Opinione scritta da Bruno Elpis
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La sua legge è sbagliata, la mia regge il mondo
Avevo intuito la capacità drammaturgica di Daniele Sannipoli leggendo un suo breve dramma in atto unico (In sospeso): difficile rappresentare in una pagina la tragedia del covid, lui l’ha fatto con un’idea immaginifica e densa.
Conoscevo il suo amore per il teatro di Sarah Kane e per il Caligola di Camus.
Misurarsi con un’opera eterna – come l’Antigone di Sofocle, già tanto reinterpretata nel corso dei secoli - era una sfida ardita.
Questa riscrittura di Antigone, a mio parere, esprime in modo unitario amore per il teatro, passione e conoscenza della classicità, dialogo implicito con autori più vicini a noi per epoca e cultura.
In quest’opera c’è un nuovo modo di concepire il conflitto tra ragion del cuore (“La sua legge è sbagliata, la mia regge il mondo. Vive nelle piante, nell’acqua, nel soffio del vento, nel volo di un uccello e nel grido di una madre”) e ragion di stato (“Rispetta quello che sento, rispetta chi ha il comando. Non permetterò che lo stato rovini”). Ci sono sequenze spettacolari che rappresentano la schizofrenia di Creonte tra interiorità e ruolo pubblico. Ci sono scene mozzafiato che illustrano la crudeltà del potere (“Immagino che meriti di morire. Voglio che meriti di morire. Ordino che meriti di morire”) e diffondono il sapore cruento del dolore. C’è il gusto di variare la sorte di qualche personaggio. Ci sono monologhi che traboccano di pathos.
A questo punto aspettiamo che la pièce venga rappresentata, per essere in prima fila a rivivere la potenza della storia e delle soluzioni sceniche adottate da Daniele: alla faccia del coronavirus, the show must go on.
Bruno Elpis
Su www.brunoelpis.it nella sezione interviste potete leggere il dialogo con Daniele su quest’opera.
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Un padre non lo riconosci da niente
Romanzo vincitore del premio Viareggio-Repaci 2020, Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo sembra affrontare il tema della gravidanza dal punto di vista di tre protagoniste, tutte giovani, tutte che – per motivi diversi – non condividono l’esperienza con il padre del bimbo che portano in grembo (“Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente”). Dico “sembra” perché poi, in realtà, la visuale si capovolge con un inattesa sorpresa e viene esplicitato quale sia il punto di vista del narratore.
Che motivi hanno le puerpere per distaccarsi dal padre del bambino?
Luciana per l’orgoglio di non interferire con l’indipendenza dell’artista del quale è innamorata, Valentina perché è minorenne e i suoi genitori – siamo negli anni ottanta – vivono la sua gravidanza come un dramma, Cecilia perché conduce una vita randagia (“Non ride da parecchio. Non ride quasi più”).
Finale poetico: rimane misteriosa la sorte dei tre neonati, mentre si declina la consapevolezza delle sfumature che colorano l’amore adottivo.
Bruno Elpis
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Perché mai preoccuparci di una nuova pandemia?
Inventario di un cuore in allarme è una rassegna – più che di patologie – di fobie e manie che affliggono l’autore e che possono essere rubricate sotto un più ampio disturbo d’ansia, l’ipocondria (“C’è un codice non scritto per noi ipocondriaci: mai pronunciare il nome della malattia”).
La rassegna è occasione di autocritica ironica e di riflessioni semiserie su argomenti non propriamente nuovi (serendipità, kintsugi, entropia, omeopatia…), ma che sono occasioni per considerazioni sulla vita e sulla felicità.
Pubblicato alla vigilia dello scoppio dell’epidemia, questo simpatico “inventario” registra una clamorosa assenza (“Con questa varietà di possibili morti perché mai dovremmo preoccuparci di una nuova pandemia?”): quella del virus oggi tornato prepotentemente alla ribalta, ahinoi.
Ho letto quest’opera riconoscendomi in molte paure, ma con una significativa differenza: la mia ipocondria non ha per oggetto il sottoscritto, bensì le persone che amo…
Bruno Elpis
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Noi tutti siamo nobile osso
Il collezionista di ossa di Jeffery Deaver gioca molto sull’antinomia tra il detective tetraplegico e stanco di vivere (“Lincoln Rhyme aveva chiesto a quattro medici di ucciderlo. Si erano rifiutati tutti”) e l’assassino seriale, sospinto nei suoi crimini da una macabra filosofia (“Noi tutti, siamo nobile osso. Le ossa non mentono. Le ossa sono immortali”) che imprime la selezione delle vittime (“Le tue ossa sono sane – e così prominenti. Le tue ossa dureranno per sempre”).
Da un lato il metodo scientifico dell’inquirente (“Ci sono cinque fattori contaminanti del luogo di un delitto… Le condizioni atmosferiche, la famiglia della vittima, il sospettato, i cacciatori di souvenir. L’ultima è la peggiore… Gli altri poliziotti”), dall’altro la sfida scellerata ingaggiata dal sosco (“Sta comunicando, e nella tua lingua. La lingua della polizia scientifica? Perché?”).
In una New York mobilitata per un evento internazionale (“Le Nazioni Unite… Questo sosco potrebbe anche distrarci tutti…”) tutto congiura contro Rhyme e la neofita, ma intuitiva Amelia Sachs: anche il Camaleonte dell’FBI ( “Dellray… il federale aveva tentato di sottrarre l’indagine al Dipartimento di Polizia di New York”)…
Minuzioso nella descrizione della sfida e nella ricostruzione progressiva dell’identità fisica e psicologica dell’assassino, il romanzo accelera nei clamorosi colpi di scena finali, che rendono quest’opera imperdibile per gli amanti del genere.
Bruno Elpis
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La vita non è bianca o nera!!!
Le imperfette di Federica De Paolis (“Mio padre diceva che tutte le donne sono imperfette, ma lo diceva con un’accezione positiva, come se nel sentimento dell’imperfezione ci fosse una ricerca al miglioramento”) si è aggiudicato il cospicuo gruzzolo messo in palio dal premio DeaPlaneta 2020 e non è difficile comprendere il perché.
È ambientato in una clinica ove si pratica la chirurgia estetica.
Ha per protagonista una donna debole dilaniata dalla Dinasty che impegna padre e genero nella successione alla conduzione del santuario dell’estetica a ogni costo.
La stessa donna cerca di rimediare alla crisi ormonale post partum con un toy boy spagnolo.
Sempre Anna patisce l’ombra della bellissima assistente (e amante) di padre e marito, una Circe che dominerà il finale scopiazzato da Attrazione Fatale.
Ancora Anna subisce lo scandalo che colpisce la clinica.
Di tutte queste occorrenze fanno le spese (ma non troppo) i figli Gabriele (soprattutto lui) e Natalia.
Devo continuare?
No, mi fermo qui, ma aggiungo un’annotazione sullo stile: sincopato, sorprendente in negativo (“Il suo punto vita era minuscolo, il sedere come un ukulele”) per quanto è adatto alla trama del feuilleton (“Aveva smesso di nevicare, l’aria era secca, tagliente, la luna cadeva a piombo”).
E un’altra annotazione sulle conclusioni che lasciano a bocca aperta per il loro qualunquismo (“La vita non è bianca o nera, le persone non sono buone o cattive, le sensazioni non sono limpide, piuttosto imperfette”).
Bruno Elpis
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Triste cartello… VENDESI…
Tralummescuro di Francesco Guccini, opera finalista al Premio Campiello 2020, è un omaggio a Pàvana, paesino dell’Appennino tosco-emiliano che oggi vive il dramma dell’abbandono (“Il Mulino ha avuto anni di abbandono, l’umidità si è impadronita delle stanze già umide di suo e i campi atorno sono stati abbandonati…”) e dell’inesorabile spopolamento (“Tristi sfilate di case, con un altrettanto triste cartello… VENDESI…”).
Su queste pagine si abbattono folate di nostalgia per tempi irrimediabilmente perduti e per una civiltà – quella contadina – pura nelle sue declinazioni a volte crudeli e rudimentali (“Il compito di castrare i galletti era di solito affidato a una donna perché, credi, nessun uomo, pensando ai propri gioielli, avrebbe avuto il coraggio…”) e nei suoi riti (“Il pane lo facevamo ogni giovedì. Non c’era una ragione specifica per questo rito del giovedì…”).
Il linguaggio è creato ad hoc, contaminato da espressioni dialettali (“Hai bolato?” = Hai trovato funghi?) e, pur intonato allo spirito dell’opera, rappresenta uno degli ennesimi esperimenti che – dopo Camilleri – non sono più né originali né piacevoli per il lettore. Ad ogni buon conto, in appendice, si trova un vocabolario che consente la traduzione dei passaggi più ostici.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Nostalgia di Fedro
Affascinato dal mio gatto – m’ispira simpatia, tenerezza, buonumore, affetto, poesia… - in un periodo che richiede sentimenti positivi per affrontare le mille difficoltà di una vita che ha cambiato modalità sia sul piano sociale sia nella dimensione psicologica, vengo attratto da questo titolo e ne intraprendo la lettura completamente soggiogato dalla mia esperienza personale con Leo.
Tuttavia mi accorgo che Il gatto che regalava il buonumore di Rachel Wells è una sequenza di banalità: beninteso, banalità assolutamente innocue, ma l’innocuità non cambia la natura di un romanzo che è una favola diluita nei rivoli di situazioni poco avvincenti che attribuiscono al gatto protagonista un carattere antropomorfo (“Siamo noi gatti a dover rimettere insieme gli inevitabili pezzi) grazie al quale sono stati creati - altrove (da Esopo a Walt Disney) - autentici capolavori.
