Opinione scritta da LucianaR.
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Labirinti dell'anima
Un titolo impegnativo, e al tempo stesso evocativo, per questa raccolta di racconti che segna l’esordio letterario di Giovanni Baldaccini con la casa editrice Fermenti di Roma. Impegnativo perché desiderare di per sé è parola che richiama la sfera più profonda e insondabile dell’umano, che ha a che vedere con quella forza oscura che crea spaesamento alla coscienza chiara mentre la espone al gioco imprevedibile di una ragione altra, per sua natura sorda a ogni ragione. Nel rapporto col desiderio – lo sappiamo bene a partire da Freud – si gioca l’esperienza tipicamente umana: quel confronto tra immediatezza e dilazione, soddisfacimento e frustrazione, che si ripete ogni volta che veniamo al mondo e per tutta la durata del nostro stare al mondo.
Ma si tratta di confronto arduo e dall’esito incerto, perché innumerevoli sono i fattori che entrano in gioco in ogni istante di ogni singola esistenza a determinare scelte e soluzioni, a decidere cosa facciamo del nostro desiderio o cosa semplicemente lasciamo che esso faccia. Ed ecco, nei racconti, l’altrimenti declinarsi in diversi possibili scenari, che la scrittura, fatta di immagini, allusioni, lampi, sonorità, scenari appunto, con tratti asciutti presenta efficacemente all’immaginazione del lettore.
Incontriamo allora il paradosso del desiderio di morire quale unica espressione vitale di una coscienza anestetizzata anche al dolore dall’eccesso di dolore («Lucciole»), o il desiderio addirittura di non nascere, quando, sbirciando il mondo da un non-luogo apparentemente sicuro, non si desidera neanche immaginare possibili trasformazioni di ciò che appare troppo faticoso, insoddisfacente, fonte inevitabile di frustrazioni: un racconto pieno di invenzioni, amaro e ironico al contempo, dove non c’è riscatto da una rinuncia a desiderare che genera follia («Ostaggi»). Come non c’è riscatto dalla follia paranoica («Inganni»), quando una coscienza gonfia solo di se stessa, nel tentativo inutile di placare una ferita mai guarita, non sa porre limiti alla sua brama di potere, al desiderio di gonfiarsi ancora, ingoiando dentro di sé il mondo reale, fino all’inevitabile implosione nella dimensione immaginaria, surreale, dell’allucinazione.
«Dalle mie sere in casa», da lì parte il desiderio di arrestare lo scorrere del tempo, quando si è mossi dal terrore antico della fine, sancita dalla caducità del corpo. Ma nel dialogo serrato con un interlocutore inesistente e muto, si riafferma con forza l’unica condizione dell’esistere, l’unica da desiderare: avere coscienza di sé nel limite del tempo. Oppure dallo spazio profondo in cui galleggia, sospinto dalla tracotanza del sapere, il desiderio d’infinito («Polvere di stelle»), siamo invitati a immaginare una visuale capovolta che rimanda ciò che è stato a chi sarà, in un intrico di passato, presente, futuro, cui è soltanto colui che guarda, da quelle precise coordinate dello spazio-tempo, a dare nome: “Spiaccica il naso sulla crosta dura dove l’immagine crolla nella vita” (p. 96), dove trova la sua cornice necessaria.
A crollare nella vita sono anche le immagini astratte e disincarnate in cui si vanifica un desiderio idealizzato, asettico, irreale, nutrito di assoluti e presunte verità: novello Dante che un Maestro più saggio conduce nell’inferno del reale perché incontri e finalmente accetti tutti i mali del mondo («Ospedale Paradiso»).
«Rimuginando: ho fatto bene…? Avrei potuto anche rinviare… magari, tra qualche anno… L’anima tuttavia… almeno una volta nella vita…» (p. 123): un’altra discesa agli inferi, il pellegrinaggio nella città eterna a fare il giro delle sette chiese. Un desiderio inizialmente distratto prende forma passo dopo passo in una Roma prima del presente, quando semplicemente era: nelle pietre, nei suoi strati, nelle vie, nei suoi contrasti inimmaginabili, contenitore e rappresentazione di tutto ciò che esiste. Lo stupore davanti al mistero della sua realtà complessa e contraddittoria apre la strada a un mistero diverso: il desiderio dell’individuo di scoprire in un significato ulteriore, che lo eccede, nient’altro che la propria umanità («Ara Coeli»).
