prenderlo in considerazione. Si accorge che l’orrore c’è, esiste, e non è soltanto la guerra: è la vita. E in quell’orrore bisogna muoversi, vivere, imparare a sopravvivere. Quell’orrore va curato, e il medico che quell’imbecille era se ne prende infinitamente cura. Di sé si prende cura finalmente, dell’orrore che è, e in quel prendersi cura riscatta la frattura nella quale ha vissuto da sempre.
Un romanzo straordinario: una cura. Peccato che tutto ciò sia avvenuto a un livello non percepito, potrei dire soltanto immaginato. L’uomo Céline è rimasto quello che era: lontano dall’artista.
Fu considerato una vergogna per la letteratura francese: non se ne vergognò mai. Il personaggio del romanzo avrebbe tutte le ragioni di non vergognarsi; Céline no.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a chi apprezza la grande letteratura
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    04 Agosto, 2011
Top 1000 Opinionisti  -  

Il libro e la bestia

Sulle sponde del fiume Nangaritza “il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d’asino rigonfia. Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune fogli morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio”. Ai margini del villaggio di El Idilio, in una capanna di canne intrecciate e foglie, vive Antonio José Bolìvar, vecchio e sdentato solo a tratti, perché in tasca porta una dentiera che usa solo quando mangia o quando è costretto a parlare a lungo. Antonio José Bolìvar siamo noi. Di questo dovrò dare spiegazione.
Quel giorno Bolìvar si infilò la dentiera. Alcuni shuar avevano trasportato sulla loro canoa, fino al molo del villaggio, il cadavere straziato di un gringo e per questo rischiavano l’arresto. Il sindaco, infatti, li accusava dell’assassinio dello sconosciuto, ma Bolìvar si infilò la dentiera e spiegò, con molti dettagli, che gli shuar non potevano aver commesso quello scempio per la semplice ragione che il cadavere mostrava con chiarezza i segni degli artigli di una bestia.
Bolìvar conosceva quei segni, come conosceva l’indole degli shuar dai quali era stato raccolto e soccorso quando, colono in terre impossibili, aveva tentato di violentare la foresta e da questa era stato spazzato via insieme alla moglie e agli altri incoscienti che tentarono quell’opera. Visse a lungo con gli shuar e diventò uno di loro, un fratello e un compagno. Ne apprese la filosofia e i segreti e imparò a conoscere la grande madre che li ospitava, li nutriva e di cui facevano inestricabilmente parte: la grande foresta amazzonica. Fino a quando un giorno alcuni bianchi pazzi uccisero un compagno di Bolìvar. Lo vendicò, ma lo fece nel modo sbagliato perché lo uccise e basta, senza il filtro dei rituali che rendono sensata la morte. Senza quel filtro, era una morte e basta, e questo sconvolgeva l’ordine del mondo. Fu costretto ad andarsene, corroso da quel peccato e approdò nella capanna dove lo abbiamo incontrato insieme ai segni della bestia.
Non fu l’unico incontro. Qualche anno prima Bolìvar incontrò un libro e poi una biblioteca nel città di El Dorado. Scoprì di saper leggere, anche se solo sillabando, e quella scoperta segnò il resto della sua vita. Da allora Bolìvar lesse meticolosamente ogni libro che riusciva a procurarsi. Li leggeva con costanza, cercando di penetrarne i significati. Leggeva d’amore, Bolìvar: perché non ne aveva più.