Guardo il mio Leo – gatto educato, riservato ma affettuoso, indipendente ma amichevole, sempre affascinante anche nella sua involontaria comicità – e, stregato dal senso di appartenenza che mi comunica, riconosco che lui sì mi regala il buonumore. Non questo Alfie che, suo malgrado, partecipa a un processo commerciale che può deludere chi ama gli animali.
Bruno Elpis
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Hai paura, eh?
Pietro e Teresa, professore e studentessa, vivono una relazione tanto intensa quanto conflittuale (“Il nostro continuo volerci e respingerci”). Al culmine dei litigi si scambiano una Confidenza: ciascuno rivela all’altro un segreto inconfessabile. Questo baratto dovrebbe essere la formula che salva il rapporto, invece ne decreta la fine.
La vita dei due amanti scorre (“La rottura con Teresa, il tempo dolente di un amore finito che avevo colmato scrivendo un breve saggio fortunato, il matrimonio con Nadia, la nascita di Emma, e ora quel libro, l’affettuosa accoglienza di una persona assai stimata come Intrò, di una donna competente come Tilde”) in due continenti diversi, ma il rapporto si conserva – seppure in forma epistolare – e la vita di Pietro viene energizzata dalla minaccia perenne che il suo peccato venga rivelato da Teresa (“Hai paura, eh?”).
Il momento della resa dei conti giunge con la pensione (“Lo stato italiano vuole conferire a Pietro un’onorificenza, ma è indispensabile che io vada a Roma per dir bene del suo lavoro di docente”): Pietro reggerà il colpo?
Domenico Starnone inventa una formula narrativa che tiene desto l’interesse per il suo romanzo: l’ho divorato con l’insana curiosità di scoprire quali fossero segreti tanto indicibili da preservare i rapporti contro l’usura del tempo.
Per niente morboso, tra intuizioni ad effetto (“Un coito simbolico non fa male a nessuno”) e dichiarazioni romanzesche (“La menzogna è la salvezza dell’umanità”), paradossale e a tratti inverosimile, Confidenza ha una costruzione perfetta che, a tre voci, riserva un finale ove lo scrittore si prende gioco della tensione narrativa costruita con la premessa.
Giudizio finale – citazioni: ho l’imbarazzo della scelta.
“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno” (Mark Twain)
“Due persone possono serbare un segreto se soltanto una sola lo conosce” (William Shakespeare)
“Quello che vuoi che altri non sappia, tu non lo dire a nessuno” (Lucio Anneo Seneca)
Bruno Elpis
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Piove ricotta!
L’energia narrativa de Il treno dei bambini di Viola Ardone sprigiona dalla prospettiva infantile che la storia assume.
Amerigo Speranza vive nella miseria del Meridione dissanguato dalla guerra (“La fame non è una colpa ma un’ingiustizia”), ma il povero quartiere è il suo mondo e lì la mamma rappresenta una bellezza ancestrale e misteriosa (“Mia mamma Antonietta non mi ha mai venduto, fino a mo”).
Costretto ad abbandonare i giochi con gli amici e il suo tugurio ove un uomo fa strane incursioni per “faticare con mia mamma”, Amerigo parte per il Nord nell’ambito di un’iniziativa patrocinata dal Partito Comunista (“So-li-da-rie-tà”): il bimbo, inizialmente controvoglia, affronta l’esperienza dell’adozione transitoria senza comprenderne le ragioni e vive il viaggio in treno tra paure e meraviglia (“Piove ricotta!”).
Ma l’’esperienza a Modena sarà una scoperta continua: affettiva (“È la prima volta che mi abbraccia un papà”), culturale, musicale.
La prospettiva infantile (“Ho visto il forno enorme di Rosa e, pure se mi trattano sempre bene, ho creduto a quello che aveva detto la Pachiochia sui comunisti che cuocevano i bambini per mangiarseli”) viene abbandonata solo nell’ultima parte: quella in cui Amerigo, ormai adulto, ritorna al paese d’origine in preda a disincanto, vergogna, rimorsi, nostalgia…
Il romanzo è struggente, delicato, profondo.
Giudizio finale – citazione: “Negli occhi dei bambini sono racchiuse le poesie più belle” (Anonimo).
Bruno Elpis
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Giocare a Fort Alamo
Elefante a sorpresa di Joe R. Lansdale è l’ennesima avventura del binomio Hap e Leonard, questa volta alle prese con una ragazza albina, alla quale la malavita ha tentato di tagliare la lingua.
La povera ragazza ha infatti assistito a un omicidio e i sicari prezzolati da un potente delinquente (“Wilson Keith era mellifluo quanto letale, e aveva l’anima di un piranha, ma con meno compassione”) tentano di farle la pelle.
Il romanzo è azionismo allo stato puro: Hap e Leonard soccorrono la ragazza, la portano all’ospedale (“Leonard… era scivolato giù per le scale con la ragazza e ora partiva di gran carriera, spingendo la sedia a rotelle lungo l’atrio”), ma lì viene stanata dai killer e allora i due detective la sottraggono alle grinfie dei persecutori e, dopo una fuga rocambolesca, si asserragliano in un rifugio improvvisato (“Stanno dando l’assalto a una stazione di polizia. È assurdo”).
A rincarare la dose ci si mettono le condizioni atmosferiche (“In un turbinio di foglie e rami, pioggia e fango”), così frequenti nei luoghi (“Siamo nel Texas orientale, tesoro. Capita spesso”), che esaltano il clima da puro far west (“Non ci resta che giocare a Fort Alamo”).
Umorismo nero (“Chiunque sia il cadavere di sopra, a lui è andata peggio”) e stile brutale ( “Leonard tirò fuori uno dei suoi proverbi preferiti: - Tu prova a mettere la speranza da una parte e la merda dall’altra, e vedrai dove penderà la bilancia”) completano il quadro di un romanzo a parer mio meno divertente dei precedenti della serie.
Giudizio finale – citazione: “Il segreto dell’umorismo è la sorpresa” (Aristotele). Cosa che, in questo romanzo e nonostante il titolo, non riesce bene a Lansdale…
Bruno Elpis
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- sì
- no
La sensazione di essere suo complice
La bambina e il nazista di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli: Leah Coehn e il tenente Hans Heigel. Lei è una piccola deportata nei campi di sterminio, lui è un burocrate che vive un dilemma lacerante e straziante: conciliare il suo lavoro (“Si era ritrovato a vestire una divisa per cui ormai provava solo disgusto”) con il progetto folle e turpe del nazismo (“E lui non riusciva a togliersi la sensazione di essere suo complice”).
Il tenente rivede in Leah la figlioletta Hanne stroncata dalla tisi e, catalizzato da questa identificazione, sottrae la piccola ebrea al destino di morte prima nel campo di Sobibor, poi a Majdanek, il lager di Lublino, mediante stratagemmi che potrebbero compromettergli la vita.
Tra gli orrori che hanno macchiato in modo vergognoso la storia del XX secolo e dell'umanità, attraverso episodi che contrappongono la solidarietà dei deportati alla crudeltà di gerarchi sadici e alla ferocia di ausiliari indemoniati (Kobyla, “È polacco, significa cavalla scalciante”), in un crescendo di tensione fino al culmine della “Aktion Erntefest, Festa della Mietitura” finale, con grande efficacia narrativa e credibilità storica gli autori coinvolgono il lettore in una storia che ha la potenza drammatica della tragedia e provocano emozioni in una gamma che spazia dallo sdegno alla speranza.
Giudizio finale – citazione: "L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria" (Primo Levi).
Bruno Elpis
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Non avvicinarti tanto da toccarli
Will è ricoverato per una “cura sperimentale per il B. cepacia”. Stella è in attesa di trapianto dei polmoni. Quando i due ragazzi si incontrano nel medesimo ospedale, fanno scintille per via dei caratteri così diversi: lei è metodica (“Una lista di cose da fare?... Un metodo un po’ vecchiotto per una che crea app…”) e altruista, lui è cinico e provocatore. Basta scorrere i loro desideri su Roma. Quello di lei: “Vado al numero 27, Cappella Sistina con Abby” (Abby è la sorella). Quello di lui: “Mi accontenterò di fare sesso in Vaticano”.
Ma, come spesso accade, la diversità attrae e così le cose ben presto si complicano (“Sei una ragazza che sta morendo con il senso di colpa di un sopravvissuto. È roba da impazzire”) perché l’attrazione deve fare i conti con la malattia che entrambi patiscono: la fibrosi cistica (“Non avvicinarti tanto da toccarli. Per la tua e per loro sicurezza”).
Il romanzo appartiene al filone sconsigliato tanto agli ipocondriaci quanto ai teneri di cuore (ahimé, temo di appartenere a entrambe le categorie e certi romanzi stimolano la mia voluptas flendi), ma ha anche finalità divulgative su una patologia tragica alla quale la scienza non ha ancora trovato rimedi. Non oso pensare al film…
Giudizio finale – citazione: La malattia è un impedimento per il corpo, ma non necessariamente per la volontà. (Epitteto)
Bruno Elpis
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Eravamo una casa piena di sognatori
In questo romanzo praticamente perfetto di John Fante Il 1933 è davvero Un anno terribile (“Siamo nei guai… dobbiamo soldi a tutti”) per il giovane Dominic Molise e per la sua famiglia italo-americana.
Dominic, come il Bandini della saga di Chiedi alla polvere, sogna a occhi aperti (“I Chicago Cubs… I miei futuri compagni di squadra”) e, nel delirio del sogno, dialoga con il suo Braccio, strumento necessario per la realizzazione del sogno.