Su un altro piano, apparentemente, tra uomo e donna, nell’incontro col diverso da sé, il desiderio percorre molte strade e inciampa in ostacoli e paure, pregiudizi e ideali, stereotipi e modelli. «Con le donne di sera» racconta gli smarrimenti e le farneticazioni di una coscienza ‘maschile’ che per sua natura definisce, classifica e distingue: un’autodifesa paradossale e impossibile quando il desiderio è trascinato dall’istinto e dalla sua naturale pretesa di soddisfazione. E allora desiderio del corpo, di possederlo e dominarlo, o desiderio di espropriazione e di fusione, mentre in realtà si è dominati e sopraffatti dall’incapacità di quell’attesa necessaria per cominciare ad allucinare, immaginare, pensare e forse, infine, anche «desiderare altrimenti». L’ultimo racconto dà il titolo al volume: quasi un approdo, dopo tanto peregrinare, la stanza in cui un uomo e una donna si incontrano la sera; tuttavia non è privo di fatica e di tentennamenti il confronto difficile tra desiderio e frustrazione, avvicinamento e distacco, curiosità e sospetto. Lasciando che «sera dopo sera» la musica scompagini e confonda il gioco dei contrari e guidi il desiderio verso espressioni meno letterali, forse è anche possibile imparare che «la sera non è soltanto sera». Con pochi segni essenziali si tratteggia qui la possibile trasformazione di sé e dell’altro da oggetti di un desiderio che ha esito già noto a soggetti di un desiderare in due, capace di creare nuovi imprevedibili «altrimenti».
Impegnativo, dicevo all’inizio, il titolo del libro; sicuramente evocativi i suoi spunti, soprattutto in un momento, come l’attuale, in cui l’offerta dominante di risposte immediate sembra aver relegato il desiderio in una zona d’ombra; estremamente originale l’invenzione narrativa, ricca di fantasia e di riferimenti culturali, entrati evidentemente in circolo nello scrittore. Una scrittura pittorica, essenziale, frastagliata, spezzata, puntuta a volte, ironica, ma anche lirica, senza mai cedimenti alla verbosità, stempera con efficacia anche i momenti più drammatici della narrazione.
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De rebus amandi
Alla maniera di Lucrezio, perché? Galimberti (Le cose dell'amore, Feltrinelli 2005) ci conduce lungo un percorso classico, tra Socrate, Platone, Nietzsche e Schopenhauer (che alla classicità non erano alieni) e finalmente a Freud e al rapporto con la follia. Questo il percorso dell’amore; ma cosa lungo la strada?
Una ricerca di qualcosa smarrita e uno smarrimento, se quella ricerca non approda a risposte e questo, visto il testo e le sue affascinanti tortuosità, è l’esito più probabile.
L’identità è sia l’oggetto smarrito che l’esito della ricerca, e se Galimberti ne rende improbabile la soluzione accompagnandoci forse troppo tra meandri di pensieri ormai lontani, non manca tuttavia di offrire soluzione, visto che quei meandri altro non sono che i luoghi di un linguaggio diverso che diversamente si è espresso: l’inconscio. E questo è chiaro, se nei meandri non ci siamo persi.
Amare non è scelta: è patimento. L’amore si patisce perché avviene e avviene precisamente nel momento in cui rispecchiamo i nostri frammenti nei frammenti di uno specchio diverso che ci restituisce quel che non sappiamo di essere. Per questo amiamo; non l’altro: noi stessi. Il se stesso che ignoriamo e a cui aneliamo, che rispecchia quell’originaria mancanza a essere cui la simbiosi fin dalla nascita condanna. Amiamo, dunque? No. Potremmo dire che ci identifichiamo con un Ideale dell’Io mai realizzato; per questo idealizziamo e qui sta la follia perché non di idealizzare si tratta, ma di riconoscere. Un testo, allora, che non dell’amore parla ma dell’antiamore, di tutto ciò che non significa amare; se l’Ombra perduta dell’inconscio ci attira, l’altro è irriconoscibile nel suo vero essere; come noi stessi, che non siamo altro che frammenti.