Nei giorni successivi furono scoperti altri segni di morte: era chiaro che la bestia si aggirava nelle vicinanze di El Idilio. Andava eliminata. Quando quel cielo rigonfio come la pancia di un asino cominciò a rilasciare la sua pioggia, il sindaco organizzò una spedizione e Bolìvar fu costretto a farne parte. La bestia lasciava segni di morte e una notte, mentre gli uomini si riparavano dalla pioggia incessante nella capanna di una delle vittime, si manifestò. Una presenza invisibile, denunciata soltanto dai cambiamenti di ritmo della pioggia incessante, dovuti al passaggio di un corpo. Bolìvar riusciva a percepire il ritmo non più uniforme della pioggia e in quella notte, mentre leggeva un libro ai suoi compagni, non cessava di ascoltare la foresta e la pioggia.
È una notte speciale: raccolti intorno a una luce minima, gli uomini ascoltano Bolìvar che legge. Le parole del vecchio sono circondate dalla foresta e dalla pioggia che non smette di cadere; tutti sanno che, in quella foresta e in quella pioggia, la bestia li sta osservando. È tuttavia straordinario come gli uomini tentino disperatamente di formarsi un concetto, di rappresentare ciò che per loro, fino a quel momento, non era neppure pensabile: Venezia. Una città nell’acqua, una città che galleggia come i suoi abitanti, percorsa da strane cose chiamate gondole – forse imbarcazioni? In tutta quell’acqua essi si chiedono come possa una città galleggiare ed esistere. I loro discorsi vanno avanti ore; ognuno dice la sua, ognuno contribuisce alla formazione di quel concetto sconosciuto che comunque si va materializzando all’interno dell’assoluto nero della notte, della foresta e della morte che la bestia propaga.
Un libro, un libro nella foresta, con i concetti che essi rappresentano: questo si forma nella mente, forse per la prima volta, di quegli uomini. È l’indecifrabile frattura che ci costituisce, e che troppo ci affanniamo a dimenticare, che alla fine prende corpo: il nostro essere irrimediabilmente libro e foresta, uomo e animale, concetto e assoluta naturalità priva di forma, fin quando qualcuno non gliene attribuisca una. Quella notte, in quella capanna, per quegli uomini il mondo prende forma intorno a un libro; con esso concetti prima sconosciuti capaci di rappresentarlo.
La storia che Sepùlveda ci racconta è la storia della nostra duplicità e Bolìvar ne è la perfetta incarnazione. Il libro è denso di una poesia impalpabile, ma assolutamente presente. La poesia della vita, nella sua naturale semplicità, fatta di vissuti estremi dal sapore di sublime e di orrore; un sapore che è possibile percepire solo creandone i concetti. Questo accade quella notte; questa la poesia e la storia che il vecchio racconta.
Non occorre parlare del finale; sarà un confronto, ma era già cominciato nella mente di Bolìvar molto tempo prima. La lettura di questo libro è, in apparenza, di una semplicità disarmante e tuttavia questo libro non va letto: occorre farsene penetrare. Non vi affannate a trovare un modo: ci riuscirà benissimo da solo. Il problema sarà uscirne. Per questo ne scrivo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a chi legge.
Trovi utile questa opinione? 
40
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    13 Luglio, 2011
Top 1000 Opinionisti  -  