Sotto le pressioni di una nonna arzilla e impicciona che non si rassegna alla condizione di emigrata (“Tutti i ragazzi di diciassette anni dovrebbero confessarsi almeno due volte al giorno”), con una mamma-matriarca che rimane in secondo piano (“Mettiti la calza. E continua a pregare”) e l’immancabile padre semi-disoccupato e dongiovanni (“Ci manteneva giocando a biliardo, in inverno”), Dominic ne combina di ogni colore: scopre il sesso (“Spaventosa come un nido di topi… ), va all’assalto di Dorothy Parrish, sorella dell’amico, concepisce un folle piano per realizzare il suo sogno di gloria (“La betoniera… l’abbracciai e la baciai, e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, dovevo farcela”).
Questo romanzo è un autentico spasso. Imperdibile per i cultori di Fante, può ben rappresentare un ottimo inizio per chi non abbia mai letto l’autore.
Giudizio finale – citazione: “Sognatori, eravamo una casa piena di sognatori”, John Fante
Bruno Elpis
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Un sogno dal quale ci si sveglia morendo
L’albatro di Simona Lo Iacono è Antonno, un misterioso ragazzino che affianca nell’infanzia il piccolo Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
“Antonno, del quale sconoscevo l’origine e i motivi per i quali mi era stato messo accanto… l’amore di un re predestinato a morire.”
Dotato di abilità manuali (“Antonno lavorava con le mani invase dalle sue bellissime cicatrici”), svolge un ruolo complementare come compagno di giochi del futuro scrittore del Gattopardo tra Palermo e Santa Margherita Belice, particolarmente nell’estate in cui una compagnia di attori girovaghi inscenreà “La signora delle camelie”.
Narrato da due prospettive – quella del passato nel ricordo e quella del presente sul letto di morte – il libro è raffinato, suggestivo, struggente sia nel ricreare atmosfere storiche e letterarie (“Più che l’artiglio del gattopardo, adesso è l’albatro a soccorrermi nella notte”), sia nel fornire un saggio romanzato sullo scrittore del Gattopardo. Molto poetica e sorprendente la rivelazione finale sull’identità dell’albatro Antonno.
Giudizio finale – citazione: “La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo.” Virginia Woolf, citata nell’opera per introdurre la parte seconda (“Dal rovescio al dritto”).
Bruno Elpis
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Le cose sono innocenti, Giacomo
Il colibrì è il nomignolo che Sandro Veronesi escogita per il protagonista Marco Carrera, tanto per le sue caratteristiche fisiche di ragazzo (“Lei è stato molto più basso dei suoi coetanei al punto che sa madre lo aveva soprannominato il colibrì?”), quanto per l’energia che Marco spende a mantenersi fermo di fronte alle disgrazie della vita (“Perché proprio io, rinunciare a tutti questi soldi? Perché proprio io, scampare a un disastro aereo? Perché proprio io, perdere una sorella in quel modo? Perché proprio a me un divorzio così terribile? Perché proprio io, porre materialmente fine alla vita di mio padre? Perché proprio io, seppellire una figlia di ventidue anni?”).
Con teorie del tutto personali (“Era un equilibrio – l’unico possibile. La teoria dell’occhio del ciclone”), nell’idiosincrasia per la psicanalisi e in un substrato d’infelicità che promana dai genitori (“L’infelicità loro due l’avevano sempre prodotta, autonomamente, come certi organismi fanno con il colesterolo”), Il colibrì inventaria i reperti familiari (“Si tratta di tutto ciò che resta di una vita e di una famiglia che non ci sono più… Le cose sono innocenti, Giacomo”), ripercorre la collezione delle pubblicazioni Urania del padre, ne conserva i voluminosi plastici e assicura i ricordi della madre, affronta l’insolito disturbo psicologico della figlia, che pensa di avere un filo sulla schiena (secondo Il colibrì è semplice suggestione della scherma, per lo psicanalista è carenza nel legame con il padre), resiste alla tendenza ludopatica, pratica l’eutanasia al padre, si occupa di una nipotina orfana dagli occhi alogeni… e molto altro!
Spontaneamente – forse in modalità apotropaica - mi sono affezionato a questo protagonista sfortunato, così casto nell’infedeltà alla moglie e così perseguitato dalla vita: la sua filosofia è affascinante e merita affetto sincero.
La narrazione – mai pietistica e sottilmente ironica - è coinvolgente: patisce soltanto il voluto disordine cronologico con il quale gli eventi sono raccontati, rallenta nell’epistolario tra colibrì e amante, ha uno sbalzo vaneggiante nel futuro disegnato per la nipotina.
Giudizio finale – citazioni da Woody Allen:
1) Lo psichiatra è un tizio che vi fa un sacco di domande costose che vostra moglie vi fa gratis.
2) Il sesso senza amore è un'esperienza vuota, ma tra le esperienze vuote è una delle migliori.
Bruno Elpis
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Consigliato altresì a chi apprezza i film di Woody Allen.
Una delle chiavi della loro vocazione
Sodoma di Frédéric Martel è il trattato enciclopedico su vizi privati (tanti) e pubbliche virtù (pochissime) del Vaticano: un'opera che ha suscitato clamore più alla vigilia che dopo la sua pubblicazione.
La teoria di fondo, puntigliosamente enucleata in quattordici regole (1. Il sacerdozio è stato a lungo la via di fuga ideale per i giovani omosessuali. L’omosessualità è una delle chiavi della loro vocazione…”), è che l’omosessualità sia preponderante tra le schiere ecclesiastiche: addirittura sarebbe la chiave interpretativa di tutti gli eventi e le decisioni.
La teoria viene documentata con interviste e dichiarazioni dei protagonisti (ad esempio, la testimonianza del vescovo Viganò), delle vittime o degli oggetti del desiderio talare (“Il ragazzo arabo, fresco di barcone, è il nuovo modello pasoliniano”), per arrivare sino a Vatileaks (“Paolo Gabriele… il maggiordomo del papa. Il piccolo diavolo sembra abbia fotocopiato centinaia di documenti riservati… L’obiettivo è destabilizzare il segretario di stato Tarcisio Bertone e, attraverso di lui, il papa”) attraverso l’analisi degli ultimi pontificati (da Paolo VI in poi. A dire dell’informatissimo autore, tre degli ultimi cinque papi sarebbero omosessuali).
Nelle gerarchie ecclesiastiche emergono figure inquietanti: Marcial Maciel (“Le protezioni di cui ha beneficiato Marcial Maciel in Messico e in Vaticano restano ancora scarsamente note”), Karadima in Cile, l’immancabile e immarcescibile (allitterazione!) Marcinkus (“Aveva un debole per le guardie svizzere”), Lopez Trujillo (“Un bel soprannome: coito interrotto”), Rouco in Spagna (“In spagnolo si dice titiritero – burattinaio”), Barbarin in Francia, Bertone (“A Bertone il soprannome di Hoover… il fondatore dell’FBI americana”) e Angelo Sodano (“I due sono i cattivi di questo libro”)…
Viene radiografato il rapporto tra papa Ratzinger e padre Georg (“Benedetto XVI ci ha tenuto a mettere personalmente a sua eccellenza bavarese Georg Ganswein l’anello pastorale nel corso di una cerimonia di felliniana memoria nell’imponente cornice di San Pietro”… “Sembra Adriano che muoveva il cielo e la terra, costruiva città e mausolei, chiamava tutti gli scultori del suo impero, per rendere omaggio ad Antinoo!”) e in questa chiave di lettura viene interpretata anche la rinuncia al pontificato.
Giudizio finale – citazione: “Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa” (Bernard de Mandeville, La favola delle api, alias “Vizi privati, pubbliche virtù”).
Bruno Elpis
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L’attrazione principale della casa
Attraverso La seconda porta (“L’attrazione principale della casa”) di Raul Montanari l’efebico egiziano Adam s’introduce nell’appartamento che Milo ha appena acquistato.
Pubblicitario (“Io e Pietro Carminati avevamo fondato la Moca… nel 1997”) dedito al sociale, separato da Elisa (“Lei ormai apparteneva alla storia della mia vita e non più alla cronaca”) dopo un aspro contrasto sull’idea di ricorrere alla maternità assistita, Milo offre ospitalità disinteressata ad Adam, che tuttavia nasconde un passato di scafista, tutt’altro che cristallino (“Quando trovano uno che ha denunciato, lui è condannato”).
L’investigatore Ric Velardi (“Ehm! E naturalmente non pensi nemmeno di affittarlo, vero?”) aiuta Milo a dipanare il mistero del terrore di Adam (“HAN, Harmattan Avengers Net… una rete di autodifesa dei migranti”). L’esperienza del rapporto con Adam sarà per Milo un’occasione esistenziale unica (“Il modo migliore di rispettare il passato è lasciarlo lì dove sta”).
Il romanzo è un notevole connubio di elementi psicologici e sociali su uno sfondo noir di nuova generazione.
Giudizio finale – citazione: “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me.” (Fëdor Dostoevskij)
Bruno Elpis
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Nella vetrina di giocattoli il treno girava...
Il terzo amore di Giorgio Scerbanenco è stato definito dalla critica del Corriere della Sera come la storia di una madame Bovary milanese.
Elena è un’operaia con aspirazioni artistiche e tendenze bovaristiche. Dopo Giulio, il primo amore dal quale è nato Giovanni (“Quante sciocchezze avrei fatto se non avessi avuto lui”), si concede – non senza resistenze interiori - a Pietro Orsani, rampollo un po’ viziato nella Milano del dopoguerra. Con lui Elena trascorre intensi giorni sulle rive del lago Maggiore, ove il figlioletto vive con una balia. Ma il tradimento è in agguato. Anche in questa occasione Elena viene soccorsa da Margoni, anziano industriale da sempre innamorato di lei. Intanto sulla vita della bella Elena si affaccia Il terzo amore, quello vero e per la vita…
Ambientazione nel dopoguerra milanese e analisi psicologica del personaggio sono gli hatou di questo romanzo.