Riconoscere, allora, e nell’incontro con la follia dell’inconscio frammentato, riconoscere è zattera di conoscenza. L’altro anelato è noi e dunque offre occasione di congiungimento con la dimensione della nostra mancanza. E della sua, perché se spogliato da ciò che non gli appartiene, anche l’altro apparirà come è davvero e, nella reciprocità del riconoscimento, ci vedrà finalmente come siamo. Riappropriazione di identità: questo è amore; non dispersione nei frammenti di una follia mai domata dall’amore.
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Il Maestro e Margherita
Una decapitazione; una testa che cade: questo l’inizio del libro. Quale testa viene recisa dal tram che passa, la testa di chi? La testa di qualcuno che non crede, dunque un miscredente. La domanda che si pone è in cosa non si crede e perché. Bulgakov risponderà in maniera indiretta ma precisa, nel corso di tutto il romanzo e delle infinite peripezie, anche temporali, che propone. Ci si può sperdere in quelle peripezie e in quei tempi diversi, ma la risposta ci raggiungerà comunque alla fine, per ricordarci che la domanda esiste: quale testa è caduta e perché? La risposta sarà del tutto sorprendente.
In realtà quella testa non è stata affatto tagliata; dovrebbe esserlo. Dovrebbe perché è la testa del potere, della burocrazia che ottunde, della cecità indotta e violentemente tramandata che non consente di vedere oltre regole cogenti che accecano, della stupidità e della rigidità che non sa parlare altro che linguaggi preimposti, svuotati di ogni significato esistenziale e che dunque non parlano. Quella che dovrebbe cadere è una testa con una lingua muta e un cervello spento, che non riconosce l’arte, la letteratura, il teatro, la libera espressione creativa. Che tenta di costringere all’interno di maglie uncinate che soffocano ma non riescono, comunque, a zittire. Il diavolo in persona, dunque l’irrazionale, l’antitesi assoluta di quella rigidità, renderà giustizia, e popolando il mondo di streghe e incredibili avvenimenti, che colpiranno senza sosta i burocrati ciechi e muti, riporterà nel mondo l’incredibile, la fantasia, l’irriducibile libertà del creare.
Questo il romanzo. E la risposta? Il diavolo non può abitare il mondo; ricorda che c’è, ma non è tutto. Dovremo preservarne l’espressione, concedere spazio al suo linguaggio alieno, altrimenti, nell’antitesi di un dialogo difficile, troppo spesso impossibile, tra libertà e costrizione, significato e insignificanza, l’unico esito non potrà essere altro che l’oblio.
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Il disagio del disagio
In quest'opera Freud propone il disagio come dimensione indispensabile dell'esistere, l'unica dimensione umana capace di arginare il desiderio e incanalarlo verso mete diverse dalla soddisfazione immediata. Questo consente non soltanto sublimazione, ma anche riflessione; dunque il disagio è fondamento di coscienza.
Questa scomoda categoria, di cui il nome stesso "disagio" esprime la difficoltà, è conseguenza di quell'altro fenomeno, apparentemente scomodo, che nel linguaggio freudiano si pronuncia "castrazione". Castrazione ovviamente simbolica, che è premessa fondativa di qualsiasi regola del vivere civile.
Il disagio è allora veramente una condizione umana non da sopportare ma da assumere consapevolmente; il fatto è che, oggi, è proprio il disagio a essere a disagio e non si assiste ad altro che a una profonda involuzione del desiderio e, dunque, dell'umano, verso il baratro dell'immediatezza del godimento e dell'adesione alla letteralità delle cose.
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