L'elogio della bestialità


Guardando la ragazzina armata raffigurata nella copertina del libro, non si può evitare di rammaricarsi di un inganno, che la finta ferocia degli occhi esprime; di una mancanza, per quell'intensità perduta. Difficile rimanere insensibili nel corso della lettura; il libro infatti ci immette in una delle pagine più turpi, disgustose e prive di senso, tra le tante di cui l'esercito piemontese si è reso protagonista.
L'Italia è unificata e il Regno delle due Sicilie non esiste più. Esiste però un popolo che si ribella, che non accetta la fredda insensibilità degli invasori, la loro totale incapacità di cogliere la realtà dei luoghi occupati e dell'anima delle popolazioni che li abitano. Solo noncuranza, sfruttamento, regole ferree ed estranee; pretese senza concessioni, spesso rapina: questo ciò che offre il nuovo padrone. Quelle popolazioni reagiranno e si comporteranno come di fronte a un esercito invasore, organizzando una disperata resistenza nel tentativo di ricostruire l'ordine perduto. Non volevano rubare: volevano il loro re. Quel moto spontaneo fu però etichettato come brigantaggio e in tal modo svilito a livello di delinquenza comune: ladri, tagliagole, bestie selvagge da abbattere senza pietà. E certamente da queste pagine la pietà è assente, se guardiamo quei corpi straziati, violentati, massacrati e poi esposti a monito perenne. Questa la fine di molte figure straordinarie che il libro abitano. Tra queste, molte figure femminili, difficili in ogni caso da dimenticare. Se ne potrà dare il giudizio che si vuole perché nessuno può negare che alla violenza si sia risposto spesso con la violenza. Quali le bestie? A mio avviso quelle in divisa erano davvero tali; quelle braccate lo diventarono per necessità. Nessuno ne esce bene: nemmeno il lettore.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a tutti
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    18 Giugno, 2011
Top 1000 Opinionisti  -  