Giudizio – citazione (manco a dirlo, dalla Madame Bovary di Flaubert): “Nel profondo del suo cuore, aspettava che accadesse qualcosa. Come i marinai naufraghi, rivolgeva uno sguardo disperato alla solitudine della sua vita, nella speranza di scorgere una vela bianca tra le lontane nebbie all’orizzonte… Ma non accadeva nulla; Dio voleva così! Il futuro era un corridoio oscuro e la porta in fondo era sbarrata.”
Bruno Elpis
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Piccola guida di sopravvivenza al supermercato
Siete pazzi a mangiarlo è una denuncia di Christophe Brusset: da manager pentito, l’autore svela i segreti dell’industria agroalimentare per massimizzare il profitto. Naturalmente a spese dei poveri consumatori. Il libro narra una serie di infami stratagemmi, una carrellata di orrori alimentari che dissuaderebbero chiunque dall’accostarsi nuovamente al cibo.
Nell’intento di avvertire chi leggerà questo commento, contravvengo alla regola fondamentale delle recensioni: mai svelare il finale. Dunque, atterrito dalla lettura, pratico lo spoiler più bieco e – a beneficio di chi mi leggerà – svelo integralmente la piccola guida di sopravvivenza al supermercato, un decalogo prezioso:
1. Controllare le origini “Evitate assolutamente i prodotti alimentari cinesi e… quelli indiani, turchi e di altre origini esotiche”
2. Evitate i primi prezzi
3. Privilegiate le grandi marche
4. Evitate polveri e puree “Comprate in primo luogo i prodotti interi”
5. Controllate bene le liste degli ingredienti. “Evitate…
- gli oli idrogenati
- i coloranti chimici (famiglia di additivi E100…)
- i conservanti chimici (essenzialmente la famiglia E200)
- l’alluminio … come colorante (E173) o come addensante (da E520 a E523).
Cercate anche di fare a meno di:
- il glutammmato monosodico e derivati, da E620 a E625
- i dolcificanti intensivi come l’aspartame e il ciclamato, E951 ed E952
- tutti prodotti esausti, come i bacelli di vaniglia…”
6. Controllate le confezioni “Non comprate prodotti secchi… in confezioni di cartone riciclato… Evitate le confezioni in plastica dette oxobio o o oxo biodegradabili… vantaggio molto netto per il vetro”
7. Controllate le date di scadenza
8. Diffidate dei marchi di garanzia “Il più serio in questo ambito è il marchio di certificazione Fairtrade”
9. Controllate le etichettature (“Negli Stati Uniti il 30% delle etichettature di pesci e altri frutti di mare sono false”)
10. “Tutti credono a quello che è segnato sull’etichetta… L’idea che ci si fa del prodotto è più importante del prodotto stesso… l’arma assoluta del marketing, che è Voi… Il vostro peggior nemico siete voi”.
Giudizio finale – citazione: “Quella che chiamiamo eufemisticamente 'carne' sono in verità pezzi di cadaveri, di animali morti, morti ammazzati. Perché fare del proprio stomaco un cimitero?” (Tiziano Terzani)
Bruno Elpis
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Dodici rose, perché?
Dodici rose a Settembre: il romanzo inaugura una nuova serie firmata da Maurizio de Giovanni, che affianca ai romanzi interpretati da Ricciardi e dai Bastardi di Pizzofalcone quelli con Gelsomina Settembre detta Mina, assistente sociale presso lo scalcinato Consultorio dei Quartieri Spagnoli.
Reduce dalla separazione dal marito Claudio, la procace protagonista è alle prese con un caso di violenza domestica segnalato da una minorenne. Mina non si dà pace sino a che non trova una soluzione rocambolesca e scenografica per togliere la malcapitata moglie dalle grinfie di un marito manesco e delinquente. Nell’impresa Mina è coadiuvata dal bellissimo ginecologo Domenico Gammardella (“Ricordandole il Redford de Il candidato, uno dei suoi film preferiti”) e dal portiere Rudy Trapanese.
Sulla vicenda s’innesta una serie di omicidi, che sono affidati al magistrato De Carolis e che colpiscono “un avvocato ricco e stakanovista, una casalinga sfatta e malinconica, un musicista con un grande futuro dietro le spalle, un scenografo gay e di successo”. I delitti sono accomunati da un particolare (“E faccia pure analizzare quelle rose: non c’entrano nulla col resto dell’arredamento, voglio sapere che significano”) non facile da decifrare (“Perché dodici? ... I mesi dell’anno? … Dodici erano gli apostoli, dodici i cavalieri della dannata tavola rotonda, dodici gli dei maggiori dell’Olimpo. Ddici le fatiche d’Ercole, dodici i Titani…”), ma che conduce alla soluzione (“Non credeva alle sfide, ma solo alla volontà di firmare in un modo molto originale la propria opera. E chi firma qualcosa, lo lo fa perché si conosca il suo nome”).
Il romanzo si affida alle caricature individuali (“Un uomo che aveva un potentissimo afrodisiaco incorporato nei lineamenti”) e collettive (“Signori’, rispondete, sentite a me. Se no vi richiamano in continuazione, con queste offerte commerciali. Io dico solo vaffanculo, e chiudo: vi assicuro che imparano subito la lezione”) dei personaggi e ad alcuni tormentoni-ritornello (i film interpretati da Robert Redford): divertenti sì, ma iperbolici e talvolta forzati.
Giudizio finale – citazione, tratta da un romanzo dal quale De Giovanni mutua lo schema dell’omicidio-vendetta: “In qualunque momento della nostra vita abbiamo la morte alle spalle” (Agatha Christie, Dieci piccoli indiani).
Bruno Elpis
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Una luna di miele con il peso di piombo
Luna di miele sarebbe un’ordinaria storia di un triangolo amoroso sfociato in uxoricidio (”Disaccordo sessuale, Eva, i soldi rubati. Lena era rimasta ancorata a quelle tre radici del suo livore sotterraneo”) se Giorgio Scerbanenco, il maestro del noir, non innestasse sulla storia i tormenti di un prete, Don Paolo – confidente dei tre, narratore (“Vi era il dolore degli istinti che più sono appagati e più sono insaziati e tormentano”), ombra dolente che insegue i complici di un delitto nell’albergo ove consumano la loro scellerata Luna di miele (“Una luna di miele in cui dovevano trascinare a ogni passo, come me nel sogno, il peso di piombo del cadavere di Lena”).
I romanzi di Scerbanenco hanno grazia narrativa che preserva il noir dalla degenerazione e architettura armoniosa nel costruire un parallelo tra fatti raccontati e profilo psicologico.
Giudizio finale-citazione: “Rimpiango una cosa sola, il mio viaggio di nozze. Nella vita c’è solo un sogno che si realizza, quello.” (Guy de Maupassant).
Bruno Elpis
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Era un akita puro
Henry Molise ha origini italiane (“Mia madre si chiamava Maria Martini e mio padre Nicola Molise”) e proprio lì – A ovest di Roma - vuole tornare, frustrato dagli insuccessi familiari (“Il più grande rifiuta la razza bianca e sposerà una negra. Il secondo, disoccupato, cerca di diventare un attore. Il terzo ancora troppo giovane per aggiungersi alla disintegrazione della famiglia. Figlia innamorata di un perdigiorno da spiaggia”) e professionali (“Non vedevo Joe Crispi da sette anni, da quando c’incontravamo all’ufficio di Stato di Santa Monica per ritirare i nostri assegni di disoccupazione… Il duodeno stava zampillando acido… Le mie interiora si annodarono come del filo da pesca…”).
Ma un grosso cane (“Il funzionario che lo registrò scrisse che era un akita puro”), che forse non riuscirà a rimpiazzare il precedente (“Il mio defunto, bellissimo Rocco”), comparso di punto in bianco nel ranch in una notte di pioggia, riesce a incarnare il desiderio di riscossa di Henry, seppur in modo comico e sconclusionato (“Non è un lottatore, papà. È uno stupratore”).
Tra consigli maldestri (“Stai a sentire, cretino. Hai voglia di uscire e sistemare questa faccenda da uomo a uomo?”), la delusione del figlio preferito Jamie (“Jamie. Un essere strano, noiosetto, fuori dalla corrente, uno quadrato”), i tentativi di evitare la leva di Dennis (“Entrare nell’ufficio per la selezione fu come entrare in un romanzo di Dostoevskij”) e molto altro, John Fante confeziona un romanzo con stile unico (“Il destino lo sopraffece come l’inverno artico”) e originale (“Galt... i suoi scintillanti occhi azzurri ci perforarono come un cecchino”) e con qualche tinta di poesia inarrivabile: “Il cielo era di un azzurro così brillante che avrebbe potuto essere stato dipinto da Michelangelo; si cercavano, nei bordi delle nuvole che sembravano di lana, i cherubini che suonavano trombe d’oro… la marea era bassa e melodica…”
Giudizio finale – citazione (credetemi, ho avuto l’imbarazzo della scelta. Con gli animali è tanto facile... ho optato per un poeta!): “Lasciate entrare il cane coperto di fango, si può lavare il cane e si può lavare il fango… Ma quelli che non amano né il cane né il fango.. quelli no, non si possono lavare.” - Jacques Prévert
Bruno Elpis
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Postquam XXIV venti flaverint, nihil iam erit
L’istante presente di Guillaume Musso si snoda dalle paure dell’infanzia (“La storia della nostra vita è la storia delle nostre paure”, Pablo De Santis) attraverso eventi pazzeschi che sfidano le leggi del tempo (“Ma io ero dentro la realtà o dentro la quarta dimensione?”) sino a un epilogo sorprendente, nel quale ogni stranezza trova una collocazione razionale.
Arthur riceve in eredità un faro sul quale aleggia la maledizione che si è già abbattuta sul nonno Sullivan (“Due uomini risucchiati dentro le viscere del faro, colpiti… dalla maledizione che incombeva sul luogo”). La curiosità porta Arthur a trasgredire la regola che già Barbablu diede alla moglie: non aprire quella porta! La disubbidienza porta con sé un vortice di conseguenze incredibili e la realizzazione della maledizione: vivere 24 anni in soli 24 giorni, con continue scomparse e ricomparse nella vita reale (“Ero scomparso nella mia vita per più di un anno!”).
In questo romanzo ho ritrovato il Musso degli inizi: uno scrittore che combina i segreti del fluire del tempo con vicende esistenziali in sovrimpressione su tonalità romance e mistery.
Giudizio finale – citazione: “In ciascuna persona ci sono due individui: quello vero è l’altro” (Jorge Luis Borges), citato in uno dei capitoli finali.
Bruno Elpis
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Cercami col tuo nome
Mentre Samuel – padre di Elio - vive una storia d’amore con la giovane Miranda - potrebbe esser sua figlia - incontrata casualmente in treno (parte prima, Tempo), per una sorta di curiosa simmetria Elio si lascia conquistare dal non più giovane Michel (parte seconda, Cadenza).
“Il destino agisce in avanti, all’indietro e in diagonale, e non gliene importa niente del fatto che noi analizziamo il suo operato applicando il nostro senso misero e inaffidabile del prima o del dopo”.
In un novembre nebbioso (“L’effetto Brassaï”) tra Parigi e la campagna (“È davvero la campagna di Corot, dolente come da copione”), nella storia tra Elio e Michel s’incunea un misterioso spartito (“Dallo a una persona che sappia esattamente cosa farsene”), che Michel ha ricevuto dal padre (“Conoscevo solo mio padre l’avvocato, ma non ho mai visto né incontrato né vissuto con mio padre il pianista”) nel gioco delle ricorrenze (“Mio padre, tuo padre, il pianoforte, sempre il pianoforte”) e nella parte forse più avvincente del romanzo (“Mi domandavo perché i pentagrammi fossero stati tracciati con una mano così tremante”). Decifrare la storia dello spartito (“Una cadenza… È un breve momento durante un concerto per pianoforte, uno o due minuti al massimo, in cui il solista improvvisa su un tema già esplorato nello stesso concerto”), nel quale è stata infilata la Sonata Waldstein, equivale a disvelare il passato, ravvisarlo nel presente (“Io non ci sono più, però tu cercami, ti prego, suona per me”), proiettarlo nel destino (“Quando giunge la nostra ora… siamo circondati da progetti appena abbozzati e questioni irrisolte e lasciate in sospeso”).
Nella terza parte, Capriccio, ritroviamo l’altro protagonista di “Chiamami col tuo nome”: Oliver è in procinto di trasferirsi da New York al New Hampshire e, nel corso di una festa di commiato, se la intende in modo ambiguo con Erica, compagna di yoga, e con Paul, assistente universitario (“La libido accetta pagamenti in valuta di ogni genere, e il piacere per interposta persona ha un tasso di cambio considerato abbastanza affidabile”). Anche qui la musica (“Arioso era già stato suonato per me una ventina d’anni prima, e anche allora ero io che stavo per partire”) gioca un ruolo di detonatore nel riportare a galla un antico amore.
Sia per Elio, sia per Oliver il passato è un chiodo fisso. Non si sono mai dimenticati. Cercami diviene un imperativo che segue le leggi dell’amore (e non solo quelle: il successo commerciale di un romanzo impone un sequel).
Giudizio finale-citazione: chi cerca trova.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Il titolo molto pertinente. Nella notte (cit.)
Nella notte immaginata da Concita De Gregorio si verifica un imprevisto politico: colui che avrebbe dovuto essere nominato presidente non viene eletto.
Approfondisce il misterioso fatto nella sua tesi di laurea la brillante Nora, una ragazza intelligente e critica. Alcuni conti non tornano, tanto più quando la giovane promessa del giornalismo viene arruolata in un centro di ricerca dal professore che è stato il suo relatore. Qui Nora si addentra negli intrallazzi e nei loschi meccanismi della politica…
Non è spy-story, non è un saggio, la critica ai (rag)giri torbidi della politica non mi è parsa particolarmente innovativa…
Giudizio finale - citazione: «La notte in cui – come si suol dire - tutte le vacche sono nere» (Hegel, Fenomenologia dello spirito).
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Why Can’t I be You?
Questa volta il ritorno di Wulf Dorn con Presenza oscura avviene in forte odore di paranormal.
Nikka e Zoe vengono drogate in una discoteca nella notte di Halloween e sulle note della musica horror anni ’80 (“The Cure partirono a bomba. Why Can’t I be You?”).
Nikka sperimenta un’esperienza di pre-morte che dura ben ventuno minuti. Grazie all’abilità del dj Sacha viene riacciuffata alla vita proprio mentre sta percorrendo il tunnel che porta alla luce bianca dell’aldilà. Ma quando torna alla vita, tutto è cambiato.
Zoe è sparita e la vita di Nikka si popola di ombre e presenze oscure.
Chi sono?
Sono i postumi della droga (“Certe allucinazioni e stati di paura non sono insoliti”), persone incontrate nella pre-morte (“Queste presunte esperienze di quasi morte… In questo stato si hanno delle allucinazioni, e poi il corpo rilascia endorfine. Gli ormoni della felicità?”) o i prodromi di una mania (“Un’ideazione compulsiva… quando i pensieri ruotano esclusivamente intorno a un unico tema”)?
Tra toni horror e indulgenze al paranormal, Dorn scrive alcune belle pagine sulla profondità dei legami nella parte finale del romanzo.
Giudizio finale: psicostasico, paragnostico, avvincente (anche se non è più il Wulf Dorn di una volta).
Bruno Elpis
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Forza della vendetta o conseguenze del rimorso?
Al Km 123 di Andrea Camilleri succede di tutto: rischia di morire in un pauroso incidente stradale l’imprenditore edile Giulio (“Una frattura alla mascella”), un tipo dall’intensa vita erotica e dalla dubbia moralità professionale.
Più che incidente – questo accertano le indagini – si tratta di tentato omicidio. Le indagini fanno emergere gli intrallazzi amorosi (“Trova un’occasione per andare sicura a Borgo Pio e porta via le tue cose”) e i tradimenti di Giulio, che subisce l’immediata ritorsione della moglie Giuditta.
La narrazione viene condotta sopprimendo la narrazione: i fatti che coinvolgono Giulio e Giuditta, l’amante Ester e suo marito Stefano, l’amica Maria e lo sfortunato Francesco si ricavano in un registro costituito soltanto da dialoghi o telefonate e righe scritte in verbali (“Sono un ex collaudatore. Ho pratica e so come si guida”), relazioni (“Il sottoscritto crede più alla forza della vendetta che alle conseguenze del rimorso”), sms, articoli di stampa.
Giudizio finale: dialogato, velocizzato, repentino nella conclusione.
Bruno Elpis
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- sì
- no
La perfezione è un attimo che sfugge alle regole
Tutto sarà perfetto di Lorenzo Marone narra la difficile relazione tra il padre Libero, ex comandante di nave, e il creativo figlio Andrea: un rapporto spesso di forza (“La mia voglia di tenergli testa a ogni frase, come ho sempre fatto”), con qualche complicità (“Sei capace di tenere un segreto?”) e con qualche ironia (“Da morto potrai scegliere con tutta calma quale casa infestare”), con schermaglie e pudori (“In che senso?”), che inesorabilmente giunge al capolinea a causa della malattia di Libero.
Andrea accondiscende alla richiesta del padre ed esaudisce il suo desiderio di rivedere la natale Procida. Scorrono così i luoghi della bellezza (“Giù a Ciraccio, sotto ai faraglioni… Non sono quelli famosi di Capri, ma due spuntoni di roccia che affiorano dal mare, sulla spiaggia di Ciraccio”) e della memoria (il porto della Corricella, Piazza dei Martiri, la chiesa della Madonna delle Grazie, “Terra Murata, un borgo medioevale in cima all’isola”, “l’isolotto di Vivara, con la spiaggia di ciottoli e conchiglie nascosta dietro la scogliera”, l’Epomeo) in fotogrammi lirici ed emozionanti.
Ma la resa dei conti è in agguato (“In due giorni le ho distrutto uno specchio, un materasso, un magnete orribile, le ho rovinato una fodera di broccato, e adesso le ho smarrito il cane. E le riporto un padre che non prende le medicine da ore e si fa le canne”) dietro ai ricordi, alle fotografie, alle insidie dei rapporti familiari e dell’amore. Perché “la perfezione è un attimo che sfugge alle regole.”
Giudizio finale: mnestico, fotografico, isolano.
Bruno Elpis
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Anauni, le serpi che infestavano i crateri
La danza dei veleni si balla grazie a Patrizia Rinaldi, un’autrice dallo stile originale e molto personale. Prima ballerina è l’ipovedente Blanca, investigatrice che si destreggia al commissariato di Pozzuoli tra l’agente Carità, il commissario Martusciello, soprannominato ciuccio di paese, e il bell’ispettore Liguori, del quale Blanca è innamorata.
In questo romanzo Blanca deve tenere a bada la propria gelosia nei confronti dell’ambiziosa e seducente giornalista Sofia Rago, che s’intromette come rivale nella relazione amorosa di Blanca e come cassa di risonanza mediatica negli affari riservati dl chi indaga sulla misteriosa sequenza di omicidi commessi con i veleni letali dei ragni esotici (“Il cassetto e l’Atrax robustus caddero sul pavimento”).
Come si connettono gli omicidi dei mercanti d’animali con il contrabbando di cuccioli? Che ruolo svolge il potente malavitoso chiamato Sua Signoria? E l’assassinio dei veterinari impegnati nella lotta animalista (“Gli uomini del commissariato di Pozzuoli avevano rinvenuto i corpi di Gaspare Centopiani e Filippo Martinelli, veterinari dall’impegno animalista, in un’area di sosta della tangenziale… Aveva tutta l’aria di un regolamento di conti. I due veterinari avevano intralciato i loschi traffici della criminalità organizzata…”) è davvero un regolamento di conti?
Giudizio finale: velenoso, esotico e partenopeo (“Agnano. Il nome viene da Anauni, le serpi che infestavano i crateri”), originale.
Bruno Elpis
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Un paese di meduse congelate
Cabot Wright è un tipo davvero strano: “Sembrava… molto Wall Street e molto noioso, nonostante le fitte goccioline di sudore sul labbro superiore: segno sicuro, lo sapeva, di giovinezza e di forza. Erano i capelli rossi, quasi di fiamma nell’ombra, e la bocca, troppo piena per essere quella di un agente di cambio, gli unici segnali frenologici di pericolo.”
È molto ambito da aspiranti scrittori come Bernie Gladhart, o come Zoe che lo incontra in modo rocambolesco (“La sua caduta dal lucernario doveva essergli sembrata una forma di coraggio temerario”), disposti a tutto pur di raccontare la storia del violentatore seriale (“Cabot aveva riconosciuto solo le violenze principali… ma oltre a queste c’erano altre trecentosessanta violenze carnali”) divenuto perfin leggendario (“Cabot Wright adesso leggeva che lo chiamavano l’Anonimo Uomo Nero”): la sua è una storia sicuramente destinata a divenire un caso letterario, salvo smentite dell’ultima ora…
In realtà la narrazione – sempre condotta sul filo del sarcasmo e del surrealismo – si aggancia alla critica feroce dell’America del YMCA, perbenista e ipocrita (“Questo è un paese di meduse congelate…”).
Giudizio finale: satiriaco, priapico, surreale.
Bruno Elpis
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Gioco che sostituisce in modo incruento la guerra
In occasione dello scoppio del conflitto tra India e Pakistan, un inviato del Washington Post rintraccia e intervista il mitico Sultan Khan: umile servo di un maharaja, divenuto campione britannico, che con grazia e pacatezza riesce a umiliare gli altezzosi avversari inglesi, opponendo l’orgoglio del talento naturale alla supponenza colonialistica degli oppressori.
Iniziato al chaturanga, l’antenato orientale del gioco degli scacchi (“Il mio maestro cominciò a spiegarmi anche le regole occidentali… come l’arrocco…”) che nasce da un’intuizione antimilitarista (“Gli balenò nella mente l’idea che ci fosse la possibilità di deporre le armi e di inventare un gioco in grado di sostituire in modo incruento la guerra”), Sultan snocciola la sua vita avventurosa in India, in Gran Bretagna e poi, dopo il conflitto mondiale (“Operazione Ikarus, operazione Kathleen, operazione Barbarossa…”) a New York, ove entra nelle grazie di un’anziana miliardaria che gli lascia in eredità una Rolls Royce.
Avventura e simbologia del gioco degli scacchi si fondono in un romanzo avvincente e ben costruito sullo sfondo della filosofia orientale (“Ipnotismo, trasmissione del pensiero, telecinesi, preveggenza – tutte facoltà comuni presso santoni e yogin…”) che vede nel karma e nella rassegnazione una chiave d’interpretazione biografica predominante sul talento naturale.
Giudizio finale: strategico, induista, avventuroso.
Bruno Elpis
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È triste, sì, quello che vedo
Garnet Montrose è un reduce orribilmente sfigurato in un’operazione militare (“Nell’oscurità e alla flebile luce, qualche volta mi guardo in un catino d’acqua, ed è triste, sì, quello che vedo…”).
Garnet vive in una condizione limite (“A me era stato concesso di vivere ma sotto le sembianze di una creatura venuta dall’altro mondo”) nella casa di proprietà ove – non senza difficoltà per via dell’aspetto ripugnante - ingaggia due assistenti (“Tutto quello che ho sono le lettere, i ragazzi che assumo, e la sala da ballo, e niente di tutto ciò è reale”): il nero Quintus, incaricato di leggergli storie (“La storia di John Brown”) e il fuggiasco Daventry, incaricato di consegnare lettere d’amore (“Avevo cominciato a dettare la mia lettera per la vedova Rance”) alla vedova Georgina Rance.
Ben presto i legami s’intensificano, i ruoli si ribaltano (“Sono rimasto in una vecchia sala da ballo deserta e fatiscente”) e – in un finale spettrale e tempestoso – l’uragano si abbatte sulla Virginia e sui protagonisti di una storia che alterna toni ossianici, capovolgimenti di relazioni, squarci metafisici e visioni.
Giudizio finale: onirico, anticonvenzionale, originale.
Bruno Elpis
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Sei tu che hai ordinato Fenton
Non chiamarmi col mio nome di James Purdy è una raccolta di racconti con un tema dominante: quello dell’inquietudine e dell’incapacità di interpretare e definire un disagio spesso sottaciuto e che non si manifesta in forma esplicita.
La raccolta culmina nel racconto lungo intitolato “63: Palazzo del sogno”, una storia complessa ove realtà, sogno e morte si fondono.
In un parco equivoco (“Qui gli uomini che venivano a vagare brancolando senza meta come lui erano ovviamente ombre dell’inferno”) lo scrittore Parkhearst – sempre a caccia di storie – arruola Fenton e lo conduce al cospetto della Granger, “la grandonna” (“Sei tu che hai ordinato Fenton”), una ricca signora che vive nel rimpianto dell’ex marito, Russell (“Pensavi che mi avrebbe ricordato Russel?”).
Fenton vive con il fratellino Claire (“Voleva disperatamente liberarsi di Claire e mentre sentiva questo sentiva più che mai amore e pietà per lui”) nell’indigenza e in un palazzo abbandonato, ma presto cede alle lusinghe e alle gelosie dell’ambiguo triangolo con gli adulti (“Lui voleva vivere quella nuova vita con la Granger e Parkhearst. Voleva essere un altro, voleva portare gli abiti di Russell, voleva la vita che gli si offriva e che Claire ostacolava”).
Poi Fenton incontra Bruno e, dopo una nottata di follia (“Le ore del mattino… segnarono il punto di non ritorno, non posero fine alla sua giovinezza ma la resero superflua, come l’età per un dio”), ritorna al palazzo per un macabro addio a Claire.
Giudizio finale: inquietante, oscuro, disadattato.
Bruno Elpis
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Quella settimana di placenta e di sangue
Dracula ed io di Gianluca Morozzi è un divertente esperimento che contamina la leggenda del Vampiro (“Il modo in cui tenete calato il cappello, per ripararvi il viso dai raggi del sole. Il modo in cui vi piegate verso l’ombra come fanno certi fiori verso il sole. La conformazione della vostra mascella”), sempiterno e dotato di poteri (“Butterfly si era tramutato in nebbia”) con l’ambientazione bolognese.
Vlad – vampiro irrituale - sfida a scacchi, in un’osteria bolognese e a distanza di secoli, l’ambivalente Indaco. In uno di questi appuntamenti, incrocia le vite degli sgangherati condomini di un palazzo maledetto, anch’essi frequentatori della bettola.
Intanto Bologna è attraversata da numerosi omicidi (“Quella settimana di placenta e di sangue”) e dalla campagna elettorale di Valerio Breda, aspirante sindaco e aspirante vampiro (“Ho fatto una collezione di narcisi, di vampiri emotivi, di vampiri psichici…”)…
Giudizio finale: umoristico, splatter, dissacratore.
Bruno Elpis
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Gli alberi dritti finiscono dentro alle aiuole
Il romanzo è costruito sulla tensione psicologica indotta da un misterioso stalker che – attraverso un cellulare recapitato nella cassetta postale di Lena – induce nella vittima l’illusione che Saverio, l’amante scomparso nell’Arno in preda ai fumi dell’alcol o della droga, sia ancora in vita (“C’è qualcuno che ti provi, che ti abbia mai provato che sia davvero lui?”).
Da quel momento, tutte le azioni di Lena sono dettate dalla sudditanza psicologica (“Ma la regola era una sola: lui comandava e lei ubbidiva”), dalla paura (“Aveva l’odore della paura addosso, nel respiro, nei capelli, sulla pelle, ed era un odore onesto, quasi buono, preferibile a tanti falsi odori…”), dal desiderio di ritrovare in vita la persona amata (“Faccio quello che vuoi se mi dimostri che è vivo”), che - detto tra di noi - ha un profilo odioso e insopportabile nel passato della protagonista.
Lena deperisce (“Aveva perso altro peso…”), si annienta (“Comprò altra vodka”), mentre una frase ricorre nel romanzo: “Gli alberi troppo dritti finiscono dentro alle aiuole”. Intanto in suo aiuto interviene un grezzo agente di polizia (ho trovato fastidioso e a tratti incomprensibile il suo modo rudimentale di esprimersi, che sostituisce la narrazione)…
La costruzione del romanzo è eccessiva e macchinosa, la protagonista miete più rabbia che pena. Il finale è… lì, da giudicare quanto a verosimiglianza e credibilità, anche se a questo mondo tutto sembra possibile.
Giudizio finale: artificioso, ipertrofico, estenuante.
Bruno Elpis
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Labirinti dove per uscire dobbiamo mollare il filo
Il filo di Arianna unisce un’Arianna contemporanea all’Arianna della mitologia: entrambe abbandonate a Naxos, entrambe destinate a un nuovo amore.
L’Arianna de L’isola dell’abbandono di Chiara Gamberale è un’illustratrice vittima della sua fantasia drammatica e della sindrome dell’abbandono. Ha creato l’elefantino Naso, un pelouche che ogni volta viene smarrito, ma ogni volta torna sempre dalla sua bambina (“Talmente paralizzata all’idea di venire abbandonata da scegliere un amico capace di fare solo quello: abbandonarla”) e il coniglio Pilù (“Una specie di coniglio bipolare”), così simile al narcisista e distruttivo Stefano, individuo egocentrico, bizzoso e drogato che riesce a farsi odiare dal lettore con tutte le forze.
Ma non risulta neppure simpatica l’Arianna contemporanea, che passa da Stefano, al surfista Dì, al terapeuta Damiano e si affaccia pericolosamente alla maternità del povero Emanuele (“Abbiamo paura di non essere amati. E allora ci rifugiamo nel nostro trauma, nella nostra ossessione”).
L’empatia del lettore si concentra allora sull’Arianna della mitologia… che sa accontentarsi di Dioniso, dopo essere stata “piantata in Naxos” da Teseo.
Nella mitologia e nell’immagine del labirinto (“Ci sono labirinti dove, per uscire, dobbiamo mollare il filo che avevamo in mano, invece di tenerlo stretto”) vi sono proprio i migliori spunti del romanzo che miete questo giudizio finale:
mitologico, labirintico, grecale.
Bruno Elpis
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Perché quel disagio?
Tutto sembra facile: ma Una mutevole verità è in agguato in questo romanzo breve di Gianrico Carofiglio.
La vittima è un odioso usuraio, c’è un testimone oculare attendibile e tutto sembra congiurare contro il ragazzo incriminato.
“E allora perché quel disagio. Perché quella sensazione indistinta? Come una parola che hai sulla lingua.”
Se lo chiede il maresciallo Fenoglio che, in preda ai dubbi (“Si ricordò di aver letto che la credibilità di un teste è influenzata dal suo aspetto fisico…”), non si arrende di fronte a una soluzione troppo semplice (“Mi sembra tutto troppo perfetto”).
Finché l’esercizio del dubbio (“È sicura che il ragazzo sia entrato dal lato del passeggero?”) e l’analisi razionale disinnescano le mine del pregiudizio (“Alcune cose ci sfuggono perché sono così impercettibili che le trascuriamo. Ma altre non le vediamo proprio perché sono enormi”).
Giudizio finale: metodologico, cartesiano, barese per ambientazione.
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Guardie e ladri
Bari è dilaniata dalle faide, che culminano nel tragico rapimento del figlioletto di una capocosca.
Il rivale, sospettato come responsabile del rapimento, si consegna alle autorità per tutelare la propria vita e collabora con la giustizia (“Un nome all’operazione… Estate fredda”). Mentre la confessione viene verbalizzata, giunge la notizia di un evento terribile (“A Palermo… Pare che Falcone e la moglie li stiano portando in ospedale”).
Per il maresciallo Fenoglio sono tutte occasioni per riflettere sulla sua etica (“Non mentire a se stessi… non farne un fatto personale… non affezionarsi alle proprie congetture, non abusare del proprio potere”) e per disinnescare il reato dei sequestri lampo (“In realtà nessuno di quelli che hanno subito i sequestri brevi ha mai denunciato”).
La panoramica offerta dall’autore sulle organizzazioni mafiose ha riconfermato la ripugnanza che nutro nei confronti di una mentalità inconcepibile, totalmente aliena a quella occidentale, e il disprezzo che provo nei confronti di chi investe energie e ingegno in architetture criminose tanto elaborate.
Giudizio finale: verbalizzato, certosino ai limiti del compiacimento nella ricostruzione di riti assurdi e spregevoli usanze mafiose.
Bruno Elpis
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Lo spiritus mundi desidera tornare al principio
Nella Milano di Ludovico il Moro, Leonardo si appresta ad affrescare l’Ultima cena (“Giacomo minore… somiglia molto a Leonardo stesso, accanto a Bartolomeo, in piedi sull’estremità sinistra della scena, che somigliava molto al Bramante”). Assistito da un garzone bugiardo (“Gian Giacomo rubava tutto ciò che poteva”), l’artista si concentra sulla matematica come chiave di lettura della realtà (“Lo spiritus mundi desidera sempre tornare al suo principio”) alla ricerca della divina proporzione che viene rappresentata nell’uomo di Vitruvio.
L’incontro con il matematico francescano Luca Pacioli e un misterioso delitto spingono Leonardo a ricercare preziosi e antichi libri trafugati, che promettono di attenuare la sete di sapere che caratterizza il grande artista.
Il romanzo è un percorso storico-geografico, tra Milano, Mantova, Venezia, Firenze e Urbino, nell’arte di Leonardo.
Giudizio finale: erudito, interessante, intricato, macchinoso.
Bruno Elpis
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Pensieri rapidi e frenetici come scolopendre
L’amore bugiardo di Gillian Flynn è ambientato sulle rive del Mississipi, tra Carthage e Hannibal, insomma proprio nei luoghi che diedero i natali a Mark Twain.
Con doppia narrazione condotta dal marito Nick e dalla moglie Amy, che sparisce il giorno dell’anniversario delle nozze e diventa un caso social-nazional-popolare, il romanzo si prefigge di smascherare le ipocrisie di un rapporto naufragato tanto per l’infedeltà (“Mi è squillato il cellulare usa e getta”) e la superficialità di lui (“Forse ti senti in colpa ad avermi portata qui… ma il nostro posto è questo”), quanto per il machiavellismo (“Il suo cervello, con tutte quelle circonvoluzioni, e i suoi pensieri che fanno avanti e indietro rapidi e frenetici come scolopendre”) e il puntiglioso desiderio di vendetta di lei (“Lei sospira e apre il taccuino mentale in cui trascrive ogni mia deficienza, fragilità, manchevolezza”).
Nick fa la figura del solito maschio rudimentale e più fedele alla sorella che alla moglie (“C’era solo una donna di cui potevo sopportare la presenza in quel momento… Go…”), Amy incarna lo stereotipo dell’arpia gelosa e possessiva. L’immagine del matrimonio ne esce frantumata.
Il ritmo narrativo è veloce e senza esclusione di colpi.
Giudizio finale: coniugale, doppiogiochista, massmediatico e nazional-popolare.
Bruno Elpis
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La casa che l’avrebbe seppellito di debiti
Fedeltà di Marco Missiroli avrebbe dovuto intitolarsi Infedeltà.
Perché di questo – ossia dell’infedeltà principalmente mentale, ma anche fattuale - tratta il romanzo, seppure in modo criptato da uno stile che è espressione di una sorta di flusso di coscienza policentrico (la narrazione cambia repentinamente pdv e viene condotta dai protagonisti senza soluzione di continuità) che riguarda: Carlo Pentecoste (“Fu certo di fuggire. Dalla casa che l’avrebbe seppellito di debiti, dal tentativo di riparazione materiale, dal sigillo di una maturità ufficiale”), la moglie Margherita (“Non dirmi che bidoni l’appuntamento di Buzzati”), la studentessa Sofia, l’indefinibile Andrea (“È il suo fisioterapista. Morso di cane, infezione…”), e perfino la suocera Anna che – a causa di alcune cartoline rinvenute - sospetta di tradimento il defunto marito.
La tesi ambigua di fondo è che le occasioni di infedeltà e le distrazioni indotte dalle ossessioni sessuali non necessariamente intaccano un rapporto che si radicalizza nei legami familiari, nella procreazione, financo nella stabilità abitativa e nei relativi impegni finanziari.
Giudizio finale: morboso, nebuloso, incomprimibile.
Bruno Elpis
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Nelle omissioni di Cliff lei scopriva la sua vita
In un paese dell’Ohio l’anziana Alma vive nell’attesa delle succinte lettere che il nipote Cliff spedisce dal fronte (“Ma era proprio in quel poco che dicevano che Alma leggeva il molto che c’era. Era nelle omissioni di Cliff che lei scopriva la sua vita”).
Quando un telegramma comunica che Cliff risulta disperso, la malinconica Alma s’interroga sulla vita del nipote e sulla natura del loro legame. L’indagine coinvolge l’intero vicinato. Il romanzo è una raffinata analisi di rapporti e sentimenti, condotta in un’atmosfera di sospensione.
Giudizio finale: perlustratore, malinconico, scettico.
Bruno Elpis
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Preferisci un maschio o una femmina?
Può una vita esser concepita per realizzare un disegno di vendetta?
Amélie Nothomb lo ritiene plausibile e grazie a Claude e Dominique – I nomi epiceni – ci racconta una storia noir, più nei contenuti che nella dinamica, che trova nella figlia Epicène (“Preferisci un maschio o una femmina? … Abbiamo due nomi epiceni… Ben Jonson, un celebre contemporaneo di Shakespeare, ha chiamato così una delle sue opere teatrali. Epicène è il nome, per lui, della donna perfetta”) la perfetta incarnazione della sinistra nemesi.
Giudizio finale: vendicativo, astioso, epiceno.
Bruno Elpis
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Sono esseri umani come noi
Ennesima storia di emigrazione, che tenta di smuovere l’indifferenza, l’intolleranza, la xenofobia: raccontando gli orrori delle persecuzioni in atto in territorio africano, le sofferenze di un viaggio nel deserto in condizioni disumane, la permanenza forzata tra gli abusi in Libia, l’alea della traversata mediterranea su un gommone tra terrore e pericoli.
Ciononostante, Le rughe del sorriso sono stampate sul viso della bellissima Sahra, la somala della quale s’innamora Antonio. Il giovane è insegnante di italiano nel centro di accoglienza in una Calabria che, essa stessa, ha un passato di emigrazione (“Mio padre era tornato definitivamente dalla Germania con la sua malattia mortale impressa negli occhi senza luce”). Antonio è disposto a lottare contro i pregiudizi paesani (“Perché sono esseri umani come noi”) pur di rintracciar l’amata quando questa scompare e viola i preconcetti familiari quando decide di unire le sue sorti a quelle di Sahra.
Un’annotazione sullo stile: oramai, da Camilleri in poi, gli scrittori ricercano uno stile personale contaminato dalla parlata locale. Ricerca pregevole, che tuttavia mi fa rimpiangere il romanzo scritto in bell’italiano.
Giudizio finale: umanitario, accogliente, filantropico.
Bruno Elpis
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La testa… come lanterna di Halloween
American Psycho di Bret Easton Ellis, ossia il rampante Patrick Bateman, conduce una vita caratterizzata da: fiumi di denaro speso per oggetti inutili, lusso ostentato (“Il portafogli di gazzella”), capi firmati, programmi televisivi di dubbia qualità, visioni di videocassette porno, frequentazione di locali alla moda, un lavoro che non viene mai qualificato nei contenuti, incontri sessuali sadici e… delitti orrendi che – paradossalmente - non vengono perseguiti dalle autorità.
Soltanto quando l’omicidio di un senzatetto (tra le vittime predilette della mente malata del serial killer) viene compiuto con un clamoroso errore (il silenziatore non è innescato), si scatena per le vie di New York una caccia all’uomo che lascia sul campo numerose vittime. Senza conseguenza alcuna per la libertà di American Psycho.
Bisogna superare le prime cento pagine (per la verità, non poche) – un elenco interminabile di vestiti griffati, locali alla moda, occupazioni vacue e superficialità a iosa – prima di imbattersi nelle atrocità di delitti che vengono stemperate con sarcasmo noir e surreale (“La testa vera e propria, ricoperta di materia cerebrale, svuotata e priva di occhi, è nell’angolo del soggiorno dietro il piano e ho intenzione di adoperarla come lanterna di Halloween”): abiti e tappeti macchiati di sangue e di reperti organici, portati con noncuranza nella lavanderia cinese, la domestica intenta a cancellare tracce cruente di feroci stermini…
Giudizio finale: molto splatter, molto yuppy, molto sopralerighe, molto tutto… In particolare, sono estenuanti gli elenchi degli abiti griffati.
Bruno Elpis
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La testa nel forno, proprio come Sylvia
Rachel, La ragazza del treno di Paula Hawkins (“La mattina prendo il treno delle 8.04, la sera ritorno alle 17.56. È il mio treno, l’unico che prendo. Tutto qui”), dopo la cocente delusione di un matrimonio fallito, si costruisce una vita parallela: si fa ospitare da un’amica e, ogni giorno, si reca a Londra (“Penso al mucchietto di vestiti lungo i binari, mi sembra di soffocare”), anche se in realtà ha perso il lavoro a causa dell’etilismo (“Come non ho fretta di arrivare a Londra la mattina, non ne ho nemmeno di tornare ad Ashbury la sera”).
Il pendolarismo quotidiano le consente di fantasticare – osservando Jess e Jason dal finestrino - su una coppia che incarna l’ideale della felicità. Poi Jess sparisce e della scomparsa in un primo tempo viene sospettato l’amante, lo psicoterapeuta Kamel Abdic, poi il marito (Jason che in realtà si chiama Scott), infine la stessa Rachel, che patisce un’amnesia causata da crisi etilica e che stalkerizza l’ex marito Tom e la sua seconda moglie (“Io penso a Ted Hughes che ha portato Assia Wevill a vivere nella casa che aveva diviso con Sylvia Plath… Voglio chiamare Anna per dirle che Assia è finita con la testa nel forno, proprio come Sylvia”).
Giudizio finale: avvincente, teso, pendolare.
Bruno Elpis
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Sequestro a scopo di libidine
Il silenzio della collina di Alessandro Perissinotto è quello della Langa (“La vecchia e sonnolenta Alba Pompeia… in quelle terre era proprio in cantina che si trovava il meglio”), ove il protagonista – un attore televisivo - ritorna per assistere il padre nella fase terminale della malattia.
Nell’occasione riaffiorano conflitti generazionali (“Tuo padre ti diceva che i tuoi sogni di fare l’attore erano tutte cazzate, il mio non mi ha neanche lasciato sognare”) e tensioni mai sopite (“No, il male è non aver desiderato. Di questo incolpo mio padre”): difficile salvare anche solo un ricordo – come la Jawa 350 con il sidecar, nera – mentre emerge “il desiderio di riappropriarsi della Colombera”, magari facendosi amico il cane Pajun…
Tra echi letterari, nel fascino agrituristico delle località (“Vini… valutati intorno ai 90 punti sulla scala Parker e qualcosa di più nella classifica del Wine Spectator”) e fra i sentimenti contrastati che fioriscono durante le visite all’Hospice (“l’immagine del ragazzo e del bassotto”), l’attore riannoda i fili di antiche amicizie per far luce su una colpa collettiva mai espiata per un fatto vergognoso della cronaca nera del 1968.
Giudizio finale: colpevolista, letterario, patriarcale.
Bruno Elpis
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Il momento su cui fantasticavo
Come un giovane uomo di Carlo Carabba è la storia di un giovane poco omologato (“Il mio rendimento eccellente era visibilmente bilanciato da un’inadeguatezza alla vita che mi lasciava sempre all’oscuro delle pratiche cui loro istintivamente si dedicavano, dei gusti che naturalmente e in modo omogeneo possedevano e che io invece dovevo ricavare per mezzo di faticose catene induttive”), che vive con un ricordo fervido: quello di una nevicata che rimane confinata nel ricordo di bambino.
Quando finalmente – dopo molti anni - la neve si ripresenta, come spesso accade, la realtà è deludente (“Colpevole di aver sabotato il momento su cui fantasticavo e che attendevo da quasi venticinque anni”) e sembra inutile tentare di rivivere il momento magico del passato (“Abbandonai in gran fretta Villa Borghese dopo neanche dieci minuti di cammino”).
Oltretutto, il nuovo evento nevoso coincide con una disgrazia che il protagonista vive in modo doloroso (“Pena per il destino di Mascia e per aver dubitato di lei, della nostra amicizia”), a tratti pavido (“La verità è che per nulla al mondo avrei voluto vedere il corpo comatoso di Mascia”), problematico (“Il reparto di terapia intensiva… ridivenne lo spazio che conteneva ciò che non sapevo affrontare e da cui volevo fuggire”), quasi colpevole (“E non andare al funerale non sarebbe stata, d’altro canto, una mancanza di rispetto ben maggiore?”).
Giudizio finale: cerebrale, retroflesso, psicologico.
Bruno Elpis
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Dal Binario 21 della Stazione Centrale
Fino a quando la mia stella brillerà è la testimonianza, raccontata ai ragazzi in età scolare, resa da Liliana Segre, miracolosamente sopravvissuta alla disumana esperienza del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau.
Il romanzo si articola in due parti. La prima custodisce i ricordi felici di una bambina innamorata di suo padre, amorevolmente curata dai nonni dopo la morte prematura della madre. I ricordi felici sono documentati da un album fotografico che mantiene qualche immagine di una famiglia distrutta dalla shoa. La seconda parte descrive – in un crescendo da brividi – l’emarginazione, lo sfollamento a Inverigo, un vano tentativi di fuga in Svizzera per evitare la persecuzione, la deportazione, gli orrori della prigionia.
La cesura netta tra le due parti è rappresentata da una vergogna italiana: l’approvazione delle leggi razziali.
Un libro da leggere, è un utile ammonimento in tempi in cui l’intolleranza e la discriminazione del più debole vengono mistificate e cavalcano l’onda dell’insoddisfazione popolare.
Bruno Elpis
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Anche alle lucertole ricresce la coda
Il barone Lamberto è un arzillo vecchietto che ha trovato il modo di ringiovanire a vista d’occhio, con uno stratagemma di pirandelliana ispirazione (“Le parole precise del santone arabo incontrato per caso all’ombra della Sfinge: Ricordati che l’uomo il cui nome è pronunciato resta in vita”) sulle rive del Cusio (“Le montagne hanno innalzato tutt’intorno i loro sipari verdi e azzurri e dietro le cime svetta il Monte Rosa, come un gigante che guardi di sopra le spalle delle persone comuni”).
Ma un nipote squattrinato e voglioso di entrare in possesso dell’eredità approfitta di un manipolo di banditi per sopprimere lo zio. I malviventi chiedono il riscatto e per fare questo tagliano l’orecchio del barone (“Non capisco tanta meraviglia. Anche alle lucertole ricresce la coda”).
La fiaba – nella quale anche i banditi si chiamano Lamberto e il numero 24 ricorre in modo cabalistico - procede senza porsi limiti di sorta e tra epimorfosi, morfallassi e… resurrezioni!… è il trionfo della fantasia e dell’ironia.
Giudizio finale: rigenerativo, miracolistico e miracoloso.
Bruno Elpis
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