Dispersi

Parafrasando un famoso saggio di Claudio Magris, mi chiederò da “dove” Roth fosse “lontano” e verso quali lontananze lo conduceva la fuga senza fine che descrive in questo libro, forse il più autobiografico di tutta la sua produzione. Era lontano da quel residuato bellico rappresentato dal mondo dopo la Grande Guerra; dal poco che rimaneva dell’Europa; dalla sgretolata Casa Asburgica che gli era stata sottratta a forza; da tutti i segni di riconoscimento che gli avevano permesso di vivere e che non esistevano più? “Lontano da dove”, dove conduceva quella fuga senza fine che fu la sua vita e perché era cominciata? Il saggio critico di Magris merita di esser letto e non ripeterò le sue osservazioni. Proporrò le mie e proverò a rispondere a mio modo da “dove” quel “lontano” sia distante.
“Era il 27 agosto del 1926, alle quattro del pomerigigo, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo” (p. 152).
Questa la fine della fuga, ma come era cominciata? Saputo dal suo fraterno amico Baranowicz, dopo una lunga prigionia in Russia, che la guerra era finita, “Tunda voleva raggiungere l’Ucraina e da Zinerinka, dove era stato fatto prigioniero, la stazione austriaca di confine Podwoloczyska e poi Vienna” (p. 14). Non vi arrivò mai.
A Vienna Tunda non aveva più nessuno. Lo aspettava però, almeno così credeva, la bella fidanzata Irene, di cui Tunda portava cucita nella giubba un’immagine, l’unica che aveva di lei. Quell’immagine lo guidava; quell’immagine era la causa del suo smarrimento.
Nella sua fuga attraverso l’Europa sconvolta, tra la Rivoluzione Russa e Berlino, le prime avvisaglie del nazismo e la continua nostalgia in cui il protagonista si disperde, passando attraverso incontri con figure femminili che è impossibile dimenticare, Tunda giunge a Parigi, dove, per sopravvivere, anche tra i mendicanti occorre avere un protettore. Potrebbe tornare in Russia, dal suo amico “fratello” Baranowicz che gli scrive, avvertendolo che la donna che Tunda aveva durante una delle sue fughe si trovava presso di lui, “Ma non sentiva nostalgia della taiga. Qui, gli pareva, era il suo posto e la sua fine. Viveva dell’odore di marcio e si nutriva di muffa, respirava la polvere delle case cadenti e ascoltava rapito il canto dei tarli” (p 151).
Finché un giorno, in una strada elegante della capitale del mondo, Tunda scorse una donna che si avvicinava. “La donna si avvicinava sempre di più e benché dall’orlo del marciapiede alla soglia della casa dove egli si trovava non fossero rimasti neppure tre passi, gli parve che il suo cammino durasse un’eternità, come se lei venisse da lui, dritta da lui, non in quella casa, e come se lui stesse aspettando quella donna in quel posto da più anni.
Lei si avvicinò, lui guardò il suo caro, bel viso altero. Lo fissò, un po’ risentita un po’ lusingata, come le donne guardano, passando, lo specchio di un ristorante o di una scala, felici di verificare la loro bellezza e di disprezzare il poco valore del vetro. Irene guardò Tunda e non lo riconobbe. C’era una parete in fondo ai suoi occhi, una parete tra la retina e l’anima, una parete nei suoi grigi, freddi occhi risentiti” (pp.148-149).
Neppure Tunda riconobbe Irene, quella Irene che aveva inseguito per anni e che per anni aveva tenuta cucita nella tasca della giubba. Non la riconobbe perché non era quella la Irene che cercava. Il loro incontro si chiude nell’indifferenza e nel risentimento; e non poteva essere altrimenti.
Dunque, lontano da dove? La parete negli occhi risentiti di Irene risponde alla domanda. Lontano da sé. Lontano dall’anima che non riconosceva; da tutto ciò che di più autentico possedeva e lo costituiva, mentre si ostinava a rispecchiarsi in una specie di falsa identità collettiva, rappresentata da un Impero tramontato e disperso dal grande indifferente della storia. Roth era convinto d’esser morto, d’esser sepolto con il suo imperatore nella Cripta dei Cappuccini, mentre era il più vivo tra gli uomini. L’anima irriconosciuta, la sua identità più intima che lo seguiva senza posa nella sua inutile fuga da se stesso, continuava a manifestarsi senza essere riconosciuta. Gli parlava, la sua anima grande, ogni volta che scriveva una parola sulla carta, ma lui non la riconosceva. Come Tunda, l’aveva ridotta a un’immagine sbiadita, inerte, dimenticata, da tenere in una tasca sgualcita della giubba come una reliquia di qualcosa di neppure più pensabile. Come Tunda, il demone distruttivo e nichilista che aveva travolto la sua epoca e cui aveva personalmente ceduto, aveva privato la sua anima di senso; un senso che Roth erroneamente attribuiva a qualcosa che non gli apparteneva se non come austriaco e che ormai non esisteva più, mentre non dava credito all’immagine individuale di se stesso che continuava a manifestarsi attraverso la scrittura dal pozzo di trascuratezza in cui l’aveva relegata. Per questo gli occhi di Irene erano colmi di risentimento; per questo anche la sua anima si dissolse dietro un muro di silenzio sordo.
Roth morì alcolizzato in un ospedale per poveri di Parigi. Aveva preteso di fare della sua anima un mestiere. Questo li ha uccisi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a tutti
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    12 Giugno, 2011
Top 1000 Opinionisti  -  

Eros e Thanatos


In un castello ai piedi dei Carpazi, circondato da boschi e dal silenzio, il tempo si è fermato. Da quarantuno anni nulla vi accade più e la vita resta sospesa tra ricordi e l’attesa. Un giorno una lettera sembra spezzare l’incantesimo; il contenuto, che non viene subito svelato, lascia presagire che qualcosa accadrà e il tempo riprenderà a scorrere. Non sarà così.
Tutta la prima parte del romanzo si svolge all’interno della rievocazione: il tempo è congelato e si può parlare soltanto del passato. La giovinezza del generale che abita il castello torna in primo piano, così come acquista spessore la giovinezza malinconica della madre e la figura mai chiamata per nome del padre. Di entrambi il generale ripeterà inesorabilmente il destino, vivendo diviso per anni da una moglie delusa che morirà prematuramente come già la madre, mentre lui, come il padre, si rinchiuderà nel casino di caccia del castello. Tuttavia c’è un’attesa: la lettera annuncia l’arrivo, dopo quarantuno anni, dell’amico d’infanzia, di gioventù, di vita, la cui scomparsa aveva fermato la vita stessa del generale. A quell’amico il generale deve chiedere qualcosa.
Il generale chiama a sé la vecchia governante e le ordina di far riaprire la sala chiusa del castello e di rimettere, con scrupolosa meticolosità, fin nei minimi dettagli, le stanze come si trovavano quarantuno anni prima. Anche la cena e i vini devono essere gli stessi, persino le candele di color azzurro. Tutto deve essere uguale, perché il tempo non è trascorso, tranne un dettaglio: un certo quadro non dovrà essere riposizionato al suo posto.
Nel corso della cena con l’amico di un tempo, molto sarà rievocato delle loro vite, senza alcun accenno al presente. Rievocazioni ossessive, colme di dettagli, perché, come il generale afferma, i particolari hanno importanza. L’amico è stato ai tropici per quarantuno anni, in un inferno d’umido e d’acqua dove la cosa più augurabile è morire: perché? Il generale se ne è rimasto chiuso nella sospensione e nell’attesa del momento, che finalmente è arrivato, in cui avrà forse risposta alle sue domande.
Gli chiederà, dopo tortuose ricostruzioni, asfissianti rievocazioni, deludenti lungaggini, descrizioni a volte perfino estenuanti, quello che è già chiaro dalle prime righe; gli chiederà infatti conferma e ragione di un tradimento. All’apparenza banale, l’amore per la stessa donna, moglie del generale, morta trent’anni prima e presente soltanto nel suo piccolo diario che finirà nel fuoco. Non si risponde a domande di questo tipo; è evidente che l’amico l’ha tradito con la moglie, che la moglie l’ha tradito con l’amico, che l’amicizia sacra è stata violata, come è evidente che l’amico e la moglie avevano progettato di uccidere il generale, ma di questo non ci sarà conferma. Sarebbe inutile: altra è la conferma necessaria.
Troppo diversi quegli uomini per essere davvero amici; divisi inesorabilmente dalla musica, dall’arte, dalla ribellione, dalla ricerca di libertà che l’amico condivideva con la moglie del generale, come con la madre di quest’ultimo, prigioniera in quel castello di un marito militare, come il figlio. Il padre del generale lo sapeva e mise sull’avviso il figlio adolescente; ma come il generale afferma nella notte del colloquio, gli opposti si attirano, non possono fare a meno l’uno dell’altro. Questa la prima risposta a una domanda non espressa, questo il vincolo di un’amicizia che non era tale.
La seconda risposta verrà data alla fine, mentre l’ospite prende congedo, dopo essersi rifiutato di confermare quel progetto di omicidio che forse il diario della moglie conteneva. Non era quella la risposta importante, dato che, dopo la caccia e l’omicidio non compiuto, era stato conferma del progetto lo stupore della moglie nel vedere il generale rientrare in casa. La domanda vera viene espressa con la mano sulla maniglia della porta: «“E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé?”. “Perché me lo domandi?” replica tranquillamente l’ospite. “Sai bene che è così”.»
Le braci non sono quelle del fuoco in cui il diario della moglie brucierà; sono quelle dell’anima, di una passione che coverà per quarantuno anni. Sono le braci di un Eros inestinguibile che tende inesorabilmente al suo contrario e finché brucia desidera, anela, chiede anche quello che già sa, perché anche una domanda priva di risposta è un desiderio. Il generale sa benissimo che è la passione che ha tenuto vivi lui e il suo ospite per tutti quegli anni e che, dopo quel colloquio, non resterà nulla da desiderare. Eros si fonderà inevitabilmente con il suo contrario, Thanatos, che ha atteso quarantuno anni nel silenzio di un desiderio sospeso. Nel momento in cui non c’è più nulla da domandare, la tensione si spegne e il desiderio trova compimento nella propria morte. Non erano le risposte ad avere importanza, era la possibilità di chiedere; realizzata, nell’attimo conclusivo di una passione morta, non resta più nulla da vivere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi ha pazienza
Trovi utile questa opinione? 
111
Segnala questa recensione ad un moderatore
5 risultati - visualizzati 1 - 5

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

Fatal intrusion
Il grande Bob
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
L'anniversario
La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele